mercoledì 14 agosto 2013

Grandi scrittori italiani dimenticati

Sergio Bissoli I GRANDI SCRITTORI ITALIANI DIMENTICATI Questa è opera di studio e di divulgazione. Non si intende infrangere nessun copyright. I copyright appartengono ai legittimi autori ed editori. Quale cosa meravigliosa e terribile è il libro! Vi trovate tutto, dentro: tesori di scienza e false teorie; idee sublimi e storie immorali; o assurde concezioni.Werner Welgren alias Gualberto Titta da IL CANE NERO. INTRODUZIONE Ho scoperto tardi gli scrittori italiani. Adesso posso giudicarli dopo aver letto gli scrittori inglesi, francesi, tedeschi, svedesi, norvegesi, ungheresi, polacchi e rumeni. I nostri scrittori non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. I nostri scrittori sono grandiosi e meriterebbero di venir riscoperti conosciuti e diffusi. È una vergogna per la scuola che non diffonde ma affossa la Cultura! Nota: quando necessario ho sostituito qualche parola arcaica, ho abbreviato leggermente la frase oppure l’ho allungata per permettere al lettore di comprendere il brano estratto dal contesto originale. Febbraio 2013 ANIANTE ANTONIO pseudonimo di Antonio Rapisarda Catania 1900 San Remo 1983 Tratto da OBBROBRIOSE CONFESSIONI Editore dall’Oglio 1952 Il destino ha voluto sempre privarmi della più cara compagnia che ci sia al mondo: quella dei libri. Non mi è stato possibile conservare una piccola biblioteca. Presto o tardi sono stato costretto a privarmene per sfamarmi. Cominciai all’età di 16 anni, quando mi recai a studiare a un liceo di Firenze. Portavo con me una valigia di fibra piena di libri che avevo messo insieme uno per uno, comprandoli con le piccole economie in una remota libreria di occasioni a Catania. Non tardai, con l’improvviso e rigido inverno fiorentino, a cederli per poco o nulla e non per comprar pane (che mancava dopo la disfatta di Caporetto) ma un indigesto castagnaccio. Poi imparai a far meschino commercio dei libri degli altri che mi venivano prestati e regalati o che trafugavo in casa di amici, nelle librerie e biblioteche. Pur amandoli infinitamente, pur scaldandoli in mano, sotto il braccio, in saccoccia o nel letto, ahimè, la loro compagnia durava pochi giorni, poche ore; poi, vinto dalla fame, correvo a barattarli. Chi ama i libri come li amo io, comprende quanto sia doloroso il distacco. Prestati, regalati, smarriti, i miei libri, tutti i miei libri, sono andati via, venduti, o rubati da ladri più scaltri di me. Sta scritto che i libri debbano fruttarmi appena di che sfamarmi, tanto è vero che a 52 anni, pur avendone scritti e pubblicati una cinquantina, sono costretto a fare l’impiegato per vivere. *********************************************************** ANTONELLI LUIGI Teramo 1882 Pescara 1942 Scrittore originale e imprevedibile che suscita ammirazione e stupore. Luigi Antonelli. Dalla raccolta di racconti IL PIPISTRELLO E LA BAMBOLA Editrice Sonzogno 1919 Il Poeta guardava la calcina, il tufo, le piastrelle, i mattoni. Egli pensava che la casa che verrà fuori da quel materiale sarà un’altra. La casa è fatta di una certa tappezzeria, di un certo colore, di una certa luce. La casa ha il viso di chi ci sta dentro, non l’aspetto della facciata. Gli operai che la costruiscono sono artefici inconsapevoli. Essi non sanno cosa verrà fuori da quel cemento e quei mattoni. Essi sanno che verrà un edificio da tre piani, col tetto rosso e la facciata di travertino: tanti metri, tanto legno, tanto ferro, tante porte, tante finestre. Ma gli operai non sanno che la casa poi si trasfigura, che le pareti battute dai desideri assumono un aspetto che nessuno può prevedere, se non forse un Poeta... Se la Poesia non avesse un albergo, essa non potrebbe battere a nessun uscio; e voi date un albergo alla Poesia. Se l’amore non avesse un nido, esso non potrebbe dare nessun sorriso all’infanzia; e voi date un nido all’amore. Se la scienza non avesse un’officina, non potrebbe dare le sue scoperte agli uomini; e voi date agli uomini un’officina. Voi operai date tutto agli uomini, dando loro una casa. Voi fate in modo che l’alba possa entrare nella stanza del Poeta, tutte le mattine, vestita di viola. E fate in modo che egli possa scambiare i suoi sorrisi tra una finestra e l’altra. Ma un uomo pratico quando udì queste parole, provò una specie di sgomento e rispose: il Poeta vi ha descritto una casa che non esiste! Per concepire un’esistenza alla sua maniera bisogna essere felici, bisogna possedere un palazzo, bisogna essere ricchi. Ora nessuno di voi è felice, nessuno è ricco. Il Poeta ha immaginato, dentro questa casa, degli uomini che mai la abiteranno! Gli uomini che abiteranno questa casa saranno come tutti gli altri: uomini vestiti di nero o di grigio; uomini che bevono l’assenzio e parlano di affari; uomini che bestemmiano, che ingannano, che rubano. Uno di quegli uomini ucciderà la moglie. Ecco la prima vittima del Poeta che fece costruire la casa con le sue illusioni. Ecco la prima bara che passerà da quella porta. La casa che voi costruirete sarà come quelle già costruite e abitate da altri. Simile alle altre sarà la vostra casa: popolata da tutte le ombre famigliari: il sospetto, l’odio, la follia, l’inferno, la fame. ********************************************************************************** BALDINI ANTONIO Roma 1889 1962 BEATO FRA LE DONNE racconti Editore Mondadori 1943 Ma come ho detto, le donne, amiche o cugine erano le predilette di Zeffirino. Egli aveva una maniera grigia e silenziosa che non urtava i fidanzati nè i mariti. Cosi riusciva ad arrivare senza scandalo nelle intimità più nascoste. Zeffirino era un assaggiatore discreto che sarebbe stato un peccato di malagrazia non lascarlo assaggiare. Entrando o uscendo dalle case, indugiava a toccare la mano della ragazza una frazione di minuto più del necessario. Oppure accarezzava le gote di una nipote che non era più una bambina. D’estate, quando una cugina gli passava davanti a braccia nude, talvolta la fermava per il braccio, prendendola due o tre dita più su del gomito. Quando muore la signora Rosalia, mamma di Graziella, Zeffirino arriva di corsa in quella casa. Graziella seduta alla tavola da pranzo, tutta sparsa di vecchie fotografie, nasconde il viso sulle braccia abbandonate. Nella camera vicino si sente mormorare una preghiera e odore di cera. Zeffirino tira una seggiola vicino a Graziella e tiene il palmo della mano sulla schiena, scossa dal pianto. Finalmente la ragazza avverte quel contatto, alza il bel viso bagnato di pianto e butta le braccia al collo del confortatore, che rimane lì, buono, buono, con la guancia bagnata dalle lacrime dell’orfana. Fu questa una delle grandi giornate di Zeffirino. La notte poi fa strani sogni e torna sempre col pensiero a questo interrogativo: Graziella era così annientata dal dolore da non accorgersi che era stata fra le sue braccia? Quando Carmela esce di casa per l’ultima volta per farsi monaca, genitori, fratelli e sorelle le piangono intorno cercando di soffocare i singhiozzi. Zeffirino si trova là, confuso con gli altri, e riesce a baciare anche la monaca. Gli rimane in bocca un sapore dolce amaro, di lacrime, di cera e di marmo. Giorno d’oro, per lui, anche quello. ********************************************************************************* BANFI GIOVANNI Caravaggio1878 Bergamo 1959 RACCONTI DELLA BASSA Edizioni Alpes 1927 Per Bassa si intende in questo volume un lembo della pianura bergamasca delimitato dall’Adda e dall’Oglio e tagliato in due dal Serio. Terra fertile di grani, fieno e meloni ma priva di grazie naturali, la Bassa è madre di uomini che si ribellano a volte alla torpida monotonia di questa terra, chiedendo al vino la festevolezza che manca al paesaggio. ***** Nessuno in questo paese ricordava una nebbia come quella che era discesa con le ombre della sera ad avvolgere in un velo di desolazione la sfrenata allegria del giovedì grasso. Invaso così l’abitato, rese deserte le strade e affiochite le poche luci che di notte illuminano dall’alto dei crocicchi, la nebbia è per 24 ore, talvolta per alcune giornate consecutive, un enorme involucro in cui sembra dormire, di un sonno ninfale, l’anima del paese. E finchè un raggio di sole non la squarcia, il paese respira quasi impercettibilmente dalle canne dei camini e delle stufe; e tutto intorno all’abitato civile, attraverso le fessure delle stalle piene di bestie, di donne, di culle e di tanfo caldo umido. ********************************************************************************** BERNARDI MARCELLO Rovereto 1922 Milano 2001. Medico pediatra, docente di puericultura all’Università di Pavia. DISCORSO A UN BAMBINO di Marcello Bernardi edito dalla Libreria dei Ragazzi di Milano: Se ti dicono sempre che sei bravo, sta in guardia: qualcuno cercherà di sfruttarti. Se ti dicono sempre che sei intelligente, sta in guardia: qualcuno cercherà di eliminarti. Se ti dicono sempre che sei obbediente, sta in guardia: qualcuno cercherà di farti schiavo. Se ti dicono sempre che sei buono, sta in guardia: qualcuno cercherà di opprimerti. Ma se ti dicono studia, non temere: tu potrai fare un mondo senza scuole. Se ti dicono taci, non temere: tu potrai fare un mondo senza bavagli. Se ti dicono obbedisci, non temere: tu potrai fare un mondo senza padroni. Se ti dicono chiedi perdono, non temere: tu potrai fare un mondo senza inferni. Non credere a chi ti comanda, a chi ti punisce, a chi ti ammaestra, a chi ti insulta, a chi ti deride, a chi ti lusinga, a chi ti inganna, a chi ti disprezza. Essi non sanno che tu sei ancora un Uomo Libero. E’ permessa la riproduzione del testo citando l’Autore e l’Editore. ********************************************************************************** BORSA MARIO Somaglia (MI) 1870 Milano 1952 Conosciamo usi e costumi degli indiani d’America e degli aborigeni dell’Australia. La televisione ci fa vedere perfino gli extraterrestri (se esistono). È tempo che arrivi qualcuno e ci parli della nostra Bassa, della nostra cultura contadina, poco documentata e che sta per scomparire. Dal romanzo: LA CASCINA SUL PO Editrice Risorgimento 1920 Che strano paesaggio era quello! Nessun altro cambiava così di colori e di umore a seconda delle stagioni. Di primavera aveva una sua innocente gaiezza: le acque si coprivano di bianche e placide ninfee ed il canneto verdeggiava al basso per certi ciuffi di erbe taglienti. Allora la palude si avvolgeva di una dolce e tenue luminosità. Ma nel tardo autunno il paesaggio si appesantiva: le tinte si caricavano; le macchie nere si addensavano; i boschi si irrigidivano; le foglie rugginose degli ontani gettavano un’ombra fosca sul grigio desolato dei pioppi; le alte querce dondolavano le cime quasi spoglie con un’aria assonnata; i salici si piegavano in avanti, stanchi e malinconici; e rovi e spine e robinie si confondevano in una ramaglia dura, nuda, ispida, intricata. Le canne, da cui ora cadevano fiocchi filacciosi come bambagia, parevano ancor più rinsecchite e davano, passandovi in mezzo, uno scricchiolio ingrato. L’acqua, dove non era chiusa e cupa, rispecchiava il bosco nero e il cielo grigio e non si poteva guardare quel paesaggio riflesso e capovolto, senza un senso di indefinibile paura. Tutta la palude, in novembre e dicembre, aveva qualcosa di sinistro, di spento, di lugubre. Quei momenti crepuscolari erano pieni di inquietudine. Nella bruma misteriosa passavano brividi di freddo e ali di barbagianni. ********** Mario Borsa è un grande descrittore di ambienti e panorami campestri. Ma non solo. L’autore è anche un fine analista di stati d’animo, emozioni, sensazioni. Tutto il mondo interiore scorre sotto la sua penna di osservatore acuto e profondo. BORSA MARIO Somaglia (MI) 1870 Milano 1952 Dal romanzo: LA CASCINA SUL PO Editrice Risorgimento 1920 Ci sono virtù e vizi, sentimenti e passioni fondamentali che non variano nè coi secoli, nè con le latitudini, nè col colore della pelle, nè con la repubblica, nè col socialismo. Questa è una amara constatazione per uno che ha viaggiato mezzo mondo. Valeva dunque la pena di muoversi da Ronco? Per conoscere l’uomo non occorrono nè viaggi, nè libri. Occorre un certo intuito. C’è o non c’è. Se io non mi fossi mai mosso dalla vecchia poltrona di nonno Batista, e se invece di far girare le gambe avessi fatto girare il cervello! Chissà? Forse ne saprei più di adesso! Il mio paese, Ronco, ora che ricordo, era un microcosmo interessantissimo. Avrei potuto studiare l’anima dei miei contadini e scrivere un trattato di filosofia universale. ********************************************************************************** CALZINI RAFFAELE Milano 1885 Belluno 1953 Dalla raccolta di racconti AMANTI Editore Mondadori 1943 Tratto dal racconto: ROMANTICA VILLA DA VENDERE Giacomo Puccini non aveva ancora iniziato a musicare la Turandot e cercava un libretto. Vide il piccolo cancello della villa in una giornata di fine Ottobre; la vite vergine gialla e dorata si insinuava tra le sbarre, così moribonda che un soffio di vento ne avrebbe fatto cadere le foglie morte. Il lago mosso dalla brezza palpitava contro i gradini vecchi di mattoni e di pietra. Un vasto colore di autunno si distendeva sulla montagna di fronte, il Bisbino, fin dove cominciavano gli alti pascoli e si adunavano le greggi in attesa della prima neve che le avrebbe spinte alla pianura. La vita faceva fatica a staccarsi dalla terra e quel senso di amore e di dolore fece dire al Maestro: “Ecco, io immagino due amanti, uno di qua, l’altro di là del cancello nel momento della separazione. Bisognerebbe che qualcuno sapesse esprimere questi versi; la musica l’ho qui.” E toccava con la mano la sua fronte alta coronata dai capelli ancora neri. ****** Col passare dei giorni io mi persuadevo che qualcosa di strano , di irrazionale permeava la vita della villa. Dico proprio la vita perchè sono persuaso che anche un edificio ha un suo interno misterioso e psichico. Dire un’anima sarebbe troppo. Ma dire che una casa, è fatta soltanto di mattoni, di calce, tegole e pietre, stanze cantine e solai che contengono soltanto aria, mobili e luce, questo è troppo poco. **** Abbattei una parete leggera di mattoni in costa e apparve un piccolo locale: un bagno. La scoperta di quel nascondiglio mi stupì. La vasca era una elegante e gelida vasca Primo Impero, in marmo bianco di Carrara. I rubinetti di bronzo, modellati graziosamente, figuravano il solito collo di cigno e ripetevano un motivo di ali scolpite sui bordi della vasca. Sulla sedia dorata, con spalliera a forma di lira, c’era un vestito di taffetà verde, una camiciola di batista, due lunghe calze bianche posate con ordine e cura femminile. Per terra c’erano le scarpe e un pettine ricurvo ornato di palline di corallo rosa. Se si può racchiudere e conservare un istante, questo istante era murato vivo là dentro. La stanza conservava un senso di mistero. Qualcosa di sublime imponeva la immobilità e il silenzio. Quando mi decisi a togliere quegli abiti e li ebbi in mano si potè ricostruire la giovinezza, la forma, il fruscio e il respiro della donna che li aveva indossati. Data l’eleganza, del taglio e la perfetta conservazione, li regali al Museo del Castello di Milano, dove sono esposti in una vetrina. Guardandoli pensavo: Sono spenti i sospiri d’amore, le ansie dell’ambizione, i morsi della gelosia; fermi sono i cuori che palpitano, i polsi che tremano; tacciono le voci e i suoni; le lacrime e i sorrisi sono svaniti; tutto quello che fu sofferto e goduto, desiderato e pianto, è passato. ***** Solamente chi ha vissuto un autunno sul lago di Como, chi ha udito il brusio delle foglie sotto la pioggia di settembre; chi ha subìto la saturnina influenza delle giornate che si accorciano sui sentieri freddolosi e già tappezzati di castagne d’India e di foglie morte, solo allora si troverà l’attenuante al gesto disperato di quella donna disperata. Andò nel bagno a tarda notte, vi accese un braciere e aspettò la morte. Quella vasca marmorea ornata di cigni fu il suo primo sepolcro. Porte e finestre del bagno furono murate l’indomani del suicidio avvenuto nel 1825. Finchè io, più di un secolo dopo, le apersi. CALZINI RAFFAELE fu cronista del Corriere della Sera e ha viaggiato in tutto il mondo negli anni 30 e 40. Egli descrive le studentesse cinesi che venivano uccise con la baionetta perchè avevano adottato una pettinatura occidentale, a zazzera. Descrive le donne russe che fuggivano dal bolscevismo e attraversavano la Siberia per arrivare in Cina. Descrive l’Austria moribonda sotto il dilagare del bolscevismo che provoca carestia, miseria e inflazione, mentre Vienna è tenuta in vita dalle banche straniere. In questo racconto l’Autore narra una sua avventura vissuta in Argentina. CALZINI RAFFAELE Dal racconto: CI VUOLE UN PO’ DI CONTATTO CON LA VITA Per me la vita è il mondo. Le donne, i porti, le taverne dei porti; i dormitori delle grandi città. Uno fa una grande esperienza; misura quanto è grande il mondo, quanto è bizzarro l’uomo. Poi torna a casa e prende moglie. Non importa se ha 50 anni; si ammoglia perchè deve finire ammogliato. Ma dietro a sè deve avere l’esperienza. Per tanta gente un figlio è a posto quando ha fatto gli studi, quando ha un pezzo di carta in mano. Per me no. Un figlio è laureato quando scappa di casa. ***** Il silenzio dei luoghi non è sempre lo stesso. Quello intorno a me, rotto dagli scosci di pioggia, era un silenzio sconosciuto. Era il silenzio di Buenos Ayres. ****** La ragazza era figlia di una argentina e di un emigrante italiano e parlava benissimo il genovese. Stava con una banda di briganti perchè non riusciva a scappare e, in fondo, un po’ di rischio non le dispiaceva. Che strega! Gambe magre, nude, due trecce nerissime che ogni tanto mordicchiava in punta; mani piccole e forti e un sorriso che dava fuoco alla notte. ****** La ragazza prese due ceffoni perchè si lamentò che le dolevano i piedi e tentò di rifiutarsi di andare a fare la sentinella alla svolta della strada. Io le presi la mano per farle capire che ero del suo sangue, quel sangue che le colava dal naso e dalle labbra gonfie dopo la percossa. Lei invece dimostrò disprezzo e andò a sedersi sulle ginocchia del vecchio che la aveva battuta. Più tardi, mentre dormivo, sentii un dito sulle palpebre e sulla bocca. Era la ragazza. Mi mostrò un coltello, mi disse di andare a tagliare tutte le briglie e i tiranti dei carri. Lei avrebbe pensato a condurre un cavallo lontano e un carretto, pronti per la nostra fuga. Sono cose che si possono fare quando non si ha l’età della ragione e si è disperati; forse per questo riescono. Così il terzo giorno dopo lo sbarco, mi trovavo nell’oscurità, inseguito da colpi di rivoltella, con in mano le redini di un cavallo e una ragazza indemoniata al mio fianco che frustava la groppa senza misericordia; e, davanti a noi, c’era il buio della Vita. *********************************************************************** CAROSI FELICE Poggio San Lorenzo (Rieti) 1905 Roma 1993 Dal romanzo: SENZA ARTIGLI Editore Mondadori 1939 La vita non è una concessione illimitata. È il restringersi di un egoismo di masse e di individui; è una tenaglia che nasconde, sotto il manto ipocrita della giustizia e dell’amore, le branche distruttrici di mille volontà che vorrebbero cancellare ciò che crede nemico, per veder trionfare soltanto il proprio benessere e il proprio piacere. Giustizia e Amore. Gli uomini si pigiano, si stroncano, si dilaniano, si calpestano per giungere prima e più in alto degli altri. E non hanno vergogna a pronunciare queste due parole: Giustizia e Amore, mentre tradiscono e uccidono, spinti soltanto dal proprio egoismo. Utopie, null’altro che utopie. Finchè l’uomo sarà quello che è, nulla cambierà sulla faccia della terra. L’uomo è un pagliaccio perfino di fronte a sè stesso quando sventola la bandiera della buona fede. L’uomo è un pagliaccio senza ritegno, buffone che crea l’inutile per la propria utilità; funambolo che inventa delle regole per saltarle per il proprio tornaconto. Le opere di bene si creano perchè il fondatore avrà il monumento, il costruttore avrà i milioni, il direttore un lauto stipendio, l’ispettore avrà la macchina e la trasferta. Il bene fine a sè stesso, il bene gratuito non esiste. È un dono che va al di là delle nostre forze! ********************************************************************************** CASTELFRANCHI GIAN BRUTO Milano 1893 1955 Industriale di giorno (con una fabbrica di materiale elettrico, radio, fonogragi televisori) e scrittore di notte. Dalla fiaba CANDELINA Stampato dalla Cromotipo 1945 e 1952 Inizio questo libro la notte del 17 aprile 1943, esattamente nella ricorrenza del mio 50° anno di vita. Mezzo secolo! Quanti anni!... Mi sembran molti, moltissimi. Eppure qualcuno osa ancora dirmi che son giovane. Non son mai riuscito a com¬prendere quando è che l'uomo inizia la sua vecchiaia. Qualche anno fa, chissà il perchè, si lanciò il grido che la vita comincia a 40 anni, ma non è vero. A parer mio la vita comincia all'atto del nostro concepimento; ossia ancor prima di vedere la luce. Ma se per inizio della vita si vuol inten¬dere l'età in cui l'uomo crede di avere acquistato sufficiente esperienza, allora io dico che la vita comincia ventiquattro ore prima di morire. .. Comunque, nella loro lentezza, i miei anni son trascorsi rapidamente. La nostra vita è lunga e breve insieme. Nel tragico passag¬gio ognuno di noi lascia le proprie orme più o meno profonde, più o meno belle, quand'anche non abbiano tutte il privilegio di essere ricordate o tramandate ai posteri. In questi 50 anni, che vanno dal 1893 al 1943, vissi in un'atmosfera di guerre, di grandi e meravigliose invenzioni, di fanatico dinamismo e di vergognose ed irreparabili distruzioni. Attualmente l'Italia nostra trovasi impegnata in una duris¬sima e titanica lotta di cui la storia parlerà ancora fra mille anni, e per mille e più anni rimarranno indelebili i segni evi¬denti degli odii fra popoli e popoli, fra partito e partito, fra razze e religioni. Ma non dovrebbe essere questo il mio principale argo¬mento, benchè l'atmosfera nazionale ed internazionale sia così pregna di intrighi e di enigmi, che distolgono facilmente da ogni altra volontà umana, sì che mi sarà dato facilmente lo scivolare o intrattenermi in dati o fatti storico-politici di questa angosciosa epoca che noi tutti attraversiamo. Il mio desiderio è di scrivere una fiaba mentre fiumi di sangue e di lacrime irrigano ignominiosamente la nostra trava¬gliata e turbolenta Terra. Intendo scrivere una fiaba che dif¬ferisca da tutte le fiabe e vagare con la fantasia per obliare il più possibile le madornalità e le mostruosità dell'epoca no¬stra e per lenire, infine, le sofferenze fisiche e morali assegna¬teci dal destino. Or dunque, utilizzando le ore insonni della notte, seduto sulla sponda sinistra del mio amaro e dolce letto, coi gomiti adagiati sopra un tavolino, traccio ad occhi aperti il mio sogno senza indagare che cosa sarà di esso, nè quante notti durerà; nè dove mi porterà la fantasia. Solamente mi propongo di riu¬scire interessante, elementarmente istruttivo e forse anche mo¬rale. ******************************************************************************** CIVININI GUELFO Livorno 1873 Roma 1954 Accademico d’Italia. Premio Mussolini per la Letteratura 1933. Dal libro: ODOR DI ERBE BUONE Mondadori Editore 1942. La mia sorellina morì quattro anni prima che io venissi al mondo. Di lei non rimase in casa nessun segno, nemmeno un ritratto. In fondo per me doveva essere come se non fosse mai esistita. Fu invece il rimpianto di tutta la mia vita. Sarebbe stata non soltanto la mia sorella, ma la mia sorella maggiore. Che cosa ci può essere di più caro e di più sicuro nella vita di un uomo? Una sorella è un miracolo: è la creatura di altro sesso e quasi di pari età che si ama e, pensate, non si desidera. Se è bella godiamo di vederla senza turbamento, lieti che altri la vedano con occhi diversi e appaiano turbati. Se bella non è, si sentirà carezzata dalla nostra tenerezza come mai una donna brutta lo fu dalla mano di un uomo. Una sorella ha in fondo la nostra età, è una creatura del nostro tempo, ha le nostre idee, il nostro modo di vedere e di giudicare, ma alcuni anni fa ci ha tenuti in braccio... A lei, in certe ore, apriremo perciò il nostro cuore come non oseremo mai con nostra madre, nè tantomeno con l’estranea più adorata. Ed ella sola potrà trovare, tenera e grave, le parole che sapranno confortarci. Anche se saremo malati di quel triste e squisito male di guardare le cose da tutti i lati, ella pure lo sarà, ma con qualche visuale in meno, da donna; e questo le farà trovare per noi la parola inattesa che spesso tronca a metà un singhiozzo e lo tramuta in sorriso. Il peccato della carne, con i suoi segreti inconfessabili, pone sempre qualche insuperabile estraneità anche fra le coppie più innamorate e confidenti. Una sola donna potrà esserci completamente amica, una sola donna sarà quella alla quale potremo dire tutto di noi stessi, senza timore, vergogna o pericoli; certi di essere capiti e di essere perdonati, confortati, aiutati: una sorella maggiore; una mamma della nostra età. CIVININI GUELFO LA STELLA CONFIDENTE. Editori Fratelli Treves 1918 Paolo scese di vettura all'angolo della via, come al solito, per non dar nell'occhio ai vicini. In quell'angolo eccentrico della città, per quelle strade abitate per lo più da tranquille famiglie di impiegati che avevano potuto realizzare l'one¬sto sogno borghese di una casetta con un po' di giardino da pagare in vent'anni, e che ave¬vano tutti l'abbonamento al tram, il fermarsi di una carrozza dinanzi ad uno dei porton¬cini avrebbe chiamato alle finestre tutto il vi¬cinato, e destato chissà che lavorio di curio¬sità dietro i fiori delle tendine all'uncinetto. Così invece, da più di due mesi, Paolo ogni giorno faceva quel tratto di strada a piedi, apriva in fretta il cancello, traversava il ma¬gro giardinetto ed entrava in casa senza es¬ser visto da nessuno. Mezz'ora dopo un'altra mano spingeva il cancello lasciato socchiuso, un altro passo leggero e frettoloso faceva stri¬dere la ghiaia del vialetto. “Paolo!...” “Isa!” Entrava ansante, comprimendosi il seno, spaurita, sorridente e felice. “Sen¬timi il cuore... Dio mio, che paura!” “Di che, cara?” “ Non so.... Non mi avrà seguita nessuno?” “Ma no, calmati....” “Va a vedere.... E chiudi bene.” Paolo usciva nel giar¬dinetto, chiudeva il cancello, rientrava, chiu¬deva la porta. Isa, ancora ravvolta fino al naso nella volpe argentata, rincantucciata in un an¬golo del divano, lo guardava ancora un po' tre¬pidante: “Nessuno?” “Nessuno, cara.” Un sospiro di sollievo, un sorriso di tenerezza, e col sospiro la frase consueta, appassionata e carezzevole, mentre la manina inguantata cerca gli spilloni del cappello. “Dio mio, amore, che cosa mi fai fare...” Paolo era già in gi¬nocchio dinanzi a lei, e le baciava il polso sot¬tile tutto venato d'azzurro. “Basta, bimbo....” Nella penombra il caminetto scoppiettava e ron¬zava, come una piccola ironica orchestra in sordina che commentasse il tenero duetto della vecchia e dolce opera di repertorio, in cui Isa debuttava, e che Paolo ricantava con un ar¬dore che non credeva aver mai conosciuto. Quel giorno era in ritardo. Guardò l’orologio scendendo di vettura: le quattro e dieci. L’appuntamento era come sempre per le quattro. Ma d’altronde Isa¬ si faceva sempre aspettare un poco. Affrettò tuttavia il passo. La giornata era fredda e nebbiosa: una giornata di fin d'autunno. Mulinelli di foglie sec¬che si rincorrevano sul marciapiede e scompa¬rivano nel leggero velo della nebbia. La strada era deserta, tutte le finestre erano chiuse, i giardinetti tristi e poveri, appena con qualche macchia verde di edera e qualche rosaio rachitico¬ che finiva di sfiorire sulle aiole malinconiche.¬ Paolo stava per aprire il cancello, quando dal fondo della via vide avanzarsi una figuretta di donna, alta, snella, elegante. Non era molto lontana, ma la nebbia gliela velava un poco. Pensò che fosse Isa e attese, per ac¬certarsene. Non era lei: non era il suo passo. Camminava piano, come passeggiando, forse aspettando. Paolo si incuriosì, rimise in tasca la chiave, e le mosse incontro con aria indiffe¬rente. Pareva carina: passandole accanto la sbirciò con uno sguardo discreto: ma non riu¬scì a vedere che la punta di un nasino tra la falda amplissima del cappello e la stola di pel¬liccia avvolta intorno alla bocca. “Chi sarà?” penso. “Giurerei di cono¬scerla.” Allora anche la signora si volse e mormorò ridendo: “Buongiorno, Ardenghi.” “Oh!... Donna Clotilde!... Voi!” “E’ questo il modo di far aspettare le signore?... E’ un quarto d’ora che passeggio; sono intirizzita.” “Ma...” “Via, non importa; vi perdono. Ma che avete? Perchè mi guardate con quell’aria imbambolata?” “Scusatemi; capirete, sono sorpreso... Non avrei immaginato di trovare qui anche voi...” “Oh, che credete? un contrabbando? No, no. Vengo per voi: o meglio per Isa.” “Per Isa? Che ha? E’ ammalata?... E ac¬caduto qualche cosa?... Per carità, donna Clo¬tilde....” “Eh, calmatevi! Non è ammalata, non è ac¬caduto niente: diamine, non mi vedreste così tranquilla. Soltanto, mi manda a dirvi che nè oggii nè domani potrà venire da voi, perchè le è arrivata addosso da Napoli, all’improvviso, sua cognata. Ecco tutto.” “Proprio?” “Proprio. Era fuori di se dalla rabbia, po¬vera filgliola. Non sapeva come avvisarvi, aveva paura che non vedendola andaste voi da lei, e che la cognata che già le aveva fatto questa estate delle osservazioni sulle vostre assiduità dovesse ricominciare ad annoiarla.... E così, Clo¬tilde, mettiti su il cappello, la pelliccia, e mar¬cia ad avvertire il signor Paolo!... Ma sapete che mi fate fare una bella parte, ragazzi miei?” “Povera amica, come siete buona!” “E per compenso, un quarto d'ora a passeggiare in mezzo alla nebbia e a morire di freddo... Ma ditemi un po' anche Isa la trattat¬e così?” “Ma no, vi assicuro, Clotilde: è la prima volta che mi capita....” “Volevo ben dire. Infatti non fa che dirmi...” “Che cosa?” “Ma.... tante cose” “Belle?” “Naturalmente.” “Di me?” “Di voi, e di lei.... Dio, ma che freddo fa, da queste vostre parti!” Paolo rimase un istante esitante, poi mormorò con un sorriso imbarazzato: “Sentite, donna Clotilde.... non so.... se posso....” “Che cosa?” “Ecco.... in casa mia.... nostra.... insomma, lassù, c'è un po' di fuoco.” “E mi domandate se potete? Diamine, spero bene che non mi lascerete ancora in mezzo alla strada.... Finchè non mi sarò riscaldata dovrete sopportarmi, caro Ardenghi.... Mi darete una buona tazza di tè.... E poi andrete anche a cer¬carmi una carrozza, spero.” “Ma figuratevi, donna Clotilde! Io non osavo... capirete... Sì, siete la nostra amica, il nostro angelo... ma siete troppo una santa donna voi... e temevo che la fiamma del mio caminetto dovesse sembrarvi un po’ quella dell’inferno...” “Ah, sentite, inferno o no, la mia santità è troppo intirizzita. Ma a proposito, siete solo?” “Bella, chi volete che ci sia?” “Già, è vero.” Giunsero al cancello, Paolo aprì, traversa¬rono il giardinetto, entrarono in casa. “Ah, che calduccio!” Clotilde Landi si guardò intorno, passò ra¬pidamente in rivista il salottino semplice e grazioso, tutto pieno della luce bionda che filtrava dalle tende gialline. “Carino. Complimenti. Tutto in biondo, come Isa. Che armonizzatore! Anche delle rose tèa, di questa stagione? Carino, molto carino.” Buttò sul divano la pelliccia, il manicotto, si sedette su una poltroncina vicino al fuoco. “Andiamo, fatemi il tè.” “Scusate...” “Che c’è?” “Non volete togliervi il cappello?” “Perchè?... Si usa?” “Ma.... Isa se lo leva.” “Bella ragione.... Be', prendete.” Paolo prese il cappello, la pelliccia, il mani¬cotto, entrò in una stanza attigua, ritornò. “Dove siete stato?” “Dì là....” “Che c'è?” Paolo rispose con un gesto evasivo sorridendo. “Ah! Il sancta sanctorum...” “Piuttosto, direi.... foederis arca...” “Vediamo.” Si alzò, sollevò la cortina, guardò dalla so¬glia. “Molto graziosa.... Stile Impero: la pas¬sione di Isa. Me l'aveva già descritta, del resto.” “Vi dice tutto, dunque?” “Tutto: non mi parla d'altro.... Curiosa, sapete, il mio cappello e la mia pelliccia là sopra....” “Vi rincresce?” “No, no; lasciate”. Lasciò cadere la cortina, rientrò nel salotto, sorridendo di quel suo buon sorriso dolce e scherzoso, girellò per la stanza guardando i pochi ninnoli sparsi qua e là. Paolo, tutto affaccendato intorno al samovar, la osservava ogni tanto di sfuggita. Era alta, pallida, leggera e piana in ogni mossa; sorrideva spesso, smor¬zando il sorriso in una lieve ombra di malin¬conia pensosa. Non più giovanissima, circa tren¬tacinquenne, aveva già fra i bei capelli neri qualche filo d'argento, che non si curava di na¬scondere. “Ma bravi ragazzi!” Sedette di nuovo vicino al fuoco e socchiuse gli occhi. “Questa dunque” soggiunse “è una garconniere.” Paolo si rivolse con una mossa vivace. “Vi prego, donna Clotilde.... Non battezzate la casa mia e di Isa con questa brutta parola.” “Avete ragione. Scusate.” Tacquero per un momento. Il samovar cominciò a gorgogliare. “Le volete proprio molto bene a Isa, mio caro Ar¬denghi?” “Lo sapete. Se non lo sapeste non sareste qui, né avreste accordato a questo amore, che è unico, che è la vita nostra, questa vostra pietosa protezione. Non è vero?” “Infatti, mi pare.” “Voi siete pura di ogni peccato, Clotilde: eppure, quando Isa, nello sgomento che aveva invaso la sua anima alla rivelazione di questa cosa nuova che era entrata nella sua vita, vi fece la sua confessione, voi comprendeste, per¬donaste, e... diventaste la nostra sorella cara. Siate benedetta, Clotilde....” In piedi dinanzi a lei, Paolo le parlava con una tenrezza commossa nella voce, tenendole una mano nelle sue. Si chinò a baciargliela, ripetè : “Siate benedetta”. Donna Clotilde riattizzò il fuoco, e disse piano con quella sua voce velata: “Infatti, mi pare di non far nulla di male...” Corrugò un poco la fronte, pensando, poi riprese il suo sorriso quieto. “E ora datemi il tè. L'acqua già bolle.” Mentre Paolo versava il tè la pendola suonò le cinque. “Già mezz'ora che sono qui.... Passa presto il tempo, qua dentro.” “Troppo, Clotilde.” Le si era seduto accanto. Entrambi rigira¬vano ora i cucchiaini nelle chicchere, in si¬lenzio. Clotilde mosse appena le labbra come per parlare, ma tacque e continuò a guardare il fuoco, assorta. “Dicevate?” “Io? Nulla.” “Mi pareva....” “No....” Gli sorrise, amichevole. “È buffa, sapete?” disse poi come con¬tinuando il suo pensiero. “Che cosa?” “Dio mio, la mia posizione, qui....” “Perchè? È carina, anzi.” “Pensate: chi mi vedesse! Clotilde Landi, l'austera, la impeccabile, l'insospettabile donna Clotilde, nell'appartamento segreto di Paolo Ardenghi, senza cappello.... Sapete che se mio marito ci sorprendesse avreb¬be il diritto di ucciderci?” “Anche questo sarebbe carino: morire in sospetto d'amore e in perfetta purità.” “Grazie tante.... Povere le mie piccole!” “A proposito, come stanno le zingarelle?” “Non c'è male. La grande è un po' giù, però.” “Che ha?” “Chissà.... Sapete, forse è l'età di pas¬saggio. Ha già quattordici anni. Mi ricordo che anch'io, in quell'età, ebbi come una crisi strana di malinconie, di scontentezze, di noia. Passavo delle giornate intere nascosta in qualche stanza remota per poter piangere. Di che, poi? Chissà. Mi durò un paio d'anni, poi passò. Nenne è come me. Speriamo che la vita per lei sia un po’ più....” Si interruppe, smorzando la voce e volgendo di nuovo lo sguardo alla fiamma. “Un po' più...?” “No, no.... Ho sbagliato: volevo dire un'al¬tra cosa.” “Veramente non ne avete detta nessuna....” “Allora.... meglio così.” “Come volete.... Ma che avete?” “Nulla.... Che devo avere?” “C'è qualche cosa nel vostro viso, che non ho mai scorto prima d'oggi....” “Segno che non mi avete guardato mai bene. Sto benissimo invece. Il vostro tè è ben¬fatto, il fuoco mi ha riscaldato, il luogo è ca¬rino, voi siete un buon amico a cui si è con¬tenti di voler bene.... È una bella ora, insomma. E c'è anche tanto di Isa, qua dentro, a cui voglio bene, lo sapete, come a una sorella un po' minore.... Anzi, dirò, mi pare di essere un po' lei, qui; sarà questo, forse, che mi fa trovare così a mio agio....” “Certo. Questa casa è anche vostra....” “No.... non è questo....” “Allora.... non capisco.” “Già.... neppure io.” Paolo la guardò stupito ed incerto. Con un piccola mossa nervosa Clotilde posò la tazzina sul tavolino e si alzò. “È tardi, debbo andarmene.” “Di già? Perchè?... Ma che avete, Clo¬tilde?” “Nulla. Ossia.... Non lo so: sono nervosa. Dev'essere l'aria di qui dentro. Tutti questi fiori” “Volete che apra?” “Per carità! Fa troppo freddo.” Andò alla finestra, sollevò la tendina, appog¬giò la fronte ai vetri. “Comincia a nevicare, Ardenghi.” Rimase così in silenzio, a guardare i piccoli fiocchi che scendevano leggeri nell'aria nebbiosa del primo imbrunire a imbrillantare il fogliame rado del giardinetto. Tutto, di fuori, era silenzio. Da una casa vi¬cina giunse a un tratto il suono fievole di un pianoforte. “Sentite questa vecchia romanza, Clotilde?” fece Paolo avvicinandosi. “La conoscete? È una romanza sentimentale d'altri tempi, che ogni giorno, a quest'ora, una povera vecchia ragazza pallida e bruttina ripete al pianoforte. La stella confidente.... Tante volte con Isa ci mettiamo qui, come siamo ora, ad ascoltarla, e ci inteneriamo. Un giorno Isa mormorò: ‘La stella confidente...è Clotilde!’ E da allora vi abbiamo chiamato così... Vi rincresce?” Clotilde non rispondeva. Rimaneva col viso ai vetri, come nascondendosi. “Non mi rispondete?” Le scostò il viso dai vetri, la guardò, tacque,¬ tutto confuso. Ella gli sorrideva ancora, ma quel sorriso, che era l'espressione naturale della sua bontà, si sfaceva in una piega dolorosa delle labbra: e due lagrime le rigavano le gote. “Perchè? Perchè, Clotilde?” “Nulla, nulla.... Forse è quella musica.... Mi intenerisco anch'io, vedete! Sono ben stupida!” Rise un piccolo riso stridente, inghiottendo un singhiozzo. Paolo tacque di nuovo, mentre ella riprendeva il suo posto vicino al fuoco. L'ombra di un pen¬siero strano gli passò per un attimo nella mente e gli strinse il cuore di un'angoscia vaga. Clo¬tilde lo intuì e disse subito, in fretta: “Non pensate delle complicazioni assurde, Ardenghi.... Non crederete mica, spero, che sia innamorata di voi!” “Oh, Clotilde! Che dite mai!...” “Siete così vanitosi, voialtri uomini.... E d'altronde il mio contegno certo, è strano....” Guardò un istante dinanzi a sè poi riprese, con voce dolce e lenta: “Non vi siete mai domandato perchè io, che sono una buona moglie, una buona madre, una donna giustamente insospettata e insospet¬tabile.... un modello di virtù, infine.... che potrebbe anche aspirare al premio della rosa d'oro.... non vi siete mai domandato perchè questa Lucrezia dei nuovi tempi abbia potuto prendere sotto la sua protezione questo vostro peccato?...” “Sì, infatti.... Tante volte l'ho pensato. Ne ero stupito, dapprima.... Ma poi ho compreso che era la vostra bontà, che dinanzi a questo volere del destino....” “No, Ardenghi, non soltanto la mia bontà.... Mi avete detto poco fa che sono un angelo, il vostro angelo.... “È vero. Lo siete.” “Ma quale angelo potrebbe mai racco¬gliere sotto le sue ali due peccatori, se un po' di quel peccato non piacesse anche a lui? Tacete? Vi sorprendo, lo so. Ah, mio caro Ardenghi, è che ogni donna ha bisogno nella sua vita di un po' di peccato! E per questo, non per altro, in fondo, io vi aiuto, vi proteggo, sono la vostra complice.... A forza di vivere nel vostro peccato, esso è diventato anche il mio... Quello che non ho saputo accettare per me sola, da cui un senso di disagio, più forte della mia stessa onestà, mi ha tenuta lontano... Comprendete?” “Comprendo, Clotilde.... C'è stato qualche cosa dunque, anche nella vostra vita, a cui....” “A cui ho resistito, sì. Di cui ho trionfato. Ma, che volete, sono vittorie che non lasciano l’anima serena....” “Eppure, si dice.” “Non è vero. Rimane in noi una grande malinconia, ed anche.... della nostalgia.” “Povera Clotilde!” “Mi capite, ora? Non seppi peccare per me, mi unisco al peccato degli altri.... Vedete: mi confesso. Sono un po' brutale, anche, nella confessione. Ma se sapeste quanto anch'io ho sognato di queste ore vostre, di queste pa¬rentesi d'oblio, di questi distacchi assoluti da ogni noia, da ogni pensiero, di questi tuffi nella verità vera della vita.... Strano, vero, che vi parli così, io? Tant'è, amico mio. Tutto, tutto, mi chiamava.... Le mie bimbe erano an¬cora troppo piccole, per trattenermi; mio ma¬rito.... Voi sapete la sua vita.... Eppure non potei. C'era qualche cosa di superiore in me che me lo vietava. Fu perciò, in fondo, una facile vittoria.... Ma ne uscii egualmente con l'anima a pezzi, con un gran vuoto dentro di me, che non pareva dovesse più colmarsi.... Ebbene, qualcosa invece, in parte l'ha colmato: il vostro amore, il vostro segreto, che è anche il mio. Mi era restata l'angoscia di non sapere, di esser destinata a non saper mai, nella vita, l'intimità di un grande amore, e, sì, diciamolo pure, il sapore di un bel peccato. Ora lo so; so quello del vostro. Isa mi parla di tutto, mi dice tutto.... Oh, sapete, fra noi donne sappiamo dirci tutto, con la grazia che è necessaria a rimanere carine.... Passiamo delle lunghe ore insieme, a parlare di voi: so come è nato, il vostro amore: in un modo adorabile, pieno di poesie, di gentilezze.... forse come non ne nascono più oggi; l'ho veduto crescere, divam¬pare, divenire.... quello che è; l'ho seguìto, lo seguo giorno per giorno, ora per ora.... È un po' il mio, che ritorna; anche quello sarebbe stato così se avessi potuto.... Ed ora io aspiro tutto il profumo di questo vostro, ne vivo, ne sogno anche.... Soffro con Isa, gioisco con Isa, di ciò che la fa soffrire e gioire....” Era già notte. Il fuoco nel caminetto si spegneva. Il vento frusciava fra gli arbusti del giardino, batteva ai vetri folate di nevischio. Nel’ombra della stanza la voce di Clotilde ondeggiava lenta, dolce, accorata. “Qualche volta quando è triste e piange anche io piango con lei.... Ella è la vostra amante, voi siete il suo amante, e tutti e due siete il mio amore...” Tacque, si alzò, passò una mano sulla fronte, sugli occhi. “Be', ora sapete. Non so perchè non ho potuto fare a meno di confessarmi. Mi pareva di tradirvi, tacendo.” Stese la mano a Paolo, che gliela baciò commosso, in silenzio. “Mi mancava però ancora un po' una co¬sa...” continuò Clotilde, dopo una lieve esitazione.¬ “Passare due ore così, nel segreto di una piccola casa.... Curiosità? Forse. Anche questo l'ho avuto. Il mio peccato è completo.” Rise leggermente, un riso che sapeva di pianto. “Via, andate a cercarmi una vettura.” Paolo si avviò alla porta, si fermò un mo¬mento. “Volete la luce, Clotilde?” “No, grazie.... L'ombra è la mia luce. Piuttosto, sentite. Non dite ad Isa tutto quello che vi ho detto. Le donne, sapete, non sempre comprendono....” Rimase sola nella stanza oscura, appoggiata al caminetto, gli occhi fissi sulle ultime braci rosseggianti fra la cenere. Di fuori, tra i fruscii del vento giunse ancora il suono languido del pianoforte sospirante la vecchia romanza. Clotilde andò verso il divano, vi si buttò riversa, affondò il viso nel cumulo soffice dei cuscini, singhiozzando. CIVININI GUELFO LE FINESTRE MORTE Una breve storia che si svolge tutta dentro un cortile chiuso. Un capolavoro di ambientazione, osservazione e meditazione. Fino da ragazzetto mi hanno sempre destato un senso non ben chiaro, di curiosità, preoccupazione, diffiden¬za, nelle facciate delle case, le fine¬stre murate: quelle, voglio dire, che prima c'erano, aperte come le altre, in fila con quelle, o anche in disparte, a guardare un cortile, o sotto una spor¬genza di grondaia; e poi furono tap¬pate, e sopra ridipinte. Tutte le altre sono vive, animate, estrose; sono gli occhi della casa, che guardano il mondo, piccolo o grande, che hanno attorno. Si aprono, si chiu¬dono, si accostano a bocca di lupo a spiare e ammiccare, alzano le mezze persiane a far solecchio, si adornano di vasi di fiori e di gabbie di cana¬rini, sventolano panni stesi, civettano, sospirano, chiacchierano, spettegolano, litigano. Ci sono anche quelle che si danno arie superbe, non prendono confidenza col vicinato, e stanno qua¬si sempre chiuse. Le rare volte che le aprono si intravedono dentro le stanze vecchi mobili tristi, e pol¬trone e canapè incamiciati di bianco, come malati. Le piú invece sono quel¬le altre, nel cui quadro la vita della casa passa avanti e indietro con le sue gioie, le sue tristezze, le sue noie, le sue rassegnazioni: che incorniciano te¬ste di bimbi adorabili o detestabili, ragazze che rammendano, serve che sciacquano e cantano, uomini scami¬ciati con le bretelle ciondoloni, don¬none ciabattone che sfaccendano, don¬nette che si pettinano. Bello è in certe mattine di sole vederne uscire due braccia nude e morbide che si spor¬gono a spalancare le persiane. Davanzali su cui anche stanno bene (come dicono i pittori) stracci e tega¬mi di conserva di pomodoro messa a seccare. Ma sono cose che non si ve¬dono piú, solo nei paesi, talvolta. Le finestre murate sono come gli spettri di queste vive. Le hanno ridipinte nel rettangolo in cui si aprivano, rifacendo sull'intonaco vetri e telai. Qualcuno piú fantasioso o sciagurato è arrivato a accennare dietro i vetri un ricamo di tendine, o sul davanzale un vaso di garofani. I piú discreti si sono limitati a dipingerci una persia¬na chiusa o uno stuoino mezzo abbas¬sato. Il tempo è passato, i colori si sono sbiaditi, l’intonaco non bene spianato si è scialbato di polvere, e anche qua e là si è scrostato, scoprendo l’ossame di sassi e di mattoni della finestra morta. Ognuna di quelle finestre aveva per me ragazzo (e per quel po' di ragazzo che per fortuna nostra, chi piú chi meno, portiamo sempre con noi) aveva un che di mistero, intorno al quale mi perdevo volentieri a fantasti¬care. Chi sa quando era stata murata, e perché. Capivo benissimo anche al¬lora che la spiegazione comune era fa¬cile imaginarla: un giorno la gente che ci abitava aveva mutato disposi¬zione alle stanze, quella finestra era risultata inutile o incomoda, e l'ave¬vano chiusa. Sì, questo è semplice a pensare, anche per un ragazzo fanta¬stico. Ma lì fuori c'è quel fantasma dipinto, quella cosa che non c'è piú ma vuole illudere di esserci ancora, e allora il ragionare non conta. Quella finestra murata sa di castigo, di ricordo che si è voluto distruggere; dietro a quei vetri mal dipinti e impolverati c'è un segreto che si affaccia, c'è una vecchia stanza abbandonata dove nessuno è entrato piú da tanti tant'anni, c'è chissà che. Le case che hanno que¬gli occhi ciechi sono in generale vec¬chie case in cui tanta gente è passata, e che ne hanno viste tante, e chi sa quante potrebbero raccontarne, anche quelle che hanno l’aria piú modesta, onesta e bonaria. Come quella che piú di ogni altra mi sta in mente. ******** A cavallo fra l'infanzia e l'adolescen¬za mi accadde di passare un anno del¬la mia vita in un paese del Mezzo¬giorno. Stavamo di casa in una di quelle stradette mozze che là si chia¬mano “corti”. Le stanze del davanti davano sulla corte con un lungo ter¬razzo fiorito di gerani e di convolvoli. Quelle interne, con la cucina e il so¬lito sgabuzzino sul poggiòlo, su un cortile silenzioso e squallido: chiuso fra la casa nostra, il dietro di un'altra a due piani, e il vecchio tetto di uno stallaggio vuoto. Il cortile era dello stallaggio, e da chi sa quanto tempo nessuno c'era entrato. Erbacce e orti¬che crescevano alte fra mucchi di calcinacci e di pietrame. In un angolo, a fior di terra, c'era una finestrella nera di cantina, con l'inferriata. Fra cantina e cortile una dozzina di gatti vivevano in libera e sonnolenta repubblica. La casa vicina aveva quattro fine¬stre, due per piano. Quella davanti alle nostre era murata. Nel rettangolo avevano ridipinto telaio e vetri, e die¬tro questi, per effetto scenico, un ten¬daggio rosso sollevato ai lati, a baldacchino, come quelli delle vecchie quinte. La pittura era sbiadita dal tempo, ma dietro la patina di polve¬re quella tenda rosseggiava ancora, e il vano su cui si alzava dava veramente un'impressione di buio e di vuoto. Meno, anzi quasi nulla, di giorno, quando il sole ammazzava quel po' di colore che c'era rimasto. Ma appena il muro ritornava in ombra, la vec¬chia finestra morta si ravvivava. Sem¬bravano allora più morte le altre: quella accanto, alla quale pure non si affacciava mai nessuno, e che ave¬va sul davanzale due vecchie pentole, in cui erano morte di sete piante di garofani e di basilico; e le altre due del piano di sopra, dove stavano certe vecchie in lutto con una nipote povera e zitellona, che faceva da serva, ed era la sola che qualche volta si affac¬ciasse per buttar giú ai gatti cartate di puliture di pesce e di altri sudiciumi. Era una ragazzona brutta, grassa e floscia, e dicevano che fosse un po' matta. A volte sfaccendando, cantava una specie di nenia campagnola che invocava la Madonna perché facesse piovere. Dormiva in cucina, e la not¬te, d'estate, con la finestra aperta si sentiva russare. La sua voce scolorita, e quelle irose o amorose dei gatti, era¬no le sole che il cortile conoscesse: ma anche quelle eran rare. Dall'esterno non giungeva eco di nulla. Pareva di essere fuori dal mondo, e che attorno, di là da quei muri, non ci doves¬se essere che cielo, quel gran cielo az¬zurro che c'era sopra, e a voltarsi in su e fissarlo dava il capogiro. La stanza dove dormivo io si affacciava su quel cortile. ************* Per un ragazzo abituato a stare mol¬to solo, un cortile simile è un mondo. Non fosse altro per tutti quei gatti. Do¬po un poco che stavamo lí (ar¬rivammo verso l'estate) li conoscevo tutti uno per uno, sapevo le loro abitudini, il loro carattere, le reciproche amicizie e antipatie. Di solito nella mat¬tinata erano tutti fuori. Accucciati dalla parte dell’ombra, passavano le ore dormendo o sonnecchiando, quasi sem¬pre ciascuno allo stesso posto, e rispettandosene il possesso. Sul mezzogiorno, quando il sole picchiava giú a perpen¬dicolo, un poco alla volta tutti si imbu¬cavano giù per l'inferriata della cantina, nel mistero di un altro mondo. Piú degli altri restava ad arrostirsi al sole uno che doveva essere il capo riconosciuto di tutta la banda, certo il più vecchio, grande forte, placidamente autoritario: maschio naturalmente. Soriano tigrato, con appena un ¬po' di rogna su un orecchio, aveva degli occhi ancora bellissimi, d' ambra chiara. Quando le rondini passavano in gazzarra sul cielo del cortile li apriva, seguiva per un attimo quei voli con fredda, immobile cupidigia, e subito li richiudeva con rassegnata noncuranza. Anch'esso, dopo un po' che era solo, si alzava, si avviava verso l’inferriata, dava un sguardo in giro al cortile vuoto e spariva nel buio. Era proprio il padrone di tutto quel mondo; temuto, rispettato, forse anche amato. Un giorno una gatta nera che da qualche tempo era scomparsa, ri¬sbucò fuori dalla cantina seguita da quattro gattucci monelli. Il vecchio soriano era al suo solito posto, e son¬necchiava. La gatta mamma si avviò verso di lui, e si fermò a rispettosa distanza. I monelli invece gli si avvicinarono ruzzando. Il vecchio aprì gli occhi e scosse l'orecchio rognoso. Guardò per un istante i nuovi venuti, poi si alzò, lentamente, e li fiutò. Sí, bene: erano dei suoi. Tranquillo si ri¬mise giú. I piccoli si allontanarono per il cortile, ruzzando con tutte quelle cose nuove che trovavano. La gatta nera non c'era già più. Aveva fatto le presentazioni, aveva avviato i suoi fi¬glioli per il mondo, la sua parte di mamma era finita. Sciò, tutti liberi, ora, e ciascuno pensi a sé e si arrangi. Sopra tutti, del resto, c'è il Vecchio. A mezzo meriggio il cortile ritor¬nava in ombra, e dall'inferriata tutti ritornavano su, e si rimettevano a sonnecchiare aspettando la rinfrescata; quando di solito la finestra del secondo piano si apriva e la zitella matta but¬tava giú qualche cartoccio. Tutti al¬lora balzavano su, correvano verso la roba cascata; ma raro era che si azzar¬dassero a toccarla prima che il Vecchio arrivasse. Se qualcuno piú avido al¬lungava l'unghia avanti, quello d'un balzo gli era sopra, e con una soffiata e una graffiata ristabiliva l'autorità e la tradizione. Poi raspava un po', an¬nusava, sceglieva qualche bocconcino, a volte nulla, e si allontanava lascian¬do il branco a spartirsela. Poca roba. Finiva presto. Allora tutti si voltavano in su, verso la finestra da cui quel ben di Dio era piovuto, e ri¬manevano lì fermi, a lungo, leccan¬dosi i baffi, nella vana attesa di qual¬che altra cosa. Guardavano quella fi¬nestra, guardavano anche le altre, an¬che le mie, tutte, meno una. Nessuno, di tutto il branco famelico, guardava quella murata. Ma il vecchio soriano sì. Solo, in disparte, lontano da tutti, estraneo a tutti, pareva aspettare quel¬l'ora già di mezz'ombra per guar¬dare quella. Teneva i begli occhi chiari bene spalancati, e li fissava su quel rettangolo sbiadito come se qualcosa in esso lo affascinasse. Che? Gli animali che vivono con noi, nelle nostre¬ case, nella nostra vita, i cani, i gatti, anche gli uccelli di gabbia, vedono tante cose che noi non vediamo. Storie, si sa. Ma a volte si ha una gran voglia di crederle. Che vedeva il vecchio soriano, in quella finestra morta,¬ per guardare solo quella, per guardarla cosí? Io ero certo che vedesse quello che non c'era piú, la finestra quand'era viva. Ne ero sbi¬gottito, ma anch'io affascinato. Con l'ombra che piano piano calava, lo sbia¬dito si ravvivava, la patina polverosa dava ai vetri come una vera traspa¬renza, il tendaggio rosso cadeva giú con ombrature morbide di vera stoffa. “Ecco” pensavo, “ora una mano, una mano bianca, uscirà da quel nero, e solleverà la tenda...” La sera conti¬nuava a calare. Il gatto non si muo¬veva. Brividi fitti mi correvano dalla nuca alle reni. Orripilavo nelle brac¬cia e nelle gambe. Ma non cedevo. Il gioco della fantasia era piú forte del¬la paura. “Ecco, ora un viso pallido si affaccerà... Il gatto già lo vede...” Lottavo ancora, stringendo i pugni e i denti. Poi di colpo il buio mi vin¬ceva. Chiudevo gli occhi, scappavo. Di là era già acceso il lume. Madonna, che respiro. *********** Una notte, faceva gran caldo e dormivamo con le finestre spalancate, mi svegliò un miagolio lungo, lamentoso. Aprii gli occhi, guardai fuori. Alla finestra morta c'era un lume. Una fiammella chiara si accendeva e si spegneva, sbattendo ai vetri finti. Col cuore in gola balzai su, mi affacciai... Oh, niente. Una lucciola. Lí presso cominciava la campagna. Una lucciola era venuta a sperdersi nel cortile. Ma quel povero vecchio gatto, lo ricono¬scevo dalla voce, perché si lamentava cosí? Che aveva? Che vedeva? Mia¬golò cosí ancora un po', poi tacque. La mattina lo vedemmo laggiú, sot¬to quella finestra, stecchito. Un altro, un grosso nero, gli era succeduto nel comando, e sonnecchiava al suo posto. CIVININI GUELFO Trattoria di Paese Mondadori Editore 1937 Tratto dal racconto: TRE RAGAZZE SU UNA LOGGIA Alte su una vallata ampia e ventosa stanno, in quel paese che non so piú, certe vecchie case di mattoni a incantarsi di tramonto. E di fianco c'è una straduccia già in mezz'ombra, ma con le finestre ancora al sole, che ci spenzolano sopra ciocche di garofani sgargianti. E lí presso una fontanina chioccolona, e piú là le altre cose che poi dirò. Mi basta chiudere gli occhi per rivedere. La valle è morbida e placida, di un verde stanco, quasi do¬rato, sfatto e pastoso, e ci serpeggia in fondo un'incrinatura lucida; i pam¬pini di una pergola d’osteria fanno ornato sul cielo, e ci sanguinano vicino lussurie amare d'oleandri. L' aria sa di miele. Certo è una fine d'estate, quasi autunno. Ma dove? Che paese sia, dove sia, mi è impossibile ricor¬dare. Invano ogni tanto, come ora, lo ripenso e lo ricerco. Non c'è strada che mi ci riporti. Le immagini che mi appaiono sono nitide, minute, spon¬tanee, ma distaccate da ogni altra realtà. E soprattutto mi sfugge la me¬moria del tempo, per quanto mi scer¬velli a inquadrarmi in esso per ritro¬varvi qualche punto di riferimento con la mia vita di quei giorni. Quel sanguinare di oleandri, quel pergo¬lato, quella stanchezza di verde, mi dicono la stagione dell'anno, ma non la mia. Una fine d'estate; ma una delle tante che abbiamo alle spalle, forse molto lontana, forse ancora quasi vi¬cina. Nulla piú. È come qualcosa di sognato. Ma certo c'è una ragione, for¬se una grazia concessa, perché mi ap¬paia cosí. +++++++++ Mi ritornano solo nel ricordo certe statue di terracotta ritte sul parapetto di una loggia fra lo sventolio di un bucato ad asciugare. E più su, in fondo a una piazza contornata di portici bassi con un lastricato erboso, deserta e già piena di sera, la facciata di una chiesa grigia e nuda, con un bel rosone antico a trafori e mosaici d’oro che un riflesso di sole faceva brillare. +++++++++ Per le strade non si incontrava anima viva: ma questo non faceva vuoto. Si sentiva egualmente attorno, l'abitato e la piú intima vita paesana palpitare lie¬ve e discinta oltre i muri caldi di sole. Era l'ora della ripresa operosa dopo la siesta, botteghe di artigiani avevano spalancato le porte a far entrare la fre¬scura, e dentro si vedeva gente lavo¬rare: e anche attorno ad essa fluiva il senso di lievità che era dovunque, e i gesti del lavoro apparivano abituali e senza fatica. Era anche l'ora in cui la casa è tutta in signoria delle donne, quando gli uomini sono ritornati via, e si possono fare tante faccende che gli uomini non possono capire né apprezzare. Ed anche infine l'ora in cui, finché si è ragazze e si ha una bella loggia fio¬rita, è un peccato non scappar fuori a godersi quell'ultimo sole, e se passa lì sotto un forestiero (che si capisce passa e se ne va) fargli anche, con gentilezza e innocenza, un po' di festa. Sapessi ritornarci, una volta lassú ri¬troverei quella loggia a occhi chiusi. Di fianco alla chiesa c'è una strada che passa sotto la canonica e ritorna in giú a guardare sulla vallata dei tramonti, in fondo alla viuzza dei garofani. La casa è lí su una piazzetta che fa cro¬cicchio: una casa giallastra, non bella, un po' arcigna: ma che ha al primo piano, in angolo, una vasta terrazza con una lunga ringhiera rugginosa e panciuta, piena di verde e di fiori, co¬perta di tralci di vite, avviluppata di madreselve e di convolvoli; una specie di giardino pensile sopra un alto muro a barbacane. arhacani. Quando è il tramonto, una vampata di sole la investe in pieno, ravviva il giallo sporco della facciata, ac¬cende luccicanti tremolii negli intrichi di verzura e fiamme scarlatte nelle cassette dei gerani. Riaccende anche in basso, accanto all'ingresso, i colori sbiaditi di uno stemma su una porta di bottega: forse il tabaccaio, forse l'uf¬ficio postale. Su un'altra porta, poco oltre, c'è il cartello della levatrice, e quello della Società Operaia di Mutuo Soccorso, con due mani che si strin¬gono, rosee e cordialone. Una casa paesana insomma come tante altre: una casa qualunque, gran¬de e comoda, di gente benestante ma alla buona, che guarda di lassú i suoi poderi giú in valle, e ha una cantina stipata di tesori, e una dispensa piena di ben di Dio: una di quelle vecchie case che una volta la settimana odo¬rano di pan fresco da cima a fondo e di pipí di gatto un po' tutti i giorni; dove i letti hanno ancora i sacconi riempiti di foglie di gran¬turco, e per lavarsi ci sono i lava¬mani di ferro con la brocchetta e la catinella, e certi altri arnesi (Dio guar¬di) mai conosciuti. E dove l'inverno ogni stanza, salva la cucina, è una nevaia, e per scaldarsi ci sono solo gli scialletti e gli scaldini, e le ragazze hanno le mani piene di geloni. E quello è proprio tempo di peniten¬za, per le povere ragazze paesane. Ma sono anche mesi che passano presto. Presto ritorna poi primavera, l'aria di maggio rinfiora terrazze e davanzali, fa buttar via ogni scialletto, fa gua¬rire ogni gelone, fa ritornare le mani belle e le dita agili. E nella vecchia casa che rivedo, in quel paese che non so piú, rivedo ancora la ragazza staccare dal muro l’amica chitarra, rivedo le gaie sorelle riaffacciarsi sulla ringhiera rugginosa, sulla piazzetta quieta dove non passerò più. La vita offre ancora questi incontri con la poesia? Tre erano, bellissime, o così mi apparivano nella gentilezza del quadro che componevano. Ora penso che forse non potei vedere bene i loro visi; e infatti mi è impossibile ricordarli e descriverli. Una era bionda, con i capelli soffici e mossi. Rossa un’altra, e ricciolina. Nerissima la terza, con la testa serrata in un casco lucido e duro di trecce buie. CIVININI GUELFO È la storia di un marinaio che ha passato la vita viaggiando e un giorno decide di fermarsi per costruirsi una casa. Tratto dal racconto Una Casa sul Mare nella raccolta POI CI SI FERMA Mondadori editore 1934 Si cammina, si cammina, si naviga si ruzzola, ci si trascina; e a un tratto ci si accorge di essere soli e che il mondo degli uomini è finito. Ma si sta ancora bene così. Anzi, sembra meglio. E si va avanti per giorni e giorni; e non ci si avvede del male che intanto ci cresce dentro. Finchè arriva l’ora che non se ne può più. Qualcuno a volte muore disperato. Qualcun altro felice, perchè delira. Altri reggono; finchè arrivano a una casa. Una casa! Dentro c’è gente che fa la propria vita. Un uomo che spacca la legna, governa un cavallo, pulisce un fucile, arrota un coltello. Una donna che si pettina, fa il bucato, canta o piange. Dei bimbi che piangono, ridono, crescono, poi se ne andranno. È bello. E la casa è bella, perchè è una casa, e gli uomini l’hanno fatta, come Dio fa gli alberi. L’uomo che va per le strade del mondo entra e si siede all’ombra del tetto, vicino al focolare, e gli pare di essere dentro una chiesa. ************************************************************************* D’AMBRA LUCIO pseudonimo di Renato Eduardo Manganella Roma 1880 1939 FANTASIA DI MANDORLI IN FIORE Editore Mondadori 1931 Questo suo romanzo narra la storia di un uomo, Sisto, nelle varie tappe della vita: bambino, ragazzo, innamorato, sposo, padre. È arrivato il primo figlio e adesso, nel mandorleto dove ha trascorso giorni felici della giovinezza, Sisto fa alcune riflessioni sulla vita. Lucio D’Ambra dal romanzo FANTASIA DI MANDORLI IN FIORE. Giovani, giovinezza, superficialità, spensieratezza. Aerea leggerezza di mandorli in fiore che appena li tocchi, i loro petali candidi si spargono nel vento. Sì, é vero, c’é l’autunno e c’é l’inverno. Ma poi ogni anno, a marzo, la primavera ritorna, i mandorli rifioriscono e tutto ancora sorride. Ogni anno la primavera ritorna... Ingenua fede... Serena illusione. Questa è la vita veduta lontano dal tempo in cui la primavera non ritornerà più; in cui i mandorli rimarranno sempre nudi, piccoli scheletri disperati con le braccia tese al vuoto cielo. Il vento all’improvviso si leva formidabile, fischiando, urlando. Nel mandorleto in fiore c’è una bianca tempesta. Petali volano turbinando nell’aria, cadono a terra, si risollevano, volano ancora più lontano. Per poco tempo dura la tempesta bianca e profumata. Poi, il vento finisce, i mandorli restano senza fiori. La vita, nel vento, è passata. E io rimango sul cancello del mandorleto a guardare il mio roseo passato correre verso l’oscuro avvenire. E lì, in mezzo al turbine bianco dei mandorli, rimango ad aspettare, nel vento, la mia vita. ***************** D’AMBRA LUCIO scrittore e regista era molto conosciuto e apprezzato ma adesso è dimenticato. Gli scrittori sono veicolati dagli editori e questi non sempre pubblicano gli autori meritevoli, ma quelli che rendono di più. Col passare del tempo, dopo la morte del figlio, Lucio d’Ambra diventa meno romantico e più smaliziato. Sono lontani i tempi dei mandorli in fiore. Adesso l’Autore descrive la dura vita, con le sue menzogne e le sue brutture. Lucio d’Ambra dal romanzo: IL MESTIERE DI MARITO, Editore Mondadori 1943. L’ho sperimentata ormai per mesi la famosa felicità coniugale, con i giuramenti di eterna fede. E sai quale è stata la conclusione dell’esperimento? Che non è roba per me. Sulla deliziosa e infinita commedia dell’amore è calato il sipario. Me lo ha abbassato mia moglie. Ormai sono diventato casalingo e monogamo; devo filar dritto come un caposezione che, sempre alla stessa ora, va al suo reparto. Addio capricci, addio fantasie, addio piaceri dell’impossibile, addio imprevisti. Ormai filo la lana sul telaio della virtù. Il piacere dell’amore è il mistero, l’aroma del segreto, il sapore del frutto proibito, il fremito della complicità, l’ardore di tutto ciò che è clandestino. Se diamo la libertà a questi amori, essi muoiono. Portiamo il sole in queste nebbie ed esse svaniscono. Facciamo che tutti gridino ciò che due amanti sussurrano e questi scappano. Ecco che cosa manca al matrimonio: il segreto, il velo, la menzogna, il dolo. Può mia moglie offrirmi tutto questo? Posso aspettare un’ora per vederla se sta 24 ore con me? Posso avere il piacere di entrare nel suo appartamento, se io ce l’ho in locazione perpetua? ********** Siamo usciti dalla grande arteria piena di pedoni e di veicoli e siamo adesso nella grande villa pubblica, tra alti alberi e vasti prati. Il popolo della domenica ci passa attorno con le facce tristi della noia di una settimana. Ci passano attorno, le coppie legittime, le coppie dei condannati a vita, silenziose, torbide, chiedono un po’ di vitalità a questa primavera che profuma e a questo caldo sole che tramonta. Altre coppie sono sedute qua e là, per i prati. Digeriscono malinconicamente una malinconica merenda fatta sull’erba. Sorvegliano, con occhio indifferente, due bambini che giocano. Aspettano che il tempo passi, il tempo della domenica e il tempo della vita... Questo è il mondo. Questa è la massa, sulla quale è stato imposto il giogo delle menzogne sociali. A questo giogo la verità dell’intelligenza si ribella. Ma è la minoranza, sopraffatta dal numero. Ma questi altri, la massa, come pretendete che scuotano il giogo se non si accorgono neppure di averlo? È il gregge. Inutilmente l’intelligenza dei cani abbaia intorno a loro. Cieco e sordo, il gregge va avanti dove il bugiardo pastore lo vuole condurre. Passano accanto a me, lente e tutte uguali, le coppie della stupidità umana, quelle che si uniscono per vedere meno, per non udire più nulla, per non sapere che cosa sono sofferenza e godimento, per annullare la vita nella servile rinuncia alla vita. Io guardo queste coppie una ad una. So quello che mi si può dire: anime quiete, vite serene, orizzonti limitati ai propri doveri, serenamente accettati e onestamente compiuti. Necessità sociale di far durare l’unione; trasferimento nel figlio, di sogni, illusioni, ambizioni alle quali la coppia dovette rinunciare. L’amore è una parola grande, un fatto piccolo, un sogno immenso, una realtà terrena, una febbre passeggera, una crisi che apre le porte dell’infinito per poi rinchiuderle; che accende lo splendore di un miraggio, per poi fare l’ombra più profonda; menzogna sentimentale che racchiude un’altra menzogna: il matrimonio; per irreggimentarsi, due per due, in fila, attraverso il deserto, in marcia verso il nulla, in questo popolo domenicale, in questa folla di rinunciatari che fa della settimana la lunga attesa di una domenica, che non è niente. ************************************************************************** DA VERONA GUIDO Guido da Verona (il suo vero nome era Guido Verona) nacque a Saliceto Panaro (Modena) il 7 Settembre 1881. Studiò legge a Genova. Iniziò una serie di viaggi usufruendo dell’eredità di sua nonna. Scrisse oltre 10 romanzi di natura passionale, di un raffinato estetismo (a volte eccessivo) ambientati nei luoghi che frequentava: alberghi di lusso, casinò, salotti letterari a Parigi e Londra. (Commovente la sua descrizione dei malati a Lourdes.) Con i suoi libri guadagnò molto e fece guadagnare i suoi editori. Si trasferì a Milano dove morì il 5 Aprile 1939. DA VERONA GUIDO dal romanzo: SCIOGLI LE TRECCE Editore Dall’Oglio 1966 Amo questa maniera di vivere, la quale consiste nell’andare via. Quando la musica del treno canta nelle mie vene d’esiliato, io sento battere in me, più rossa di fervore, la poesia della vita. Non è la strada maestra quella che mi conduce verso il dolore. Sono i vicoli tortuosi e bui, le vie di pochi metri sepolte nelle città definitive. **** Questo è forse l’amore. Rubare alle cose, alle anime che passano, il loro profumo più inebriante, abbandonarle prima che sfioriscano, allontanarsi prima di conoscere la stanchezza: questo è forse l’amore. Portare con sé un rimpianto, qualcosa di magnifico e di perduto, smarrirsi nei labirinti della vita portando in sé un desiderio giovane, non ancora disperso in polvere; pensare con una malinconia profumata a tutto quello che poteva essere e non fu: questo è forse l’amore. Udire lontano, confusamente, nelle distanze dell’anima, una musica lenta che trascina come nell’aria un velo, e credere che là indietro, in quella musica del nostro cuore disperso, in quel colore d’aria distante, vi era forse, o vi poteva essere la felicità; sognare con occhi pieni d’aurora l’amante nuova che si incontrerà nei miracoli della strada più lontana: questo, questo è veramente l’amore. La distanza è l’amore. Ciò che per noi fu tale in un’ora di bellezza, e finì. La donna che passa è l’amore; la donna senza storia, senza nome, senza il peso inevitabile dei suoi mediocri peccati. Quelle che andarono via, scomparvero, travolte nella musica di un treno. Quelle che a noi diede il mare, di notte, nel grande spazio, laggiù, sotto le stelle, quando cantava il maestrale… Le donne, in fondo, non sono mai l’amore; sono soltanto la via necessaria per giungere all’amore. Ma allontanarsi da una donna è sempre una cosa triste, perché ogni donna possiede un poco della nostra gioventù. Quello che fu con una, certo non sarà con altre; l’amore che finisce è un’illusione perduta, un gioiello che non si ritroverà mai più. E lo sentono anche le anime semplici, se pure non comprendono il senso di questa grave tristezza. Solo i poveri di spirito hanno desideri tenaci, apprezzano la durabilità e si appendono al proprio cuore come ad una forca. Ma chi possiede immaginazione, chi può e vuole rinnovare sé stesso, ha sempre il logico timore che un sogno si disperda in cenere quando esso diventa realtà. Siamo tristi vedendo che ogni cosa tramonta, nella fredda vita. Eppure le rose nascoste ancora fioriscono dai fragranti rosai; nella terra il seme di domani sta per nascere; solo una cosa è bella nel mondo, solo una cosa è giovane intramontabilmente: la poesia di ciò che va oltre. DA VERONA GUIDO dal romanzo: LE CANZONI DI SEMPRE E DI MAI Editore Dall’Oglio 1956 Oso dire che nove uomini su dieci muoiono senza aver mai conosciuto l’amore, la vera disperazione dei sensi. Per amare, per sapere ciò che questa parola può racchiudere di paradisiaco e di infernale, bisogna essere qualche dito al di sopra, o se preferite al di sotto del tipo normale. Soltanto gli esseri d’eccezione hanno veramente amato; per questo il loro amore assume spesso forme che la morale media disapprova e non può comprendere. Occorrono due veri poeti dell’amore per comprendere quali profondità può raggiungere questa parola così lieve. Credo che per i veri sensuali, cioè per i mistici del piacere, l’amore sia filosofia pura; una loro maniera, forse la più lirica e la più semplice, di comprendere, di approfondire l’infinito mistero delle cose. ********************************************************************* DE ZERBI ROCCO 1843 1893 Descrittore sempre eccezionale. Le sue donne sono affascinanti e nevrotiche; i suoi uomini sono sognatori, artisti, pazzi o poeti. Con la sua psicologia profonda e dissolvitrice, con il suo misticismo che sfiora l’ateismo, con la sua analisi di ambienti stravaganti e situazioni estreme. DE ZERBI ROCCO da: OMBRE NEL CUORE Editore Aliprandi 1924 Nessuna ragazza più di lei innamorata del cielo e capace di comprendere l’estasi religiosa, e nessuna più guazzante nella corruzione. Ora pazzamente gaia, ora straziante e afflitta; un giorno elegante e un giorno spettinata e mal vestita; carezzevole e sprezzante. Oggi seriamente decisa a uccidersi per un uomo, domani, solo perchè egli l’ha trascurata per un minuto, diventa indifferente come se non lo avesse mai conosciuto. Mondana ed eterea, nervosa sempre; sempre ad altissima temperatura, sempre esaltata, sempre in do diesis; acuta, trafiggente, questa era Fucsia. Le sue giornate erano come aurore boreali, abbaglianti ed umide, rosse e fredde, delle quali non ce n’è una che somiglia all’altra. Di lei un uomo poteva sentirsi nemico, poteva odiarla, ma non poteva annoiarsi; poteva allontanarsi ma non dimenticarla. Quando Dio dà una natura come questa a uomo, gli dice: “Sii poeta o artista.” Quando la dà a una donna le dice sorridendo: “Contentati di amare un uomo solo, se puoi...” *************************************************************************** FERRONI FERRUCCIO Verona nato??? Morto??? Dalla raccolta di racconti: CRONACHE DEL VICOLO Edizioni La Prora 1939 Ottobre sta per finire. L’aria del vicolo si è fatta più frigida; il sole giù all’orizzonte nemmeno più si specchia nelle finestre alte, al tramonto. C’è come un silenzio nuovo. Risaltano i rumori dell’acqua, quella scorrente nei camerini e il tic-tac della goccia che cade nella vasca di pietra (quella vasca, un rozzo abbeveratoio che serviva per i cavalli, quando il convento aveva la diligenza per il collegio). Le finestre sono quasi sempre chiuse e le voci che si sentono sono così smorzate da sembrare lontanissime. Come una scoperta si vede adesso la signora Ugolini ai fornelli; quando sono le cinque bisogna accendere la luce e dalle tendine leggere tutto traspare. Quando è giorno sereno tutto acquista un’aria pulita d’acquerello; su in alto la striscia di azzurro è tagliata ancora da qualche grido festoso d’uccello, o dal rombar di un aeroplano mattiniero che ha l’elica lucente come una stella. FERRONI FERRUCCIO SEGRETI DELLA SERA Alle sette di sera, sotto il cielo d'un blu fondo, in¬cominciano a scintillare le vetrine del centro e la gente si affretta alle ultime compere: è l'ora degli antipasti e dei barattoli di marmellata, con lo spaz¬zacamino che aspetta di fuori. Si gusta già il tepore della casa anche se la stufa non è ancora accesa. I pensieri dell'ufficio hanno un cielo di campane umi¬de e precipitose, come di sagra in collina. Non ci si fa quasi caso, ma per le vecchiette sparpagliate nei vicoli bui è un'altra faccenda: anche se nell'aria si ritrova un po' di Natale anticipato è una malinconia perchè queste campane significano che le chiese si chiudono prima, significano lo sfratto innanzi tempo dai quieti firmamenti di candele intorno agli altari, e proprio ora che le fiammelle davano un poco l'il¬lusione del riscaldamento. Le povere vecchiette della sera di ottobre non hanno nemmeno più il conforto del gruppo estivo che era a metà vicolo: sedie su, sedie giù dal marciapiede con un correre inquietante di bambini mescolati con i gatti. Era una specie di teatrino il gruppo che stava a prendere la boccata d'aria e le vecchiette si consolavano perchè il lumino sulla credenza della cucina a pian¬terreno era testimonianza di buoni cristiani da passar¬ci in mezzo senza il timore dello scherzo; perchè le vecchiette hanno, con l'odio delle automobili, anche questo vivissimo terrore dello scherzo. Ora non resta che l'incubo degli uccellacci not¬turni appollaiati sul grande albero che manda in fuo¬ri i suoi rami da sopra il muro del parco che fu forse un cimitero. Povere vecchiette che hanno da pensare soltanto all'anima ed alle macchinette a spi¬rito per farsi un caffè. Ma no, qualcuna sa conservare segrete capa¬cità di gioia e trovare giovanile motivo di vita nello scoprire che quello che vende i biscotti fu già candido venditore di gelati; e che il carrettino della zucca fumante è precisamente quello delle angu¬rie rosse dell'estate! Peccati, peccati delle vecchiette nelle sere d'ottobre. FLORA FRANCESCO Colle Sannita Benevento1891 Bologna 1962 Martellante critico della società, della religione, del potere. Da: MORTE DI RE SGORBIO Edizioni Leonardo Firenze 1954 L’edificio politico-religioso poggia sulle nuvole, ma non sarebbe più solido se poggiasse sul granito, perchè nulla è più eterno, sulla terra, della menzogna e della credulità. Ora rifletti: se l’umanità ha fondato tutta la sua vita sulla menzogna, ciò significa che la menzogna è indispensabile alla sua vita. Se l’equilibrio politico e sociale ha per fulcro la menzogna, ciò significa che distruggendo questo fulcro l’equilibrio si spezza e la società precipita nel caos. Gli adoratori della Verità, così come i nudisti, sono degli inconseguenti. Se l’uomo, che è nato nudo, mette ogni impegno a procurarsi dei vestiti (anche laddove il clima non lo richiede) ciò significa che egli ha orrore della propria nudità. Se l’uomo, dopo aver assaporato il frutto dell’albero della Verità, mette ogni impegno a scordarne il gusto, ciò significa che egli rifugge dalla verità. Preti e politici sono le due colonne che reggono il nostro tempio sociale. Guardalo: è un edificio decoroso, armonico, solenne, accogliente; costruito dalla sapienza e dalla esperienza millenaria dei suoi sacerdoti. Ricercare e propagare la verità significa abbattere queste colonne, distruggere il tempio e gettare i materiali alla rinfusa, nel caos da cui furono tratti faticosamente; significa risospingere l’umanità a ritroso sul cammino percorso; significa costringerla a ricercare un altro itinerario al proprio istinto di mentire; costringerla a costruire un altro sistema di menzogne che forse non varrebbe l’attuale. La Verità è distruttiva; solo la menzogna è costruttiva, perchè risponde a un istinto e appaga un bisogno degli uomini. Gli apostoli della verità sono i più pericolosi nemici dell’ordine sociale, e come tali vanno trattati. Essi sono dei mediocri, perchè nulla è più facile che spogliare i fatti dei loro vestimenti sociali e presentarli nudi, come dovrebbero essere in un mondo che non è mai esistito e mai esisterà. *********************************************************************** FRACCAROLI ARNALDO Villabartolomea 1883 Milano 1956 Un suo bel racconto è ambientato alla Fiera di Lonigo. Da: RAGAZZE INNAMORATE Editrice Vitagliano Milano 1920. “Andate alla Fiera, eh ragazze?” “Andiamo a comprarci l’innamorato.” “State attente!” “Altro che attente! Lo vogliamo garantito. E con tanti campi, con tanti buoi e tanti confetti per le amiche.” Era il 25 Marzo e scendevano tutti alla fiera di Lonigo: la fiera della Madonna. Le ragazze erano partite presto per essere giù alla cittadina verso le otto e avere il tempo di vedere tutto e farsi vedere da tutti. Si erano vestite bene per questo, con i corpetti dai colori più languidi che stringevano petti sodi e promettenti; con le gonne pieghettate e grandi sciarpe di seta e di lana con tante frange; e un fiore sui capelli e pesanti orecchini d’oro. Belle figliole, con fianchi vigorosi e il seno fremente a ogni passo sotto la stretta del giubbetto. Avevano le facce brune o rosse con gli occhi vivi e in tutta la loro persona c’era un’aria di spavalderia e di provocazione, come per dire: “Avanti, chi ha coraggio.” Una lo aveva già trovato l’uomo col coraggio: un contadino che certo la aspettava in paese e che avrebbe fatto da cavaliere. Le amiche lo sapevano e ogni tanto dicevano: “Attenta, che se ti vede tuo padre vi sposa subito tutti e due con il bastone!” ********************************************************************** GATTI ANGELO Napoli 1875 Milano1948 RACCONTI DI QUESTI TEMPI Editore Mondadori 1935 Tratto dal racconto AVVERBI Due amici, Carlo e Alessandro, passeggiando parlano di problemi filosofici. Nell’oro del tramonto, l’acqua in cui scintillando e lampeggiando si tuffava il sole, stimolava i ricordi e i desideri. L’acqua è fatta per le partenze, vere o fantastiche, verso luoghi lontani, cari o sognati. Al solito, Carlo discorreva con l’amico Alessandro. “La nobiltà e la grandezza degli uomini” diceva Carlo che discuteva volentieri di questioni filosofiche “ sono innegabili. Tu ed io abbiamo viaggiato in tante parti del mondo. Non c’è paese in cui lo spirito non si affermi. La terra intera è un altare su cui l’uomo, dalla sua comparsa, ha cercato e celebrato ansiosamente Dio. E, mentre aspirava alla perfezione finale, l’uomo si è industriato, col pensiero e con l’opera, per dare giustizia, bellezza e stabilità agli ordinamenti della terra. Possiamo affermare che in fondo, l’uomo è buono.” “Cose grandi” disse Alessandro. “Pertanto...” “Capisco” interruppe vivacemente Carlo. “Vuoi dire: pertanto l’uomo si serve di Dio solo quando ne ha bisogno, e per gli affari più strani. Già, già. L’uomo ha massacrato tanti nemici, vivi o messi al rogo, con la scusa di adorare Dio. E anche nel tanto vantato incivilimento, molte cose zoppicano. Ma non dobbiamo giudicare l’uomo dalle manifestazioni esteriori, spesso deformate per molte ragioni. I pensieri e i sentimenti, passando dall’uomo nel mondo, rassomigliano ai bastoni immersi nell’acqua, che sembrano spezzati e non lo sono. L’uomo bisogna considerarlo da solo; la moltitudine lo corrompe. Da solo ama e ammira la virtù. Credimi, in fondo l’uomo ha una coscienza...” “Cose grandi.” Ripetè Alessandro “Sebbene...” “Sebbene non si direbbe. Uhm... già, già. Gli uomini e le donne che abbiamo conosciuto non sapevano neanche cosa fosse il pentimento e il rimorso. Questa è la tua opinione. Non posso darti torto; la coscienza dell’uomo non è un gran che. Ma l’uomo non ha soltanto la coscienza; ha, per fortuna, anche l’intelligenza. E che miracoli ha compiuto l’intelligenza! Rispondimi qui. Il cammino del progresso è smisurato. In fondo, l’uomo sta rifacendo il mondo.” “Cose grandi. Tuttavia...” “D’accordo. Tuttavia potrebbe rifare il mondo con la medesima intelligenza e con maggior amore. Negli anni della guerra, quando andavamo a Rio de Janeiro sulle nostre navi, abbiamo rischiato di venir colati a picco dai più ingegnosi sottomarini. E non ci avrebbe consolato il sapere che questi sottomarini viaggiando e tornando dal Belgio a Terranova, non avevano bisogno di rifornirsi di nafta, tanto erano perfetti. Consento dunque con te, e ammetto che l’uomo spesso si serve male del suo ingegno.” Un carro di cavolfiori passò in mezzo alla strada deserta; il conducente, un contadino dalla faccia di legno, camminava dondolandosi a fianco del cavallo. Un giovanotto strisciò accanto al carro; pareva un operaio. Stese la mano, prese un cavolo e via, continuò la sua strada col cavolo rubato sotto la giacca. Carlo mandò giù un po’ di saliva; Alessandro si lisciò i baffi. “Uhm” riprese Carlo. “Già, già. L’uomo si serve male del suo ingegno. Qui però affrontiamo uno dei misteri più profondi del nostro destino. Il bene va col male; e alcune doti o virtù generano con indifferenza sia il bene sia il male. Amico mio, tu sai come io creda in Dio. Un maestro di ballo come me ne ha viste troppe per non crederci. Ma avrai notato che più gli uomini e le donne sono forti e belle, più facilmente commettono il male, sia pure senza sapere o volere. Si direbbe che la violenza e la crudeltà siano forme dell’energia vitale. E che l’uomo e la donna debbono accettarle come prezzo della bellezza e della forza.” “Cose grandi” rispose Alessandro. “Però...” “So quel che vuoi dire. Però è una ipotesi orrenda. Rallegrati: aggiungo che non è una ipotesi esatta. Quanta gioia e quanto coraggio ci danno le nostre donne belle e buone: la tua Marianna, la mia Olga. E quanto bene fanno, quanta bellezza creano gli uomini intelligenti e forti. Dopo tante avventure, tante speranze e tante delusioni, due o tre opere tue, Alessandro, rimarranno vive per il piacere e la commozione dei posteri. E i miei allievi Pavlova, Karsavina; spiriti immortali della danza, innovatori dell’arte. Ecco il nostro premio: noi non moriremo interamente!” Per qualche minuto ognuno degli amici inseguì i propri ricordi. Distese di mari e catene di monti; città piene di fiori e città coperte di neve; palcoscenici fastosi e sale di alberghi si formarono e sformarono nel loro cervello. Carlo si ricordò del ballerino Nijinski, già impazzito, quando andò a trovarlo all’ospedale. E Alessandro rivisse la notte in cui Cleo si era calata in mare dal finestrino della nave, forse perchè era ubriaca, o nauseata da quella vita d’inferno. Poi Alessandro si riscosse e disse: “Cose grandi. Pure...” “Pure, sì, pure... Pure avremmo potuto, come tutti, fare meglio e di più. Può essere e anche non essere. Noi siamo gli eterni insoddisfatti; e questo è il segno della nostra nobiltà. Ma giriamo lo sguardo attorno, alziamolo. Soltanto se ci consideriamo parte di un tutto, infinito e incomprensibile, possiamo giudicare il nostro destino. Alessandro, non lamentiamoci di aver vissuto: in fondo la vita è...” La sera si allargava, lieve e dolce, e lo spirito andava lontano per quello spazio infinito e in quella chiarità delicata. Pure era la sera: e la luce stava per spegnersi, e quelle forme si sarebbero a poco a poco confuse, quei colori sbiaditi, quel movimento acquietato. Tutte le cose, uomini e animali avrebbero posato stanche e piene di tristezza. Ciò che era stato bello e vivo sarebbe diventato opaco e fermo; il caduco era il fondamento dell’eterno “La vita è cosa grande. Ma...” ribattè l’incorreggibile Alessandro. E i due amici continuarono a passeggiare e a discorrere in questo modo. *************************************************************** GAZZANIGA RODOLFO Questo ottimo Scrittore non è citato in nessun Dizionario degli Scrittori Italiani. Eppure i suoi libri esistono, pubblicati da un grande Editore: Vallecchi di Firenze. RODOLFO GAZZANIGA RAGAZZO ALLA FINESTRA Editore Vallecchi Firenze 1940. Raccolta di racconti. Tratto dal racconto AVVENTURA NOTTURNA Lunga o breve, semplice o complicata, piatta o ricca di avvenimenti, ogni casa ha la sua storia: dal palazzo che ha lottato contro i secoli e li ha dominati giungendo, dopo aspre battaglie, fino a noi; dall’antico casttello alla bicocca costruita senza arte, unicamente per dare rifugio all’uomo. Tutte le case hanno vissuto tragedie, drammi o anche soltanto commedie prive di un finale degno di nota. Palcoscenici messi insieme da architetti inconsapevoli hanno veduto svolgersi, sotto la regia del Destino, le vicende più disparate, a cui è toccato talvolta il plauso o la riprovazione della folla, ma che il tempo ha cancellato poi dalla memoria di ognuno. Dunque le case vivono, ma forse occorre un soffio di magia perchè tale mistero ci sia rivelato, affinchè la notte sollevi il velo che protegge questi segreti. Sussurri, lamenti, discussioni, soliloqui. Cento farse, commedie e piccoli drammi che conservano ognuno il proprio carattere e la propria fisionomia. *********************************************************************** GOTTA SALVATORE Montaldo Dora 1887 Rapallo 1989 Un suo romanzo tratta il tema dell’Artista incompreso dalla donna che ha sposato. La moglie Lalla non capisce il marito Andrea, musicista, e dopo un litigio Andrea va in salotto e suona il pianoforte. Salvatore Gotta dal romanzo: DI LA’ DAL FIUME C’E’ UNA DONNA Editore Elmo 1945 Lalla ascoltava la musica che continuava sempre acrobatica e violenta, ad accordi, ad arpeggi, a scale rapidissime, volanti, picchiettanti, a note legate, a note staccate, per tutta la gamma della tastiera. Si sarebbe detto che il demone della musica si fosse scatenato nella casa d’improvviso, come una ventata di follia. Tutte le stanze parvero colmarsi di quello spirito diabolico e meraviglioso, di una potenza affascinante, scaturito da una personalità artistica formidabile. Ora Lalla capiva ciò che Andrea le aveva detto prima. Andrea, così scatenato nella furia dei suoni, non le apparteneva; apparteneva solo a sè stesso. Era un altro Andrea, un essere terribile e meraviglioso, capace di incantare e di far soffrire, ma sopratutto indipendente, fortissimo, feroce, irraggiungibile. Adesso Andrea sorride e Lalla sente che quel sorriso è per lei ed è come se egli le dicesse: “Ti ho offesa, ma mi devi perdonare. Ascolta; suono per te, per farmi perdonare da te. Ma tu non dovrai mai chiedere troppo. Accontentati di quello che ti dò. Ascolta, ascolta il divino Chopin! Quanto misterioso dolore! È il dolore oscuro del mondo. Solamente agli artisti è dato esprimerlo. Tu invece pretenderesti di avere spiegazione di tutto, ragionare su tutto. La tua praticità mi fa ridere.” ************************************************************************ MARIANI Mario Roma 1884 Brasile 1951 È un autore ribelle, impulsivo, focoso. Spesso è cinico, beffardo e disilluso per aver provato le brutture della vita, ma il suo animo rimane sempre umano, profondamente umano. Mario Mariani dalla raccolta di racconti LE ADOLESCENTI Editrice Sonzogno 1922. (Questo libro fu processato per oscenità nel 1919) Fra un maschietto e una femminuccia, la più intraprendente è sempre la femminuccia. E la favola dura anche quando si è grandi. E’ sempre la donna che fa quello che vuole e fa fare quello che vuole. Nonostante le leggi, i costumi, i pregiudizi. Ci sono degli uomini i quali credono di aver fatto la corte penosamente a una donna e non sanno che invece è stata proprio quella donna che li ha guardati, scelti, voluti e che, senza parere, si è fatta fare la corte a modo suo, così e così, da qui fino là. Tu certo, Rossella, queste cose le sapevi già allora. Perché una donna sa nella culla quello che un uomo non sa ancora presso la bara. MARIANI MARIO dalla raccolta di racconti LE SORELLINE Editrice Sonzogno 1960 LUI: “Cantiamo assieme l’alba lunare. Vorrei fermare i tuoi sogni nella cornice della mia volontà, tenerli nel mio pugno chiuso o stretti fra i denti. Ma i tuoi sogni sono cerbiatti spauriti che fuggono all’impazzata per ogni dove”. LEI: “Fuggono per essere liberi. Vorresti forse metterli al guinzaglio?” LUI: “Io no. Rinnegherei la mia verità. Ma restando eternamente inchinati davanti alla propria verità ci si scortica i ginocchi”. LEI: “E’ il chiaro di luna che ti fa male, che ti incipria l’anima. Perché ti senti le ginocchia scorticate?” LUI: “Perché certe volte, provo la nostalgia di quello che ho distrutto. E la mia rabbia maggiore è questa: che non sono stato io a distruggere; io ero soltanto una risata di cui si servivano il tempo e il destino. Sono stato uno strumento dentro cui soffiava un demone o un dio ignoto. Eppure sono felice, perché so che alcune mie parole hanno accoppato più sentimenti falsi e più idee morte di quel che non abbia accoppato uomini il cannone. Sono felice perché ho servito la mia verità. Ma certe volte…” LEI: “Certe volte?…” LUI: “Sì. A che serve mentire? Anche il non-mentire è una mia spinosa necessità. Però, a volte, quando incontro la rasoiata del mio riso sulla bocca degli altri e so di averlo formato io quello sfregio di sarcasmo, provo una grande pena.” LEI: “Bisogna che gli uomini imparino a sopportarla quella pena e a non soffrirla più, per essere meno tristi”. LUI: “Lo so: l’ho detto io.” LEI: “E allora, che cosa vorresti? E da chi?” LUI: “Forse da te. Ho corso un mare troppo tormentato. Sono stanco di dolore e di piacere. Sono affamato di serenità. Vorrei che non soltanto il tuo corpo giovane ed elastico fosse mio, ma anche i tuoi pensieri e i tuoi sogni. Vorrei che quando mi posi la testa sul cuore e chiudi gli occhi, non nascesse sotto le tue palpebre chiuse nessuna immagine straniera.” LEI: “Tu vorresti la rosa azzurra, il fiore che canta, l’uccellino che parla; vorresti quello che vuole l’umanità bambina, l’umanità che tu hai provato a disincantare.” “LUI: Sì. Vorrei credere anche io nell’impossibile sogno dei millenni. Vorrei addormentarmi una sera sull’amaca di una vecchia, rosea menzogna.” MARIANI MARIO dal romanzo POVERO CRISTO Editrice Sonzogno 1947 Focolare domestico! Menzogna inutile, senza scusa. Carcere volontario. Tragedia soffocata, muta come il passo sui tappeti, come i vellicamenti sotto le tavole, i baci dietro le tende, i sussurri negli anditi bui. Ombre lunghe, sulle tappezzerie, di cattiverie e di tradimenti, di odi senza nome. Pane sozzo, avvelenato. Commedia sempiterna e ripugnante del sentimento, dell’affetto, dell’amore, della bontà. Focolare domestico! Stasera hanno acceso il ceppo o la schiampa, nel caminetto. E il legno crepita. E le monachine cercano la libertà verso le sorelle maggiori: le stelle. C’è un alberello di Natale nella stanza grande carico di orpelli e fantocci e frutti falsi. Tutto falso. La fiamma illumina sorrisi di maschere. Focolare domestico! Tutti raccolti intorno. Si benedice ai capelli bianchi della nonna che fu sgualdrina ai suoi tempi ed ebbe tanti amanti quanti ha ora capelli bianchi. Ilarità della fiamma! Si benedice alle virtù della sposa che si pavoneggia e coglie, nella confusione, l’occasione per dare un appuntamento all’amico che è fra gli invitati. Ilarità della fiamma! Si brinda al padre e alla sua integra vita ed egli, un po’ brillo, pizzica le parti molli della serva. E sogna cambiali false. Ilarità della fiamma! Si sussurra della virtù e dell’innocenza delle bimbe che intanto inseguono, lungo gli oscuri corridoi, i maschietti che hanno avide dita. Ilarità della fiamma che illumina sorrisi di maschere. Commedia inutile. Ipocrisia vana. Ciascuno inganna e si illude di non essere ingannato. E pretende di non essere ingannato. Tragedia dell’egoismo, orgia dell’imbecillità. E nessuno che abbia il fegato di constatare: ma siamo tutti così! E facciamo il comodo nostro! E non insultiamoci più! Focolare domestico: marchio di Caino, farsa di Betlemme. ****************************************************************************** MORSELLI ERCOLE LUIGI Pesaro 1882 Roma 1921 Questo breve racconto, bello e originale, è degno di Poe, ma è ancora più profondo e umano. Fino al 1960 arrivavano nelle fiere i baracconi con all’interno persone fuori dal normale: la donna cannone; la donna barbuta; l’uomo elettrico; il gigante, eccetera. Questo racconto è ambientato appunto in una fiera paesana. Due innamorati entrano in un baraccone dove sta esposto un fenomeno umano. L’uomo e la donna reagiscono e giudicano in maniera differente, mettendo in luce così le differenze del loro mondo interiore. La meraviglia funge da test di Rorschach per portare alla luce emozioni sepolte e incontrollabili. Il tema del racconto è quello della sofferenza e del dolore, dell’ineluttabilità di un destino capriccioso e beffardo di cui noi siamo in balia, senza possibilità di controllo. Ercole Luigi Morselli da: LA DONNA-RAGNO. nella raccolta di racconti: STORIE DA RIDERE E DA PIANGERE Fratelli Treves Editori 1919 “Favorite, favorite, signori, senza timore alcuno! Non si può lasciare questa fiera mondiale senza avere ammirato la mera¬viglia scientifica del secolo ventesimo, la donna¬-ragno vivente e parlante, come dimostra la fotografia qui esposta al rispettabile pubblico. Testa di donna bellissima, corpo di ragno al naturale! Si sincerino se non credono con la meschina moneta di quattro soldi! La verità è luce e non si può negare, nè tantomeno falsare! Si nutre esclusivamente di mosche vive: assi¬steranno al suo pasto! La più grande meraviglia ¬medica del secolo!! Questa è l'ultima infornata, poi si chiude, e domani si parte per l’America....” “Senti, Peppino? Domani partono per l'America, ¬bisogna vederla.... ormai ne hai spesi tanti...” Appunto perchè ne aveva spesi tanti, il bel Peppino, tutto lustro e lieto nella fresca uniforme di cavalleria Piemonte Reale, non pareva avesse troppa voglia di spenderne altri. ¬Così, si cercava l'orologio nella tasca dei pantaloni, e tentennava; ma la sua Armida lo guardava in un certo modo che sapeva lei, proprio da tentare un santo, coscchè quando a Peppino cascarono gli occhi su quel viso, invece di cavar fuori l'orologio, cavò fuori lesto il portamonete e ci guardò dentro per vedere quanti gliene erano rimasti. Quella ben¬edetta fiera lo aveva rovinato. Quasi tutte le dieci lire che si era messo in tasca uscendo dal quartiere, erano svanite come fumo. Sfido io: avevano voluto vedere il circo equestre nei secondi posti, il serraglio nei primi, poi i cavalli nani e sapienti, poi avevano voluto andare sull' altalena e anche sul carosello degli aeroplani; e alla fine avevano buttato via anche due lire alla Pesca Reale senza vincere nemmeno uno stuzzicadenti.... Troppo giusto! Come si fa a tentare il giuoco quando si è così fortunati in amore?... Ma intanto i quattrini erano andati: e anche quelli erano stati tolti dal gruzzoletto messo da parte per sposare la sua bella Armida, appena congedato.... Se seguitava così, che sposalizio magro, mamma mia! Però tutte queste cose le pensò soltanto; e di sfuggita, quasi di nascosto, e diventando tutto rosso, mentre col braccio già infilato nel ¬braccio di Armida, saliva gli scalini di legno del baraccone e comprava i due biglietti per entrare. Un gruppo di donne anziane, spor¬che, trippute e urlone, esclamarono al loro passaggio:¬ “Questa si chiama una bella coppia! Se ne vedono poche così in questi tempi!” Peppino udì, e per la gran contentezza invece di due monetine da venti centesimi diede al bigliettaio (ahimè!) un nichelino e una lira; la penultima che aveva in tasca.¬ Poi scomparve dietro una tenda di velluto rosso frangiata d'oro, supe¬rando, quasi, l'inverosimile rumore del grande organo con lo sbatacchio ferreo del suo squadrone.¬ Dentro c'era ancora pochissima gente, cosicchè Peppino e Armida poterono appoggiare i loro gomiti alla balaustrata di legno quasi dinanzi alla meraviglia scientifica del secolo vente¬simo. Veramente Peppino ne appoggiò uno solo di gomiti, poichè l'occasione gli parve propizia per allungare dolcemente la sua de¬stra sulla cintola di Armida. Crepassero pure di invdia quelli che sarebbero venuti dietro! I due innamorati guardarono per un minuto il fenomeno, tutti due a bocca aperta; ma a un tratto Armida, stringendosi tutta al suo Peppino, esclamò forte: “Che mostro, Madonna mia! Nel ritratto il viso è meglio!” Il fenomeno girò gli occhi rapidamente verso di loro; ma poi subito li abbassò sui loro piedi e li tenne fissi lì con un'espressione bestiale e distratta. “Fortuna” fece Peppino “che chissà di che paese è!... Ma non si dicono così forte queste cose. Si passa per quello che non siamo. È vergogna!” “Accidempoli!” ribattè Armida con dispetto, “che rimprovero serio!... O che per caso ti saresti innamorato di quel bel parrucchino?!” La povera creatura semiumana che essi guar¬davano con uguale meraviglia (ma lui con sincera pietà, lei con un ribrezzo suo malgrado un po' cattivo) era esposta sopra una rete di cordoncino intelaiata; e certo doveva essere stato un esperto sebbene volgare conoscitore del cuore umano, colui che le aveva camuffato da enorme tarantola il corpiciattolo nano e privo di arti, sbizzarrendosi poi ad abbellire la sua grossa testa senza sesso nè età a furia di belletto, di pennello, nonchè di pettinucci brillantati e di nastri di raso sparsi a profusione sopra una morbida e inanellata parrucca bionda. Forse appunto di qui nasceva la diversità di commozione nei due giovani cuori di Peppino e di Armida. Lui, come più esperimentato al dolore e con lo sguardo profondo dalla recente quotidiana dimestichezza con la morte giù nelle spiaggie libiche, sapeva intuire quanto di tragico si nascondesse sotto quella volgare civetteria da trivio imposta a un miserabile piccolo otre vivente, senza braccia, senza gambe, senza parola forse, senza volontà, senza difesa, senza protezione, maneggiato a suo piacere da un qualche bestiale padrone. Armida, leggera e superbetta, schiva di ogni ricercatezza perchè sicura di esser molto bella, sentiva, sia pure contro sua voglia, di fronte a quella disgraziata creatura, quasi un po' di quel puge¬nte disprezzo che la faceva esclamare ad ogni passo, per via: “Guarda un po’ quella, Pep¬pino! Che se la metterà a fare tanta vernice sul viso? Brutta è, e brutta rimane!” Ora, se Peppino fosse stato altrettanto sag¬gio quanto era buono di cuore, si sarebbe accontentato di osservare silenziosamente lo stato d’animo della sua amata, approfittandone per darsi in segreto qualche consiglio utile; per esempio: “All'erta, Peppino! La donna se non ama odia; inutile tentare di insegnarle sentimenti intermedi; godi, assapora, centellina la felicità di essere amato, e preoccupati soltanto di farle durare il più possibile l’amore per te. Finchè dura quello sei un re; se finisce quello, Peppino mio, sei fritto.” Ma siccome Peppino non era un saggio, non sapeva chiudersi in un filosofico silenzio di fronte alle poco cristiane espressioni della sua Armida; non poteva ammettere che la donna da lui tanto amata avesse poi sentimenti e pensieri così diversi dai suoi; non sapeva farsi una ragione che quella stessa “bocchina di fragola” fosse tanto tenera per lui, tanto dura per tutto il resto del mondo. E così, quando la sentì pronunciare quella insolente e stupida frase e soprattutto quando vide il povero fenomeno alzar d'un tratto gli occhi e questa volta arrossire, dimostrando di aver assai ben capito l'italiano, allora il buon Peppino non si potè più trattenere: “Sei cattiva!” disse ad Armida “ma cattiva proprio come io non avrei mai creduto! Ecco; bisognava che te lo dicessi, tanto a tenersele in corpo le cose è peggio... Nemmeno il gran Senusso, io dico, se gli mettessero davanti una cosa così!... E pensare che io ci piangerei! Sì; perchè ti vien la vertigine se ci pensi un poco.... a essere in cima a un monte di felicità come siamo noi, che abbiamo salute da vendere, e forza, e siam fatti come Dio co¬manda, e ci vogliamo un bene da morire, e tra settantacinque giorni ci sposiamo.... E poi invece ci debbono essere certi figli dello stesso Dio che devono vivere peggio delle bestie, buttati là come spazzatura, con tutti mali del mondo addosso a loro, senza potersi difendere, senza potere scappare, macchè! senza nemmeno un braccio per potersi levar dal mondo e finir di patire... E cosa credi? Uno nasce certe volte fatto come noi, nè più nè meno, e un bel giorno, ancora innocente, senza sapere perchè, si ritrova che non è più nè uomo, nè donna, nè bestia: un pezzo di carne che vive!... Ti ricordi, Armida, di Felìcita?... Ti ricordi di quando noi avevamo io sei anni e tu cinque e giocavamo sempre nel tuo orto e mettevamo paura al porco e quello si cacciava tra i pomodori, eh? E la tua povera mamma, buon’anima, ci faceva vedere il manico della scopa dalla finestra... Eppure, sembra impossibile, ci volevamo bene fin da allora... Pareva sapessimo quello che doveva succedere dopo dieci anni!... Ma... torniamo al discorso; ti ricordi Armida di quella povera Felìcità? Tanto buona, tanto carina, la testa tutta riccioli neri, che giocava sempre con noi? Aveva certi occhi che facevano luce! Era nata lo stesso anno, lo stesso mese, quasi lo stesso giorno di te, a tre passi da casa tua.... Vi scambiavano tutti per sorelle gemelle. Ti ricordi la paura che aveva delle mosche e dei mosconi, e noi la canzonavamo sempre... Ebbene: come fini?... Un giorno la misero a letto,eh? Noi andavamo sotto le finestre di casa sua e dicevamo: -E Felìcita?- -È malata- ¬rispondeva quell’ubriacone del suo babbo. -Ancora?- dicevamo noi. -Ancora.- rispondeva lui, e noi rimanevamo lì a guardarci e ci veniva voglia di piangere.... Ma allora eri più buona tu di me; ero sempre io a tirarti per il grembiulino e a dirti: -Via, andiamo a giocare lo stesso...- E intanto passò la bellezza di un anno senza che Felicita rivedesse il sole e noi sentivamo discorrere le donne e dire: -Quella figliola muore- -Macchè! Magari morisse, quella rimane scema. Rimane segnata da Dio, povera innocente, non l’avete vista che è tutta pancia e testa! Le braccia e le gambe, non gliele potrebbe ridare altro che Gesù....- E infatti, alla fine, un bel giorno incominciarono a metterla fuori della porta di casa, tutta avvolta in uno scialletto, dentro un cesto, all'ombra di quel gran fico, ti ricordi, bello!? dove ci eravamo arrampicati tante volte tutti e tre!... Da principio, se ti rammenti, noi la guardavamo da lontano e avevamo paura di andare vicino. Non ci pareva che potesse essere davvero la nostra Felìcita! I riccioli dove erano andati? E gli occhi? sembra¬vano bioccoli di fango sopra un viso grasso e giallo come un tallo di felce.... E poi le mosche ora le andavano su e giù per le labbra, si affollavano agli angoli degli occhi come ai bovini; e Felìcita le lasciava fare.... -Possibile che non abbia più paura delle mosche?- dicevamo noi. Poi vedemmo come stavano le cose: non aveva più braccia la povera creatura; ma quello che le mosche bevevano erano le sue lacrime!... ¬E allora ci facemmo coraggio e andammo, uno di qua e uno di là del cesto, a cacciargli via le mosche. Ti ricordi tu? A me pare ancora di vederla la risatina che ci fece, povera ¬Felìcita!... E due volte al giorno compariva la matrigna con un pentolino di pappa, vero Armida?... E veniva a imboccarla, e mentre la imboccava si teneva in grembo un romanzo con certe figure di uomini e di donne abbracciati, ti ricordi? E nella foga di leggere, qual¬che volta invece di mettergli il cucchiaio in bocca a quella poverina, glielo ficcava in un occhio. Pensa, Armida!... Ma allora eravamo piccoli, bastava che passasse una farfalla e correvamo via per i campi a ridere...¬ Ma a ripensarci ora! eh? Armida?... Fu una sera di Natale.... non me lo scordo più: stavamo al fuoco a mangiare certi confetti con lo scoppio che ci aveva portato lo zio Raimondo da Firenze, quando si seppe che quell’ubriacone del padre di Felìcita era partito a un tratto per l’Australia con quella perla rara della moglie e quel povero sacchetto vivo che era stata tanto amica nostra!... Così è la vita, Armida!... E la chiamavano la sorella tua!!... Pensa che differenza tra il destino suo e il tuo!... Pensa!... Eppure chi lo sa!... Perchè noi non sappiamo vedere altro che di fuori, altro che la buccia, intendi? E però si dice: -Che mostro è quello!- Ma per gli occhi di Dio.... quelli vedono il nocciolo, Armida.... per quelli, le nostre bellezze non valgono un fischio.... Lui guarda l'anima! E allora chi lo sa se tra un mostro come quello e te, Lui non sarebbe capace di dire: -E’ più bella quella.- Pensa!... Sopraffatto dall'impeto della sua commozione il buon Peppino non aveva visto che l'organo aveva cessato i suoi diabolici suoni, ed egli, continuando a parlare sullo stesso tono di prima, si trovava a fare una specie di orazione pubblica. Ma Peppino non si sarebbe accorto nemmeno di una cannonata! La sua Armida stava ferma come una statua col bel viso di madonna appoggiato a una mano, con gli occhi fissi in terra, e precisamente a un gran buco del tavolato dove si vedeva sotto una cagna che allattava i suoi piccoli¬. E questo era segno evidente, secondo lui, che le parole stillanti dal suo cuore innamorato cadevano a una a una nel cuore di lei come benefiche gocce del suo stesso sangue, trasfondendovi la sua dolce pietà di uomo felice. Per lui, tutto il mondo si sarebbe dovuto fermare, anzi certo si era davvero fermato e inginocchiato dinanzi a quel miracolo di Armida¬ che si ravvedeva! Figuratevi se poteva accorgersi dell'organo che si era acquietato, della gran scampanata che aveva annunciato il principio dello spettacolo, del silenzio curioso che si era fatto intorno alla sua voce sonora, e finalmente dell'apparizione di un enorme uomo barbuto il quale, con la bacchetta in mano e la bocca aperta, aspettava soltanto che lui, proprio lui, si zittisse, per incominciare la sua grande spiegazione scientifica! Qualche zelante si era già affrettato a sibilare il suo bravo: -Ssst.- Ah, sì! Tempo buttato. Peppino continuava: “Pensa Armida...” Ma qui si fermò di botto. Sapete perchè? Le labbra di fragola della ¬sua Armida si erano mosse come per voler parlare. Egli stava dunque per avere la prova del miracolo compiuto! “Che vorrà dire?” pensava. “Certo saranno parole d’oro che me le ricorderò cent'anni!...” Che momento sacro! E la bocca di Armida infatti parlò e disse: “Ma sta zitto, stupido!” Il tonfo che fece il povero cuore di Peppino, cascando dall’ideale nel reale, quasi si sentì! Qualche timido sghignazzamento qua e là lo fece imbiancare d'ira; ma le prime parole dell’omone barbuto che furono: “Adesso possiamo andare a incominciare....” lo fecero arrossire di vergogna; e allora si avvicinò al viso duro e ancora fisso in terra di Armida e sussurrò mestamente: “Hai ragione.” Intanto la grande spiegazione scientifica procedeva a gonfie vele. I nomi più strani e più inesistenti di mondiali celebrità mediche la infioravano; ma nè Peppino nè Armida avrebbero mai udita una parola, così scombu¬ssolati com'erano ognuno per suo conto, se un fatto inaspettato non fosse avvenuto. Uno dei curiosi di prima fila, a un tratto interruppe violentemente il gigante barbuto, indicando la donna-ragno e gridando: “Piange! Guardate se non è vero che piange! Padrone, diteci un po’ perchè piange?” L’omone, sebbene seccatissimo di essere in¬terrotto sul più bello, stimò essere giocoforza accontentare il rispettabile pubblico. Si voltò dunque con un cipiglio burbero a guardare il fenomeno il quale lagrimava infatti sudicie lacrime, lavandosi del nero e del rosso che gli coprivano le palpebre e le gote. “Avete fame?” tuonò l'uomo, e senza aspettare nessuna risposta continuò a rivolgersi al pubblico: “La mia donna-ragno ha fame, onorevoli signori! Allora anticiperemo il suo pasto, così avranno la fortuna di ammi¬rare con quale ingordigia essa divori le mosche che, come già ebbi l'onore di dire, compongono esclusivamente il suo cibo commestibile!” Un vecchio, di novant'anni almeno, recò un bicchiere dove erano rinchiuse alcune mosche. L’omone lo prese, ne fece entrare due o tre nel suo enorme pugno, e alzandolo gridò: “Attenti, signori! Ammirino la destrezza con cui essa prende al volo questi animali!” e buttò la sua manciata, mirando ben diritto alla bocca del fenomeno. Ma, con straordinaria sua meraviglia, le mosche sbatterono contro due labbra serrate come quelle del Silenzio. Si vide benissimo che il primo impeto dell’omaccione sarebbe stato quello di massacrare con una manata quell'infelice ribelle. Ma aveva fatto in tempo a contenersi rimandando forse in cuor suo la punizione a più tardi. Conosceva l’umore del rispettabile pubblico che quotidianamente truffava, e sapeva sempre in ogni caso carezzarlo per il verso del pelo: “Lor signori hanno potuto vedere con i loro stessi occhi!” gridò. “Il mio fenomeno vivente rifiuta il suo pasto commestibile del quale è ghiotto come noi dei tordi arrosto; ma non devono credere per questo di essere stati truffati nella loro giusta esigenza di individui che hanno pagato il loro biglietto d’ingresso. Anzi: tutt'altro, signori miei!! Se potevo saperlo prima un fatto simile, li facevo pagare biglietto doppio!!... Altrochè! Proprio così!!... Loro hanno la invidiabile fortuna di trovarsi ad ammirare il mio fenomeno mondiale in uno dei momenti più caratteristici della sua vita, quello cioè che diede tanto da pensare al dottore Maronoff dell'Università di Pensilvania che ci scrisse sopra dodici volumi. Quel grande scienziato ha scoperto che quando la mia donna-ragno piange e nel medesimo tempo rifiuta il suo cibo commestibile preferito, questo è segno sicuro che essa è presa da un terri¬bile male che un giorno certamente la ucciderà: questo male è la nostalgia. La nostalgia delle terre vergini dell'Australia nelle quali nacque e visse i primi anni della sua vita allo stato puramente libero e bestiale. Là, tra le liane secolari, tendeva le sue tele per acchiappare i famosi mosconi australiani che hanno il ventre grosso come un uovo di piccione e la testa come un cecio; là fu ritrovata e catturata dal celebre viaggiatore Stankey nel suo ultimo viaggio. Quando il fenomeno vivente è preso dal suo terribile male, non solamente non mangia, ¬ma neppure parla. Se vi è qualcuno tra lor signori onorevoli che l'abbia ascoltata mezz’ora fa nell'altra mia rappresentazione, quando rispondeva francamente alle mie domande svariate,¬ la vedrà ora al contrario che tacerà ostinatamente. Ecco che col beneplacito di lor signori andiamo ad effettuare la prova di quanto affermato. Grògrò! Quanti anni avete?... Grògrò, in quale foresta dell'Australia siete nata?... Lor signori vedono che la mia previ¬sione scientifica non si smentisce; posso tut¬tavia insistere ancora nelle mie domande perchè si sincerino sempre più. Su! Grògrò, da brava! Guardate in faccia il vostro padrone!... Perchè state con la testa voltata in là?... Ah! Ah! Vi piace quel bel soldatino con l’elmo d'oro?... Però mi pare che la fidanzata ce l’abbia già, e bella!!” Più di mezza sala rise a questa nauseante spiritosaggine, e l'omone, incoraggiato, continuò ficcandosi le cinque dita della sua sinis¬tra dentro la gran barba riccia e toccando leggermente con la sua bacchetta la groppa del fenomeno: “Grògrò! Dico a voi! Siete diventa anche sorda?! Non volete salutare almeno questo rispettabile pubblico che vi ammira? Su, da brava!...” Intanto Peppino e Armida, sebbene fossero ¬diventati rossi come due braci dalla vergogna, non trovavano la forza di scappare perchè i loro quattro occhi accesi erano ormai incatenati a quelle due spente pupille, impozzate nelle lagrime, che li fissavano, li fissavano ancora e sempre, con una irresistibile misteriosa ostinazione. “Grògrò!!” tuonò l'omaccione accompagnando la voce con una bacchettata un po’ forte sulla testa; “O nostalgia o no, dovete ubbidire lo stesso al vostro padrone! Questi onorevoli sognori sogghignano, non credono che voi abbiate il dono della parola. Io voglio perciò che voi pronunciate il vostro nome col vostro puro accento australiano. Avanti....” Senza mai levare gli occhi dai due innamorati¬ la donna-ragno sforzò le sue labbra sottili ed aderenti, come si fa con una ferita mal cicatrizzata ¬per farla rigenerare, e disse con voce stridulae e gorgogliante: “Felìcita.” “Che diavolo dice la bestia?” ruggì il padrone¬ alzando la bacchetta: ma quasi all’istante stendendola trionfalmente sulla parrucca del fenomeno, esclamò: “Hanno udito? Ha detto Felicità!... Invece di dire Grògrò ha creduto bene di fare un augurio a tutti loro signori onorevoli, e forse specialmente ai due bei sposetti.... ma dove sono andati?... Ah! sono laggiù.... Che è suc¬cesso?... La sposina è svenuta... il soldato se la porta in braccio... Per quattro soldi avete visto il ratto delle Sabine!!...” ************ ***************** Per fortuna alla farmacia non avevano voluto essere pagati, e il tassametro non aveva passato la lira e mezza, cosicchè Peppino potè far di¬scendere dalla carrozza la sua Armida, già rin¬venuta anche più del bisogno, proprio dinanzi al portone della casa dove essa lavorava come cameriera, invidiosamente ammirato da due o tre brutte serve che scherzavano col figlio del portiere, fante arruolato. Peppino infilò gloriosamente l'androne tenendo nella sua mano destra il braccetto rotondo di Armida, e salì, come era solito fare, il primo ramo delle scale per arrivare a una certa nicchia senza statua dove tutti i giorni si fermavano per dirsi addio il meglio possbile. E, salendo, parlava. Da quando aveva visto rinvenire la sua innamorata nella farmacia di Piazza Guglielmo Pepe, forse per la gran gioia, forse credendo che ci fosse bisogno di tenerle sollevato il morale, aveva incominciato a parlare; a parlare di un monte di cose a casaccio: del tempo che passa presto anche quando pare di no; del puzzo dell’etere; di quando tre mesi prima si era svegliato lui e si era ritrovato in una gran pozza di sangue abbracciato alla testa del suo cavallo morto; di suor Nicoletta e di suor Pacifica che erano due angeli incarnati; dei tassametri che sono una bella cosa quando non diventano più ladri del vetturino; dei denari che quando uno li ha spesi non ce li ha più; del giorno benedetto dello sposalizio quando avrebbero avuto due bei cavalli e una carrozza da principi; della casetta¬ che li aspettava al loro paese e a quell'ora già la stavano imbiancando dalla cantina al tetto; del mal di mare che egli aveva provato nell'andare a Bengasi; dell’ Italia che ora diceva sul serio e ormai gli arabi lo avevano cap¬ito, e non solamente gli arabi.... e di altre e altre infinite cose. Quanto alla bella Armida, sospirato qualche: “Oh dio! Oh dio!” appena rinvenuta, poi non aveva più fiatato. “Poverina, quanto è buona” diceva lui tra sè. “Non mi sente nemmeno, tanto pensa ancora alla disgrazia di quella povera Felìcita!”¬ e seguitava a parlare senza fermarsi mai, per distrarla. Ma finalmente, così parlando sempre, arrivarono¬ alla nicchia sacra al loro amore; e Peppino, che quando arrivava lì il petto gli rintoc¬cava come un campanile il sabato santo, allungò il solito braccio intorno al collo della sua bella e se la tirò bravamente sotto l'elmo preparando labbra e occhi a quel saporitissimo bacio che da cinque mesi era l'alt! desiderato di tutte le sue giornate e il march! delizioso per i sogni di tutte le sue notti. “Che è stato?!” gridò spaventato Pep¬pino. Armida gli aveva appiccicato una maledetta manata sul collo e si era divincolata da lui; e salendo in furia le scale gli strillava: “Poverino! Anche il bacio vorrebbe, dopo quelle belle cose che mi ha detto! Sperava che me ne fossi dimenticata!... O non sono cattiva? O non hai detto che sono cattiva? E allora, perchè mi vuoi baciare? La gente cattiva non si bacia. Si bacia quella buona.... Va a baciare Felìcita!” Arrivata al primo primo piano, schivò con rabbia l'uscio di casa ed entrò. Ma poi si riaffacciò e gridò: “Sposatela!” E richiuse, che parve una cannonata. La deserta nicchia, forse in premio dei suoi fedeli servigi, ebbe finalmente quella sera una statua. E fu quella del povero Peppino. La statua dello sbalordimento. L'elmo sulle ventitrè, le braccia ancora m¬ezzo sollevate, le mani aperte, le labbra ancora strette e protese come erano per attendere il bacio, le gambe in una scomoda posizione cosicchè sembrava stesse ritto per miracolo, gli occhi grandi e fissi come due bersagli. Se gli si fosse aperta la testa, al posto del cervello, io dico, si sarebbero trovate due sole parole: “È possibile?!” **************************************************************************** NATOLI LIONELLO un altro grande scrittore italiano non riconosciuto dalla cultura ufficiale. Nato a Roma nel 1929 lavorò con Fellini ed ebbe vita avventurosa. Si trasferì a Parigi dove sposò una schiava della mafia francese, sfidando così la potente organizzazione. Inseguito dai sicari tentò il suicidio dentro la cattedrale di Notre Dame. Tornò in Italia con la moglie Gisele e la figlia Fabienne. Partì in pellegrinaggio a piedi da Milano a Roma, con una croce di 20 Kili in spalla. Fu ricoverato all’ospedale di Firenze. Scrisse le sue memorie in un capolavoro: PIETA’ PER I BAMBINI GRANDI pubblicato da Gino Sansoni nel 1955. La casa editrice Astoria di Milano, delle sorelle Giussani ( ideatrici di Diabolik) ristampò il libro 9 volte dal 1960 al 62 cambiando il titolo in PARIGI NUDA. Lo scrittore morì a Viareggio nel 2006. La figlia vive ancora in Italia. Lionello Natoli dalla autobiografia: PIETA’ PER I BAMBINI GRANDI Editore Sansoni 1955 La stazione di Parigi rappresenta il punto di arrivo di tutti gli irrequieti, il sogno di tutti gli amanti. La grande e vecchia stazione è un porto che ogni giorno accoglie e smista nel ventre di Parigi avventurieri, letterati, uomini che hanno raggiunto la gloria e aspiranti alla celebrità. Ecco Parigi. L’antica e pazza città di tutti gli amori, dove la tradizione si confonde con i movimenti artistici e letterari di avanguardia. Le case al mattino sono grigie, azzurre, capricciosamente mutevoli. E i marciapiedi sono affollati di persone che vivono la loro commedia, il loro dramma o la loro tragedia. Personaggi anonimi che vivono in silenzio la parte del copione a loro affidato. Ecco Saint Germain, il quartiere dei pazzi, dei fuorilegge, degli artisti, dei bohemien e degli svitati. Ecco il Tabou, il più vecchio locale dove il filosofo Sartre parlava di esistenzialismo, ancor prima di arrivare alla celebrità. La statua di Diderot, grande filosofo francese, sta in mezzo a una piazza, ignorato da tutti. Tiene un libro aperto in mano, una penna nell’altra e ha uno sguardo pensieroso. Non capisco perchè gli uomini riempiono le piazze con le statue dei loro simili, morti da tanto tempo. Forse per ricordare a se stessi che appartengono a un’umanità che ogni tanto genera un genio. Un giorno infatti, chiunque può finire su un piedestallo di marmo e da lassù guardare il mondo con superiorità e distacco. La cattedrale di Notre Dame alza le lunghe torri contro il cielo nero. Questo angolo quieto e pieno di poesia serve a calmare il mio spirito. In piazza St. Michel la fontana getta tre bracci d’acqua nella vasca. E’ scesa la notte. I bar sono chiusi, nascosti dietro le vetrate nere. Io mi sento solo nella piazza. Mi sento solo nell’universo. Il fruscio della pioggia con la sua dolce malinconia. Un leggerissimo velo che mi separa dal resto del mondo. La pioggia mi ha sempre affascinato. L’amo molto, più del sole o della neve. Forse a causa del mio temperamento malinconico. Agli angoli dei marciapiedi mucchietti di coriandoli rotolano nella fanghiglia di polvere e neve. Qua e là, cappelli di carta e maschere rotte ridono tristemente. Ancora per un poco, prima che la scopa dello spazzino le faccia tacere. Sento una musica che sembra fatta di pezzetti di ghiaccio iridati e taglienti. Le ondate di musica salgono da una stretta scaletta fumosa. Le note più acute attraversano la pelle come spille di acciaio. In ogni istante della vita il denaro è stato il mio più grande nemico. Il denaro. Ogni azione, ogni gesto o sorriso viene pagato, sempre. Perchè un bambino nasca sano è necessario che il denaro abbia la sua parte di lacrime. Tutti gli uomini si inchinano davanti al denaro, in ogni momento, come davanti a un idolo senza pietà. E’ l’alba. Le campane suonano. Le vecchiette che vanno alla prima messa alla cattedrale, sono appena uscite di casa. Piccole figurine coperte da grandi scialli e lunghe gonne. Quanti kilometri hanno percorso nella loro vita per raggiungere la chiesa, con la pioggia o col bel tempo. Prima a passo svelto, sorridenti; poi sempre più curve, fino a diventare come sono adesso. ********************************************************************* NOTARI UMBERTO Bologna 1878 Perledo 1950 Se esaminiamo i giudizi dei giornali di quel periodo, troviamo moltissimi articoli che esaltano le qualità dello scrittore. Ecco alcuni titoli di recensioni dei suoi libri: Italiano poliedrico. Faro girante di idee luminose. Forgiatore di uomini. Creatore di idee grandiose. Il modernissimo fra i moderni. Scrittore rarissimo con pagine che si divorano. Moralista in salsa piccante con una attività vertiginosa. Una penna potente. Maestro nell’arte di farsi leggere ha scritto una serie di capolavori. Un grandissimo artista. Eccetera. Eccetera. Umberto Notari è un osservatore profondo e perforante. Sotto la mannaia della sua penna cadono dottrine e filosofie, convenzioni, mascherate e ipocrisie. NOTARI UMBERTO dal romanzo IL GIOCATORE DI BRIDGE Società Anonima Notari 1930 Il funzionarismo avanza da tutte le parti. Il 50 per cento delle persone fanno gli impiegati. Che cosa è il funzionarismo? Scartoffie. Che cosa è l’impiegatismo? Carte su carte. Ogni passo è impigliato in una carta, ogni iniziativa si divincola in un mucchio di carte. Ogni volontà è sbarrata da dighe di carte. Senza carte non si può nascere, non si può morire, non si può vivere. Democrazia. Tutto per il popolo. Re, Imperatori, Presidenti di Repubbliche, senatori, deputati parlano solo del popolo, pensano solo al popolo, si muovono solo per il popolo. Il popolo è tutto. Credi che il popolo siano i banchieri, gli industriali, i proprietari di palazzi, di terre, di negozi, i ricchi, gli agiati, i benestanti? No! Il popolo è povero. Il popolo è quello che non ha niente. Il popolo siamo noi. Più si fa niente e più si ha niente. Più si ha niente e più si è popolo. Più si è popolo e più si ha tutto. Guardiamoci intorno. La maggioranza della gente non produce un fico secco. Chi fa qualcosa è preso di mira, combattuto, avversato, ostacolato. Quanto più uno si affanna a farsi largo, tanto più gli saltano addosso. La tendenza generale, l’orientazione, la spinta prevalente sono verso “il più piccolo”. Parlamenti, leggi, riforme idee, sentimenti, gravitano verso le “classi meno abbienti”. In tutti i campi, l’invidia, la cupidigia, l’incomprensione sbarrano la strada dell’individuo intelligente. Il contadino deve legare l’asino dove vuole il padrone. Il magistrato deve applicare le leggi secondo il prevalere dei partiti politici. L’avvocato deve maneggiare il codice secondo il tornaconto dei propri clienti. Il giornalista deve dare opinioni gradite al proprietario del giornale. L’artista deve uniformarsi alle esigenze e ai gusti del pubblico. Mi dicono che io scrivo parole spietate, ma non è vero. Sono le cose che sono spietate. **** *********** In un altro suo libro Notari esamina il problema della scarsa natalità: le coppie moderne non vogliono figli, o vogliono pochi figli. Ancora il grande precursore Notari individua (in anticipo sui tempi) la radice del problema. NOTARI UMBERTO dal romanzo SIGNORA 900 Editrice Società Anonima Notari 1927. Qual’era il clima in cui viveva la giovinetta della vecchia generazione? Nessuno lo sa più. Forse nessuno osa più dirlo. Era un clima puramente, innocentemente, fervorosamente amoroso. C’erano i poeti che recitavano i bei versi in collegio; i romanzieri di cui si leggevano furtivamente e si imparavano a memoria i brani più ispirati; le canzoni che si sentivano cantare per strada; le commedie a cui si assisteva in teatro. C’era tutto insomma un’atmosfera impalpabile di racconti, di ansie, di aspettazioni, di confidenze, di sogni, di preghiere, di voti, da cui balzavano due protagonisti: l’amore e il matrimonio. La giovinetta cresceva in una atmosfera sentimentale, quasi romanzesca, in attesa di quei palpiti che le compagne o le amiche narravano di aver provato; di questi incontri alla messa domenicale, alla passeggiata serale, alla festa da ballo che potevano decidere di tutta la sua vita. Quale incanto, quale brivido era per la giovinetta, che un Ufficiale degli Ussari aveva divorato al galoppo 50 Kilometri che separavano la caserma dalla casa di lei per poterla soltanto vedere! E la delicatezza e la suggestione delle serenate, a notte alta, sotto le finestre. E il tremito di piacere e di spavento insieme, alla prima parola mormorata, con rispetto pari all’ardimento, in chiesa, durante una funzione, mentre la ragazza stava fra la madre vigile e l’istitutrice sospettosa. E la complicità delle amiche e le scaltrezze delle cameriere per farle giungere un messaggio, un biglietto, un fiore, un sospiro! Cosa diventava, in quei tempi di abbandono, di poesia, di innocenza, che cosa diventava il bacio dell’innamorato? Ah! Queste cose le ragazze moderne non le sanno e non le sapranno mai. Io, sinceramente, ho per loro un profondo rimpianto. In sostanza, la giovinetta della vecchia generazione, nasceva, per così dire, già sposa e già madre; e il giovane pensava solo a diventare corteggiatore, poi sposo e poi padre. Spesso l’amore era una sdolcinatura e l’affetto per il marito era una illusione o una dissimulazione. C’era nella donna una ignoranza, o meglio, una buona fede così rispettosa (oggi si direbbe gerarchica) verso il proprio marito, che questa bastava per mantenere unito il matrimonio. E molti bei bimbi nascevano. *********************************************************************** ORIANI ALFREDO Faenza 1852 Ravenna 1909 PENSIERI SULL’AMORE E SULLA DONNA. Libreria Editrice Moderna 1921 Aforismi sulla donna e l’amore, ma anche sulla morte, il genio, la follia, la gloria. Come il genio e la bellezza, l’amore è una gloria per pochi. La donna ci fece perdere il paradiso. Lei sola può farcelo dimenticare. L’amore che la donna sente, non somiglia a quello che ispira. La bambina, la fanciulla, la vergine preparano la madre, accumulano la seduzione per il maschio, la forza per il figlio. Soltanto la bara è abbastanza stretta perchè una donna non possa sdraiarsi al nostro fianco. Chiunque teme la morte non giungerà mai all’amore nè alla gloria. La gloria è la più alta delle solitudini. L’amore nel grido supremo invoca la morte. La gloria è un sole senza calore; l’amore è un sogno che realizzandosi si dissolve nella materialità. Come l’amore, il genio rompe sempre ogni freno. Solamente i casti sono voluttuosi, perchè solo l’anima può provare nel delirio dei sensi l’ebbrezza dell’infinito. Ogni altro amore è piccolo come l’egoismo, povero come la morte. L’amore dell’uomo per una vergine è effimero come il sorriso di un’alba, la quale si perde nel giorno. Tutto passa e le ombre dileguano come le figure. Tutto stanca, anche la bellezza che ci accendeva gli occhi, anche l’amore che ci sollevava nella speranza della felicità; anche la gloria che ci prometteva il comando nella solitudine dell’ammirazione. Fiori e illusioni, cadendo, lasciano sempre lo stesso freddo ai rami e ai cuori; ma i fiori si vestono prontamente di foglie, le illusioni si coprono solamente di muffa. ******************************************************* PANZINI ALFREDO Senigalla (Ancona) 1863 Roma 1930 Da: IL DIAVOLO NELLA MIA LIBRERIA Editore Mondadori 1926 Questi libri mi sono pervenuti da una eredità di mia zia. Anzi, l’inventario dice: Nella legnaia; un cassone di abete, pieno di vecchia cartaccia e libri, Lire 8. Dunque i libri erano in un cassone di abete, nella legnaia, e il loro valore fu stimato in lire otto dall’inventario. Povera zia, che la luce del Signore mai per te si spenga; ma tutta la sua eredità valeva poco di più. Ma perchè perdo il mio tempo? Che farò di questi libri? Li porterò a casa? Ma le donne protestano che non c’è posto per tanta carta. Ecco, li venderò. I breviari li venderò al parroco. Tutti quei libroni neri, così a occhio e croce, potevano arrivare a 30 Kili. Era già un bello scarico. Ma il parroco disse: “Nemmeno se me li regala!” “Ma perchè? Non deve lei recitare il breviario?” (La mia idea era di offrire un breviario per ogni parroco). “Sì, ma il breviario ultimo. Gli altri non contano.” Allora è per i breviari come per i nostri libri di scuola. E così tornai a casa con i breviari. Allora andai da un libraio il quale mi spiegò che tutti i libri seri, teologia, legge, filosofia, medicina, del secolo 1600 e 1700 non valevano niente: “Lei li può bruciare senza rimorso.” “Ma allora” dissi io “diranno così nel secolo 2100 di tutti i libri del secolo 1800 e 1900.” Ecco, dunque, come io diventai bibliofilo; ma purtroppo, mi accorsi che erano quasi tutti libri seri. Avrei dovuto farne un falò. Ma mi pareva che dovessero venir fuori le anime dei morti, e anche quella della mia povera zia a rimproverarmi. E anche una compagnia di preti per reclamare i loro breviari. Le prefazioni; è curioso come in quei secoli, Seicento e Settecento, questi scrittori sentissero il bisogno invincibile di professarsi umilissimi servi di qualche Cardinale, Principe, Monsignore a cui il libro è dedicato; di essere annoverati servitori di qualche potente; tutti sottomettono sè stessi e l’opera propria. Mi viene voglia di portare nella concimaia tutti questi libri del Seicento e del Settecento. Nel Seicento la Spagna comandò in Italia. Nel Settecento comandò l’Austria. Poi comandò la Francia, poi tornò a comandare l’Austria. E in questo secolo chi comanda l’Italia? Via, addormentiamoci un po’ sopra questi inutili libri del Seicento spagnolo e del Settecento austriaco. Tutti questi bravi scrittori erano cortigiani di un uomo divinizzato, come oggi sono cortigiani della massa divinizzata. Ecco questo libro stampato a Venzia nel 1605: A Comune Utilità Posto In Luce. Esso parla del diavolo, cioè “delle stupende e mirabili operazione delli Demoni”. Leggo. È un libro infantile e, da principio, mi sono messo a ridere. Il demonio è dappertutto, nelle foglie, perfino nella lattuga, nel vino, nel pepe, nella cannella e altre cose aromatiche che possono muovere gli spiriti vitali che sono nel corpo. Più terribile è il demonio quando appare “verbi gratia ad uno che vadi in Chiesa, in forma di bella donna.” Ma è possibile che nel secolo in cui Galileo Galilei e altri valentuomini ponevano le basi della scienza moderna, ci fossero uomini rispettabili come teologi, canonici, che scrivessero libri così intorno al demonio? I demoni sogliono sollecitare maggiormente le femmine perchè hanno meno forza di ragione a resistere. I demoni si divertono a mettere in tentazione i vecchi canonici. Le monache poi non erano mai lasciate in pace. E anche gli eremiti. Quello che poi fu Papa col nome di Celestino V, da giovane fu inseguito da due femmine nude. E lui su per i monti, e loro dietro. Naturalmente erano due diavolesse. E finalmente il povero eremita, spaurito e tremante, trovò rifugio negli inaccessibili dirupi del monte Maiella. Ma quale orribile titolo ha questo altro libro: SACRO ARSENALE OVVERO PRATICA DELLA SANTA INQUISIZIONE. È stampato in Bologna nel 1679 ed è di 528 pagine. È spaventoso! Dentro, vi si arrosta, taglia, attanaglia, sospende, brucia... Questo libro è un codice, una specie di vade-mecum legale di quei tempi. Guardo la cartapecora ingiallita e vi scorgo delle impronte scure. Impronte delle mani degli inquisitori? Macchie di sangue? Il libro mi cade per terra. Lo raccolgo. È una lettura che attrae e respinge. Ma avvenivano cose pazzesche in quegli antri oscuri dell’Arsenale della Santa Inquisizione! Vedevo quei frati domenicani in quel loro manto, con quei due colori, come l’alfa e l’omega, la vita e la morte, cioè il bianco e il nero. Vedevo quell’espressione di potere e di tristezza che hanno i loro volti. Stendevano il braccio entro la gran manica candida, fuori dal panneggiamento nero e comandavano ai manigoldi di frugare le vive carni. Le grida di strazio e le bestemmie dei martoriati erano come fumo di ebbrezza per i Padri Inquisitori. Che cosa facevano, quegli inquisitori, quando riuscivano a prendere una giovinetta strega bianca, di quelle che essi vedevano per i campi e per le selve: “Dove si nasconde, dove si nasconde il demonio, o impudica?” E talvolta è accaduto che qualche inquisitore, sentendo il demonio che entrava nelle sue carni, si è messo a gridare: “Bruciate anche me!” ******************************************************+ PAPINI GIOVANNI grande scrittore fiorentino tradotto in 52 lingue (compreso il giapponese) e poco conosciuto in Italia! Papini afferma che la Cultura è in mano ai bibliofili, agli appassionati lettori e NON si trova nelle università, nelle scuole, nelle biblioteche pubbliche. GIOVANNI PAPINI Firenze 1881 1956 dal libro: MASCHILITA’ Vallecchi Editore 1942 Su youtube visibile al canale bissolis. Chiudiamo le scuole! Professori, dottori, laureati e laureandi. Chiudiamo tutte le scuole. I Maestri più famosi non sono mai stati scolari. E accade anche oggi che professori universitari debbano per forza occuparsi di pensatori, scrittori e ricercatori che non sono mai andati all’università. E che anzi, spesse volte, sono stati in contrasto con il sapere costituito e i suoi rappresentanti ufficiali. Chiudiamo tutte le scuole. Diffidiamo di quei casamenti di grande superficie dove molti esseri umani vengono rinchiusi. Chiudiamo le scuole. La civiltà non è venuta fuori dalle scuole. Le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli. Le grandi scoperte, le scoperte decisive della scienza non sono nate dall’insegnamento pubblico; sono nate dalla ricerca solitaria, disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non sono mai andati a scuola, o non insegnarono mai in una scuola! Chiudiamo le scuole. La scuola essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spesso a pietrificare il sapere e ritardare, con testardi ostruzionismi, le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali. Chiudiamo le scuole. La scuola è, per sua natura, non una creazione, ma un semplice veicolo e strumento. Non inventa le conoscenze, ma si vanta di trasmetterle. E le trasmette anche male perché, trasmettendole, dissecca e distorce i cervelli ricevitori e impedisce il formarsi di altre conoscenze, nuove e migliori. Chiudiamo le scuole. Diventiamo liberi per imparare veramente qualcosa. Perchè non si impara nulla di importante dalla scuola. Si impara soltanto dai grandi libri e dal contatto personale con la Realtà. Chiudiamo le scuole! La scuola insegna moltissime cose false o inutili, e ci vuole poi una bella fatica per liberarsene; e non tutti ci riescono. La scuola abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati. La scuola non insegna mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un lungo e faticoso noviziato autodidattico. Chiudiamo le scuole. Chiunque è passato attraverso gli studi di una educazione classica e non è diventato più stupido, può vantarsi di averla scampata bella. La scuola è così essenzialmente antigeniale che non istupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Bisogna chiudere le scuole. È urgente chiudere le scuole. Daremo pensioni vitalizie a tutti i maestri, istruttori, presidi, professori, liberi docenti e bidelli, purché lascino andare i giovani fuori dalle loro fabbriche privilegiate di Cretini di Stato. Ne abbiamo abbastanza, dopo tanti secoli! In Italia, dove tante cose vanno male, e alcune talmente male che non potrebbero andare peggio, sarebbero un miracolo se le biblioteche pubbliche andassero bene! Tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di buono e di bello nel mondo, non sono mai andati a scuola, o ne sono scappati presto; oppure sono stati cattivi scolari. PAPINI GIOVANNI dal saggio autobiografico: UN UOMO FINITO Mondadori Editore 1964 Filosofia! Desiderio e speranza di una certezza riposante; porta santa delle verità difficili; filtro di ascetico entusiasmo; dolcezza di una vita mancata; surrogato delle gioie fisiche, delle consolazioni a pagamento. Filosofia. Mondi aladinici di fantasmi più vivi dei vivi; ombre più sireniche dei corpi; di parole più polpute delle cose; di formule più infiammanti di una poesia. Filosofia, a te io debbo tutto. Io fui tutto tuo e tu fosti tutta mia. Eppure venne il momento in cui mi apparisti per quello che sei: cabala affannosa di segni attorno al nulla; corsa ironica verso la distruzione di te stessa. Ed io ti ripudiai, filosofia, ti disprezzai, ti licenziai e ti tradii. Non sapevo che farmene di una conoscenza che non fa neppure conoscere e che non entra neppure di straforo nella vita nostra e non la cambia neppure di un etto. Noi vogliamo la teoria strumento, l’idea martello. Io volevo diventare Dio. Volevo essere Dio. Ecco il sogno grande, l’impresa impossibile il fine supremo cercato! Anche gli imperatori di Roma, anche i pazzi tranquilli credevano di essere Dei. Credevano già di esserlo, non si proponevano perciò di salire alla sfera divina. Io no! io volevo essere Dio; riconoscevo di essere ancora lontano dalla meta. Ma, come si poteva concepire un santo senza miracoli, come si poteva concepire un Dio senza poteri. Perciò, il mio scopo immediato era: accrescere all’infinito il potere della volontà; far sì che il mio spirito potesse comandare a uomini e cose senza bisogno di atti materiali. Volevo cioè: fare miracoli. Niente altro. I santi, i maghi, i profeti ebrei, i fachiri indiani pretendevano di avere fatto i miracoli. I santi mi portavano verso le religioni, i maghi verso le scienze occulte. Tutti e due erano riusciti a compiere appunto ciò che io volevo: i miracoli. Prima provai con le sedute spiritiche, fra le vecchie isteriche, le lampade rosse, il silenzio penoso in attesa dei colpi medianici. Poi incontrai uomini che parlavano di dottrine superiori, di tradizioni segrete, di maestri invisibili o di esoterismi. Mi iniziai alla Teosofia; tentai l’esperienza respiratoria raccomandata dallo Yoga. Chiesi insistentemente i segreti, mi offrii come discepolo. Alla fine capii che questi miracoli erano compiuti soltanto da uomini anormali. Bisognava renderli possibili per tutti. Erano miracoli spesso involontari; dovevano mutarsi in volontari. Erano miracoli che accadevano raramente; dovevano diventare comuni. Chi erano gli autori dei miracoli? I santi, i maghi, i medium: nomi diversi di uomini soprapotenti che avevano compiuto con diverse fedi, prodigi somiglianti. Il segreto non era dunque nella dottrina. Il santo impregnato di teologia cattolica; il mago intriso di teologia cabalistica, alessandrina, (Paracelso); il medium imbevuto della dottrina spiritualistica (Allan Kardec). Tutti facevano o promettevano di fare le stesse cose. Allora studiai profondamente questi uomini, studiai intimamente la loro vita, la loro costituzione, le loro tendenze e anomalie. Volevo costruire la fisiologia e la psicologia dell’uomo potente. Tutto lessi e imparai con grande voracità. Studiai psicologie generali e particolari, normali e patologiche; leggende di santi e autobiografie di veggenti; rapporti di sedute medianiche e catechismi di iniziati; introduzioni alla magia, e storie di guaritori. Tutto ingoiai e tracannai con impaziente voracità Ma, il tempo passava, la giovinezza sfuggiva, l’impegno, il più solenne impegno di tutta la mia vita, era preso. Bisognava assolutamente scoprire il segreto, dovevo impadronirmene o sparire. Vivevo in un’ansia perpetua, sfigurato, stralunato, trasognato. Decisi di partire, senza dir nulla, lassù fra le montagne, più vicino al cielo; lontano dalla città, più facilmente avrei risolto il mistero. La mia debolezza cresceva e diventava inquietante; incubi atroci mi assediavano tutte le notti; la pazzia era in agguato, pronta a ghermirmi... Partii solo, per l’ultimo grande tentativo, col mio pazzo sogno nel cuore. Sarei disceso dalla montagna, vittorioso e tremendo come un Dio, oppure non sarei mai più tornato. Invece tornai. Non fu un ritorno, fu una fuga, una disfatta, una fine. I meglio della mia vita era vissuto. La mia parte nel mondo terminava lì. L’ascensione metafisica di me stesso era fermata, fallita. Non finiva un periodo, finiva una persona. Non si chiudeva un’esperienza ma si spegneva un’anima. Scendevo solo e cieco. Non scendevo, precipitavo. Neppure il sorriso di una speranza mi illuminava il viso. Tutto era finito. Ricominciava il mediocre, il basso, il vile e per sempre! Mi ammalai, perdetti la poca forza, tornai a casa. Non ero più quello di prima ormai. Non ero quello che avrei voluto essere. Ero un mostro; un mostro infelice e rigido. Mi rinchiusi in casa; non feci più nulla. Sono diventato una cosa; non sono più un uomo. Toccatemi. Sono freddo come una pietra, freddo come un sepolcro. Qui è sotterrato un uomo che non riuscì a diventare Dio. ************************************************************************ PASTONCHI FRANCESCO Riva Ligure (Imperia) 1877 Torino 1953 Da: PONTI SUL TEMPO Mondadori 1947 Avvertivo sottilmente le sfumature da libro a libro, da editore ad editore; direi che anche il colore delle copertine vi contribuiva, e il peso, il tatto, così da graduarmi il piacere. Non tutti i volumi mi soddisfacevano nella stessa misura. Alcuni libri rosso mattone, poveri di margini, piccoli di caratteri mi attiravano meno di altri azzurri, nitidi, chiari. Le antologie le giudicavo a spessore; tanto più grosse, tanto più care. E pensate che allora non si usavano illustrazioni che oggi fanno più ricche e allegre le raccolte. Appena i libri di storia si permettevano qualche rara figura: una medaglia, un arco, la testa di Cesare e poco altro. PASTONCHI FRANCESCO da: IL CAMPO DI GRANO, Studio Editoriale Lombardo 1916 Il primo racconto dà il titolo alla raccolta. Il soldato partì a piedi all’alba per raggiungere la sua compagnia. Era un contadino della bassa, abituato a risparmiare il soldino e amico dei lunghi cammini dalla fattoria al mercato, col paniere, col sacco o con carichi ancor più pesanti. Sentiero fresco o stradone polveroso, con l’ombra o col sole, gli piaceva andare attraverso la campagna con passo tranquillo, uguale. Era riposante dopo le fatiche agresti. Andando, guardava le cose a lui note e care: gli alberi, i prati, i campi, le foglie del gelso, il ciuffo di trifoglio, il prosperare delle melighe, l’infittire del grano, il cambiar della segala al soffio del vento; e confrontava, giudicava, contento. Ogni cosa riceveva la sua lode o la sua critica o il suo compatimento: la bontà o la povertà del terreno, l’operosità o l’incuria del contadino, il ramo mal potato, la dirittura di un solco. Vero figlio della terra, amava la grande madre comune, con tutto il suo amore, chiuso e rude. Ora, da qualche mese, lo avevano vestito da soldato e lo avevano come divelto. E uscì, ecco, fuori dalla stretta delle ultime case, nella campagna aperta. Nel primo, tremolante chiarore dell’alba, la terra riapparve emersa dalla coltre notturna, ancora indistinta di forme, turchina e qua e là cupa nelle valli più profonde. La campagna fresca respirava, gonfiava il petto verso il cielo, si scioglieva in veli vaporosi che scivolavano bassi, raccolti nel grembo. Ad un tratto, nei raggi del sole, la terra parve sobbalzare; e poi si scoprì tutta nel mattino estivo. E, ahimè, come diversa egli la rivide. Rami stroncati, fusti mozzi, zolle senza erba, solchi giallastri, campi distrutti, affondati da rotaie, avvallati, sventrati da enormi fosse.. La guerra! Angosciato abbandonò la strada grande per una più umile che deviava sinuosa, più addentro la campagna, verso collinette leggere, laggiù. Un improvviso tratto d’erba, verdissimo sul ciglio; un misero ciuffo di frumento che stava in mezzo allo squallore. Vicino a quelle poche spighe il soldato-contadino si sedette, sfinito, come se avesse camminato tutto il giorno. Quindi, staccò una spiga e la soppesò nel cavo della mano. Era colma, era greve. La scosse, ne staccò alcuni granelli. “Che grano magnifico!” Toccò la terra, ne raccolse un pugno; la osservò, la fiutò, la sfarinò tra le dita, come in un setaccio, adagio. “Che buona terra!” Guardò intorno, nella lontananza. Tutto vibrava, abbagliava nel caldo sole d’oro. Non era il suo paese quello; era un paese di conquista, poco noto, diverso dal suo. Ma forse la terra, sotto differenti apparenze, è diversa? Forse non è la stessa per tutti? Quella che si fende, si ara, si semina e si sarchia e a tutti rende la sua ricchezza, agli uomini che la coltivano in pace. L’intuito del campagnolo, al quale una forma del terreno, o un albero, o il colore del cielo, è avviso di cose lontane e segrete, lo guidò più in là, verso un avanzo di bosco. Egli avanzò giù per lenti declivi e su brevi collinette, finchè percorse un viottolo di un piccolo colle. A un tratto, salito un pendio, attraversato un pianoro, credette al miracolo. Perchè una vallata gli digradava davanti, tutta viva e intatta, con folti arbusti e alberi fruscianti e prati falciati. E dove pianeggiava al centro, c’era un campo, un campo largo, biondo di grano, incominciato a tagliare da una parte. E vide gente, qui, muoversi, correre. Lo avevano visto e incominciarono a fuggire verso una fattoria: due ragazze e dietro una donna a cui si aggrappava con strilli un bambino; e un vecchio, per ultimo, affannato a far presto. Fuggivano tutti, davanti al soldato conquistatore. Il quale, si mise a rassicurarli, a gridare e far gesti che ottenevano l’effetto contrario. Arrivati alla casa quelle persone si precipitarono dentro e vi si tapparono. Il soldato cominciò a discendere lento verso la casa. Guardava, godendo, quell’oasi fresca, scampata al turbine della guerra, protetta come una isoletta calma nel corso impetuoso di un fiume. E i suoi occhi lo riconducevano sempre al campo di grano, mai sazi della sua vista benefica, avidi di quell’oro terreno che nutre la vita. Arrivato davanti alla casa, chiamò allegro, picchiò discreto; non ebbe risposta. Allora, certo che quelli dentro lo stavano spiando, depose il fucile ai pidi di un albero, sciolse cartucciera e cinturino, li appese a un ramo basso. Poi, così disarmato, richiamò e ripicchiò. Comparve a una finestra la madre, col suo bambino piangente in braccio. Il soldato parlò che non voleva far loro del male, e che aveva sete e chiedeva un po’ d’acqua dal pozzo e buona accoglienza e null’altro. Era un uomo dei campi anche lui, al suo paese e sapeva rispettare la buona gente laboriosa. La porta, dopo qualche dibattito interno, venne disbarrata; sbucò fuori la madre, tutta sospettosa; più cauto, il vecchio, sporse fuori la testa come un lumacone; Dopo che ebbe bevuto, il buon soldato ringraziò, e pregava che tutti ritornassero tranquilli al lavoro interrotto. Egli stesso li avrebbe accompagnati; aiutati, anzi. Ne moriva di voglia. E cercò un falcetto. Svelto li precedette, ancora impacciati in un’ultima diffidenza contadinesca. Ma le ragazze, ai richiami del vecchio, gli svolarono via di fianco, balzate pronte all’opera, già curve sul grano. Scamicito egli vi si immerse, prima toccando le spighe, gli steli, per riconoscerli al tatto; e ne aspirava l’aroma così fervido. E lo straniero conquistatore incominciò a falciare... a falciare... con forza, con gioia, perchè cadendo sotto i colpi, le spighe non gettavano sangue. E presto fu innanzi a tutti, lui, giovane, gagliardo. E non cessava il lavoro, se il vecchio non gli avesse toccato una spalla. Era tempo di sosta e di ristorarsi all’ombra dell’albero, vicino al pozzo. Si unì agli altri nel cerchio familiare e non credette di usurpare il posto a un padre o fratello nemici, lontani in guerra. Il soldato aveva sommerso nel lavoro e nella chiara stanchezza ogni memoria di odio. Gli pareva di essere un garzone a giornata, che prende la paga e il cibo. Una delle due ragazze pose in mezzo alla tavola il pane tondo e largo dei contadini; tondo e largo come il sole. *********************************************** PICCOLI VALENTINO Napoli 1892 1938 da LE ORE INCANTATE Editrice Ceschina 1926 A un tratto ho sentito che le vane parvenze esterne che usurpano il nome di realtà mi limitavano in ogni maniera. Mi sono sentito involuto in mille aridi lacci, costretto, violentemente impacciato, infoschito. Allora con uno sforzo disperato e violento, ho cercato la via della salvezza; ogni valico era precluso; sola rimaneva aperta, nel profondo del mio animo, quella porta paurosa, di cui non osavo da molto tempo varcare la soglia. Ora sono sulla soglia! Ma, mi dicevo, avevo altre vie: l’amore, la sapienza... Ma chi può dire qualche cosa sull’amore? È la suprema vibrazione dell’anima o il folle impeto dei sensi? Ti rende di volta in volta simile a un Dio che si libra nel cielo, o a un verme che striscia sulla terra. Si spegne poi lentamente in un piccolo riso di malinconia. Meglio la sapienza, per amare, per agire... Ma qual è il sapere? Hai la memoria piena di mille nomi; non è sapienza. Hai l’intelletto ingombro di mille ragionamenti: non è sapienza. Forse, oltre la soglia incantata è possibile trovare un diverso amore, una nuova e più vera sapienza. Ma bisogna molto osare. La soglia, nei colorati meandri della fantasia, a volte appare a volte si disperde. Si lascia intravedere tra fosche ombre azzurre, mobili e dense, che in breve la coprono tutta. Poi, lievemente, l’azzurro si fa luminoso, tutta luce e trasparenza; e il vago miraggio riappare. Ora ti sembra la soglia di una porta chiusa. A due battenti, ferrea. E le memorie di altre simili visioni ancora ti travolgono. Ma più numerosa nella tua memoria sono le soglie di porte spalancate che ti hanno mostrato infiniti miraggi di luce, di fate morgane svanenti nelle pallide chiarità dell’oblio. Visioni di paesi non esistenti, di gioie solamente sognate, di bellezze senza vita, di maschere folli senza sguardo. Sono le soglie non varcate mai: vita che si dissolve prima di essere vissuta; crepuscoli che non vedranno mai l’aurora. *************************************************************************** PITIGRILLI pseudonimo di DINO SEGRE Torino 1893 1975 Questo scrittore è un uomo che ha capito le donne, l’amore, il sesso, la società, la religione e tante altre cose. Pitigrilli da MAMMIFERI DI LUSSO Editore Sonzogno 1920. Le signorine. Sono esseri ambigui, imprecisi, infelicemente spostati. Debbono mettere la museruola ai desideri, l’impermeabile alle idee, le soprascarpe alle parole, la maschera ai sentimenti. Devono vivere una tormentosa attesa fingendo di essere quelle che non sono, recitando liturgie alla messa cantata del pregiudizio. Come siete strane! Quale fascio di funi è la vostra psiche! Quale nido di serpi è la vostra anima! Quali insidiose profondità abissali si nascondono nel vostro piccolo cuore di belva mansueta! Invece sono così semplici, poverine! La loro intricata personalità si rovescia come una manica di soprabito, e non vi è nulla altro che una collezione di frasi fatte, di giudizi disseccati e conservati. Ma dopo il matrimonio non è più così. Dopo il matrimonio quella creatura fragile, sottile, inconsistente, vestita con agile semplicità e senza anelli, esile, bionda, quasi spirituale, col matrimonio si ingioiella, si immammella, veste da signora. Non è più lei. Dopo qualche tempo la giovane signora rimette in luce le gemme e le trine da signorina. Questo significa che servono per piacere a qualcun altro, da cui deve farsi decifrare l’anima. “Mio marito non mi ha mai compresa. Tu forse mi comprenderai. Tu saprai leggere nella mia anima chiusa.” E il nuovo esploratore di spiriti, per trovare l’anima comincerà a sbottonare la camicetta. PITIGRILLI da: LA VERGINE A 18 CARATI Editrice Sonzogno 1936 Il popolo è una mostruosa limatura di ferro che si agglomera intorno a qualsiasi calamita, a qualsiasi capo che ha il solo merito di aver compreso che è meglio essere calamita che limatura. Il popolo costituisce una tremenda macchina che diventa docile nelle mani di uno solo. Servirsi del popolo vuol dire offrirgli il modo di sfogare la propria esuberanza di imbecillità o di ferocia. Per la gioia dell’assassinio e del saccheggio, il popolo serve un partito oppure il partito avversario con la stessa indifferenza. Non è necessario inasprire il popolo, nè scatenare i suoi bassi istinti; basta aprire una valvola. Le leggi comprimono questi istinti; quando li decomprimi con la rivoluzione, l’uomo non acquista poteri eccezionali, ma si rivela per quello che è e che le leggi avevano domato con la forza. Ma fra la massa, ci sono anche gli intelligenti in buona fede? Sì, certamente. Sono quelli che credono di servire un’idea, e non si accorgono di servire un uomo, una banca o un gruppo di industriali. ****************************************************************** PUCCINI MARIO Senigalli Ancona 1887 Roma 1957 Da: RACCONTI CUPI Editore Campitelli 1922 Un’avventura capitata all’Autore in provincia di Padova, a Este. Un’avventura notturna, paurosa con un finale misterioso che sfocia nella parapsicologia. MARIO PUCCINI da: IL VICOLO CIECO. Tornavo ad Este dopo tanti anni, forse una decina. Vi ero capitato la prima volta in pieno mezzogiorno, in estate. Ora vi ritornavo in una sera anche estiva, ma capricciosa di vento e di pioggia. Il castello, alto sulle case pareva riverniciato di fresco e quasi dondolante con tutta la sua mole. Grossi ciuffi di erba nera macchiavano le torri e gli spalti, e la città tutta, sotto il cielo brunito, pareva più forte e più marmorea. Queste cittadine raccolte e morte non mi entusiasmano. Ma spesso mi accade che, in qualche parte del mio essere si risvegliano sensazioni fragili e femminee. Inutilmente io, irritato tento di addormentarmi. Più forte di me, il fascino delle ombre e dei ricordi mi curva e mi culla. Così quella sera; eccitato da tanti aspetti e luci insolite, anzichè tornare a Monselice e di lì a Padova, decisi di passare la notte fra quelle mura. Cominciai a girare da una via a un vicolo; e più la notte diventava oscura, più godevo a cercare luoghi silenziosi e misteriosi. A un certo momento, era ormai mezzanotte, mi incanalai in un lungo vicolo stretto. Si sentiva che gli uomini non vi penetravano mai, o solo raramente. Un vicolo difeso da un lato da una muraglia, dietro la quale si udiva il fiotto martellante di un fiume. E dall’altro lato da muri di caserma o di convento. Solamente a metà la muraglia si spezzava; e qui erano costruite case di povera gente. Io ero entrato nel vicolo incuriosito da tanto silenzio, sebbene mi infastidisse un odore di stalla o di immondizia. E una volta entrato volli percorrere tutto il vicolo sperando di arrivare in fondo a una uscita. Non si udivano voci; solo, lontanissimo, là in fondo, brillava un lumicino. PUCCINI MARIO Da: LA VERGINE E LA MONDANA Editrice Sonzogno Milano 1919. Un pittore, Giorgio, si innamora di Delia, ragazza mediocre senza bellezza e senza sensibilità. Il pittore si rende conto di questo, ma non riesce a staccarsi da lei. L’avventura sentimentale di Giorgio e Delia è raccontata con dolente e profonda introspezione sulla psicologia amorosa. Il romanzo, inoltre, è un meraviglioso viaggio fra splendori e miserie della Roma del 1920, dove è ambientata questa storia. MARIO PUCCINI dal romanzo: LA VERGINE E LA MONDANA. Chi non ha visto un’osteria romana del sobborgo, di sera, può aver girato il mondo intero, incontrato sensazioni esotiche e strambe, può essersi perso in luoghi stranamente illuminati; ma non avrà mai, come ebbi io, l’impressione di un antro, dove si muovono uomini e donne, che sembrano quasi di magia. ******************* In piazza Guglielmo Pepe, c’erano allora le lucenti giostre e i baracconi sorprendenti; il mondo mascherato dei nomadi che, su palafitte e su basi mobili, vivevano una vita provvisoria e mutevole. La piazza aveva un aspetto di festa, e pareva quasi verniciata di ore felici, di splendori, seppur fittizi, abbaglianti. Creduli e storditi, gli spiriti semplici vi bevevano a sorsi, le delizie dell’inverosimile; sognando a occhi aperti e invidiando quegli esseri variopinti che, a poco prezzo, avevano saputo costruirsi una vita diversa dal comune. La folla guardava e ascoltava, composta. Erano bimbi, giovinette, bambinaie e signore. E poichè le musiche discordi non avevano sosta, nessuno parlava o rideva. Si pensava a uno strano rito di qualche religione d’altri tempi, che un cerimoniere invisibile guidasse dall’alto; tentando di coordinare, con sforzo, le musiche stonate, i colpi di tamburo, lo stridere di cento ruote e congegni; tutto quel frastuono incoerente e assurdo che pareva senza ritmo e anzi assordante. E poichè gli ori e i colori erano un poco dappertutto, a pennellate piene, e il cielo di Roma, caldo e puro, sovrastava, io sentivo che c’era davvero uno sforzo magnetico di sorpresa quasi religiosa in quella mobile fantasmagoria di palchi e di uomini che, sulla folla silenziosa, faceva cadere alternato un brivido di ardore o di paura. Proprio come un rito complesso di una religione strana e cullante. ************** No, non c’era nella vita quella sana giustizia di cui si parla nei libri e che i genitori stupidamente ci insegnano. C’era piuttosto una ingordigia volgare e una smania, in ciascun uomo, di vivere alle spalle degli altri. E tuttavia, anche facendo delle rinunce, era pur necessario vivere; e per non soffrire l’oscura tragedia della propria impotenza, bisogna imporsi una maschera e lottare. *************************************************************************** RADICE RAUL Milano 1902 Roma 1988 Da LA TROTTOLA E ALTRI RACCONTI Editrice Ceschina 1943 FORSE DOMANI Quando ebbe spinto il cancello del giardino, e la vecchia Nena gli andò incontro per dirgli che la casa era rimasta aperta tutto il giorno e soltanto il temporale di poco innanzi l'aveva costretta a chiuder le finestre e a sbarrare la porta, Guido le disse di non darsi pena. Era¬no anni che tornando al paese nativo trovava la casa chiusa e deserta. Un tempo, ricordan¬do i giorni dell'adolescenza, le stanze abitate e le voci giovanili delle sorelle a contrasto con la voce più grave di sua madre, gli pareva che ogni cosa, le persiane abbassate, il focolare spento e i muri umidicci, lo rimandasse indie¬tro. Ma questa volta, lontani i familiari, e parte di essi lontani per sempre, gli piaceva il pensiero di esser solo a varcare la soglia e a spalancare le finestre della casa alla quale fa¬ceva ritorno. - Non importa, - disse alla donna che gli si affannava attorno. - Ho lasciato le valigie alla stazione. Non credo che avrò bisogno d'al¬tro. La vecchia gli rispose che il letto era prepa¬rato; ma per la cena bisognava accontentarsi del poco che stava cucinando per sè e per il suo ragazzo: zuppa di cavoli e carne bollita. - È quanto basta, - Guido la rassicurò. Poi, prima di spingere l'uscio: - Al ragazzo dirai che portii della legna e che accenda subi¬to il camino. Lo rivide entrando, il focolare che nel ricor¬do immaginava sempre acceso. Dentro il camino vi era un po' di cenere rimasta chi sa da quando, e le pareti annerite dalla fiamma e dal fumo emanavano un odore acre che si at¬taccava alla gola. Tutta la casa, del resto, esa¬lava il tanfo di lunghe giornate senza vita, ora per ora disciolte nella penombra. Un odore in¬distinto che non si capiva se provenisse dai mu¬ri, dai mobili vecchi o dalle stoffe inerti, u¬guale dovunque, simile a quello dei fiori appassiti. Guido lo avvertiva soprattutto nell'at¬to di aprire le porte, una stanza dopo l'altra, e dentro ognuna un letto sfatto. Soltanto quando arrivò nella sua camera gli parve di ritrovare qualche immagine più vici¬na a se stesso. Tutto sembrava come allora; sulle pareti egli riconobbe certe macchie del¬l'intonaco attorno alle quali, ragazzo, quan¬do il sonno tardava a venire, aveva tanto fan¬tasticato. Ma anche là dentro respirò quell'o¬dore sfatto e penetrante che l'aria piovosa della sera non bastava a disperdere. Allora sentì il rammarico di essere arrivato in una giornata di maltempo. La casa aveva bisogno di luce e di calore, un meriggio di sole sareb¬be bastato a ridarle l'aspetto di sempre. Guido si avvicinò alla finestra. Nuvole bas¬se scendevano sugli alberi del giardino, calavano tra le foglie fradice di pioggia. Il sole era lontano, lontanissimo l'orizzonte dei mon¬ti cari alla sua fanciullezza. E poi, se ne av¬vedeva soltanto adesso, gli alberi erano cre¬sciuti intorno; giganteschi abeti da quella parte, circondavano la casa, le loro cime salivano oltre la grondaia e tutti insieme formavano una barriera densa e cupa che impediva la vista. Qualcosa, dunque, lo tradiva. Contro la fer¬mezza dei ricordi si ergeva l'indifferenza di una vita vegetale che era proceduta tutta sola ed alterava anche gli aspetti più remoti dell'o¬rigine di Guido. A poco a poco si sentiva al¬lontanare, respingere verso una casa immagi¬naria che egli aveva creduto esser questa ed era invece di là, di là, in un paese dal quale si parte e mai più ci si arriva. Ecco il cortile dei suoi svaghi di ragazzo, la siepe piantata da suo padre, e il platano all'ombra del quale sua madre lavorava d'unci¬netto, e la fontana che allora sembrava tanto più grande, ricca di giochi d'acqua, ridotta a un'avara cannella. Bisognava ritornare per ca¬pire che soltanto ieri tutto questo era più vi¬cino. La donna entrò per avvertirlo che la cena era preparata. Nena era la superstite della ca¬sa, la custode del nulla. - Avremo il sole domani? - domandò Guido. Ella rispose di no, che il suo ginocchio le doleva. **** Giorni di pioggia e, dopo, il sole trasparente della fine d'estate. Non giova, non giova. Ogni foglia rivela la trama delle vene, come il suo animo le vicende degli anni; e attorno alla dalia vigorosa il primo cerchio di petali sfiorisce, come in lui qualcosa si stacca per sempre; e nei prati già il colchico annunzia l'autunno. Potere ricrearla, la vita di un tempo; richia¬mare dall'ombra le persone che non possono più uscirne, e dalla loro lontananza quelle che non sanno di essere lontane. Forse, allora, tutte le cose intorno rivivrebbero la nostra esi¬stenza, e da ognuna di esse discenderebbe su noi un riflesso dei nostri sentimenti. Adesso Guido sa, per la prima volta gli sem¬bra di capire che se una voce parla fuori Dell’ uomo è soltanto l'eco di una voce che l'uomo porta in se stesso. Anche il pendolo dell'orolo¬gio, lassù nella vecchia casa, una volta scan¬diva il tempo con gaiezza ed ora ripete un'unica nota dolente. Giovane, non lo avrebbe mai saputo; la giovinezza, appunto, non è che dol¬ce ignoranza. O forse bisognava rimanere, confondere il ritmo delle nostre giornate con quello degli alberi che mettono fronda, dei muri che si cor¬rodono, di tutte le cose che ogni attimo consu¬ma. E per ognuna che scompare un'altra ne sorge della quale non si avvede chi è rimasto lontano. Questo, soltanto questo doveva esser stato il dissidio che per anni aveva tenuto in discor¬dia suo padre e lo zio Soligo, il contadino del¬la casa, cocciuto e tenace quanto il fratello era irrequieto e avventuroso. Ricordava lo zio an¬cor giovane, quando si era staccato dagli altri. Per sè e per la moglie aveva costruito una ca¬sa di là dal fiume, e in pochi anni impiantato tre molini. Ora i Soligo erano la famiglia più numerosa del paese, tutti uniti, figli, nuore, generi e nipoti. Nena ne aveva parlato anche l'altra sera. Si capiva che non voleva offende¬re il padrone, ritenendo che la discordia aves¬se lasciato in lui un seme ereditario; e tutta¬via ne discorreva con malcelata ammirazione. - Così numerosi? - domandò Guido, che non sentiva rancore. Il contrasto fra lo zio e il padre non aveva nuociuto a nessuno e se mai, oggi lo sapeva, avrebbe giovato a tutti fuorchè ai Soligo. `- Quando debbo provvedermi di farina e di granaglie, - rispose Nena, - vado di buon mattino. Signor Guido, la sala grande è una bellezza. Quanto è lungo il tavolo si distendono venti scodelle apparecchiate per i pa¬droni e i famigli. - Tanti? - egli domandò nuovamente, stupito. Da moltissimi anni non vedeva i So¬ligo. Per pigrizia o pudore, non sapeva bene, mai si era deciso a varcare il ponte; e non sup¬poneva che la famiglia fosse tanto cresciuta. - Tanti a mangiare, ma tanti a lavorare, - concluse la vecchia. - E Barbara, la maggiore, che ha già tre ragazzi, da due mesi è incin¬ta. E Leopoldo, che ha appena finito il servi¬zio militare, già pensa ad, accasarsi. È gente benedetta da Dio. I suoi invece, i parenti di Guido, dopo la morte della madre si erano tutti dispersi. II fratello in terra straniera, le sorelle ognuna in una città diversa. Ancora da Nena, parlando a caso, Guido seppe che i Soligo avevano distrutto il giardi¬no per impiantare la vigna, e che al posto del¬le aiuole avevano seminato l'orto. - Non hanno più fiori? Li avevano. Pochi, ma tutti davanti alla casa. ***** Fu alla fine di un'altra giornata d'uragano che Guido decise di andare dai Soligo. Gli zii sapevano che era ritornato, e Nena aveva det¬to loro che egli desiderava salutarli. - Dammi la lanterna, - disse alla donna; la pioggia era cessata, ma fuori il buio era, profondo. Si incamminò lentamente. Dal giorno dell'arrivo era la prima volta che si avviava ver¬so il paese, e l'idea di uscire dalla sua casa gli dava piacere. Si sentiva bene, e gustava l'aria fredda della sera. Giunto presso il ponte, spense la lanterna e rimase in ascolto. Dal basso saliva il caro mor¬morio del fiume con la identica voce di allora, la prima che egli riconosceva fra le tante senza riscontro rimaste nella sua memoria. Sulla sponda opposta la casa dei Soligo si ergeva grande e luminosa, ogni finestra una luce ac¬cesa. Guido affrettò il passo. Due cani gli vennero incontro abbaiando, sulla porta comparve una donna con un bimbo in braccio. - Tu sei Guido, - esclamò; ed egli non sapeva quale fosse delle sue cugine. La zio Soligo gli disse che lo aspettava e che aveva fatto bene a venire. Voleva che Guido sedesse a tavola, con la famiglia ancora tutta riunita; e c'erano tanti di cui egli non cono¬sceva nemmeno il nome; e due piccini, senza avvedersi di lui, battevano il cucchiaio nel piatto. Guido, invece, preferì sedere accanto al fuo¬co; disse che aveva freddo, sebbene non fosse vero. Aveva bisogno di scaldarsi a una fiam¬ma che riscalda tutta una casa. - Ti fermerai molto, Guido? - Ancora non so, non posso sapere. A poco a poco l'allegrezza delle voci che egli aveva udito entrando era calata di tono e mi¬nacciava di spegnersi. Fra le persone che non conosceva, una guardava la tovaglia, un'altra stringeva il bicchiere, un'altra ancora racco¬glieva briciole di pane. Forse per rompere l'im¬barazzo, o soltanto per essere cortese, la zia Soligo disse a Martina, la più giovane tra le sue figlie, di offrire a Guido un bicchiere di vino. Martina si avvicinò alla cassapanca reggen¬do la bottiglia e il bicchiere. La mano le tremava un poco; ma aveva occhi grandi e chiari, labbra aperte al sorriso. Guido la guardò; e gli parve che ella fosse entrata nella stanza soltanto allora. - Forse, - disse, alzando il bicchiere. - Forse domani. Nessuno dei Soligo capì quelle parole. RADICE RAUL Milano 1902 Roma 1988 Una visita alla fabbrica di orinali in ceramica e un breve idillio con Serafina, la figlia del proprietario. L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE raccolta di racconti Editrice Ceschina 1931. Estratto dal racconto: SOUVENIR La fabbrica delle ceramiche si innalzava un po’ più su del paese e per giungervi dal modesto albergo dove alloggiavo, discosto dalla provinciale, bisognava percorrere viottoli sconnessi, selciati di tufo e fiancheggiati da siepi di rovo. I padroni, come tutti li chiamavano, li avevo conosciuti pochi giorni dopo il mio arrivo. Componevano essi una famigliola di persone, padre madre e figlia, che da sole bastavano a reggere l'azienda. Il padre anzi, sebbene ogni affare si concludesse in suo nome¬, gran parte del tempo lo passava fuori di casa, occupato nei paesi vicini in misteriosi affari dei quali nessuno capiva nulla. In realtà, dunque, governavano la fabbrica le donne. E una di esse, la signora Purissima, sorvegliava le maestranze talvolta ponendo ma¬no ella stessa alla creta; l'altra, Serafina, di¬plomata dall'Istituto Tecnico della vicina cit¬tà, badava soprattutto alle cifre e alla corrispondenza, pur non tralasciando essa pure altri lavori o sorveglianze, qualora reputasse di intervenire direttamente. Serafina io l'avevo incontrata per la prima volta all'ufficio postale. Le avevo rivolto la parola senza conoscerla, come è uso nei piccoli paesi, attratto dalla sua giovinezza che subito si palesava prudente e ingenua. Nè avevo man¬cato di considerare la bellezza piuttosto solida della sua persona, e la fronte incorniciata dai capelli castani, e gli occhi azzurri assorti, con¬trastanti col rimanente del volto mite e casa¬lingo. Anche mi era piaciuto di vederla arros¬sire avendole manifestato il desiderio di visitare la fabbrica. - Venga, - mi aveva detto - le farò conoscere la mamma. Poichè vivevo appartato non sapevo, come seppi più tardi, che gli abitanti del paese e i padroni nutrivano gli uni verso gli altri, un mal celato dispregio. I primi, per essere la fabbrica delle ceramiche specializzata nella produzione di un oggetto domestico del quale Serafina un giorno mi disse il nome in tre diff¬ereti lingue: pot de chambre, chamber¬-pot, nachtgeschirr. I secondi, perché i loro compaesani erano gente zotica e villana, tanto che di quell'oggetto facevano limitatis¬imo uso. Tuttalpiù, talvolta, le donne del vic¬inato venivano a scegliere dai cocci qualche vaso mal riuscito e non ancora verniciato per piantarvi un cespo di garofani da esporre alla finestra, perchè fiorisse al sole; ma erano aff¬ari che alla fabbrica non rendevano un ce¬ntesimo. Il commercio, ciò nonostante, era florido. Al lunedì la strada era sempre animata di facchini che scendevano portando sulle spalle pesanti ceste entro le quali, adagiati nel fieno odoroso, i bei vasi bianchi e grassocci luccica¬vano al sole. Un grande carro chiuso li ingoia¬va tutti, e così numerosi che poi gli mancava lena e doveva procedere lentamente verso la città. L'aspetto esteriore della fabbrica per un verso rammentava la caserma, per l'altro il convento. Una vite del Canadà, vecchia e no¬dosa, ricopriva quasi interamente i muri senza intonaco ed ora, avanzando l’autunno, si co¬lorava di giallo e di rosso. Le galline beccavano ciuffi d'erba miserella nel cortile. Do¬vunque silenzio, quasi che nessuno abitasse il casamento. La prima volta credetti di esser capitato in giorno di riposo. Incontrai Filippo, un ragazzotto furbo e vivace addetto al magazzino ove pure si effettuava la vendita al minuto e gli chiesi: - Si lavora oggi? - Sempre, signore. E corse a chiamare Serafina la quale venne subito, vestita di un lungo grembiule. Mi disse che ero stato gentile, ma che non c'era molto da vedere. La lavorazione era semplice e poco interessante. - Non le mostro le macine, - aggiunse perché oggi sono ferme. D’altronde quello è il reparto più insignificante. Vi si pestano sassi bianchi che non hanno niente di bello. - No? - feci io ridendo. - Oh no! - disse lei. - Una volta venne qui un signore il quale, molto furbescamente mi confidò di aver letto in un libro che ci sono sassi maschi e sassi femmine. Che stupido! Pensava che io ci credessi. Serafina disse tutto questo con molta serietà. Anzi, dopo un breve silenzio, aggiunse : - E poi, anche se così fosse, per la nostra industria la differenza non sarebbe importante. ............................ ............................... I vasi, dopo aver subìto una prima cottura, venivano suddivisi in due categorie. La maggior parte, immersi nella vernice bianca, passavano nuovamente al forno. Altri, invece, subivano una più raffinata lavorazione. Fortunatamente esisteva ancora una categoria di consumatori i quali ambivano il vaso dipinto. Si trattava generalmente di filettature azzur¬re, facilissime da eseguirc. Bastava deporre il vaso sul trespolo e farlo girare con un colpo secco della mano, tenendo il pennello appoggiato sull'orlo, perchè in un attimo i1 colore riuscisse bene steso ed uniforme. Però non mancavano altri motivi decorativi, fra i quali Serafina prediligeva una esile co¬rona di ninfee intrecciate, dipinta all'esterno, mentre una ninfea più grande sbocciava dal fondo. Guardando i diversi tipi mi convinsi della predilezione per i fiori acquatici, anemoni e nontiscordardimè, sebbene non mancassero in¬teri paesaggi romantici popolati di figurine. .......... ..................... Nel congedarmi Serafina mi disse di ritornare. Ma non durante il giorno, che ormai sapevo qual era il suo lavoro. Le serate erano invece lunghe e tranquille e ci saremmo fatti compagnia scambiando qualche chiacchiera, o con le carte in mano, o davanti agli scacchi, gioco nel quale si disse abilissima. Tra breve sarebbero maturate le castagne ed ella teneva in serbo un vinello dolce e trasparente. Tornai una volta, poi un'altra, poi un'altra ancora. Serafina mi attese ogni sera. Non più fasciata dal lunga grembiule della prima vol¬ta, sfoggiava vestiti di lanetta e di tulle, adornandosi la testa con grandi nastri colorati. Quando non giocavamo a carte suo padre e sua madre si ritiravano in uno sgabuzzino a fianco della stanza da pranzo, e vi rimanevano a lungo a parlar di affari e a escogitare chissà quali economie. Noi occupavamo il tempo ora chini sulla scacchiera, entrambi pensando ad altro, ora sfogliando libri o vecchie raccolte di giornali illustrati. Alle poche parole succedevano lun¬ghe pause di silenzio. Allora sembrava che an¬che l'aria fosse diventata immobile, e se qual¬cuno attraversava per caso la via il rumore dei passi giungeva distinto e sonoro. Io allora le prendevo la mano. Serafina chiudeva gli occhi e rimaneva immobile e solo le palpebre tremavano impercettibilmente. Ma, soltanto che io stringessi più forte, lei si ritraeva mormorando a voce bassa: - No, no. Non bisogna. ............ .................... Serafina, per contro, non era loquace. E benchè le splendesse il volto come per dire che il più bel dono era la sua giovinezza, a tratti sollevava gli occhi inquieti verso l'orologio. - Come è stato gentile! - mi disse appena fummo soli. - Non dimenticherò mai questa serata. Tutto il resto non importa. Qui si interruppe e si chinò a odorare le mie rose. Io volevo parlarle, ma mi supplicò di non dirle niente. Rimanemmo così in silen¬zio finchè l'orologio battè alcuni colpi. Serafina ebbe un sussulto, si passò una mano su¬gli occhi e rimase con le labbra un poco soc¬chiuse come se qualcosa di importante fosse accaduto. Alla mia domanda rispose: - Mi scusi. Questa sera abbiamo acceso il forno e c'è tanta roba dentro e non si può fi¬darsi di nessuno. Bisogna che io vada a vedere. Le offersi di accompagnarla. Ella dapprima parve titubante, poi mi prese per mano e mi guidò attraverso un labirinto di corridoi oscu¬ri. Più proseguivamo e più l'aria diveniva calda. La sua mano era sempre nella mia e la sentivo palpitare. Giungemmo presso una finestrella ovale, si¬mile all'oblò di un bastimento, protetta da un vetro grosso e pesante. Appoggiato al muro stava uno sgabello sul quale Serafina salì, al¬lungando la bella persona. Spinse lo sguardo attraverso al vetro e rimase un poco a guar¬dare, facendosi schermo con la mano. Dopo un poco mi invitò a salire e i miei occhi godettero uno spettacolo infernale. Il pavimento del forno, arrossato dai baglio¬ri del fuoco, saliva dolcemente verso il fon¬do. Nella luce alterna stavano a cuocere nu¬merosi vasi ben disposti; e poichè la volta, declinando, seppelliva gli ultimi nel buio, sem¬bravano continuare all'infinito. Grossi e paf¬futi quelli in primo piano, come visi di idioti ben pasciuti ai quali avessero tagliata la fron¬te; altri seguivano resi corrucciati dal gioco delle ombre, mentre gli ultimi, quasi intera¬mente nascosti, boccheggiavano a intermittenza mostrando smisurate labbra sanguigne. Tutto sembrava animarsi. Misteriosi sussurri giun¬gevano attutiti e insistenti, accompagnati dal lamento incessante delle fiamme prigioniere entro le pareti. - Una volta misero troppa legna e brucia¬rono tutti - disse Serafina. - E un'altra volta il raffreddamento troppo rapido li spac¬cò. Ma questi vengono bene. Discese lieve e sorridente. Si appoggiò alla parete e traendo un sospiro di sollievo, esclamò: - La vita è bella. Allora io la cinsi con un braccio e, solleva¬tole il mento, volli baciarla. Ella si schermì serrando le labbra e allontanandomi col pugno chiuso. Ritentai inutilmente. Sulla fronte di Serafina erano apparse poche rughe e le gote le si erano afflosciate sugli zigomi. Le sue labbra tremanti mormorarono: - Ora lei ha voluto guastare tutto. So bene che di me non le importa niente. So che deve partire, nè farà ritorno. E allora perchè? Quel¬lo che intendeva fare significa che non mi vuo¬le nemmeno un po’ di bene. Seccato di non essere riuscito a nulla, le dissi che la simpatia dimostratami nei giorni scorsi valeva a giustificarmi. Serafina, tratte¬nendo il pianto, mi rispose che ora sapevo cosa pensare di lei. Tornammo nella stanza da pranzo. Senza parlare ella dispose la scacchie¬ra e mi invitò a giocare con un cenno della mano. La partita durò più di un'ora e non furono pronunciate che le parole di rito. Quando io dissi « matto al Re » ella parve non ascoltar¬mi. Alzò un poco le spalle, come per raccogliersi in sè stessa e rimase a lungo fissando la tavola, senza riabbassarle. ................ .......................... Andai alla fabbrica ancora due volte. Sera¬fina mi accolse sempre con cortesia, ma non più ilare sebbene gli occhi apparissero gran¬di e sereni. Il giorno prima di partire la ringraziai dell'ospitalità, scusandomi di averla io stesso guastata. - Ella non ha niente da farsi perdonare - mi disse. E ancora si guardò d'attorno evitando il mio sguardo, come ogni volta quando immaginava che dovessero seguire altre parole. Io in¬vece non parlai. Avvertivo nell'intimo una grandee dolcezza e guardavo svanire, oltre le finestre ancora aperte, il sole d'ottobre tie¬pido e dorato. Nel grande silenzio della cam¬pagna si udiva, a tratti, il tonfo secco di una castagna staccatasi dall'albero e precipitata al suolo fra lo stormire delle fronde. Ci lasciammo così. Serafina aveva negli oc¬chi due lagrime che non caddero. Prima di chiudere la porta sollevò la mano verso il mio volto come se volesse carezzarmi, ma la tenne lontano e voleva dirmi addio. ********************************************************************* SALSA CARLO Alessandria 1898 Milano 1962 Fondatore, insieme a Repaci e Colantuomi, nel 1929 del Premio Letterario Viareggio. Autore pitigrilliano, così si definiscono gli scrittori scelti e apprezzati dal grande Pitigrilli. (pseudonimo di Dino Segre). CARLO SALSA da: IL RITORNO DEGLI AMANTI Editore Cerchio Blu 1925 Il desiderio impossibile, la fantasia da lontananza idealizzano la donna assente; creano il sogno, fanno di una piccola donna di carne una chimera irraggiungibile. L’amore viene sollevato dalla lirica; l’inquietudine diventa incubo; un bisogno fisico si trasforma in uno strazio sentimentale in fondo al cuore. Ma se rivedo quella donna il sogno comincia a mettere le penne, ridiscende nella realtà. La figura lirica torna ad essere solamente una femmina. Come sempre avviene, la chimera raggiunta si sfascia tra le mani come un giocattolo di stoppa. La fantasia è troppo bugiarda e non riesce a reggere il confronto con la realtà. SALSA CARLO Tratto dal racconto MOTIVO IN CHIAR DI LUNA dalla raccolta intitolata: PRIMATICCE Editore Sonzogno 1928 Al mattino gli usignoli si mettevano a sfilare lunghe collane di trilli rimbalzanti contro l’alabastro del cielo; più tardi, le cicale ubriache di sole frastornavano l’afa dei pomeriggi immobili, e le raganelle componevano una sinfonia di canne d’organo sgangherate. Fuori era l’estate; la marea di frumento si sfasciava ondeggiando sotto il flagello del sole. La strada arida serpeggiava come la spoglia di un rettile, attraverso quell’opulenza di agosto. Le filandere passavano cantando: femmine sature di tutti i succhi elementari della sessualità, offerte alla felicità dei maschi possenti. Giorgio staccò un garofano dal vaso sul davanzale e lo gettò giù. Una bella figliola si staccò dal gruppo, raccolse il fiore, guardò su e sorrise. Poi scappò via d’improvviso come una gatta presa a sassate. La sera dondolò giù dal campanile. Giorgio chiuse gli occhi preso da quella vertigine. SALSA CARLO tratto dal racconto ALCOOL dalla raccolta: Primaticce. Un ubriaco al bar racconta la sua vita a uno sconosciuto. Caro signore, è la gente che ci giudica così. Anche voi mi parlate con la tolleranza con cui si parla a un ubriaco. Bevo, d’accordo, ma capisco. Vengo qualche volta squilibrato dal vino, ma capisco. Non credete? Il vino non mi piace molto, veramente. Non è un vizio. Io cerco di bere come si cerca di dormire, per annegare il cervello. Mi fa bene. Tutto sta aver fiducia in un sistema. Quella sera camminavo verso casa. La strada era buia e deserta; la nebbia compatta si sfasciava intorno ai fanali. Non ricordo cosa pensavo; certo ero distratto, assente. Cosa volete che vi racconti? Non ho mai raccontato nulla perchè nessuno si interessa di me. L’interesse della gente si crea a seconda di quello che scrivono i giornali. Ecco qua. Dieci anni fa vivevo in una città di provincia. Ero medico. Vi stupisce? Dottore; ero giovane 28 anni. Ora ricordo tutto bene. Una pianura a perdita d’occhio, spoglia, povera, triste d’inverno. Un gregge di case inerpicate su per la china; e quella torre in cima, quell’ospedale nudo e massiccio come una caserma, in cima. Ho vissuto anni in quell’edificio di biacca. Là dentro conobbi Marcella. Sono trascorsi tanti anni e rivedo quella strada lastricata di ciottoli e convessa come una grattugia, che saliva tra muraglie umide e senza finestre, piene di scolature di muffa e di tralci secchi. La sera, quando una foschia violetta inondava la pianura, l’odore delle rose fradice fumava su dal giardino fino alla terrazza. Quando ci si sente soli, l’affetto di una donna diventa una cosa profonda. Credete; la vita non è ne lieta nè triste in sè, ma come noi ce la facciamo. D’estate, attendevo Marcella lungo un viottolo incassato tra un mare di verde, che serpeggiava da un estremo gruppo di case rosse. L’intimità con Marcella era una cosa tutta nostra e bisognava che nessuno sapesse. Il paese era bigotto; le comari spettegolavano fra il tinello e il sagrato. Bisognava che nessuno sapesse. Quella solitudine popolata di nascondigli, quell’acuto profumo di terra d’estate, quella donna giovane che sentivo vibrare sotto le mie mani in un contrasto di pudore e di sensualità, mi davano un senso di felicità e di energia. Un giorno fummo scoperti. Ci eravamo inoltrati lungo un fossato disseccato che scavava una galleria di fogliame attraverso le messi. Fermentavano in quella freschezza verde tutte le essenze elementari della terra e del sangue. Eravamo colpevoli di non esserci nascosti abbastanza. L’amore è una felicità che la gente estranea vuole ignorare, che bisogna nascondere, perchè suscita, in quelli che non la godono, il sordo rancore dei poveri contro i ricchi. Caro signore, a 28 anni si cerca troppo l’amore per pensare al matrimonio. Il matrimonio è il dovere; l’amore è l’avventura. Il matrimonio crea dei funzionari dell’amore e noi vogliamo essere invece dei folli contrabbandieri. Cominciai a temere l’inciampo, il viluppo, l’intrigo di quell’amore. Il paese si considerava offeso dal nostro sotterfugio; la gente voleva impormi di pagare il prezzo all’autorità della tradizione e alla legge del buoncostume. A poco a poco, il pensiero della grande città mi attirò. Così è signore. Noi dobbiamo desiderare sempre qualche cosa: quello che non abbiamo avuto e quello che non abbiamo più. E la cosa più triste è desiderare quello che non abbiamo più; perchè non l’avremo più. Venni in città, per partecipare a un concorso. Quando partii Marcella non tentò nulla per trattenermi. Si aggrappò a me e mi guardava, come si guardano le cose per la prima o per l’ultima volta. Io non posso spiegarvi. La nuova vita in città mi spalancò l’orizzonte, mutò le proporzioni del mio passato; tutto si immiserì nello scorcio della lontananza. Il ricordo di quel paese isolato, dell’ospedale vasto e grigio come un ergastolo, di quella pianura senza strade, mi ritornava alla mente con una sensazione di freddo. Spesso, l’immagine di Marcella risorgeva da quel mondo spento come qualcosa che emerge sulla nebbia di un naufragio. Poi, un giorno, il congegno che abbiamo costruito ci si sfascia tra le mani come un giocattolo fracassato; e allora si torna alla romanza del passato inutile, al lamento di quello che avrebbe potuto essere e non fu; si comincia a uggiolare alla luna. Il ricordo di quella donna cominciò a fissarsi, a valorizzare cose che mi erano sembrate futili; a impigliare tutte le mie attività come le ragnatele delle stanze disabitate. Credete; l’infelicità non è data da una grande sciagura, ma da certi pensieri monotoni che si mettono a oscillare tra le tempie col luccichio di un pendolo di ottone, e vi fanno impazzire. Ho la gola secca. Forse è il colletto che un poco mi soffoca. Cosa volete sapere ancora? Poi? Oh, io sapevo che un giorno lei sarebbe venuta là a cercarmi. Una mattina entro all’ospedale. Ero di turno alla camera incisoria; le solite autopsie della gente che muore per le strade, senza nessuno. Nella sala c’erano gli infermieri che annotavano; un medico stava infilandosi i guanti di gomma. Sulla tavola anatomica era steso un cadavere. Solo i capelli erano vivi; pure mi pareva che Marcella mi attendesse come una volta, in campagna. Il medico inforca gli occhiali, investiga col suo sguardo di vetro, incomincia il lavoro... Ma ditemi? Potevo mettermi a gridare in mezzo a quella gente? Non toccate! Quella donna l’ho uccisa io! Avrei potuto anche fuggire via subito, senza dire nulla; certo. Perchè rimasi là? Non so. No, non credete che io sia uno squilibrato; come potrebbe raccontarvi tutto questo uno squilibrato? Lasciate che vada. Sono stanco ed è tardi. Forse Marcella mi aspetta come l’altra notte, nella mia stanza. Buona sera, signore. Buonasera. ********************************************************************* SCARPA ATTILIO LA SCUOLA DELLE MUMMIE Vallecchi Editore 1919 Questo Autore elenca i mali che affliggono la scuola e tenta anche di offrire dei rimedi. È straordinario come questo libretto stampato nel 1919 sia ancora attualissimo e validissimo! Da Attilio Scarpa LA SCUOLA DELLE MUMMIE Insegnando l’italiano nelle scuole medie mi è accaduto di notare che i giovani non sono insensibili alle bellezze della letteratura, e hanno torto quelli che credono il contrario solo perchè i loro alunni sbadigliano durante la lezione di italiano. Ma approfondendo le osservazioni ho voluto chiedermi perchè un insegnamento siffatto dà risultati così magri dal momento che (se c’è una materia capace di destare l’entusiasmo) questa è proprio la letteratura; e se c’è una età dell’entusiasmo, questa è proprio la giovinezza. I programmi sono completi, gli scolari sono intelligenti, i maestri geniali, i testi sono ottimi; tutto dovrebbe andar bene, eppure... eppure la scuola va male. Questo perchè noi ci sforziamo di rendere sempre meno umane le lettere separandole dalla vita nel contenuto e nel metodo del nostro insegnamento. Per conto nostro riteniamo assurda la pretesa di modellare tutti gli alunni sul medesimo stampo. La chimica si può imparare senza una partecipazione del sentimento, perchè si tratta di uno studio scientifico, intellettuale per eccellenza. Ma lo studio letterario non è soltanto scientifico, non consiste soltanto in un complesso di norme grammaticali e sintattiche; esso è anche artistico e perciò coinvolge il sentimento. Allettati dalle accademiche parodie della cultura tedesca, noi avevamo l’illusione di una prevalenza scientifica e razionale nel campo letterario. Ma la realtà ci dimostra che ci eravamo ingannati, perchè la genesi dell’opera d’arte sfugge a un’analisi veramente scientifica. Nel poeta che crea si può trovare soltanto l’estasi o l’affanno: sempre uno stato d’animo che si può capire con la psicologia e col senso della bellezza, non con la statistica erudita che lavora sempre sulla scorza dei fatti spirituali. Come lo scrittore può parlare dell’opera sua soltanto dopo l’impeto della creazione, così noi possiamo chiarire la genesi e le caratteristiche dell’opera stessa soltanto dopo aver fatto fremere gli alunni con la conoscenza diretta dello scrittore. Prima il sentimento, poi l’intelligenza; prima l’intuizione, poi la storia; prima la giovinezza, poi la maturità. Questo ordine conforme alla natura non deve essere turbato. Ma il sistema scolastico è questo. La Scuola deve pensare a tutto e per tutti. È naturale quindi che i suoi programmi possano non servire a nessuno e scontentare tutti. Lo Stato è il livellatore per eccellenza. Esso accentra. Esso forma, o almeno tende a formare, l’insegnamento, l’alunno, il professore, la cultura con la carta bollata. La burocrazia strozza con i suoi tentacoli la scuola. Bisogna formare dei professionisti tranquilli, dei fedeli impiegati, questo è lo scopo a cui mira la Scuola. Ma spesso la tranquillità è l’inerzia, cioè la morte. L’alunno ascolta, subisce passivamente il borbottio dell’insegnante. E l’insegnante è ridotto a fare il grammofono. Sulle cattedre di italiano siedono ancora troppe mummie. Meno letteratura e più vita! Più vita, intendo, appunto per migliorare la letteratura, per rinnovare l’insegnamento. Che cosa è l’opera d’arte? E’ la voce di un’anima che si rivolge ad altre anime. Noi non vogliamo la perfezione; non vogliamo l’impossibile. Vogliamo soltanto l’aspirazione all’ideale, lo sforzo per raggiungerlo. La vita è una ascensione, la vita è un cammino faticoso verso l’ideale. Chi sa? Chi è sapiente? Giustamente il popolo ci deride col suo proverbio: Chi sa fa, chi non sa insegna. ********************************************************************************** SCATTOLINI VIRGILIO Anche in Italia abbiamo grandi scrittori paragonabili ai francesi D’Aurevilly, Balzac, Maupassant. Con la differenza che qui da noi non sono sufficientemente pubblicati, diffusi e pubblicizzati. È il caso di Virgilio Scattolini, grandissimo autore purtroppo poco conosciuto e che non viene ristampato da anni. Nato a Firenze nel 1889 è autore di molti libri: CESARINA IMPARA L’AMORE LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA LA BOCCA MI BACIO’ TUTTA TREMANTE EVELINA DRAGO PIACERE DEL MONDO LA RAGAZZA DAI SETTE PECCATI IL PROCESSO DI CESARINA DATTILOGRAFA MARCA AMORE E MORI’ PER TUTTE LE DONNE IL PECCATO ORIGINALE CHE C’E’ DI MALE LA CAVALCATA DELLE VERGINI LA SIGNORA DEGLI UFFICIALI GIANNETTA DELIZIOSA AVIATRICE LE SIGNORINE MA LEI NON SI UCCISE L’ARTE DI IMBROGLIARE IL PROSSIMO MORFINOMANIA L’IGNORANZA DEI NOSTRI ATTORI AVE MARIA. Il romanzo che presentiamo qui: LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA racconta la storia di una bella ragazza che si accinge a diventare donna. Scattolini descrive poeticamente il variopinto mondo interiore femminile dell’adolescenza. Quei momenti magici, irripetibili di una ricchezza sovrabbondante che sembrano eterni, ma sono destinati a svanire e a essere dimenticati nell’età adulta. È un prezioso tesoro che l’Autore è riuscito a descrivere e immortalare, per il piacere di ricordare i momenti più belli che tutti noi, da giovani, abbiamo vissuto. Poi, nel corso degli anni, il fidanzamento, il matrimonio, la maternità, l’amore e l’odio, il piacere e il dolore. Tutte le bellezze e le brutture delle fasi della vita sono magistralmente descritte nel loro aspetto esteriore ed interiore. Le azioni delle persone seguono schemi di comportamento naturali e i personaggi del romanzo si comportano come le persone vere nel mondo reale. C’è grande realismo e verosimiglianza nelle descrizioni fisiche e psicologiche dell’Autore. Le fasi della vita si susseguono, le stagioni scorrono e il finale sembra prevedibile, sembra che non ci sia più niente di nuovo da aspettarsi. Invece non è così. Proprio come nella vita reale, la fine offre nuove sorprese, imprevedibili ma coerenti con lo sviluppo dei fatti. Scattolini è un mistico dell’erotismo, un Autore che tratta con competenza e grande realismo il poema dell’adolescenza e della giovinezza. Le più belle stagioni della vita e degli amori sono evocate con una grazia e un realismo stupefacente. Bellezze e brutture, splendori e miserie, vertici e abissi della vita sono esplorati e descritti con rara capacità e magistrale bravura. Solamente i poeti hanno descritto la vertigine delle passioni nel momento stesso in cui la vivevano. Pochi hanno saputo descriverle dopo; molti le hanno dimenticate quando le passioni si sono esaurite. Nelle pagine di Scattolini vibra la vita, splende la vita, scorre la vita. Le passioni possiedono una religiosità e una profondità che tocca le radici dell’essere, là dove si nasconde il mistero dell’esistenza. Ecco l’importanza di questo Autore ricco di sensibilità, di esperienze e con il desiderio di condividerle con i lettori. Altro merito di Scattolini: egli ha lavorato per diffondere gli autori italiani. Scattolini si lamentava che gli autori francesi in Italia vengono stampati e diffusi più degli autori italiani. SCATTOLINI VIRGILIO nato a Firenze 1889 morto??? Un velo di oblio è disceso su questo grande scrittore, autore di una decina di capolavori, ora purtroppo quasi introvabili. Le sue storie d’amore sono profonde e realistiche, originali e imprevedibili. Durante la vita lo scrittore lavorò anche per promuovere gli Autori Italiani e non quelli stranieri. Attualmente alla libreria Arengario di Brescia, un libro di Scattolini è quotato 180 euro. Virgilio Scattolini LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA Editore Cecconi 1924. Opera condannata, esaltata, ma sempre posta alle estremità nei giudizi dei critici di quei tempi. Questo brano descrive poeticamente il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza di una bella fanciulla chiamata Cesarina. Il cambiamento di età è unito al cambiamento di stato sociale, poiché ella andrà presto in sposa al Conte Aroglio. Virgilio Scattolini dal romanzo: LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA. Cesarina imparava che tutte le cose che fino allora aveva considerato eleganti e finissime, erano invece banali o grossolane. Quei vestiti, quella biancheria, quei profumi che prima avevano formato la sua delizia, ora li disprezzava, con una prontezza volubile. Quando guardava le vesticciole corte che pochi giorni prima erano tutto il suo desiderio, e le sue mutandine, e le camicine immacolate di bimba nelle quali il suo corpo meraviglioso aveva palpitato dei suoi primi brividi di verginità; e quelle calze che finora sembravano miracoli di trasparenza... I grandi occhi notturni di Cesarina parevano salutare la fine dell’infanzia semplice e modesta. Adesso, alla sera, nella camera candida, la ragazza si sfilava le calze delicate come aliti di fiori, leggere come sospiri di angeli nascenti e che parevano tessute d’aria e di luce di paesi remoti. Levava le mutandine grondanti di pizzi a disegno d’artista, in lievi tonalità d’avorio e di luna. E la camicina da giorno in cui la sua pelle d’aurora si annuvolava come uno scherzo mattutino. ......................... .............................. Il romanzo prosegue descrivendo il matrimonio del conte Aroglio, 54 enne con la bella Cesarina, appena quindicenne. Dopo la luna di miele, la virilità dell’anziano conte, suo marito, non regge allo sforzo prolungato. Virgilio Scattolini dal romanzo: LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA La cameriera particolare della contessa fu la prima ad accorgersi del cambiamento. Non c’era più, la mattina, quando andava a svegliare la sua signora, quell’odore vivo e grave di un corpo di femmina fecondata, rimasto chiuso per tutta la notte nella camera o nell’alcova, intorno al letto della sposa. La cameriera aveva la prova sicura che l’alcova profondissima del palazzo di Firenze era rimasta incontaminata dal maschio, come la camerina di una vergine. Quando la mattina entrava nella camera e socchiudeva le due grandi finestre, percepiva soltanto un’aria pesante di stanza chiusa, con larghe onde di profumi e leggere sfumature di intimità femminili. ***** SCATTOLINI VIRGILIO dalla raccolta di racconti: LA CAVALCATA DELLE VERGINIEdizioni Excelsior 1922 Io guardavo una bella cocottina che attraversava la piazza. Era ossigenata meravigliosamente e dipinta alla perfezione. Camminava con passettini miracolosi e in tutto il suo abbigliamento c’era una intelligenza fantastica. L’intelligenza di ricordare continuamente agli uomini, ad ogni suo piccolo movimento, che il corpo di una bella donnina è la più bella opera della creazione. ************************************************************************** SPERANZA MARIO nessun dato biografico Da QUALCUNO IN GRIGIO Editrice Vecchioni, L’Aquila 1925 raccolta di racconti. Un figlio non voluto da una donna sposata, mette l’amante nelle condizioni di dover scegliere se far abortire la donna. Dal racconto: PATERNITA’ Mio figlio! Ora, ora soltanto, dinanzi a quella sua paternità improvvisa e inconsapevole, egli sentiva tutto il valore di quella parola. E quel figlio suo, fatto da lui, creato da lui, quel figlio sarebbe stato il compimento del suo essere, la continuazione della sua vita, l’unica cosa grande e bella della sua esistenza sciupata. Avrebbe avuto forse tutto quello che a lui era stato negato; forse avrebbe realizzato i suoi sogni distrutti. Egli aveva vissuto, il suo cuore era disilluso, era stanco, era vecchio. Ma c’era una vita che stava per sbocciare, che stava per fiorire, che avrebbe creato altre vite. No, egli non poteva spegnere quella vita. Commetter un delitto, un assassinio, dopo averlo premeditato coscientemente; e vivere, continuare a vivere con quel tremendo fantasma vicino, con quel segreto che non avrebbe potuto rivelare ad alcuno... E gli parve di vedere in quel momento una piccola camera tutta bianca; le garze, le fasce, il ghiaccio; i ferri chirurgici lucidi e taglienti. E Giuliana distesa sul letto, con la mascherina di cotone sul viso... E poi i ferri del chirurgo che avrebbe frugato il ventre di quella donna, violandola nelle carni e nell’anima.... Ed egli che sarebbe fuori dalla porta, insofferente per quella interminabile attesa, vinto da mille paure e da mille tormenti... E le macchie di sangue sul letto, sul pavimento... E quell’acuto odore di medicinali nell’aria.... E il viso pallidissimo di Giuliana... E il grido che avrebbe gettato pazzamente; e il pianto. Egli rabbrividiva. No! Non poteva farlo! Non poteva farla abortire! Non poteva distruggere quella vita... *************************************************************************** SOFFICI ARDENGO Rignano 1879 Forte dei Marmi 1964. Dalla raccolta di racconti LA GIOSTRA DEI SENSI Editore Vallecchi 1920 A Pistoia si mangia nebbia e oro. In certe giornate di grigio smorto, altrove si potrebbe spegnersi nella noia, tramar suicidi, maledire il destino. Qui a Pistoia invece, ci si crogiola nella tranquillità delle ore, inzuppati di umidità lungo i giardini a terrazza, nel fango del Viale Arcadia, accanto ai caloriferi dell’Accademia degli Armonici del Caffè del Globo. Aurore fredde e lucide lungo gli Spalti, non vi dimenticherò mai. Le case dai tetti rossi, la fila indiana dei fini pioppi per la pianura, tra i fischi e il fumo dei treni; e la sorpresa della neve raggiante sull’Appennino sposato al cielo di azzurro lumiera. Gli uomini si mettevano al passo di corsa per riscaldarsi; si ordinava la ginnastica col fucile. E le ragazze del popolo scoppiavano dalle risa; ma erano così belle che tutti le perdonavano. La sera, la più grande felicità è di girellare sui marciapiedi caramellati di sole. intorno alla Piazza del Duomo, si scende e si sale come nei sogni. Ma l’ora più deliziosa è al crepuscolo in Piazza Mazzini. Intorno alla vasca piena di stelle liquefatte, girano le coppie degli innamorati, senza far rumore. In mancanza delle aiole ci sono le panchine di pietra, dove ci si può distendere per un lungo bacio. Il busto bianco di Nicolò Forteguerri guarda sorpreso quello di Cino, a cui manca il naso. Chi sa gustare l’ironia delle emozioni semplici, in Piazza Mazzini dimentica il mondo. Chi preferisce ubriacarsi di malinconia può risalire il piccolo prato, fra le piante folte, come in un dipinto di Durer. In cima si trova un tempio alla greca. Un cancello di ferro chiude la tenebra. Ci si appoggia alle sbarre e si guarda il mistero. Non c’è nulla. Due metri più in là c’è un rozzo muro senza porte né finestre. Lo si può prendere per un simbolo, se si vuole. A Pistoia la notte è muta e casta. Le belle ragazze che di giorno portano in giro l’eleganza dei loro corpi armoniosi, adesso respirano con innocenza nel sonno. Anche la città dorme, così, distesa nella vastità del piano e del cielo, appoggiata al guanciale dell’Abetone. ************************************************************************* TEDESCHI GEPPO provincia di Reggio Calabria 1907 Roma 1994 Un Autore così immenso non è antologizzato e neppure citato sui Dizionari degli Autori: Bompiani, Garzanti e Larousse. Amico di Marinetti, considerato (a torto) futurista Geppo Tedeschi non esalta il progresso, la velocità, le macchine, ma ci parla invece della campagna, della Natura con parole nuove che sanno stupire e incantare. Con Geppo Tedeschi il linguaggio raggiunge il massimo della sua potenza espressiva e quasi visionaria. Geppo Tedeschi da: ANTOLOGIA POETICA Corso Editore 1986 IL FALEGNAME UBRIACO Ieri sera vidi laggiù, sotto un’arcata blu di cielo, il vecchio falegname che ubriacatosi col mosto di un tramonto di agosto, voleva liquefare, col fuoco di una lucciola, la colla. Poi, nel ripassare, lo rividi inchiodare sbadatamente pezzi di notte e di luna cadente. ODE AL MIO LUME A PETROLIO Nessuno più ti accende. Eppure se metto l’orecchio accanto al tuo stoppino, vela afflosciata senza barcaiolo, odo stormire favole ancora. Odoravi di altari a mezzo maggio quando salivi di fiamma, filando come un’Ava. A te gloria, domestico pensieroso di molte generazioni; giostra delle falene; papavero dei campi della notte; mietitore dell’ombra; garibaldino di guardia della mia dolce casa, caduto con onore! RAGAZZO FUORI CASA Improvviso silenzio di grilli, parlottio intrigato di ruscello, pause profonde di rane, tremori di Ave Maria. Un monello ha tirato dentro il recinto del cimitero, piccolo come un bacio di bambina, una fiondata di lucciole. TELA FIAMMINGA Notte di Ottobre. Seduto al focolare (scoppiettante minuscola pianura) il vecchio ravvivò il taglio della falce, come se dovesse andare a mietitura. E man mano che saliva il chiarore della gracile vita dei sarmenti, gli brillavano gli occhi di passato e il capo aveva meno ondeggiamenti. Il cretoso lumino del deschetto, si affrettò a ritrarlo sulla parete con la fiamma a cappello di folletto. ********************************************************************** TODDI pseudonimo di Pietro Silvio Rivetta Conte di Solonghello Roma 1886 1952 Scrittore umoristico arguto, profondo e incantevole. I titoli dei suoi libri attirano come un cesto di ciliege e fragole: LA FELICITA’ COL MANICO. IL CARCIOFO BISESTILE. ZERO IN AMORE. IL SORRISO DIETRO LA PORTA. IL DESTINO IN PANTOFOLE. DOVE LE RAGAZZE NON POSSONO DIRE NO. TODDI dal libro: LA FELICITA’ COL MANICO Editore Ceschina 1933. Troppa gente si è occupata della bilancia che ci attende alla fine della vita e nessuno si è preoccupato mai di quella che sta all’inizio della vita. La bilancia che serve a dosare gli ingredienti con cui si fabbricano gli individui che vengono al mondo. Basta un piccolo errore o una piccola distrazione nel peso, e invece di un genio degno di gloria viene fuori un pazzo degno di camicia di forza. Su questa bilancia può succedere il più spaventevole guaio per voi! Fate attenzione alla bilancia, sopratutto nel momento in cui stanno dosando la vostra intelligenza. Raccomandate di metterne il meno possibile! Ogni milligrammo di intelligenza vi toglie un etto di felicità. È preferibile avere una gobba che non richiede nessuna manutenzione. L’intelligenza invece richiede un mantenimento costoso e penoso, essendo accompagnata dal tarlo del “Perchè”. L’uomo col cervello piccolo pensa che la scienza è paragonabile a una montagna; chi arriva alla vetta, scopre che lì vicino c’è una montagna ancora più alta. L’uomo col cervello piccolo si accontenta di scrivere questa osservazione su un libro per le scuole elementari e lo fa adottare dal Ministero della Pubblica Istruzione. Poi rimane beatamente in pianura. ************************************************** VISENTINI GINO Badia Polesine (Rovigo) 10 Aprile 1907 Roma ??? GLI OCCHI INDISCRETI Vallecchi Editore 1946 Raccolta di racconti. Tratto da GLI OCCHI INDISCRETI. Valentino faceva l’imbianchino ed era bravo nel suo mestiere; un tipo allegro, estroverso come un attore. Piaceva molto alle cameriere delle case dove andavamo a lavorare, e lui ne approfittava per fasi svelare i segreti delle famiglie e aver libero accesso in tutte le stanze, i ripostigli, i solai, le cantine. Voi non immaginate la sua morbosa curiosità. Era il tipo da stare con l’occhio appiccicato ai buchi delle serrature. Il suo sguardo arrivava dappertutto. Indagava su ogni cosa con un piacere che lo faceva impazzire di felicità. Fu la smania di Valentino a rivelarmi come si può arrivare a conoscere, attraverso gli oggetti, l’intimità di una persona, i suoi peccati, i suoi gusti, la sua corruzione, le sue bugie... VISENTINI GINO Tratto dal racconto: LE PIETRE SEPOLCRALI Emilio finiva di levare la vernice che usciva dai solchi delle lettere scolpite, sfregando con la pomice sul marmo sepolcrale. Le sue mani bagnate d’acqua sporca erano livide. Il freddo vento che annunciava imminente il rigore dell’inverno, soffiava ancora, mentre la sera rapidamente calava. Un po’ più tardi il vento cessò; tuttavia, benchè la notte fosse prossima, il cielo serbava un fulgore freddo e lontano che illuminava ancora, di una luce da palcoscenico, la bruna e secca terra dell’ultimo autunno. Il bianco dei marmi splendeva allucinante, ma la sua naturale crudezza era alleviata dal roseo riflesso che i ceri diffondevano intorno. Centinaia di ceri accesi, in quell’ora fra giorno e notte, tremavano dolcemente dando al cimitero una tenera aria di festa per l’infanzia. Adesso il buio era sceso. Molti ceri si erano consumati e spenti e il chiarore che mandavano quelli rimasti appariva triste. La dolce, ingenua aria di festa infantile che la luce del crepuscolo mescolata alla rosea e tremante luce dei ceri aveva conferito al camposanto, adesso era svanita. Non era facile, ora, ammettere che prima i candidi marmi sembrassero bambine inghirlandate in un vasto giardino...

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