venerdì 16 agosto 2013

Racconti Psycho

Sergio Bissoli PSYCHO RACCONTI Copyright by Sergio Bissoli Questa è opera di fantasia. Tutti gli avvenimenti e i personaggi sono immaginari. Ogni riferimento a fatti o persone reali, è puramente casuale. INDICE Ketty e il problema Sole di mezzanotte La ragazza del paese stregato Sortilegio KETTY E IL PROBLEMA Amore e morte. La stessa cosa in fondo. Nell’uno e nell’altra si rinunzia alla propria individualità, ci si dona, ci si annulla. Frank Graegorius CAPITOLO PRIMO Sembra incredibile, eppure questa estate rivedo le compaesane che ho amato e ammirato quando ero ragazzo. Una sartina bionda, che ho salutato. Una dirimpettaia che indossava sempre un vestitino verde con una collana per cintura. Una bruna coi capelli folti e l’espressione attenta. Sono incontri fuggevoli, per strada. Adesso le ragazze sono diventate donne, alcune cambiate, altre più o meno le stesse. Erano 20 o 30 anni che non lo vedevo. Si erano sposate, trasferite. E adesso sono ritornate qui, a Zollen. La vita è un sogno e il passato ritorna. Amiamo, crediamo, vogliamo; facciamo quello che abbiamo già fatto, amato, voluto, creduto. O forse non è così. Ma ci sono cicli nella vita e le cose si ripetono su un altro livello. In questo caldo pomeriggio di agosto ho rivisto Mirella. Erano 30 anni che non la vedevo, da quando si è sposata e si è trasferita in un altro paese. Adesso è divorziata ed venuta per salutare la vecchia mamma. Io mi trovavo per caso davanti al suo giardino e ho visto Mirella mentre entrava dal cancello. Mirella mi guarda e non dice niente. E’ bella e seria. Allora la saluto e poi restiamo a parlare. Mi racconta un po’ di lei e dopo mi chiede che lavoro faccio, se mi sono sposato. Ma una vita è lunga da raccontare, specie se ha avuto tante giravolte e cambiamenti. Mirella è la stessa ragazza di 30 anni fa, che io ammiravo quando passeggiava con la gonna pieghettata color blu. La vita è un cerchio. Ritornano dopo intervalli di anni le stesse passioni, gli stessi oggetti; ritornano i desideri di una volta e tutto si ripete. Oggi, in un pomeriggio piovoso ho rivisto Laura, l’amica di Mirella. Anche lei dopo 30 anni. E’ un po’ ingrassata, imbruttita; adesso porta gli occhiali. Era una delle più belle ragazze del paese una volta. L’ho incontrata improvvisamente davanti alla casetta di suo papà, vecchio e solo, che lei sarà venuta a trovare. Anche Laura è divorziata, dicono. Laura mi ha guardato, a lungo, in silenzio, forse aspettando che le parlassi; ma mi è mancato il coraggio e non sapevo cosa dire. La donna al primo incontro incenerisce il maschio. Così ho proseguito. Chissà fra quanti anni la rivedrò... *************** Uno dei piaceri più grandi della vita è ritrovare gli amici e le amiche conosciute in gioventù. Fa tornare indietro negli anni, sembra di ritornare giovani. Oggi vado in bici da Nicholas. E’ un mio amico di infanzia e poi ha una sorella, Ketty, bionda, bella e nubile. E’ un pomeriggio di fine agosto. Il caldo si è guastato. Non c’è un filo di vento. Calma piatta in campagna, nei campi dorati dal mais secco o già tagliato. Il sole si è molto spostato e scalda meno. Arriva la sera, aromatica, strana. La piazza di Zollen è sempre meravigliosa; nella luce gialla le querce e i tigli hanno i riflessi dell’oro antico. Profumo di mais e profumo di fieno. E’ una sera di capelli, di stagioni passate, di amori finiti. Attraverso il paese e percorro sempre in bici la stradina di campagna che porta da Nicholas. Il sole al tramonto è una ferita di sangue sopra un campo di stoppie di girasoli. Una ragazza con i capelli lunghi sta china per innaffiare i gerani. E’ Ketty. Indossa un vestito rosso ed è bellissima. La chiamo. Mi avvicino mentre lei si volta e si mette una mano sul cuore per fingere uno spavento. “Ketty! Hai visto cosa è arrivato?” le dico indicando il suo giardino. “No. Che cosa?” “L’autunno.” Entriamo in casa. Dalla finestra sul retro vedo l’orto e i campi. L’autunno strangola il paesaggio. Ci sediamo in cucina. Nicholas parla delle sue passioni sportive: “Faremo il campionato di bocce da Mary. Partecipi anche tu?” “Sì.” “C’è in progamma una corsa ciclistica con Robert, Tullio e il barbiere. Ti unisci a noi?” “Sì, sì...” Come al solito l’amico tira fuori il mazzo di carte e giochiamo a scopa. Ketty è seduta vicino a me, ci guarda e non partecipa al nostro gioco. Mentre giochiamo sento il profumo di Ketty, il profumo amaro dei suoi capelli. E’ sempre colpa dell’autunno che sta arrivando. In questa stagione il bisogno della femmina si fa sentire, diventa viscerale. La Natura in sfacelo, i giorni corti, la luce gialliccia; tutte queste cose mi spingono a cercare conforto nelle braccia di una donna. Non è il bisogno sessuale. No! Voglio solo le mani bianche di una donna da tenere in mano. Voglio solo accarezzare i suoi capelli, sentire il suo respiro, il suo calore, la sua morbidezza. La sera trascorre lenta fra giri di carte, pensieri, emozioni. La pendola del salotto batte le dieci ed è ora di andare via. ************ Ho avuto molto lavoro durante tutto il mese di settembre e ho rimandato le mie visite a casa di Nicholas, che però vedo ogni tanto. Abbiamo tutto l’inverno per giocare a carte. Invece quella è stata l’ultima volta che ho giocato a carte con lui. In questo mattino di ottobre freddo e nebbioso, arriva l’amico Robert a casa mia. E’ serio e appare molto agitato: “Hai sentito la novità?” “No!” “Nicholas è morto. Stanotte di infarto.” Rimango senza parole e Robert prosegue: “Era cardiopatico. Vado a comprare i fiori. Fra due giorni ci sarà il funerale.” A mezzogiorno vado a casa di Nicholas. Suono il campanello e un signore mai visto mi apre la porta e resta a guardarmi in silenzio. “Sono un amico di Ketty...” dico. “Vuole vedere...” “Sì.” “Entri.” Poi scompare dietro una porta e chiama: “Ketty” Esce la sorella con una maglia colorata. Mi guarda e tace. “Ciao...” sussurro piano. “Hai saputo?” “Sì.” Ketty mi porta in salotto dove c’è la bara con dentro suo fratello. Restiamo in silenzio con i nostri pensieri. E’ questo il secondo amico che scompare, questo anno. Mi dà un illusorio senso di durata vedere gli altri morire mentre io resto qui. Ma sono tristi queste perdite. La morte è troppo definitiva. Perdere un amico per 10 o 20 anni andrebbe bene; ma sapere che non lo rivedrò mai più... Mio Dio, c’è da impazzire. Steso dentro alla cassa il mio amico sembra che dorma. Solamente la faccia ha un colore più scuro. “Come è successo?” chiedo. Ketty si avvicina e a bassa voce incomincia a raccontare: “Due anni fa, quando si era sentito male, aveva forti dolori al petto e abbiamo chiamato subito l’ambulanza per portarlo all’ospedale. Stanotte si è sentito male, ma senza provare dolori. Aveva solo un po’ di vomito. Ho fatto una limonata e abbiamo aspettato a chiamare il medico... ” Ketty incomincia a piangere e a venirmi sempre più vicino, forse aspettandosi che la abbracci. Sento il suo alito profumato sulla mia faccia quando riprende a raccontare: “Questa volta era una trappola. Lui non sentiva male perchè stava spegnendosi... stava morendo...” Poi i parenti la chiamano. Arrivano altre persone e io mi preparo ad andarmene. Sulla soglia Ketty muove appena la mano; io gliela stringo e la ragazza mi attira vicino per darmi un bacino sulla guancia. ************ Sembra impossibile come la vicinanza della femmina sia bastata a mandare all’aria tutti i miei interessi sulla Poesia. Sono bastati dieci minuti in compagnia di Ketty ed ecco che quasi rinnego la mia vita fondata sui libri. Questa notte i ricordi cadono su di me; ritornano immagini, eventi, scene di vita vissuta; momenti che riaffiorano dal passato, che escono dall’oblio; piccoli particolari che fanno soffrire e ricordare. Ricordo Nicholas. Era un ragazzo estroverso, espansivo; tutto il contrario di Ketty, chiusa e silenziosa. Nei freddi pomeriggi di inverno andavo a casa di Nicholas per giocare a carte o a dama. Giocavo, e intanto ammiravo Ketty china sul suo ricamo. La ragazza lavorava in silenzio, mentre io di sfuggita la osservavo e la desideravo. Ah, quanto la desideravo... Ma lei appariva fredda, lontana e non parlava mai. A volte io e Nicholas stavamo in salotto perchè lui fumava molto, mentre Ketty stava in cucina a preparare i cibi. Potevo vederla dalla porta aperta o dai riflessi sui vetri della credenza. Nei nebbiosi pomeriggi delle domeniche di inverno, mi piaceva andare da Nicholas per scaldarmi accanto al camino. Se Ketty si trovava in cucina, usciva subito per andare in un’altra stanza. Ma mi bastava vederla di sfuggita per sentire la mia anima illuminarsi durante tutto il giorno. E segretamente io mi dicevo: “Oggi è stato un pomeriggio fortunato; oggi ho visto Ketty”. Altre volte la ragazza si trovava in cucina, ma poi inaspettatamente attraversava il salotto dove eravamo noi, e scompariva in un’altra stanza. Avrà un fidanzato, avrà la sua vita, pensavo. E seguitavo a giocare a carte con Nicholas. Ricordo che una volta gli dissi scherzando: “Mi piace Ketty”. E lui mi ha risposto: “Mia sorella non può avere una vita normale. Aveva molti pretendenti ma non si è sposata per motivi di salute.” “Mi pare che stia benissimo...” “No. Tu non conosci il suo passato.” Non ho più avuto il coraggio di chiedere altro. ********* Al funerale siamo in pochi. Ci sono i parenti di Ketty venuti da lontano, gli amici di Nicholas. Qualche vecchia beghina. Il cimitero di ottobre è triste e infangato. Mi trovo fra un gruppo di persone, alcuni amici, altri sconosciuti, in attesa sotto le colonne dell’ingresso. Guardo la sorella dell’amico morto, circondata da parenti. Guardo il sole giallo oltre i tigli quasi spogli, la foschia della lontananza. Vicino a una colonna c’è una donna. E’ molto bella. Indossa un paltò grigio, ha i capelli lunghi e un viso serio e un po’ arrossato. Mi pare di conoscerla, mi sforzo di ricordare e improvvisamente un bel ricordo affiora nella mia memoria. Una sera di aprile, quando eravamo ragazzi e io la spingevo sull’altalena. Sono passati quasi 30 anni ma lei è sempre la stessa, anche se un po’ invecchiata. Non ricordo più il suo nome... Elizabeth, forse... ricordo che aveva un fratellino... E’ scomparsa da Zollen pochi mesi dopo che l’avevo conosciuta, trasferita, sposata, chissà! A voce bassa chiedo a un amico vicino a me se conosce quella donna. Lui la guarda poi mi fa cenno di no con la testa. Ancora il tempo beffardo che gira su sè stesso e ritorna indietro. Ma no, sono solo coincidenze. Arrivano altre persone, arriva il prete, arrivano i becchini con la bara. L’amico sta dentro quella cassa. Chissà se riesce a vedermi, chissà se riesce a leggere i miei pensieri. Forse no. Finita la cerimonia molti vanno via. Io, insieme a pochi altri, cammino verso il fondo del cimitero. C’è una buca e due grassi becchini, con le corde calano dentro la bara. I fiori vengono messi da parte. La sorella del morto piange in silenzio, sorretta dai parenti. La donna bella e sola la ritrovo più vicina adesso. Sta dietro di me, vicino a una cappella diroccata. Vorrei parlarle, dirle qualcosa, ma come al solito mi manca il coraggio. Le palate di terra riempiono la buca con rumori sordi. I parenti accompagnano fuori Ketty e poi vanno via. Mi incammino anch’io verso l’uscita per andare a casa. Fa freddo e umido. Improvvisamente rivedo la donna misteriosa che mi pare di conoscere. Sta andando via anche lei, seguendo la mia stessa strada. Provo il desiderio di parlarle, di salutarla, ma non so cosa dirle, perciò la sorpasso e proseguo verso casa. Il giorno dopo penso ancora alla donna incontrata al cimitero. Sarà sola o sposata? Avrà figli? Con discrezione provo a chiedere a un altro amico che era al funerale, se conosce e sa qualcosa di lei. “Ti sei innamorato?” mi risponde, senza dirmi quello che mi interessa. Sono una natura passionale e sì, devo ammettere che mi sono innamorato. Quando la rivedrò? ************* Alcuni giorni dopo ritorno a casa di Ketty. E’ un giorno autunnale, grigio e senza vento. E’ un giorno vecchio. Pedalo forte ma quando arrivo è già tardi perchè sta scendendo l’oscurità. Quando vedo la ragazza noto che è pallida, seria. Appare anche dimagrita. Ketty non mi invita a entrare e rimane sulla soglia. Io le chiedo come sta, le chiedo se ha bisogno di qualcosa. Lei scuote la testa senza parlare e io, non sapendo che altro dire, mi preparo per ripartire. “Vieni a trovarmi qualche volta...” mi dice con voce triste mentre mi allontano. ******** Adesso Ketty è libera e sola, ma il tempo ha consumato le nostre anime. Non so se andrò ancora da lei. Ho già avuto tante storie d’amore che mi hanno fatto soffrire. Mi sono innamorato tante volte nel passato, e adesso sarebbe ora di finirla. Non sono pronto per iniziare una nuova avventura, dopo tutte le esperienze accumulate. Il sesso annoia; l’amore è un’illusione; tutte le donne sono stupide. Però pur sapendo questo.... sento ancora il bisogno delle donne. Così parto in bici per andare a casa di Ketty. Io abito a est di Zollen e la casa della ragazza è dalla parte opposta, a ovest. Vedo il tramonto di ottobre. Sfregi di luce, coltellate di luce bianca. Riflettori obliqui. Cavalcata di streghe, di dinosauri. Nubi nere e gialle. Quelle due streghe con il cappello sono in fuga. Il cielo sopra di me è un coperchio di piombo.... Rivedo la casa di Ketty, il pilastro, il portone aperto a metà. I gradini dell’ingresso sono grigi, come le statuette nel giardino devastato dall’autunno. Ketty mi fa entrare in salotto. Le chiedo come si sente; mi offro per fare qualche lavoro o commissione. Lei fa cenno di no e mi ringrazia. Poi mi chiede: “ Sei venuto al funerale?” “Sì.” “C’era molta gente in chiesa?” “Sì.” “C’erano tutti gli amici di Nicholas?” “Sì. Ma tu non hai visto?” “Io ero là davanti che guardavo la bara di mio fratello e piangevo.” Poi tace e riprende a stirare le gonne e piegare la biancheria. Io sto seduto in silenzio e la guardo. Mi piace osservare i riti misteriosi e affascinanti delle donne: quando stirano, si pettinano, si truccano... Ketty a intervalli mi racconta vecchie storie che conosco già. La lunga agonia e la morte di suo padre. La perdita della cara mamma. A volte la sua voce si incrina per l’emozione e mi guarda con una espressione seria che mi rattrista. Lei se ne accorge e sorride un po’ per consolarmi. Ma poi è di nuovo seria e disperata. Ascolto Ketty e imparo a conoscerla, penetro nelle pieghe del suo carattere triste e pessimista. Non immaginavo che fosse così. Ha avuto una vita incolore, solitaria, senza svaghi, senza amiche né amici. Il lutto recente l’ha resa ancora più introversa e insicura. A volte ripete una frase più volte. Oppure ripete un gesto, quello di lisciarsi la gonna o i capelli. Ketty è una ragazza strana, nevrotica, forse con disturbi ossessivi compulsivi. Ha una psicologia complicata e difficile. Prima di lasciarmi mi consegna la foto di suo fratello, pregandomi di portarla da Rodolfo, lo scultore di tombe. Servirà da mettere sulla lapide. ***** CAPITOLO SECONDO Il giorno seguente, di pomeriggio vado a passeggiare in campagna da solo, lungo l’argine del fiume Nike. A est c’è una ferita di luce bianca fra pennacchi di nubi blu. A ovest arde un braciere di luce rossa. Penso all’incontro di ieri con Ketty. Non so se andrò ancora a casa sua. La sua compagnia mi ha stancato. Preferisco rimanere nella mia splendida solitudine, tanto luminosa da accecare, a volte, fino a sembrare buio. Io voglio rimanere libero e solo. Però, però... provo il bisogno di rivedere Ketty. Il legame momentaneo con questa ragazza mi fa apprezzare di più, dopo, la mia solitudine. Con questi pensieri arrivo alla casa dell’amico Rodolfo, scultore di pietre. E’ un sollievo entrare nel portico dove lui lavora. Rodolfo è forte e robusto, impolverato di bianco come un fornaio. Però non è farina, è polvere di pietra. La sua casa è un museo, oltre che un’officina e come entro vengo circondato da angioletti di pietra, vasi, gnomi, ninfe di fontane... Li scolpisce lui. Più avanti ci sono i lumi allineati sugli scaffali, a forma di losanga, di spegnitoio, cilindrici, con cappuccio, con vetrini colorati. Li fabbrica lui, nell’officina, scaldando il ferro col mantice e battendolo a mano sull’incudine. Poi li rifinisce con la mola. C’è anche sua figlia Susy, una ragazzina bionda e lentigginosa, che lo aiuta ad applicare i vetri colorati. Consegno la foto di Nicholas allo scultore e rimango a scaldarmi un poco. “Tu hai il lavoro più bello del mondo” gli dico davanti a un bicchiere di sidro, “perchè con i tuoi lumi illumini l’eternità.” Rodolfo ride e mi propone: “Tu sei un poeta. E allora vieni anche tu al Pozzo dei Poeti dell’amico Agostino. Ti troverai bene là. Si parla di poesia, di filosofia, di sesso... sempre in maniera libera e anticonvenzionale... Vieni, prendiamo la scorciatoia nei campi.” Rodolfo si toglie il camice, abbandona il lavoro e usciamo. ********* Percorriamo un sentiero nei campi nebbiosi. Seguiamo l’argine di un fosso e arriviamo sul retro di una casa grigia, col comignolo che fuma. Rodolfo batte i vetri sporchi di un finestrino illuminato e poco dopo Agostino apre la porta carraia e ci fa entrare. Agostino è vecchio, con la faccia piena di rughe, i capelli spettinati e l’espressione severa. Entriamo in una cucina sporca dove si trovano altre persone. Rodolfo mi presenta. Poi fa gli elogi del padrone di casa: “Ecco il poeta Agostino. Non si è sposato, non ha fatto figli ma il suo patrimonio non andrà perso. Agostino ha spiritualizzato gli spermatozoi, creando libri. I tuoi lettori ti ameranno come un padre.” Interviene un tizio grasso, calvo e barbuto: “Questi ammiratori arriveranno troppo tardi, quando Agostino è marcito dentro la bara.” L’uomo che ha appena parlato si chiama Deturry, ed è il filosofo del gruppo. Poco dopo conosco tutti: Agostino il poeta; Deturry il filosofo; il Professore; Doriano l’esteta; Lino il musicista che ha passato la vita a suonare nei night e adesso è un po’ sordo. Il Professore fa l’apologia del Club: “Noi siamo i fabbricanti di cultura, i fornai che fanno il pane per l’anima. Bisogna sforzarsi di costruire una vita realizzata, e Agostino lo ha fatto.” Deturry contraddice: “Non serve a niente. Costruire la vita, vivere bene la vita... è come costruire un castello di carte. Tutto finisce con la morte. E la morte di un vecchio è peggiore di quella di un bambino. Con un bambino muore una pagina bianca. Con un vecchio muore un’intera biblioteca.” Il Professore ribatte. “No. Non mi lascio intrappolare dalle tue parole. Tutti gli imperi filosofici sono fondati sulle parole. Noi letterati conosciamo bene le parole, conosciamo le loro trappole, tranelli e trabocchetti. E siamo diventati immunizzati. In realtà ogni persona è un edificio. Ci sono persone che sono solamente una stanza, altre persone che sono come castelli. Ma in periodo di uguaglianza e democrazia, dieci deficienti valgono più di un saggio, perchè contano dieci voti!” Agostino conclude ed è ancora più amaro dei suoi critici: “I poeti hanno regalato tesori immensi all’umanità. Peccato che il popolo fruisca poco di questi tesori. Molte persone ne ignorano perfino l’esistenza. Io penso alle mie poesie, alle mie opere. Sopravvivranno? La loro sopravvivenza non dipende dal loro valore; dipende dal caso. Qualcuno troverà le mie poesie? Cosa farà? Le brucerà o le pubblicherà? E’ il pensiero che ossessiona tutta la mia vecchiaia. Io non ho figli, né nipoti. Chi toccherà le mie cose più care? Chi distruggerà il lavoro di tutta la mia vita? Sì, lo so, arriverà quella persona... forse esiste già...” “Ma via, sei troppo amaro, lascia aperto uno spiraglio alla speranza,” suggerisce il Professore. Agostino riprende: “Giocare con le parole è un lavoro faticoso. Più che rompere pietre.” Il Professore interviene: “Verità sacrosante!” Parla ancora Agostino: “Io voglio l’immortalità letteraria. Voglio conquistarmi l’immortalità nel mondo della Poesia. L’immortalità in paradiso, fra canti e lodi a Dio, non mi interessa. Quella la lascio ai preti e ai loro scagnozzi.” Quando esco dal Club mi sento euforico e rincuorato. Finché al mondo ci sono persone come Agostino, la vita vale la pena di essere vissuta. E’ una sera di ottobre, fredda di luna; la campagna è umida e desolata mentre ritorno a casa. ********* Il pomeriggio seguente, domenica, sono di nuovo in bici sulla strada sinuosa che porta a Zollen. C’è una casetta celeste con un cortiletto solcato dalle ombre profonde dei gelsi. Alcune galline infreddolite sono radunate nell’unico angolo soleggiato del cortile. Le galline sono stranamente immobili, non fanno neanche un piccolo movimento. Quando oltrepasso questo punto, è come se oltrepassassi una tenda: qui il paesaggio cambia, la campagna, la luce, l’atmosfera... tutto è differente. Zollen è un paesino oscurato dalla mole rosso cupo della chiesa gotica, enorme, sproporzionata in confronto alla piccolezza del paese. Aldilà la strada si snoda bassa fra i campi di stoppie, con fossati pieni d’acqua. Qui i pomeriggi delle domeniche trascorrono lenti e senza gioia. Non c’è niente che li distingue dai giorni lavorativi, solo un po’ più di fumo e di chiasso che esce dall’osteria. Una ragazza bruna dietro una finestra guarda i rossori del tramonto, malinconico come i suoi occhi. La casa di Ketty è a ovest in campagna, oltre gli edifici enormi e diroccati usati per essiccare il tabacco. E’ la casa dove è nata lei e i suoi avi. Un albero spoglio ha ancora qualche cotogna appesa ai rami nudi. Una luce fredda, azzurra, ristagna nel cortile. Tiro il campanello e dopo un tempo lunghissimo Ketty vieni ad aprirmi, pallida e spettinata: “Vuoi entrare?” “Sì...” Nella saletta dell’ingresso la ragazza mi chiede: “Tu credi negli spiriti?” “Io... non so...” “Vieni.” Ketty mi porta in salotto e mi indica l’orologio. E’ un vecchio orologio a pesi, molto decorato. “Si è fermato stanotte... Mio Dio, cosa può significare?” Mi avvicino, apro lo sportello dei pesi, carichi a metà. “Si sarà guastato il meccanismo...” dico a bassa voce. “Segna le cinque... mio fratello è morto alle cinque e mezza del mattino...” “Può essere una coincidenza, o forse no... E’ un caso per Bozzano questo...” commento. Ketty ha un brivido e sento che devo consolarla: “Non devi avere paura. Non devi pensare troppo a Nicholas o restare troppo tempo da sola. Una bella ragazza come te non deve rovinarsi con le preoccupazioni.” Ketty si avvicina allo specchio: “Non sono bella... ho il viso stanco e i lineamenti segnati...” Sono i soliti discorsi che fanno le donne che non vogliono accettarsi. “Sei bellissima.” Le dico. “Ho 42 anni...” “Sei una bambina...” Ci sediamo sul divano e io mi avvicino piano a Ketty. La ragazza pare ignorarmi. Allora provo ad abbracciarla leggermente. Ketty pare insensibile, immersa nei suoi pensieri. La abbraccio più forte, attirandola a me. E’ soffice e morbida e io mi sento svenire. “Mio Dio... Mio Dio...” sospiro. Lei si abbandona al mio abbraccio e sento che è lei il Dio del quale ho bisogno. ********** Il pomeriggio seguente vado ancora a passeggiare lungo il fiume Nike. La campagna è infangata, il cielo livido e dai pioppi cadono foglie ingiallite. In questa solitudine ritrovo me stesso e provo forte il desiderio di rimanere libero e solo. Perchè amo Ketty? Perchè Ketty è una donna del passato, appartiene al mio passato. Con lei ho condiviso momenti, ricordi, giovinezza ed emozioni. Allora non ho avuto Ketty, per molti motivi. E adesso vorrei averla. Nel passato non ho spogliato Ketty perchè ero troppo inesperto con le ragazze. Adesso vorrei spogliarla. Questa è una rivincita, tardiva, ma sempre una rivincita. Ma non solo questo. Ketty è il simbolo di tutte le ragazze che mi sono piaciute e che non ho avuto: Mirella, Laura, Grazia... e le altre, le molte altre. Avere lei mi sembra di tornare indietro nel tempo e possederle tutte. E’ una operazione di magia questa, piena di incognite. Che sapore ha possedere una donna di cui ero innamorato 20 anni fa? Possederla con 20 anni di ritardo? Il pomeriggio trascorre. E’ arrivato il tramonto di questa giornata breve. A ovest ci sono nubi a forma di draghi, a forma di vecchie megere col cappello che vanno al sabba infernale. E’ meglio fare ritorno a casa; forse non ancora. Mi conviene passare dal poeta Agostino, per vedere se i suoi amici sono ancora là. ********** Entro nel Pozzo dei Poeti, da dietro, dalla porta carraia che immette direttamente nella cucina, calda e accogliente. La cucina appare sempre in disordine. Sulla tavola c’è un macinino per caffé e tazzine sporche, vicino a un mazzo di tarocchi. Sulla credenza sta un piatto pieno di nespole. Anche divano e sedie sono occupate con giacche, paltò, pile di biancheria... Gli amici Deturry, Doriano, il Professore e Lino sono già qui. Forse stanno sempre qui, come le cariatidi. Agostino è seduto su uno sgabello; Deturry su un bracciolo del divano; Doriano e Lino sulle sedie; il Professore sul focolare e io mi sistemo su una sedia occupata da un paltò. Fumo pesante di sigari e caraffe di vino nero. Doriano l’esteta, eternamente innamorato di una donna sposata che non può avere, racconta: “Ricordo perfettamente il giorno, il 20 Aprile. Era di mattina e Sonia entrò per la prima volta nella mia vita. Non la avevo mai vista, ma era come se la conoscessi da sempre. I suoi occhi verdi mi colpirono, il suo vestito bianco... non sapevo più neanche parlare. Ero incenerito. ” Deturry spiega: “E’ logico. Sonia è la donna dei tuoi sogni e tu l’hai idealizzata, l’hai divinizzata. Se avessi sposato Sonia, se avessi vissuto con lei la grigia quotidianità della routine che soffoca anche il più folle amore, allora non parleresti così.” Doriano prosegue: “La tua logica perfetta è come una casa di cristallo. Al primo urto crolla tutto. No! Io sognavo Sonia ancora prima di incontrarla. La prima volta che l’ho vista non l’ho trovata, l’ho ritrovata.” Deturry insiste con le sue spiegazioni razionali: “Le passioni sono come le onde, che nascono, si innalzano e poi si trasformano nell’opposto, cioè nell’odio; e alla fine si spengono nell’indifferenza. I primi momenti magici di una storia d’amore sono i puntelli dell’unione futura.” Interviene il Professore: “Perchè non ce le insegnano a scuola queste cose? La psicologia amorosa dovrebbero insegnarla alle elementari... anzi no, all’asilo!” Doriano riprende a raccontare: “Bisognerebbe credere nella reincarnazione, ma non è provata. L’amore è un mistero troppo profondo. Dopo 24 anni ho incontrato ancora Sonia. Siamo rimasti a parlare, ma c’era poco tempo... dopo 24 anni... Adesso vorrei solo un’ora per stare con lei; un’ora di infinito...” “Interessante questo vino nuovo, molto interessante.” È il giudizio del Professore dopo due bicchieri. Anche Deturry beve e commenta: “ La certezza che tutte le cose belle sono destinate a finire rovina un po’ la gioia che ci danno.” Anche Agostino è d’accordo: “ Quando faccio un lavoro, spesso penso: chi sarà la persona che distruggerà il lavoro che sto facendo ora? Qualcuno ci sarà sicuramente. E quando avverrà? Questo pensiero mi disturba. Se avessi dei figli almeno...” Deturry contraddice: “No. Hai fatto bene a non sposarti. I figli sono ingrati. Il tuo mondo interiore è troppo ricco. Non potevi accogliere anche quello di una donna. E poi Cenerentola è bella finché rimane tale. Se diventa regina, diventa despota.” Agostino risponde: “La solitudine ha i suoi vantaggi. Nei momenti di pausa, in mezzo alla natura io guardo i tesori che ho dentro di me. Quando frequento le persone, io assorbo un po’ del loro veleno. Nella solitudine invece mi disintossico. Eppure la compagnia delle persone è utile perchè il loro veleno, in piccole dosi, stimola e ispira. Specialmente la compagnia dei poeti e delle donne... Ma attenzione! Le persone sono pecore quando hanno bisogno di te e diventano lupi quando tu hai bisogno di loro.” Interviene il Professore: “Quando incontro un uomo onesto io mi chiedo: questo uomo ha già superato lo stadio della disonestà oppure deve ancora arrivarci?” Riprende Agostino: “Io scrivo il più possibile. Voglio imbalsamare l’amata-odiata vita. E quando sarò sul letto di morte penserò a tutte le sofferenze, le delusioni, le brutture della vita. Questo mi aiuterà a non rimpiangere la Vita e la Realtà.” Ancora Deturry: “Alcuni uomini non vedono la realtà. Essi percorrono la vita attraverso corridoi mentali: religione, dottrine fantasie; e sono felici così. Essi non vedono la realtà, non vedono i fatti come realmente sono. Ho conosciuto un uomo che ha amato follemente una donna, senza conoscerla veramente. Cioè ha amato un fantasma inventato dalla sua mente; quella donna era differente; quella donna non era come lui immaginava.” Faccio anch’io una domanda a Deturry: “Sei sempre così tagliente?” Deturry riprende la sua filosofia: “Io descrivo la realtà. Ma prima mi sono liberato dalla gabbia dove ero intrappolato. Educatori e preti ci hanno imposto di credere le loro dottrine, sciocche e puerili. Prima vedevo la realtà attraverso la gabbia di queste dottrine. Molti uomini non vedono obiettivamente. Essi vedono solo le costruzioni mentali inventate da preti, maestri ed educatori. Devi spogliarti dalle illusioni, se vuoi dominare la realtà.” Doriano conclude questa discussione: “Le realtà profonde sono sempre contraddittorie. La donna ti ispira e ti affossa. Ma non esiste la vera Donna; essa si trova solamente dentro alla testa degli uomini! Le cose che ti salvano e quelle che ti uccidono, sono le stesse: la donna, la poesia, l’arte, il sesso.... Variano solo le dosi. A piccole dosi ti salvano, a grandi dose ti uccidono. Chi trova un paradiso, dopo poco tempo si annoia, e si ritrova all’inferno.” Pensando alla serata trascorsa, esco dalla casa di Agostino. E’ una notte fredda e nebbiosa. Domani pomeriggio andrò da Ketty perchè ho promesso di accompagnarla al cimitero. ********* CAPITOLO TERZO Il giorno dopo suono il campanello a casa di Ketty e lei mi apre. Senza un sorriso e senza parlare si scosta per lasciarmi entrare. Noto che la ragazza ha delle ferite sulle mani. “Ti sei fatta male?” le chiedo quando siamo in cucina. “No... Sono stata io...mi sono graffiata...” “Ma come hai fatto?” “Mi capita a volte... quando sto qui seduta da sola... Sono assorta nei miei pensieri e senza accorgermene mi graffio le braccia e le mani...” Restiamo in silenzio. Lei prepara il caffé e il profumo si spande nella stanza. In salotto ci sediamo sul divano a guardare il vuoto. Lei tace. Io non so cosa dire per consolarla. Le accarezzo timidamente la spalla e sento la lana soffice sotto le mie dita. “No! Lasciami.” Fa lei con un sospiro. “Mi sento troppo male e non ho voglia di niente.” Ancora il silenzio. Ancora il senso di angoscia, di solitudine, di distanza. Ketty va in un’altra stanza per cambiarsi e io rimango ad aspettare. Nel salotto freddo e semibuio, tende e finestre sono chiuse. Quando la ragazza è pronta, indossa un paltò, poi usciamo incamminandoci sulla strada che porta al cimitero. Costeggiamo muri rossastri di mattoni con barbacani inclinati. Luce dorata. Peperoni marciti negli orti. Ci sono fossi pieni d’acqua color ferro e campi di stoppie. Pioppi gialli e spelacchiati si piegano al vento lasciando cadere le ultime foglie. Le pannocchie stanno ad asciugare sull’aia. I gatti si scaldano al sole. L’aria è fredda. Il cimitero di novembre rivela squallore e abbandono. Il cancello arrugginito è aperto e alcune lance sono spezzate. Gli angioletti di tufo e il vecchio con la clessidra appaiono ancora più tetri. Due becchini sono al lavoro dentro una buca. Stanno tirando su i resti dei bambini e mettono le ossa dentro una cassetta di zinco. Ci sono costole sottili, pezzi di crani. Lo sterratore fruga fra le palate di terra per recuperare frammenti di ossa color marrone. Camminiamo fra lapidi inclinate, sbeccate affondate nel terreno. Mazzi di fiori marciti spandono un odore dolciastro. Arrivati davanti alla tomba nuova di Nicholas, la ragazza si inginocchia. Nel silenzio la sento piangere. La gonna nera si solleva un poco e rivela un po’ della sua coscia bianca. E’ terribilmente bella ed eccitante mentre accende una candela davanti alla lapide. ************** E’ sera; sono ancora in bici sulla strada che porta a Zollen. Una luce d’oro scende dietro ai campi. Venere brilla bianca. Il salotto di Ketty mi aspetta, con i suoi misteri, le sue ombre, i suoi odori... Arrivo davanti al pilastro della casa circondata di pini e cespugli di rose. Quando la ragazza apre la porta, mi appare seria, tremante e un po’ dimagrita. “Come va?” le chiedo senza entusiasmo. “Entra.” E mi precede su per i gradini dell’ingresso. La cucina dove mi fa entrare è stretta e sporca. Ketty appare tesa, affaticata, stanca. Indossa un vestito colorato che contrasta con l’espressione triste del volto. “Riesci a riposare?” chiedo per rompere il silenzio. “No. Dormo pochissimo, solo tre ore per notte.” “Dovresti dormire di più.” “Appena mi rilasso vedo delle facce mostruose. Allora devo pensare a qualcosa per scacciarle.” “Sono le immagini ipnagogiche. Come sono fatte?” “Sono facce distorte e bruttissime...” Una lunga pausa poi la ragazza mi chiede: “Tu... credi negli spiriti?” “Non so... Perchè mi fai questa domanda?” “L’accendigas, quello che adoperava mio fratello, l’ho trovato vicino al fornello. Ne avevamo due; il mio che usavo io e quello che usava lui. Ebbene, stamattina c’era il suo vicino al fornello.” “Ti sarai sbagliata.” “No! Sono sicura di no. Il mio ha il manico bianco, il suo è rosso. Lo avevo riposto nel cassetto...” “E’ lo stress. Tu hai bisogno di riposo...” Il nostro dialogo finisce e non so più cosa dire. Dopo un lungo silenzio mi alzo, saluto Ketty e vado via. Fuori è già buio. Quando attraverso il paese, una luna gobba corre fra i comignoli, sui tetti delle vecchie case. ******* La strada che porta a Zollen è lunga, monotona, quasi ossessiva. Ci sono macchie di inchiostro nel cielo. E’ una sera di dicembre e il cielo ha tante tonalità di celeste. Io pedalo sulla strada deserta, oltrepasso il paese grigio, con la piazza nebbiosa. Portoni chiusi. Finestre con vecchie inferriate. Non si vede nessuno in giro. La casa di Ketty con tutte le finestre chiuse, sembra abbandonata. Unico segno di vita, un lanternino acceso davanti alla porta. I gatti corrono a nascondersi in fondo al giardino. Venere brilla bianca nel cielo serale. Suono il campanello attaccato al pilastro e resto in una attesa lunghissima. Il cortile deserto finisce nei campi grigi. Un’imposta sbatte al piano superiore. Finalmente la porta si apre e Ketty appare seria e dimagrita. “Ciao. Come stai?” Nessuna risposta. “Hai un’imposta che sbatte là in alto” l’avverto. “Strano. Non vado mai in soffitta...” Attraversiamo il salotto semibuio con il pavimento a scacchi bianchi e neri. C’è umidità e gelo. Entriamo in cucina dove c’è odore di stantio e caffé. Una stufa cilindrica riscalda l’ambiente. Ketty mi invita a sedermi e mi chiede: “Sai mantenere un segreto?” “Sono un affossatore di segreti.” “In questa casa ci sono... gli spiriti.” “Come fai a saperlo?” La ragazza apre lo sportello della stufa e aggiunge altra legna. “Alle cinque di mattina il campanello di casa ha suonato, ma non c’era nessuno. E ha suonato ancora ieri alla stessa ora... l’ora che è morto mio fratello...” Ketty pare molto allarmata e prosegue: “Vieni. Vieni a vedere anche tu.” Mi guida in uno studio gelido e severo, accende il lampadario e mi indica qualcosa là per terra: “Stanotte il quadro di nostro papà si è staccato cadendo con fracasso. Non ho avuto il coraggio di scendere... L’ho trovato così stamattina...” In un angolo c’è un grosso quadro con la foto di un uomo con baffi, in piedi vicino a uno scrittoio. Il vetro è rotto e l’attacco di canapa è sfilacciato. Cerco di calmare Ketty: “Forse era consumato lo spago... Da quanto tempo era là?” “Da 23 anni, da quando morì papà.” “Io non so...” “E poi c’è un’altra cosa...” La ragazza apre un armadio, tira fuori un cappello da uomo e me lo porge: “Mio fratello è morto da due mesi e il suo cappello non ha fatto la muffa... Guarda...” E mi mostra un cappello dalla parte interna. Poi mi chiede: “Può significare qualcosa? I cappelli ammuffiscono se uno non li usa per qualche tempo...” Anche stavolta non cosa dire. La stanza è molto fredda e decidiamo di ritornare in cucina per scaldarci vicino alla stufa. ************ Sono stato molte volte a casa di Ketty e incomincio a essere stanco della sua compagnia e dei suoi discorsi. Non vorrei più andarci, ma non posso abbandonarla proprio adesso. Oppure non è questo il motivo. C’è qualcosa che mi attira là contro la mia volontà. Non vorrei andare da Ketty, però ci vado. Non vorrei più rivederla e ogni volta che esco dalla sua casa decido che non tornerò mai più. Invece... Questo conflitto perdura dentro di me e mi fa sprecare tempo ed energia. E’ una sera di gennaio, gelida e tagliente. La campagna vetrificata sotto la brina, ha luccichii di cristalli. Tutto è statico, immoto, congelato. I salici sono scheletrici con i rami nudi; le pozzanghere sono ghiacciate; l’erba morta è piegata lungo le rive dei fossi. Quando arrivo a casa di Ketty, la ragazza mi fa entrare in cucina dicendomi: “Vieni, ti aspettavo”. Come entro nella stanza vedo che c’è una novità. Sopra la tavola sta disteso una tabella con sopra scritte le lettere dell’alfabeto e due caselle con le scritte: SI’ NO. “Che cosa fai?” chiedo. Ma poiché ho letto i libri di Allan Kardec, conosco già la risposta. Con un senso di curiosità, accetto di fare una seduta spiritica insieme a lei. Dalla scatola del cucito Ketty prende un bottone nero e lo posa capovolto sul tabellone. Poi lascia accesa solo la lampadina dell’acquaio. La ragazza si siede vicino a me e appoggia il dito sul bottone, tenendo sospeso il braccio. Io faccio altrettanto. Ad alta voce Ketty prega sua fratello di farsi sentire. Mi sembra una cosa ridicola. Passano i minuti. Dai vetri delle finestre vedo buio e nebbia, là fuori. Nel silenzio si sente il crepitio del fuoco, i nostri respiri, il ticchettio del pendolo nel salotto. La vicinanza della ragazza mi dà una leggera ebbrezza. Sento il profumo dei suoi capelli, del suo respiro; vedo il seno sollevarsi e abbassarsi. A volte le nostre ginocchia si toccano. Dopo quasi un’ora di attesa, il bottone pare incominci a muoversi. Sono movimenti lenti da principio, poi più veloci e scattanti. E’ lo spirito? Sono le nostre braccia stanche? La ragazza diventa rossa ed eccitata. Dopo alcune incertezze il bottone va a coprire alcune lettere, che la ragazza pronuncia ad alta voce, formando la parola: Condizione. E poi ancora formando le parole: Insicurezza. Interno. Situazione. Limite. Sprecato. Agonia. Ripetizione. Scrivo queste parole e quando smettiamo siamo sfiniti. Non so cosa pensare dei messaggi ottenuti. E’ notte quando esco dalla casa per andare a dormire. Attraverso il paese silenzioso, immerso nell’inchiostro delle ombre. La luna di gennaio, piccola e bianchissima, lassù in cielo mi fa una smorfia. ******* L’acqua del fiume Nike è color ferro, il cielo è grigio, la campagna fredda e nebbiosa. Con gli stivali, come al solito, passeggio sull’argine sinuoso e penso: io e Ketty siamo così diversi, infinitamente differenti, siamo agli antipodi. Però ci sono delle linee che ci uniscono, delle linee misteriose e sotterranee che ci legano e ci attirano. Io provo un rispetto fisico e psicologico per lei. Rispetto il suo corpo, ma anche i suoi pensieri, il suo modo di pensare, il suo modo di agire di comportarsi. Vedo dove sbaglia, ma non oso dirglielo per paura di perderla. Durante la vita incontriamo gli scambi, dove possiamo scegliere quale via seguire. Da giovani gli scambi sono frequenti, poi col passare degli anni diventano sempre più rari. Ketty è uno scambio della mia vita. Dovrò seguirlo? Amo Ketty, la desidero, la voglio... Ma che cosa voglio? Un mucchio di budelli, di ossa, di sterco? Cosa è Ketty? L’amore è un corridoio mentale. Si può stare una vita insieme a una donna senza conoscerla. Forse, volere stare insieme a una donna è una sfida con sè stessi, come scalare una montagna. Quando sto con Ketty voglio provare la mia forza interiore, voglio provare a me stesso la mia capacità di stare insieme a un essere differente, estraneo, totalmente differente da un maschio, e in fondo, incomprensibile. L’amore è una sfida con sè stessi, un lasciarsi cadere dentro un vortice insidioso e buio, fatto più di dolore che di piacere. E’ una sfida per provare l’ebbrezza del pericolo, per camminare sul filo del rasoio che divide la vita dalla morte. In amore si perde in ogni caso: chi perde la donna amata soffrirà per tutta la vita e scriverà poesie nostalgiche. Chi sposa la donna amata soffrirà per tutta la vita, ma una sofferenza di forma differente, più arida e prosaica. Con questi pensieri in testa sono arrivato in vista della casa di Ketty. Vedo la luce gialla della finestra della cucina. La ragazza sta là dentro. Dovrei proseguire la mia passeggiata in solitudine, per recuperare le energie perdute. E invece no. Trovo un punto dove l’acqua è bassa, entro dentro con gli stivali, risalgo sulla riva opposta e mi dirigo verso la sua casa. Sono ancora in tempo per deviare, ma una forza mi attira là... ****** Ketty mi apre la porta e appare agitata e allarmata. “Guarda!...” e mi indica i vecchi essiccatoi abbandonati di fianco alla casa. “Che cosa c’è?” “Il fumo. Poco fa usciva fumo da un finestrino lassù.” I vecchi essiccatoi sono edifici di mattoni, alti con finestrini sotto il tetto. Ma anche guardando bene, non vedo fumo. “Andiamo a vedere” propongo. Attraversiamo il cortile. Il portone dell’edificio è in legno marcito e semiaperto. Entriamo dentro, in un camerone vuoto e oscuro. Il pavimento è di terra nera, in parte allagato. Alte colonne di legno sostengono il sottotetto, fatto di tavole dove si appendeva il tabacco. La luce entra dai finestrini più in alto. “Da quanto tempo è abbandonato?” “Da quando è morto mio padre. Era lui che coltivava il tabacco. Nicholas coltivava solo frumento e mais.” Dopo un po’ decidiamo di entrare in casa. Ketty pare calmata. In cucina la ragazza estrae dalla credenza uno strano mazzo di carte. Sono le 24 Rune. Seduta a tavola Ketty mescola le carte a lungo, con le sue belle mani lunghe. Stando assorta, continua a mescolare il mazzo meccanicamente, finché arriva un intoppo durante la mescola. Allora si ferma ed estrae tre carte: Runa 4 ANSUZ: Destino. Runa 8 WUNJO: Donna. Runa 3 THURISZ: Pericolo. Problema. “Che cosa significa?” chiedo. Ketty fissa le carte e mormora a bassa voce: “ Il Destino manda qualcosa. A una donna. E’ un pericolo o un problema.” “Non credere in assoluto a questi responsi.” Le prendo le mani e la attiro vicino a me. Ketty si irrigidisce e diventa seria: “No. Lasciami; tu non conosci il mio passato, tutte le cose brutte che...” “Non voglio saperle. Ti chiami Ketty tu?” “Sì.” “Questo mi basta.” In queste parole e in questi gesti c’è tutta la logica o l’illogicità dell’amore. La attiro ancora e lei cede lasciandosi abbracciare. Sento il suo corpo soffice, i seni, la carezza dei capelli sul mio viso, il suo profumo... Ketty ha brividi di freddo e la sua voce trema: “No... No... No... Quanto tempo abbiamo perduto... quanti anni sono passati nel dolore e nella noia...” “Non pensare agli anni passati... Adesso siamo qui, insieme.” “Ma domani?...” “Non pensare al futuro. Domani; non voglio sapere cosa accadrà domani.” La ragazza si stacca da me e si allontana. Sul suo viso è apparso un sorriso malizioso: “Oggi ho indossato un reggiseno color fucsia...” “Me lo fai vedere?...” dico a bassa voce. Con infinita grazia, con semplicità, la ragazza si sfila la bluse. Ha 40 anni ma sembra una ragazzina da catechismo. Rimane con la gonna lunga e il reggiseno color fucsia. Va davanti allo specchio e si pettina, spargendo femminilità intorno. Dopo essersi ammirata, lavora con le mani dietro la schiena per sganciare il reggiseno. Quando il seno appare, è un lampo di luce dentro alla stanza. Ogni seno femminile regala all’uomo un universo di vibrazioni e di emozioni. Velocemente, la ragazza prende un asciugamano e si copre. Gioca con l’asciugamano a nascondere e scoprire i seni, che saltellano con lampi di luce. E’ torbida e sensuale. E’ peggio che se fosse nuda. La nudità è casta; ma ci sono millenni di seduzione in quel giocare a scoprirsi e ricoprirsi, a nascondersi e a mostrarsi. Sembra una bambolina da adorare, ingenua e impudica. “Sei bella da morire...” sussurro con voce roca. “Ma ho alcune rughe qui, sul viso...” dice sconsolata. “Non hai più 15 anni... Ne hai 16...” Mentre cadiamo abbracciati sul divano, sento le sue ultime parole: “Tu per me sei padre e madre, sorella e fratello...” Il silenzio della stanza è rotto dal crepitio della stufa e dagli ansiti dei nostri respiri... ******** CAPITOLO QUARTO Alcune sere dopo vado al Pozzo dei Poeti, a casa dell’amico Agostino. E’ una sera umida, fredda, nebbiosa. Nella cucina sporca, mal rischiarata e surriscaldata, ritrovo i soliti amici. Sono tutti qui seduti, come tartarughe pietrificate. Appena entro il Professore mi chiede: “Dì la verità. Ti sei innamorato di Ketty, delle sue belle tette, delle sue belle gambe...” “Non le ho mai viste.” rispondo a bassa voce. “Hai visto il suo bel culetto allora? No, non raccontarci bugie! Sappiamo già tutto.” Dannazione! Come fanno a sapere queste cose. Chi li avrà informati? Mi conviene arrendermi: “Ma sì, forse mi sono innamorato di Ketty, mi sono innamorato di tante altre donne prima di lei. Ma ogni volta l’amore è inventiva che porta un bagaglio di sorprese.” “Sappiamo che ti piace Ketty e vai a trovarla.” “Ketty è una ragazza infelice che ha bisogno di aiuto.” Ma il Professore che ha bevuto molto insiste: “Ci vai a letto insieme? E a che punto sei arrivato? Io dico che quando un uomo lecca il culo alla propria donna, ha raggiunto il massimo della confidenza con lei.” Gli altri ridono. Deturry dissente: “No; il massimo è quando l’uomo si fa pisciare in faccia!” Altre risate. Doriano commenta dal suo punto di vista di poeta: “Ho passato la vita sui seni delle donne, ma ogni volta provo meraviglia e stupore. Il tempo trascorso insieme alle femmine è il tempo più ben speso. O forse è il contrario; dipende dal momento nel quale do il giudizio. L’amore sconcerta sempre, perchè prepariamo i cannoni per un nemico che invece arriva con mazzi di fiori. E allora ci chiediamo: ma sarà vero? Non sarà un imbroglio? E quando scopriamo che è tutto vero, rimaniamo storditi dalla sorpresa. L’amore è una cosa che sconcerta, perchè spiazza, perchè non segue la logica del profitto. L’amore dona, e nella società dove tutto ha un prezzo, dove tutto si paga, i doni dell’amore sono incomprensibili e lasciano stupefatti. Questo perchè l’amore parla un’altra lingua, completamente differente e incomprensibile alle persone impegnate nella lotta per il potere e il denaro. E’ inutile sforzarsi di trovare l’imbroglio, perchè... non esiste nessun imbroglio. L’amore è un dono e basta.” Deturry commenta, amaro come sempre: “La donna è come uno specchio posato sul fango. L’uomo vi vede il cielo riflesso, accorre e si ritrova impantanato. Un uomo e una donna insieme? Finché dura l’innamoramento questi due esseri si sforzano di avvicinarsi, si sforzano di colmare l’abisso che li separa. Ma tutti i romanzi d’amore finiscono sempre col matrimonio. Non raccontano mai cosa succede dopo...” “Una bella ragazza è un essere che illumina il mondo e ne attenua le brutture. Ma è anche un rebus e richiede uno sforzo per essere chiarita.” Commenta Lino il musicista. Questa è una delle rare volte che sento la sua voce. Probabilmente anche lui ha avuto problemi con le femmine. Anche il Professore dice la sua: “In qualsiasi modo uno imposta la vita, da scapolo o da ammogliato, perde sempre qualcosa. Però un uomo e una donna dovrebbero spogliarsi nudi subito, la prima volta che si incontrano. In questo modo si instaura una maggior confidenza e i due si conoscono psicologicamente più a fondo. La conoscenza psicologica va al passo con quella fisica. Finché i due rimangono vestiti, la confidenza e la fiducia arrivano dopo anni, forse non arrivano mai.” Io interrompo: “Queste chiacchiere non risolvono i problemi della ragazza. Ketty vede gli spiriti.” Il Professore commenta: “Non credo agli spiriti. L’umanità ha inventato gli spiriti per attenuare la paura del Nulla dopo la morte. Il vampiro che risorge, il morto che cammina e lo spettro che appare sono meno paurosi dell’annientamento della morte.” Deturry martella più forte: “Sì, diavoli, fantasmi e vampiri fanno meno paura del nulla dopo la morte. Lo spettro che cammina è meno terribile del nulla. Almeno lo spettro, in qualche modo, vive ancora. Tutto finisce con la morte, che è troppo definitiva. Perciò gli uomini hanno inventato le religioni, le filosofie illusorie e consolatrici. Ma io voglio sfondare tutti i tabernacoli, voglio distruggere tutte le religioni...” Il Professore lo zittisce: “No! Ti conviene seguire le ideologie e le convenzioni. Solamente un re può permettersi il lusso di non essere ipocrita. Solamente un re o uno straccione, possono dire quello che vogliono.” Deturry insiste: “Quando un uomo arriva alla maturità, cadono tutte le illusioni, l’amore, l’amicizia... rimane solo la sofferenza esistenziale, il dolore di esistere. Allora capisco che la vita è un circolo e tutto si ripete. La fine assomiglia al principio. Dopo la morte c’è quello che c’era prima della nascita: il Nulla. Ma una brutta realtà è sempre preferibile a una bella illusione; perciò distruggiamo gli spiritualismi.” Il Professore non è d’accordo e lo dichiara col bicchiere di vino alzato: “No! L’illusione è importante. L’amore è illusione; l’amicizia è illusione; il sesso è illusione. L’illusione è una realtà psichica. I seni solo due ghiandole; la pioggia dorata è solo orina della femmina; un bel tramonto è solo luce colorata. E allora viva l’illusione. Mi piace e voglio illudermi se questo mi rende felice.” ********** Il giorno dopo, sono di nuovo solo con i miei conflitti interiori. Ci sono uomini e donne che vivono l’amore come una tragedia, come una malattia. Io rientro in questa categoria. Mi sono innamorato di Ketty. Mi sento male, sto male. Amare per me è questo pensiero ossessivo che mi opprime, che non mi fa dormire, che mi toglie il respiro. Dopo essere stato da lei, ritorno a casa mia fra i miei scaffali pieni libri che amo molto. Eppure, adesso qui tutto mi appare morto e statico. Se faccio il confronto con Ketty, i libri che prima amavo adesso mi sono diventati indifferenti e li brucerei. Continuo a frequentare la casa di Ketty. E’ eccitante e pericoloso. E’ come camminare sul filo di un rasoio teso fra due abissi sconosciuti. Da un lato l’io si annienta nella luce del sesso; dall’altro lato c’è la quotidianità con i suoi orrori nauseanti e densi. Perchè ci vado? Perchè continuo? Perchè devo! E’ una attrazione, una fiamma che mi attira e divora. Stanotte ho fatto un sogno strano; dentro un bosco oscuro incontro Nicholas che mi dice: “Sul campanello di casa mia scrivi il tuo nome” “Non vuoi che scriva il nome di tua sorella?” dico io. “No. Scrivi il tuo nome”. Mi sveglio tutto agitato ed emozionato. Che significato può avere? Possono i morti apparirci in sogno? E darci dei messaggi? Esiste uno spirito guida, oppure siamo abbandonati a noi stessi? Questa sera, mentre siamo seduti sul divano, Ketty mi racconta gli avvenimenti tristi della sua infanzia. Fuori c’è buio, freddo e nebbia. La suora che le negava le caramelle; l’istitutrice che non le comprava i lecca lecca. Sono piccole storie incandescenti, arroventate dal dolore e dalle lacrime. Sono ricordi dolorosi, storie sfortunate che hanno lasciato il segno sul suo carattere ipersensibile. “Hai una bella collezione di brutti ricordi...” dico alla fine per rompere la tensione. “E adesso cosa intendi fare?” Ketty prende dalla credenza un vecchio dizionario che apparteneva a sua zia Rosa morta alcolizzata. La ragazza sfoglia più volte il libro, poi mette un dito in una pagina a caso e legge la parola che ha indicato: Proiettile. Ripete e ottiene un’altra parola: Mirino. E poi Minaccia Ripete ancora e ottiene: Carcere. Ketty le interpreta come un avvertimento di pericolo. Io mi domando: perchè la ragazza trova queste parole che alludono al pericolo? E’ uno spirito che dà messaggi? E’ l’inconscio di Ketty? E’ una coincidenza? Nelle lunghe sere invernali di tedio io e Ketty interroghiamo il futuro con i tarocchi, le rune o la bibliofilia. Non so se facciamo bene a fare questi esperimenti di veggenza; non so se è questa la strada giusta; non so se c’è il pericolo di cadere nelle illusioni dell’inconscio... ************ Ormai conosco a memoria il salotto di Ketty, ogni particolare mi è familiare: la crepa sul vaso di ceramica, la tovaglia di pizzo, la pendola... Vorrei poter dire altrettanto di Ketty, ma non è così. La sua anima è più complicata del suo salotto, molto più complicata. Sto ancora imparando a conoscere Ketty. La discesa nell’anima di una donna è una cosa lenta e tortuosa. A volte Ketty è leale e sincera, altre volte no. Ma è normale così. L’insincerità negli uomini è una cosa bassa e vile. Per le donne invece è diverso. La falsità è un attributo della femminilità. L’insincerità nelle donne mi affascina e la apprezzo. Rende questi esseri angelici ancora più femminili, ancora più attraenti. Ketty è una ragazza con profonde ferite nell’anima, difficili da dimenticare. Sono fatti dolorosi avvenuti nel passato, ma le loro conseguenze arrivano fino al presente. Forse per questo a volte Ketty è diffidente, sospettosa. Ha paura che tenti di ingannarla. Non crede alle mie parole, cerca bugie che non ci sono. Ketty a volte fa discorsi sensati e altre volte parla per enigmi, per rebus. Allora diventa difficile seguirla; è difficile districare i suoi complicati giochi mentali. La ragazza passa dal pianto disperato al ridere gioioso in pochi minuti; o viceversa. Ketty mi ha promesso che stasera mi mostrerà l’album di famiglia che contiene le foto di quando era bambina. Mi ha promesso... ma, si sa, le promesse delle donne sono fumo. Penso che le bugie sulla bocca di una donna sono come i fiori nell’aiola di un giardino. Un altro pomeriggio tetro e nebbioso. Quando arrivo alla sua casa, Ketty appare stanca. Indossa un vestito sporco e mi dice: “Oggi è stata una giornata nera.” La ragazza mi fa entrare in salotto e mi mostra una scatolina con dentro ombretti, smalto, cipria... “E’ sparito il mio rossetto... Era qui, dentro alla scatola, vedi?” “Sarà caduto per terra, sarà rotolato sotto un mobile...” le dico mentre mi chino per guardare sotto il divano, la libreria, le poltrone. Ma non c’è niente, solo polvere e ragnatele sotto i mobili. “No. No. Ho già cercato io dappertutto. Il mio rossetto non c’è più. Ieri c’era e oggi non c’è più... Possono le cose sparire da sole?” “No. Con la psicocinesi le cose cambiano posto; ma la spiegazione paranormale la accetto come ultima ipotesi. Tu invece preferisci la spiegazione irrazionale a quella razionale.” Ketty ha un sospiro e poi: “Non sarebbe la prima volta...” “Cosa vuoi dire?” “Vieni a vedere.” Mi precede sulla scala di marmo che porta al piano superiore. Dal corridoio intravedo le camere da letto. Entriamo in una con il letto matrimoniale. C’è molta penombra perchè il lampadario è schermato e manda poca luce. Ketty si avvicina a una consolle e mi indica un oggetto: “Guarda.” Sul ripiano c’è uno strano oggetto. “Che cosa è?” chiedo. “E’ un dono ai miei genitori, per le loro nozze.” Un altarino di ottone con un cuscino di raso rosso. Sul cuscino ci sono gli anelli degli sposi; più in su la coroncina di fiori d’arancio e il mazzolino di fiori. Ci sono 5 specchietti: uno per ogni anno di fidanzamento. Questo oggetto impolverato e corroso dal tempo ispira gioia e tristezza nello stesso tempo. La ragazza incomincia a parlare sottovoce, come se temesse di essere ascoltata: “Questa mattina sono entrata qui per cercare dei documenti e ho visto... L’altarino si muoveva, saltava, faceva piccoli spostamenti allontanandosi da me. L’ho visto con i miei occhi.” “Non è possibile.” “E invece sì, ti dico. L’ho visto.” “Forse è un fenomeno di poltergeist.” “Un giorno ho trovato un cassetto aperto nell’armadio. E’ un cassetto pesante, pieno di carte di mio fratello e sono sicura che era chiuso bene...” “Non so qual è la spiegazione. Tutte le vite sono difficili. Tu hai avuto una vita più difficile delle altre.” le dico tentando di abbracciarla. “Non voglio essere consolata. Voi uomini dite tutti così.” dice staccandosi da me. “Ho una ricca collezione di psicologie femminili, ma una come te non l’ho incontrata mai.” Ritorniamo in cucina, dove si sta al caldo. Ketty incomincia uno antico rito contro gli spiriti cattivi, che ha imparato da sua nonna. Accende una candela, infila un ago orizzontalmente nella cera, scrive alcuni segni su un foglietto e recita una cantilena, a bassa voce. China sulla candela, con i capelli sciolti che le nascondono il viso, sembra una strega. Ogni donna nel profondo del suo essere è strega, cioè femmina e dea, veggente, santa, puttana, perfida e salvatrice... “Hai fatto un rito magico?” chiedo quando ha finito. “Sì. Tu credi alla magia?” “No, ma credo nella bellezza di questa arte.” ********* Oggi è un pomeriggio tetro, nebbioso e decidiamo di esplorare la parte vecchia della casa, quella che apparteneva ai nonni e dove Ketty ha vissuto da bambina. Entrando da un camerone, attraversiamo stanze abbandonate, arredate all’antica. Armadi tarlati, poltrone e tavole rotte; specchi offuscati, tende polverose. In alcune stanze la ragazza si sofferma in silenzio, per ammirarle. In altre stanze cammina preoccupata, attraversandole senza guardare. Camminare in una casa vecchia è un percorso fisico e mentale. Le cose che si vedono, le cose che si incontrano evocano ricordi dentro di noi. Siamo attratti da alcuni oggetti, altri ci provocano disgusto o perfino dolore. Ogni oggetto è un simbolo che lancia una lunga catena di associazioni dentro di noi. Seguire questi percorsi, significa entrare nei cunicoli dimenticati del nostro io e trovare risposte, verità, amori, dolori che sono ancora lì in attesa di essere risolti. Al piano superiore, dentro un armadio, Ketty ritrova una bambola che credeva perduta. La ragazza diventa improvvisamente felice e mi abbraccia. La sua bambola è esile, sporca però ricorda i giorni spensierati della giovinezza. Più tardi, in una vecchia credenza ritrova alcuni disegni di scuola rovinati dall’umidità e li guarda uno alla volta. Al crepuscolo, sporchi e infreddoliti, scendiamo le scale ripide di legno. Ketty con la sua vecchia bambola abbracciata, sembra aver ritrovato un po’ di serenità. . ***** ****** ******** E’ difficile capire Ketty. La sua anima è un universo troppo vasto e strano. E’ come gettare una sonda dentro un infinito senza fondo né pareti. Nei labirinti della sua anima ci sono pensieri, sogni, frustrazioni, desideri, tensioni, paure... Io vorrei aiutarla, ma non posso. Vorrei renderla più serena, ma sono incapace. Il suo pessimismo spesso diventa disperazione. Le sue introspezioni diventano dolorose. I suoi desideri diventano ossessioni. Oggi Ketty è triste e mi racconta: “Io vivo in un castello merlato e a volte provo un senso di estraneamento. Ho rinunciato a una vita mia per dedicarmi prima a mia mamma malata e poi a mio fratello.” “Non dovevi fare questo.” “Ho costruito qualcosa, ricavato dalle sofferenze, dai dispiaceri, dalle rinunce... Io ho resistito per dedicarmi a loro e costruire tutto questo.” “Sì, ma il prezzo era troppo alto e non conveniva.” “Ma non potevo fuggire, non potevo ritirarmi, dovevo resistere, dovevo amarli e aiutarli...” “Sì Ketty, ma adesso ama di più te stessa.” ***** ********* ************ Sono abituato a trovare Ketty stanca, quasi abulica. Invece questa sera appare agitata, quasi sconvolta. Agita le mani mentre parla e vedo che le belle mani lunghe hanno le unghie sporche: “Succedono cose strane... sembra incredibile eppure succedono... Ho paura.” “Che cosa succede?” “Le porte si aprono da sole, di notte. La mia bambola è caduta da sola. L’avevo messa là, sopra il comò e si è rovesciata!” “Sarà stato il vento...” “No. Trovo dei capelli... dentro i libri... dentro le mie cose... Non sono capelli miei... e neanche tuoi...” “E di chi sono allora?” “..... Ho sentito odore di fumo provenire dalla stanza di sopra...” “Ma no... ti sarai sbagliata...” “Lo stesso odore del tabacco che adoperava mio fratello. Non mi credi?” “Sì. Io credo anche alle tue bugie.” “E’ la verità... Ero sola in casa. Ci sono gli spiriti.” “Forse tu percepisci gli spiriti e sei una medium. Oppure vedi le immagini del tuo inconscio, cioè sogni ad occhi aperti.” “Come faccio a saperlo?” “Tu sei ipersensibile, intuitiva, psichica. Insistere con questi esperimenti per te è pericoloso. Prendilo come un gioco.” “Ma non è un gioco.” “Diciamo che ha la bellezza di un gioco.” “Voi maschi siete tutti uguali. Non mi capirete mai.” “Sì. E’ vero. Ma io incomincio a entrare nel tuo mondo. Ci sono ancora molti punti oscuri, molte zone d’ombra.” “Meglio così.” “Io non riesco ancora a collegare i dati; anzi non riesco nemmeno a impostare il problema. Adesso dammi la mano.” Ketty mi porge il pugno chiuso. “Non così...” La ragazza distende la sua sottile mano bianca e io la prendo delicatamente. E’ morbida e preziosa. Poi riprendo a parlare, guardandola negli occhi: “Io non ho un legame forte con la vita; è più forte quello che mi lega a te. Però la vita mi ha fatto il regalo più bello: tu.” “Non ci credo. Dopo tu riderai di me, mi prenderai in giro coi tuoi amici.” “No. Se farò una cosa simile graffiami la faccia.” “Oh. Solamente questo. Farò molto di più...” dice Ketty ridendo. “Lo so che l’odio femminile è molto profondo. Ma se ti tradirò piantami le unghie negli occhi.” “Se uno tradisce la mia fiducia, mi perde per il resto della vita.” “Lo so. Dopo la morte di tuo fratello eri così sconvolta che era un delitto non aiutarti. E’ toccato a me aiutarti.” “Tu mi stai aiutando molto.” “Non ho fatto nulla. Tu hai aiutato me regalandomi la tua giovinezza, il tuo tempo, la tua compagnia.” ********* ********* ********* Eccomi innamorato di nuovo. C’è un fuoco misterioso che alimenta questo amore. Tutto diventa languido, il mondo appare diverso, la vita scorre più fluida e ha una traslucidità che prima le mancava. Sto più volentieri a letto anziché sui libri. Ma non dormo, no. In uno stato quasi ipnotico, penso a Ketty, distillo il mio amore per Ketty. Mi sono innamorato tante volte prima di adesso, ma ogni volta è una cosa nuova e differente. Ogni nuovo amore stupisce e sconcerta come un miracolo. Ketty sembra così fragile, così eterea. Forse non appartiene all’umanità. Penso che Ketty è un gioiello troppo bello, raro e prezioso per me. Lei non è come le altre, è differente. Ha qualcosa di più o di meno, non so, ma è differente. Ketty è una ragazza piena di luci ed ombre. So che cambierà, invecchierà, diventerà brutta. Ma ormai ho accettato lei nel bene e nel male, con tutti i suoi pregi, difetti e cambiamenti. L’amore crea capovolgimenti e tutte le caratteristiche e i difetti di Ketty sono diventati pregi. Ho la prospettiva di una vita difficile insieme a Ketty. So che dovrò soffrire molto insieme a lei. Ma adesso non importa. Non mi importa più niente. Ketty mi regala falsi paradisi ai quali non so rinunciare. ******* ********* ******** In un pomeriggio di nebbia sto andando ancora a casa di Ketty. Mi chiedo cosa vado a fare là? Vado a costruire la realtà. La realtà è una nebbia grigia che bisogna modellare ogni giorno per ricavarne qualcosa di bello. O forse non è così e noi siamo solo schiavi degli istinti e degli eventi. Suono il campanello e dopo un’attesa lunghissima Ketty mi apre la porta. E’ spettinata, con i capelli sciolti; indossa un vestito nero che le modella il suo corpo sinuoso. Gli occhi verdi appaiono spiritati nel volto pallido. Adesso sembra proprio una strega. Ma forse è questo che mi attira in lei, questa aria stregonesca; da isterica o da medium; da santa o da indemoniata; da veggente o da pazza. Oggi Ketty mi mostra delle cose che non avevo mai visto. E a poco a poco entro nel suo chiuso mondo femminile, fatto di frivolezze e meraviglie. In salotto la ragazza mi mostra le farfalle di perline che ha costruito lei, nelle lunghe sere invernali. Con le sue belle mani bianche, estrae le farfalle di perline, contenute in una scatola rotonda. Sono i suoi tesori che non ha mai mostrato a nessuno e li fa vedere a me per la prima volta. Io osservo che Ketty ha le mani psichiche; in chiromanzia si chiamano così quelle con il palmo lungo e le dita lunghe. Sono le mani degli artisti, dei geni, dei folli e dei suicidi. Intanto Ketty mi racconta episodi della sua vita: “Per il mio 15esimo compleanno mi avevano regalato un fiore a forma di stella, un pane a forma di stella e una torta a forma di stella.” Poi Ketty mi racconta i suoi sogni, i piccoli avvenimenti della sua infanzia, gli anni di scuola, la gita al mare, il suo primo bikini rosa... E io rimango lì, ad ascoltare questi piccoli avvenimenti banali, incantato come un bimbo che ascolta le fiabe. ************ Un’altra settimana di pioggia, di giorni corti e tristi. Vado a trascorrere il pomeriggio da Ketty, anche perchè non so dove andare. La ragazza indossa il solito vestito, sporco di macchie; è spettinata, tesa mentre mi sussurra queste parole: “Ho un forte mal di testa. Ho paura che ritornerò a star male.” “Riposati, non affaticarti...” “Impossibile. Ci sono delle cose che non vanno qui. Ci sono delle cose strane.” “Che cosa?” “No. Tu con la tua mentalità non mi crederesti. Succedono cose che mi fanno paura... Ho provato a difendermi con le erbe, con i segni, ma non è servito.” “Che cosa c’è che non va?” “Tutto. E’ un destino, o è qualcuno che... sta tentando di...” “Vai avanti.” “Stanotte ho sentito un gran fracasso giù nel salotto. Dovevo vedere cosa era successo. Sono scesa e...” “E che cosa?” “Erano cadute le tende insieme al bastone e ai supporti. Una cosa incredibile...” “E’ stato solo un incidente.” “No, aspetta. Ho messo le tende bianche dentro un secchio col sapone per lavarle... E al mattino... L’acqua era diventata viola... viola... il colore del lutto... della morte...” “Non devi attribuire significati occulti a incidenti o coincidenze.” “No. No. Non sono coincidenze. Sono successe altre cose strane e pericolose che non posso raccontare...” “Hai girato attorno al problema come un gomitolo, ma il nucleo mi è ancora oscuro.” “Meglio. Meglio così. Non puoi sapere. Non riusciresti a capire.” “No Ketty. Non puoi dirmi questo! Io farei qualunque cosa per proteggerti. Ti prego, dimmi cosa ti è successo.” La ragazza rimane in silenzio, poi riprende a raccontare. La sua voce è bassa e impaurita: “Le notti precedenti vedevo un’immagine nera, tonda, minacciosa, accompagnata da un suono che era un misto fra un cavallo e un maiale... E stanotte è ritornato...” “Chi è ritornato?” “Lui. Il bambino. E’ un bambino brutto, calvo, asessuato; ha lineamenti insignificanti, occhi cerulei e parla... anzi mormora: E in quel momento è suonato il campanello di casa.” “E’ stato solo un brutto sogno, un incubo. Anch’io ho incubi talvolta.” “No. Non era un sogno. Il campanello di casa suona da solo, di notte.” Segue un lungo silenzio. Sono sconcertato. Poi dico alcune parole consolatorie: “Ketty. Adesso stai calma. Risolveremo questi misteri. Ma prima dobbiamo capire chi è il nemico.” ******* ********* ********* E’ un pomeriggio di febbraio, bianco di brina e con lumi rossi nel cielo pallido. Mentre percorro la strada sento un freddo tagliente. I fossi sono ghiacciati, la campagna sta sotto una rete di brina. Che cosa è Ketty per me? Un regalo del Destino, una consolazione alla mia solitudine, un gioiello in attesa della morte... Nonostante tutti i limiti umani, l’amore è una cosa sovrumana. Ormai Ketty mi è entrata nel sangue, mi è entrata nel cervello e nell’anima. Riuscirò a liberarmi di questa ossessione? Mi sento confuso, sconcertato. Non so neanche io se sto bene o se sto male. Io e Ketty abbiamo raggiunto il feeling, l’empatia. Ma di più ancora; è un travaso di anime, un orgasmo psichico. Questo mio rapporto con Ketty è impegnativo. Richiede tempo, sforzo e dedizione. Ci sono persone lineari, con una psicologia semplice. Ketty non è così. E’ una ragazza difficile, sospettosa, ermetica. A volte ha contorsionismi mentali, con funambolismi psichici. Fa dei ricami di pensieri, difficili da interpretare. Non sempre riesco a interpretare le sue parole o dare il giusto significato ai suoi accenni. A volte è dolcissima, altre volte intrattabile. E io sto entrando nel mondo fragile e delicato di Ketty. Un mondo fatto di specchietti, veli, cristalli e labirinti. Forse è meglio che io non vada più a casa sua. Si sta creando un legame che io non voglio. E’ come una ragnatela sottile che mi cresce intorno e mi imprigiona. Sì, è bello, mi diverto, mi piace ma... So che va a finire dentro la morsa del matrimonio. E mi lego a una persona piacevole per poche ore, ma insopportabile per una vita intera. Sto trascurando libri, passeggiate in campagna e sto perdendo tempo per ascoltare le lamentele di quella ragazza. Mi sento anche io stanco e stressato. Mi sembra di camminare sul filo di un rasoio. Da un lato c’è la solitudine con i suoi fantasmi paurosi. Dall’altro lato c’è il legame con una donna, la noia, il tedio insopportabile per la perdita della mia libertà. Questo pomeriggio andrò da lei per l’ultima volta, poi voglio lasciar passare del tempo per slegarmi da Ketty. ******** ********** ********* CAPITOLO QUINTO Forse è meglio che prima vada a trovare gli amici al Pozzo dei Poeti. In questa sera di nebbia vado a trovare i filosofi. Nella spuma dei loro pensieri spero di trovare la soluzione ai miei conflitti e alle mie incertezze. Agostino mi apre e mi conduce in una saletta piena di libri. “Caro Agostino, tu sei un uomo realizzato.” “No. La mia vita è stata un fallimento.” “Ma cosa dici? E tutti i tuoi libri?” dico indicando una parete zeppa di libri dietro di lui. “Quelli mi hanno fatto comprendere la mia ignoranza.” “Sei solo? Dove sono i tuoi amici?” “Quei vecchi caproni! Stanno dormendo e devono ancora arrivare. Tu sei il primo arrivato. Ma ti vedo preoccupato. Bevi un bicchiere di vino caldo. Cosa posso fare per te?” “No, grazie, non bevo. Sono preoccupato per Ketty. Non riesco ad aiutarla. A volte ho paura anche io, delle sue paure, dei suoi problemi.” “Ho studiato a fondo la psicologia anomala, infra e ultra.” “Perchè?” “Perchè la mente è il più bel giocattolo da capire.” Agostino si siede su una sedia con la paglia mezza sfondata e mi chiede: “Di cosa parla quella ragazza?” “Mi parla del suo mondo interiore, i suoi sogni, incubi o fantasmi. Non so cosa sono.” “Cosa altro ti dice?” “Mi racconta le sofferenze della sua giovinezza, continua a ricordarle. Io mi sforzo di rasserenarla. A volte parliamo per tutta la notte.” “Le orge intellettuali sono più massacranti di quelle fisiche. Non dovete giocare troppo con le parole. Te lo dice uno che ha passato la vita con questi strani insetti, dispettosi, piacevoli, talvolta velenosi, che si chiamano parole.” “Proverò a dirglielo.” “Sei innamorato di Ketty?” “Sì. Un poco sì.” “Quando un uomo ama una donna, ama una proiezione immaginata da lui. La donna reale è differente. Però senza la donna reale questa proiezione non esisterebbe.” “Ma tu Agostino, cosa pensi dell’amore?” “Nel grande amore succede questo: l’uomo è il sacerdote che adora; la donna è il Dio che viene adorato.” “Incredibile! Ma tu ami le donne?” “Io sono un misogino. Però sono convinto che le donne sono le cose più belle che esistono al mondo.” “Sei illogico.” “Io accetto le contraddizioni. Le contraddizioni salvano la vita. Se segui una coerenza logica arrivi in un posto assurdo. Voglio dire che se ti imponi una regola, devi fare anche le eccezioni alla tua regola. Gli inquisitori del Medioevo non avevano contraddizioni, e bruciavano le persone.” “Sei un pensatore profondo. E come vedi il problema della incomprensione fra i sessi? A volte io mi stupisco che uomini e donne vadano insieme. Sono esseri così differenti.” “Se la donna fosse forte come l’uomo ci sarebbe la lotta fisica per conquistarla. Ma la donna è più debole; la lotta è impari perciò l’uso della forza è da vigliacchi. Allora l’uomo deve usare il cervello per conquistare la donna. E qui la donna è più forte.” “Così noi maschi siamo in svantaggio. Qual’è la strategia da segiure?” “Le donne sono incostanti, frivole, ma prendono la vita seriamente. Gli uomini sono seri, ma vivono la vita in modo frivolo. L’uomo deve fare sesso e ha una dipendenza fisica verso la donna. La donna ha una dipendenza psichica verso l’uomo: deve sfogarsi, sentirsi consolata, compresa; perchè la donna è insicura nel profondo. Però l’uomo deve essere all’altezza. La donna si concede all’uomo che ha imparato la psicologia femminile.” “E’ vero. Se penso a Ketty...” “Tu con Ketty hai un rapporto troppo intellettuale. Ricordati che gli amori platonici sono i più massacranti. Anziché districare i suoi problemi, accarezzala. Non costruite castelli di parole. Spogliala. Finché un uomo non vede la sua donna nuda, non può dire di conoscerla. E i pudori dell’anima sono più profondi dei pudori del corpo. Hai provato a dialogare con il corpo di lei?” “Sì. Ma dopo ritorna l’interiorità. Mi sopraffa. E’ profondissima. E’ infinita. Possibile che la soluzione sia solamente carnale?” “La carnalità attenua la complessità del mondo psichico ed è una soluzione temporanea.” “Ma tu Agostino, pensi che il sesso sia così importante? Non è deludente?” “Il sesso è deludente nella giovinezza, quando abbiamo poche cose per confrontarlo. Da vecchi impariamo che tutte le altre cose sono più deludenti del sesso.” “E dopo? Così si cade nella rete del matrimonio, delle convenzioni.” “Sì. Il mondo psichico si attenua e arrivano altri problemi, più brutali e materiali.” “Beh, io voglio rimanere libero e solo. Sono stanco e deluso della vita.” “Gli uomini liberi e delusi della vita sono quelli che hanno più bisogno del sesso. Così la Natura fa nascere nuovi esseri in sostituzione.” “Un’ultima domanda: tu credi nell’aldilà?” “Nel corso della vita sono entrato e uscito da molte gabbie mentali: circoli occultistici, spiritualisti, magici; sette occidentali e orientali; religioni tradizionali o eretiche... Le ho esplorate tutte. Sono diventato un ateo con fede. Io ho una visione mistica della vita; perciò tutte le filosofie per me sono inadeguate.” **** ******** ********* Lascio Agostino e vado a casa di Ketty. E’ più tardi del solito. Nel buio freddo e nebbioso, la finestra della sua casa manda una debole luce gialla. E’ un faro per i naviganti o un fuoco per le falene? Non lo so. Intanto suono il campanello e aspetto... Finalmente la ragazza apre; ha gli occhi arrossati il viso stanco: “Ho un forte mal di testa e temo che tornerò a star male. Ci sono gli spiriti.” “Che cosa è successo?” Ketty riprende a parlare gesticolando: “Stanotte ho sentito dei colpi. Era come se qualcuno battesse sull’armadio. Che cosa era? Mio Dio, che cosa era?” “Non lo so. Allora cosa hai fatto?” “Nulla. Dopo sono incominciati i tamburi. Tamburi, tamburi, tamburi... Battevano in continuazione. Sembrava un rito di Magia Nera, quello che si svolgeva giù in salotto.” “Io per proteggerti darei la vita, ma non conosco il tuo nemico.” “Ma non erano tamburi. Erano boomerang mentali; erano spade dentro spade. E io non sono pazza. Non sono pazza, c’erano veramente!” “Sì. Ti credo. Però adesso calmati. Stai calma. E’ tutto finito adesso. Se potessi essere con te quando avvengono questi fenomeni...” “Si sentivano anche delle voci provenire dal salotto.” “Che cosa dicevano?” “Erano voci lontane; sembrava un borbottio.” Ketty ha un lungo sospiro. E’ agitata, sudata e ha brividi di freddo. Ricordare gli avvenimenti della notte passata, le fa male. A voce ancora più bassa riprende a parlare: “Alle due di notte sono andata in bagno e mi sono affacciata alla balaustra della scala. C’era una luce rossa giù nel salotto.” “Forse era la luna o il fuoco nella stufa.” “No. Tutte le finestre erano chiuse e la stufa era spenta da ore. In quel momento è arrivato lui...” “Chi lui?” “Il bambino calvo e mostruoso. E parla. Ma io non sento le sue parole, le percepisco mentre sussurra: < Io sono il Diavolo...>” “No! Quel bambino mostruoso non esiste! E’ solo la concretizzazione delle tue angosce, delle tue paure...” Ketty non mi ascolta e prosegue: “E dietro di lui c’era Nicholas...” “No! Nicholas è morto! Lo abbiamo visto mentre lo seppellivano...” grido. Ketty riprende a parlare. La ragazza è tesa e molto emozionata: “Ho riconosciuto la voce di mio fratello rovinata dal fumo delle sigarette.” “Basta! Sono solo brutti sogni, visioni della mente; incubi...” “No. No. Non sono sogni. Ho visto realmente...” “Calmati Ketty. Calma. Sforzati di stare calma. Troveremo una soluzione a tutto questo.” “Quel bambino mi perseguita. Ho paura... ho paura... ho paura...” Trascorriamo il resto della sera abbracciati sul divano, vicino alla stufa. Alle due di notte faccio ritorno a casa. **** ********* ******** ****** E’ un pomeriggio chiaro, ai primi di Marzo. Vado a casa di Ketty e la ragazza mi appare più serena e rassegnata. Appena entro mi dice: “Stanotte ho sognato... Una suora bellissima, giovane, distesa su un letto, come morta. Poi la suora si alza e appare dentro un rettangolo della parete. E’ una creatura viva; vedo le luci, le ombre e la sua bocca che parla e mi domanda: Allora mi sveglio tutta agitata. Che cosa può significare?” “Non lo so. Forse è un sogno premonitore o forse no. Aspetteremo un paio di mesi per vedere quello che succede.” Poi Ketty va alla finestra e la sento esclamare: “Guarda... Guarda...” Io corro vicino a lei e la ragazza mi indica il cielo. E’ un fenomeno stranissimo. Tutto il cielo a ovest è pieno di nubi a forma di virgolette. “Che cosa vorrà dire? E’ un segno del destino...” dice Ketty sospirando. “Le nubi oggi hanno una forma bizzarra” tento di spiegare. Ma Ketty insiste: “E’ un presagio. Le nubi racchiudono qualcosa, stanno imprigionando qualcosa... Ma cosa?” Per sfuggire al freddo andiamo in cucina, vicino alla stufa e commentiamo il fenomeno. Il significato generale è chiaro. Ketty si sente minacciata; ma da chi? E da dove? Sembrerà una coincidenza, eppure questa è l’ultima volta che ho visto Ketty nella sua casa. CAPITOLO SESTO Sono trascorse alcune settimane durante le quali le bufere della mente si sono calmate, o perlomeno assopite. L’amore per Ketty mi ha svuotato. Il pensiero fisso e ossessivo di lei ha stancato la mia mente, ha esaurito tutte le mie energie. Io e Ketty abbiamo giocato all’amore come due ragazzini; abbiamo giocato alla morte come due disperati. Adesso ho capito quanto siamo soli al mondo. Anche insieme all’amico più caro, insieme all’amante più focosa, l’uomo rimane solo, con i suoi fantasmi e le sue paure della morte. Adesso siamo in Aprile. I giorni di Aprile sono così belli che bisognerebbe appuntarli sull’album per conservarli. Invece fuggono così veloci. Il cielo è celeste con corone di luce rosa. Nuvole a forma di angeli corrono nel cielo. Un’altra storia d’amore è finita, chiusa nell’armadio del tempo, da dove non uscirà mai più. Se ripenso all’inverno trascorso, comprendo che con una superattività mi sono illuso di creare una maglia fitta che mi proteggesse dal dolore e dalla paura della morte. Ho corso insieme a Ketty come un forsennato. Non so se ho fatto bene; in fondo c’è sempre la morte. Però se rallentavo facevo meno esperienze. Ma è tutto inutile. Prima o dopo dobbiamo accettare la realtà convenzionale, oppure rifiutarla per sempre. Ketty ha visto altre realtà? Più profonde e spirituali? Oppure ha visto solo le allucinazioni del suo inconscio? E’ una domanda che tormenta le mie notti insonni. Intanto però, la società materialista ha dato la sua risposta e ha rinchiuso Ketty in una casa di salute. Gli zii pietosi, quelli che non sono mai venuti quando Ketty aveva bisogno di aiuto, hanno chiamato un dottore. Questo ha spedito la ragazza in una casa di salute e i parenti hanno ottenuto l’autorizzazione a “lasciarla dentro”. Qualche vota vado fino ad Ader per trovare Ketty. Dopo i cancelli e la portineria, entro in un salone grande con vetrate, divani e piante di sempreverdi. C’è un tizio sdraiato per terra che urla e pugna il pavimento. L’infermiera tenta di calmarlo. Sento in lontananza le lunghe risate delle pazze... Ketty sta seduta da sola su un divano. Io mi siedo vicino e guardo il suo fermacapelli a forma di stellina dorata. La ragazza volta piano la testa e mi guarda senza parlare. Le chiedo come sta, se ha bisogno di qualcosa... Ketty risponde parlando lentamente a voce bassissima. Cosicché sono costretto a farmi ripetere le parole. E’ in equilibrio da psicofarmaci, dice la Direttrice. Il tempo è ovattato qui dentro e passa più lentamente. Il silenzio è rotto dalle grida che provengono dai reparti. Alla fine le stringo la mano e vado via. Prima di uscire dalla sala mi volto per l’ultima volta verso la ragazza. Ketty mi guarda. Sul suo viso c’è una espressione di speranza e di rassegnazione. ******** ********* ********* Adesso Ketty è rimasta sola con le sue visioni. Fantasie dell’inconscio o spiriti dei defunti? Chi può dirlo? Ancora altro tempo passato e siamo in Maggio. E’ fiorita la robinia, i sambuchi. Nei campi ci sono papaveri e camomille. Agostino ha fatto una paralisi e lo hanno portato all’ospizio dei vecchi. Non ho neanche il coraggio di andarlo a trovare. La sua casa è chiusa adesso. Il Pozzo dei Poeti non esiste più. Il Professore non ha nemmeno la laurea. E’ uno scrittore fallito; moglie e figlia lo hanno abbandonato e lui vive alla giornata. E’ sporco, trascurato; scrive aforismi e intrattiene i passanti con i suoi discorsi. L’esteta Doriano ha trovato finalmente una compagna e adesso abitano insieme. Deturry si è trasferito in città. Il musicista Lino è completamente sordo. E’ rimasto solo Rodolfo, lo scultore. Deve obbedire alla moglie bisbetica e lavorare duro per mantenere le sue quattro figlie. ******** ********* ********* Ketty vedeva veramente gli spiriti? Udiva veramente la voce di suo fratello? O erano tutte illusioni? E i fenomeni fisici erano reali? Fino a che punto? E chi era il bambino? Cosa rappresentava? Era la drammatizzazione dell’ansia? Del pericolo? Della paura? O che altro? Sono domande che restano senza risposta. La casa di Ketty ormai è abbandonata e vuota. Quando passo da quella strada sento un vuoto, sento l’eco della presenza di Ketty. Ketty ha lasciato un vuoto che nessuno riempirà, dentro alla casa e dentro al mio cuore. La sua casa non risuonerà più dei suoi pianti e risate, delle sue grida e sospiri. Qualcosa di bello e delicato è scomparso dal mondo; forse perchè questo mondo, con le sue brutture, non ha saputo apprezzarne, né comprenderne il valore. Il gioiello Ketty rimane per sempre nel mio cuore. FINE Marzo Ottobre 2007 Revisione Novembre 2007 Marzo 2008 SOLE DI MEZZANOTTE Là, dove i giorni e le notti sono molto lunghi, tra i silenzi delle contrade settentrionali. Frank Graegorius La scala a pioli è alta e stretta, bucherellata dai tarli, resa viscida dallo sterco degli uccelli. Continuo a salire verso la luce grigia che piove dalla botola là in alto. I muri della torre sono di pietra scura, sporchi di polvere centenaria. Mi sento sfinito, eppure continuo a salire aggrappandomi al legno fragile e tarlato. In uno stato di tensione intollerabile mi concentro nello sforzo. Il prossimo gradino resisterà sotto il mio peso? Salire in queste condizioni è pericolosissimo. Ad ogni passo il gradino può spezzarsi e rischio di cadere sfracellato. Ancora uno sforzo. Ancora un altro. Sento una sensazione di ansia infinita dentro di me, mista a sfinimento e paura. A intervalli, le travi sottili e tarlate sorreggono alcune tavole che formano una specie di pianerottolo sfondato e cadente in più punti. La poca luce che piove dall’alto rischiara le pareti anguste della torre alle quali è appoggiata un’altra scala. Fino a quando durerà? Con una sensazione di angoscia mi aggrappo ai gradini. Continuo a salire e sento che la mia vita è appesa a un filo... Non ha senso tutto questo. É un sogno che si ripete ogni altra notte e mi fa risvegliare in un bagno di sudore freddo. Che significato può avere? Ogni volta è un continuo spingersi su per scale insicure verso le sommità delle torri, verso soffitte, granai, celle campanarie... ***** Dipingere mi fa sentire un Dio nell’attimo della creazione. Mi eleva dalle miserie della vita umana. In quei momenti io immagino Dio come un supremo artista che ha creato l’universo per gioco. L’universo non è niente altro che il sogno e il gioco di un Dio. Nessuno sa cosa provo quando stringo fra le dita un pennello. Toccarlo, mi dà brividi di voluttà. É come se toccassi un giovane sesso femminile, ma di più ancora. É una esaltazione e un’estasi. Quando questa è finita però torno a interrogarmi sull’inutilità delle cose, e mi sembra che ogni nostro sforzo sia destinato a finire nel nulla. Nella sera estiva esco per un appuntamento a casa del Cavaliere. La troppa pioggia dei giorni scorsi ha intasato le fognature e la strada è allagata. Per raggiungere la sua casa isolata mi tocca andare dalla parte opposta, oltrepassare la periferia e aggirare il paese da dietro. Mentre sto per incamminarmi mi torna in mente il sogno ed è come un presentimento di sventura. ***** É da tanto tempo che non passavo da queste parti. Vecchie costruzioni si susseguono a campi incolti. Su uno spiazzo c’è un variopinto accampamento di zingari. Facce brune e dure di alcuni uomini seduti attorno al fuoco mi guardano con cupidigia. Dopo una curva, lungo un tratto di strada dritto, incontro un uomo che sta spingendo qualcosa, una carriola, davanti a sé. Quando è più vicino mi accorgo che invece si tratta di una ragazza su una sedia a rotelle. Nella luce del crepuscolo lo sguardo della ragazza ferisce come una pugnalata. Occhi grandi e profondi pieni di muta, terribile disperazione. Lei seguita a guardarmi. Allora saluto e mi avvicino per chiedere un’informazione. L’uomo dai capelli grigi è semplice e buono. Si ferma e resta con calma a parlare con me. Guardo lei: ha il vestito rosa, le calze a fiorellini con le scarpette bianche. “É sua figlia?” gli chiedo dopo una pausa di silenzio. “Sì”. “É molto bella. Come si chiama?” “Ann Rose”. “Quanti anni ha?” “Dodici”. La ragazza seguita a guardarmi con una espressione intensa di stupore e attesa. “Non può parlare?” “No, ma capisce perfettamente”. “Da quando è così?” “Dalla nascita”. “Oh” sospiro. Ancora la sofferenza! La sofferenza inutile che stringe l’anima, che annienta sotto il peso della sua incomprensibilità. “Piccola cara” le dico accarezzandole il viso. Di colpo i suoi occhi si illuminano e il suo volto mi regala un sorriso meraviglioso, muto, eppure dolcissimo che esprime gratitudine e speranza. Resto ancora con la mia mano tra i suoi capelli sentendomi investito da onde di felicità. Quando la saluto ho il cuore stretto in una morsa. La sofferenza! É impossibile evitarla. Già la sua presenza nel mondo, la sola consapevolezza della sua esistenza rende impossibile l’espansione della gioia. Come si può essere felici vedendo questo accanto a me, sapendo che per un puro caso non ci sono io al suo posto, su quella sedia. No, devo scuotermi da questi pensieri per comunicare con l’arte un mio messaggio di bellezza. É scesa la notte e nella periferia del paese adesso si danno convegno i reietti della società. Negli anfratti dei muri ci sono mendicanti accoccolati per terra. Altri diseredati dormono nelle panchine. Il vento agita gli alberelli scarni ai lati del marciapiede, si ingolfa in folate dentro agli androni. Le fronde si incurvano a tratti fino a sfiorarmi e mi sforzo di evitare questo contatto gelido che mi fa rabbrividire. Proseguo al centro del marciapiede dove si alzano le erbacce. I lampioni sono rari e distanziati da queste parti. Da un portone davanti a me esce un tizio che cammina storto e con una tovaglia in spalle. É uno dei tanti balordi. Si ferma a guardarmi con occhi spiritati tanto che ho paura che stia per avventarmisi contro, invece attraversa di colpo la strada. L’uomo si trascina stancamente fra i bidoni della spazzatura. A tratti parla da solo con tono lento e solenne come se si rivolgesse a una folla. Ci sono solo cani randagi a quest’ora. É un pazzo o un ubriaco. “Venite a me creature tutte che soffrite. Caricate su di me le vostre piaghe, i vostri dolori, i vostri martiri. Infelici, afflitti, malati...” “Ma va a faunculo matto” gli gridano dietro due puttane vestite di rosso appoggiate a un lampione. L’uomo è alto e magro con i capelli biondastri ed è vestito di stracci color sabbia. Seguita a camminare barcollando fra le sterpaglie di quei giardinetti di periferia. Ogni tanto si appoggia a un bidone delle immondizie per prender fiato. “Il santo era presso Dio ed era Dio ma un giorno ebbe compassione del mondo e discese fra gli uomini per salvarli... per redimerli... Fratelli... Figli...” dice allargando le braccia e la sua figura si leva terribilmente jeratica e obliqua in quel momento. Per un attimo ferma il suo sguardo verso di me, e resta immobile con le braccia in alto, come estasiato. Poi si volta e riprende lentamente a camminare e a borbottare: “Venite a me... Io sono la luce...Io porto la luce... Accorrete...” Il vento di fine luglio solleva mulinelli di polvere, cartacce corrono per la strada, insieme alle foglie secche. Si odono adesso le grida di scherno delle donnacce. Alcuni teppisti mi sorpassano schiamazzando. Oltre la periferia devio prendendo la strada sassosa che costeggia i campi e così arrivo di fianco alla casa del Cavaliere. ***** Il Cavaliere è un grande mecenate e collezionista in modo maniacale di ogni genere di cose. Oltre ai libri e ai quadri vi sono collezioni di medaglie, spade, bottiglie, serrature, dizionari, anelli... Quest’uomo magro, zoppicante, con l’eterno vestito grigio mi attende nel salotto da fumo. Le pieghe del volto paiono intagliate nel legno: “Venga Claude, lei è un’anima grande, perché crede nella bellezza”. Discutiamo del lavoro da fare prima di passare in rassegna le bacheche. Dietro lo scintillìo dei vetri, sui velluti corrosi, stanno gli oggetti resi opachi dal tempo. Oggetti carichi di emozioni di persone che ora sono morte da secoli. Un mondo statico di sensazioni imbalsamate dove le brutture della vita appaiono attutite. In questi depositi del tempo dove tutto sta ammassato e cristallizzato, non c’è differenza fra dolore e piacere, fra le realtà e i sogni degli uomini. Glielo faccio notare e il Cavaliere, verso mezzanotte, propone uno strano brindisi: “All’arte, Claude, all’arte e alla vita. All’arte che preserva la bellezza, l’unica cosa che vale nella vita”. Bevo con lui, ma nota la mia indecisione e prosegue: “Che avete, Claude, stasera? Dov’è finito il vostro entusiasmo di eletto?” “No, stasera mi sento solo un povero uomo. La vista della sofferenza mi sconvolge perché non ne conosco il motivo e mi fa provare un senso di impotenza a soccorrere”. “Ah! La vita è sublime, meravigliosa, assurda, insensata, fatta di fango e di sterco”. Fa una pausa prima di concludere amaramente: “La vita è fatta di dissidi, di antinomie, di contraddizioni. La vita esiste perché si nutre di se stessa!” “Non basta per spiegare la sofferenza. Non basta per giustificarne la presenza nel mondo!” E questo pensiero mi accompagna fino all’ora di congedarmi. ***** Devo recarmi dal Cavaliere perché ha ancora bisogno di me. Infiltrazioni d’acqua sono penetrate nella quadreria rovinando alcune tele che adesso bisogna tentare di salvare. É un mattino caldo pieno di sole. Dopo la solita curva scorgo il luccichìo della carrozzina di Ann Rose in lontananza. É ferma in prossimità della sua casa e c’è una persona che non è suo padre accanto a lei. Quando sono più vicino il sorriso della ragazza mi accoglie luminoso. “Ciao Ann Rose, come stai?” L’altra ragazza che sta con lei si volta verso di me. É bellissima, con i lunghi capelli biondi sciolti sul vestito bianco. “Ciao, io mi chiamo Erika...” mi dice allungandomi la mano. Ma la tiene scostata rispetto a dove mi trovo io. Le prendo la mano nella mia guardandola negli occhi. I suoi stupendi occhi verde chiaro invece sono sperduti in un punto lontano del cielo, senza vedermi. Resto così senza parlare ed è ancora la sua voce allegra a rompere il silenzio: “Io ho diciannove anni, sono la sua amica e abito poco lontano. E tu come ti chiami?” Restiamo a parlare e dopo un po’ so tutto di lei. É completamente cieca dalla nascita e vive assieme a sua madre in una fattoria dalle parti di Quarts. La sua allegria e spensieratezza finisce per contagiarmi tanto da farmi dimenticare in quel momento la sua infermità. Quando la saluto mi accorgo di portare con me un po’ della sua fiducia nella vita. Al mio ritorno, molto ore dopo, prendo un’altra strada, ma la incontro per la seconda volta. Il padre di Ann Rose sta accompagnando a casa Erika. C’è uno scambio di convenevoli e prima di congedarmi Erika mi invita ad andarla a trovare alla fattoria. Dice che sarà sempre là ad aspettarmi e sarò il benvenuto in qualsiasi momento. Senza promettere niente la saluto e faccio ritorno a casa. ***** Nell’avvicinarmi alla fattoria provo un senso di incertezza, di dubbio e quasi vorrei tornare indietro. La casa dal colore giallo tufo sembra abbandonata in questo pomeriggio di fine estate. Gli edifici grandi e vuoti delle stalle, il fienile pieno di polvere e ragnatele con la finestrella rotonda lassù sotto il tetto incurvato. Gli abbeveratoi in pietra pieni di acqua verde e stagnante. Una vecchia è accomodata su un seggiolone a godersi gli ultimi raggi del sole. Sulla testa ha un fazzoletto bianco che cade di traverso. Il suo sguardo assente e vuoto è sperduto in un punto dell’orizzonte. Entro dal cancello aperto e attraverso l’orto fra le file delle verdure, alcune abbattute, altre rinsecchite. I pomodori rosseggiano insieme a file di melanzane oblunghe e violacee, aglio, saggina e altre piante. C’è un po’ di confusione nell’orto. I vialetti dovrebbero essere rifatti e bisognerebbe ripulire le erbacce. Vedendo che non c’è nessuno lì mi avvicino alla casa. La vecchia seduta sotto la vigna accanto alla pompa per l’acqua deve essere la madre. “Buongiorno, come vi sentite oggi? Sono venuto a trovare Erika...” Pianissimo gira lentamente la testa, attirata forse solamente dalla mia presenza e borbotta qualcosa scuotendo le mani. É impossibile capire, ma ugualmente le sorrido per assecondarla. “Dite che è nell’orto? Ma non mi pare di averla vista... forse in casa? Bene, adesso la cercherò...” Attraverso la porta mentre lei continua il suo borbottìo senza senso. Nella cucina piccola e in penombra Erika alza la testa e si arresta di stirare. Allora la chiamo e le vado vicino mettendole un braccio attorno alle spalle. Stare insieme a lei mi fa provare una pena infinita come se fossi io colpevole della sua infermità. La guardo mentre stira. Il ferro a braci nero e pesante scorre sui teli bianchi. Lei con il tatto spiega la biancheria ripassando la mano vicino a dove ha stirato, correndo con le dita a spruzzarla d’acqua, a riassettare, piegare, distendere... É incredibilmente brava a fare tutto questo. É una danza delle mani aggraziata e agile mentre le dita a volte sfiorano quasi il ferro caldo dove all’interno rosseggiano le braci. “Erika, ma sei bravissima!” le dico abbracciandola. Lei si schermisce sorridendo, poi riprende a lavorare. Io che seguito a guardarla faccio fatica a ritrovare le parole: “Tu sei... tu sei... unica”. ***** É un caldo pomeriggio di agosto quando vado da Erika. La campagna appare bruciata dall’estate che sta per finire. Entro chiamandola e quando vedo che ha il grembiule la rimprovero per scherzo: “Ma come non sei ancora pronta? Sono venuto a prenderti, vieni, ti porto in paese”. Lei lascia tutto e corre su per le scale. Dopo pochi secondi ritorna giù cambiata e pettinata da non sembrare più la stessa. Indossa un vestitino leggero rosso cupo con una lunga collana di perline bianche. Nella penombra della vecchia cucina mi avvicino a lei prendendole le mani e guardandola con ammirazione. “Ehi lasciati guardare, come sei bella!” le dico a bassa voce. Lei sorride felice: “Sono bella per te”. Poi usciamo e l’accompagno a fare delle commissioni in paese. La guido in vari posti mentre lei si preoccupa di far presto, e mi chiede se sono stufo di stare con lei, e vorrebbe ricompensarmi per il servizio che le ho fatto. Un poco per volta mi racconta tutto di lei, dei suoi anni passati in collegio, e gli scherzi, i giochi, la morte di suo padre, la storia della sua famiglia... É sincera, è attenta per prevenire ogni mio desiderio. Con la sensibilità di cui è dotata percepisce al suo insorgere ogni mio stato d’animo, di curiosità, di impazienza, di desiderio, di aspettativa... Alle domeniche la porto fuori perché si diverta un poco e mi ricambia in un modo meraviglioso con tutta l’attenzione e la dedizione per me di cui è capace. Amo pettinare i lunghi capelli di Erika. Sono lisci soffici e mi piace accarezzarli. Una sera che siamo soli nella vecchia cucina della fattoria al lume di candela: “Come sei bella. In questi pochi giorni che sto con te mi sembra di conoscerti da sempre. Mi sollevi quando sono depresso con le tue canzoni, con i dolci che sai fare. Sei sempre così buona con me tanto che a volte ho paura di disturbare”. Lei insiste sempre di no, che sono il benvenuto in qualunque momento, ma io a volte vedo che trascura tutto, anche il mangiare, per stare con me. Glielo faccio notare rimproverandola per la sua eccessiva dedizione e lei risponde seria: “Ma non è niente... per te darei qualsiasi cosa...” “No, ricordati,” l’avverto, “non provare a legarmi a te. Ogni artista è un uomo libero e quando sarò stufo ti lascerò”. ***** Di sera, ma anche durante il giorno vado alla fattoria a trovare Erika. L’unica cosa che mi chiede spesso è di accompagnarla da persone handicappate bisognose che lei conosce per dare assistenza, per aiutarle nel lavoro senza pretendere nulla in cambio. Alla sera quando vado a trovarla alla fattoria si entusiasma nel raccontare il lavoro svolto e i nuovi progetti per il futuro che conta di realizzare con il mio aiuto. Vuole creare un centro di solidarietà per persone bisognose, si incarica di sbrigare mansioni per quelli che non possono farlo, cura gli interessi degli altri... “Dobbiamo aiutare questa gente ad essere accettata, Claude. Dobbiamo impegnarci ad aiutarli a rientrare nella normalità” mi dice con enfasi. Io invece sono convinto che non serve e non si può fare molto così la contraddico: “La normalità è solo mediocrità. I valori in cui credi non esistono o sono relativi, non esistono certezze, ogni scelta è un abisso. Il domani è un buco nero che ho paura di affrontare”. “Hai incontrato me, Claude, e ti aiuterò. Quando hai bisogno di me vieni in qualsiasi momento e sarò sempre pronta ad aiutarti”. “No, tu devi badare di più a te stessa, non devi trascurarti per gli altri”, le dico vedendo che tenta di nascondere i segni della fatica. Ma non mi dà retta: “Claude perché dici questo? É meraviglioso dare. La società ha bisogno di aiuto e noi dobbiamo aiutarla. Non devi aver paura...” “No, non ho paura, è solo che conosco la società quella che tu ami e che desideri aiutare, e vuoi che anch’io aiuti...” Vorrebbe interrompermi ma non glielo permetto e continuo a parlare: “C’è stato un tempo nel quale anch’io credevo nelle persone, credevo fosse giusto aiutare gli uomini. Ladri, omosessuali, sopraffattori... è questa la società che vuoi aiutare? Belve pronte a sbranarti appena vai loro incontro. Perché vuoi rischiare di venir coinvolta, derubata, violentata e peggio ancora? La società mi fa orrore! Ascolta, mi giudichi un egoista ma non è così: ho sbagliato perché sono stato troppo altruista, troppo generoso. Ho aiutato gente di ogni tipo. Mi sono sacrificato per gli altri tante e tante volte e che cosa ho trovato? Quando è arrivato un periodo brutto nel quale io avevo veramente bisogno di aiuto, sono scappati via tutti, e non ho trovato nessuno, nessuno ti dico, disposto a darmi una mano. Poi quando ho superato la crisi e le cose si sono messe meglio sono tornati, untuosi e servili, a chiedere, a pretendere in nome dell’amicizia. Ipocriti. Capaci di suscitare pietà, loro che sono spietati”. Non riuscivo a convincerla. Lei mi diceva che bisognava ugualmente dare senza aspettarsi niente, anzi solo ingratitudine. “Non pensi a te stessa? Quando sarai tu ad avere bisogno, a chi ti rivolgerai? Non troverai nessuno di quelli che hai aiutato disposti a darti una mano!” Ma lei non sembra spaventarsi: “Mi rivolgerò a Dio. Penserà lui a provvedere per me”. Le davo torto ma sentivo nell’intimo che aveva ragione. É che volevo proteggerla, evitarle quelle esperienze sgradevoli verso cui la sua imprudenza l’avrebbe portata. ***** Erika è molto bella stasera con un vestito bianco e guarnizioni di pizzo. “Vieni ti presento Paul” mi dice mentre ero venuto per salutarla, e mi corre incontro prendendomi per mano. Mi porta in cucina dove un giovane dalla carnagione scura con gli occhiali si alza sorridendo apertamente e stringendomi la mano. “Siamo compagni di collegio” spiega Erika, “non ci vedevamo da tanto ma ora è venuto a trovarmi e si fermerà qui per qualche giorno”. Dopo un po’ vorrei andare ma Erika mi convince a rimanere a cena e trascorrere la serata insieme. Quando ci mettiamo a tavola Erika di tanto in tanto aiuta sua madre a mangiare, porgendole il cibo nel cucchiaio. La vecchia ha perduto la ragione e a volte emette frasi senza senso. Nonostante questa presenza penosa accanto a noi l’atmosfera creata da Paul è di sana allegria e buonumore. Paul aiuta a servire le portate e intanto intrattiene parlando molto; racconta avventure buffe della sua vita che fanno ridere. Come quella volta che si tagliò la cravatta perché non riusciva a disfare il nodo, e dopo impiegò mezza giornata per trovarne una uguale. Oppure quando in treno offrì il suo posto a una signora maleducata cosicché pentitosi non si alzò dicendole che lei non era abbastanza bella né lui abbastanza fesso. La cena prosegue fra risate e bevute. Quando abbiamo finito restiamo a chiacchierare fino a tardi. É un amico cordiale e rumoroso che trasmette il buonumore. Si mette anche a lavare i piatti ma ne rompe qualcuno. Erika mi spiega che Paul è un ipovedente con la vista meno di un decimo e in futuro si sarebbe abbassata ancora. Provo una calda comprensione per questo giovane semplice e buono. Verso mezzanotte incominciamo a cantare ed Erika balla per noi. É una danza che non ho mai visto, primitiva, frenetica, vagamente erotica. Le gonne si sollevano, il ventre rotea mentre il corpo si scioglie in ondulazioni rapide e leggere. Paul accaldato seguita a cantare e a battere le mani. Infine racconta altre storielle molto divertenti con gesti e mimiche appropriate da farmi ridere fino a quando prendo commiato per andare a casa a dormire. Che formidabile questo Paul capace di trovare il lato comico della vita anche nelle tragedie più grandi. É un uomo del sud e forse sarà il clima solare a renderli tutti così: frivoli ed estroversi. Io invece sono un uomo del nord ed il mio spirito risente della nebbia e dei lunghi inverni bui che fanno soffrire e meditare. ***** Siamo di nuovo soli, io e Erika. Adesso che Paul è partito con il treno la casa sembra più vuota. Seduti sul divano trascorriamo la sera a parlare. “Claude, io sto bene con te...” Mi viene da ridere per il tono serio con cui ha parlato. “No, no, non ti credo, noi intellettuali siamo gente noiosa...” “Domenica sarà un mese da quando ci siamo incontrati. É stato il ventotto luglio”. “Tu pensi troppo, mandali via i pensieri”. “Sai che Ann Rose ha il padre molto malato... Forse ha bisogno di aiuto...” Una pausa: “Ci andrò da sola, non pensare che te lo abbia detto perché voglio che mi accompagni”. “No, lo so che sei furba, ma anche buona. Sei come un fuoco che riscalda e illumina...” Sentendo che rimane in silenzio proseguo: “Sei come una sorgente... Che disseta...” Non sentendo risposta sprofondato nella poltrona seguo l’ispirazione: “Sei come un cielo pieno di stelle che incanta e guida nella notte...” Ancora silenzio. Adesso mi giro verso di lei e vedo il suo volto irraggiare felicità e stupore. “Erika, hai fiducia in me?” “Sì!” “Faresti qualsiasi cosa se io te lo chiedessi?” “Sì!” “Senza saperne il motivo?” “Sì!” “Sai cosa vorrei da te?” “Che cosa?” “Vorrei che tu vedessi!” ***** I cespugli di rovo corrono lungo tutto il fossato. Le more che prendo cercandole fra le spine, sono dolcissime. Hanno il sapore acidulo della frutta selvatica assieme ad altri aromi sottili e deliziosi. Ogni tanto ne porto una manciata a Erika che mi aspetta seduta sulla riva. Il sole di fine agosto riscalda la nostra pelle ed è piacevole a sentirsi dopo le piogge e i violenti temporali dei giorni scorsi. La campagna è ancora infangata, ci sono cespugli rovesciati sopra i fossati allagati. Adesso la brezza inclina i rami teneri dei salici scoprendo il luccichio delle foglie argentate. É una giornata meravigliosa. Ci sono fiorellini azzurri, erbe venate di colori bruciati fra l’intrico della vegetazione. Qua e là spuntano le ultime margheritine. Guardo Erika. Il suo volto dalla pelle bianca e gli occhi verdi sorride sotto la carezza del sole. É bellissima. Il gioco dei capelli le nasconde a tratti il viso. É seduta sulla riva e aspetta... Mi fermo di cercare le more per restare a guardarla. Non smetterei mai di togliere lo sguardo dall’incanto della sua bellezza. Per rompere il muro di solitudine che l’avvolge le dico qualcosa di tanto in tanto, per distrarla, o le descrivo il posto dove ci troviamo, ma brevemente per non farle sentire la sua menomazione. Infine le riporto il cestino con le more e lo metto accanto a lei. Sentendo che mi avvicino sorride contenta sollevando un poco la testa. Allora la prendo in un abbraccio nel quale la sento stringere con tutte le sue forze. “Cara, cara, cara, cara...” Restiamo così per un tempo lunghissimo, abbracciati, in silenzio... Sento il profumo di lei e chiudo gli occhi. Sperduti in un universo di isolamento ci illudiamo per un attimo di essere una cosa sola. ***** Il dott. Torres è un mio buon amico e ci conosciamo da tantissimo tempo. Erika sulle prime era reticente, ma poi l’ho convinta a venire. Il dott. Torres abita in una vecchia villetta ingrigita con sporgenze laterali in mattoni per i grossi camini che salgono fino al tetto. Attendiamo nella saletta in penombra fra rumori ovattati. Si sente qualcuno muoversi e parlare come proveniente da una grandissima distanza. Poi entriamo nel suo studio fra l’odore sgradevole dei disinfettanti e le vetrine luccicanti con gli strumenti chirurgici. Alle sue spalle i dorsi rigidi e in pelle di centinaia di libri. Gli espongo il caso ma lui conosce già Erika, per averla vista nascere, e sa già che il suo è un caso gravissimo. In ogni modo, con maniere paterne ci fa sedere, prende un oftalmoscopio e attraverso questo guarda dentro alle pupille. Rimane curvo per un po’ davanti a lei, poi dondolandosi con la sua mole robusta va a sedersi dietro alla scrivania: “Avevo già esaminato il fondo oculare di Erika da bambina... Conosco bene il suo caso... Purtroppo...” “Ma è possibile fare qualcosa? Un intervento o altro?” Ha un sospiro: “Temo proprio di no, Claude, solo un prodigio, per quanto mi riguarda. Ma ti consiglierei di farla vedere ugualmente da uno specialista...” dice staccando un foglietto e scrivendoci alcuni nomi. “Ecco. Se proprio sei deciso, ho segnato anche i giorni nei quali puoi trovarlo. Di’ pure che ti ho mandato io”. Ci andiamo in treno, il giovedì seguente. Attraversiamo alcune vie ed entriamo in una abitazione anonima. Qui siamo accolti da una infermiera che chiede le generalità della ragazza: età , malattie, ecc. Al nostro turno siamo ricevuti dal prof. Langh in un ambiente arioso e razionale. É un uomo piccolo e paffuto dai modi effeminati. Fa sedere Erika davanti a un apparecchio. Misura la pressione endoculare, prende degli altri strumenti, fa un lungo esame. Alla fine si avvicina a me scuotendo la testa: “La paziente è affetta da cateratta congenita e glaucoma”. “Si può curare?” “Data la gravità del caso la risposta è no”. E le prescrive un flacone di gocce. Torniamo a casa verso sera stanchi e delusi. Ma Erika non ha perduto il suo buonumore: “Grazie per quello che fai Claude, ma te l’ho detto, io sto bene lo stesso così come sono perché ho imparato da tempo ad accettare la mia condizione. Grazie, in ogni modo”. Bene, almeno adesso sappiamo che tutto quanto era possibile lo abbiamo tentato. ***** Dopo giornate intere di pioggia, finalmente un pomeriggio di sole. Al mio arrivo alla casa di Erika trovo Paul alle prese col mais sull’aia della fattoria. Da un mucchio di pannocchie gialle Paul ne sgrana i chicchi raccogliendoli in un secchio e buttando il resto da una parte. “Serviranno per dar da mangiare alle galline”, spiega. Resto a chiacchierare un po’ con lui godendomi i raggi dorati del sole. É un ragazzo allegro e spiritoso anche se un po’ superficiale. Abita piuttosto lontano ma un paio di volte al mese viene fino qui a trovare Erika e l’aiuta come può. Restiamo a parlare un po’ di tutto, del raccolto, delle novità e quando mi sento riscaldato dal calore del sole entro in casa. La porta è sempre aperta. Chiamo e lei mi risponde dalla cucina. Erika sta in piedi davanti al tavolo della cucina. Sul tavolo c’è un mucchio di biscotti che lei sta frantumando adoperando una bottiglia come se fosse un rullo. Davanti a sé ha altri biscotti, farina, latte..., la tavola è tutta piena di roba. “Che cosa fai?” “Volevo farti una sorpresa. É un dolce”. “Ah, bene. E come si chiama questo dolce?” “Il salame di cioccolato”. Resto un po’ con lei ma siccome la vedo molto concentrata nel suo lavoro e non vuole che l’aiuti, ritorno in cortile a dare una mano a Paul col granoturco. ***** I vecchi all’osteria si raccontano strane storie, le sere di pioggia. Sto seduto delle ore a fantasticare con i miei pensieri. Ogni tanto mi arrivano le chiacchiere di qualcuno. Un vecchietto striminzito afferma di aver visto dei ricci grossi e pesanti almeno venti chili. Qualcuno fa delle obiezioni. Riprendo a seguire i miei pensieri. Poco dopo un tale racconta che una volta quando era giovane, era rimasto fino a tardi ad aiutare la fidanzata a intrecciare i cappelli di paglia. Uscendo a notte fonda vide che in mezzo al ponte stava un maiale enorme e nero. Allo scorrere della birra i discorsi si fanno sempre più confusi e assurdi. Un uomo grasso parla di una vecchia cucina dove al mattino si trovava la polenta tagliata col sangue nella credenza. Si trattava a quanto mi sembra di capire di polenta già cotta che appariva percorsa da sottili segni rossi longitudinali e che perfino le galline si rifiutavano di mangiare. Un ometto tarchiato assicura di essere sceso al fiume di notte per cacciare le rane e di aver visto nell’acqua la faccia del diavolo. Un tale della contrada vicina lo interrompe per raccontare qualcosa a proposito di sua moglie: “Evy soffriva molto perché aveva la gamba gonfia e il vecchio Nigel l’ha guarita: Ha fatto una operazione di magia e due giorni dopo è tornata di nuovo sana”. Il discorso da qui passa ai mali umani e alla capacità che posseggono certuni di guarirli. Il discorso si fa più interessante. Non avevo mai pensato a questa possibilità per Erika e vi presto maggior attenzione. All’arrivo di una compagnia troppo rumorosa mi sposto a un altro tavolo per sentire meglio. Infine intervengo nella conversazione chiedendo maggiori particolari. Fra le varie esperienze viene fuori anche un nome. La vecchia Liza che è morta all’età di ottantaquattro anni aveva guarito un facchino dalla sciatica e una cavalla azzoppata sotto il peso di un erpice. Ora sono d’accordo nell’asserire che non ne esistono più di queste persone. Ma uno spilungone della compagnia che era sempre stato zitto dissente: “Perché non provate prima dalla vecchia Carmela che vive da sola giù alle Vigne Rosse? Dicono che sia una fattucchiera...” Mi faccio dare tutte le indicazioni e progetto di andarla a trovare con Erika l’indomani pomeriggio. La casupola sembra abbandonata se non fosse per un filo di fumo che esce dal comignolo nero e cadente. Chiamo a gran voce senza ottenere risposta. Attraversiamo un cortile con l’erba alta. Una pianta di fichi è addossata alla casa dall’intonaco rossastro. Entro in un portone sfasciato tirandomi dietro Erika. Un portico pieno di legna, stracci, ciarpame e di lato una porticina semiaperta. Chiamo di nuovo e questa volta qualcuno risponde: “Venite! Venite avanti. Vi aspettavo”. Una vecchia tozza e sorridente. Porta un lungo ago di legno appeso per uno spago attorno al collo, che forse le serve per aprire le pannocchie. Attraversiamo uno stanzino sudicio dove filtra appannata la luce del sole da una finestrella là in alto, passando sotto le scale accanto al secchiaio pieno di stoviglie sporche. Sui gradini invece c’è un vaso pieno di orina fra scialli, ciabatte. Un candeliere rovesciato. Ci guida in cucina, fra panni stesi, con tavolo e credenza ingombri di piatti sporchi, ortaggi, bottiglie, fiori secchi, quadretti, statuette di santi. Badando a non urtare niente ci avviciniamo e le spiego il nostro caso. “Ah, povera piccola”, seguita a ripetere. Fa sedere Erika su una panca; poi si sfila un anello d’oro e lo mette dentro un pentolino pieno d’acqua. Vi aggiunge un po’ di sale e lo mette sul fuoco. Dopo un po’ l’acqua bolle e lei allora lo toglie e lo posa sul focolare. Estrae l’anello ancora caldo e tenendolo con le dita lo passa davanti agli occhi di Erika compiendo dei cerchi concentrici e recitando delle parole sottovoce. A intervalli lunghissimi scuote l’anello come per buttar via qualcosa, poi riprende i suoi gesti accompagnati dal borbottìo incomprensibile. Io intanto seduto in un angolo della cucina, aspetto. Nella stanza c’è un brutto odore di cavoli andati a male. Forse proviene dal paiolo che sta bollendo sul fuoco. Il borbottìo della donna sta diventando ossessivo adesso. Mi rendo conto che possiede un ritmo ondulato, ripetitivo, quasi ipnotico. Nella vecchia cucina tutto è immobile e il tempo sembra ruotare su se stesso al cantilenare della donna. La mano ossuta e venata di scuro seguita a muoversi stringendo l’anello luccicante davanti al volto di Erika, ripetutamente, senza stancarsi, con cadenza monotona. Dopo un tempo che mi sembra lunghissimo la voce e il tono della cantilena si abbassa. Esegue gli ultimi passaggi poi butta a terra l’anello e il rito è terminato. Non è accaduto niente di quanto mi aspettavo. Vedendo però la premura con la quale ci ha accolti le faccio ugualmente un’offerta e poi ci congediamo uscendo nel cortile, sotto il sole, accompagnati dalle parole di benedizione della vecchia. ***** Passando per la piazza per andare da Erika il pomeriggio seguente noto uno sconosciuto che mi guarda con insistenza. Pensando che voglia chiedermi qualcosa lo saluto e tiro dritto per la mia strada. “Aspettate” dice una voce rugginosa dietro di me. Quando si avvicina riconosco un tale piccoletto che era presente la sera che avevo fatto delle domande all’osteria. “Non ve l’ho detto l’altra sera perché c’era troppa gente intorno e, si sa, si rischia di passare per matti a credere ancora a queste cose nel 1952...” Lo prego di raccontarmi quello che sa, assicurandolo che non farò il suo nome e offrendomi di ricambiare. E quello rassicurato prosegue: “Non voglio niente, non voglio niente. Se proprio avete bisogno c’è Peter, il calzolaio di Urban. É un mago potente. Compie un rituale con delle formule segrete e il male scompare”. Ho fatto un mucchio di strada in bicicletta portando Erika per arrivare fin qui a Urban. Il paese è piccolo con case ad archi. Alcune galline razzolano sulla piazzetta. Lascio il sole della via per entrare nell’ombra umida dei porticati. Dopo un paio di richieste non mi è difficile rintracciare Peter il ciabattino che qui è conosciuto da tutti. La sua bottega è situata vicino a un vespasiano di fianco alla chiesa. Entro in un ambiente ristretto fra l’odore aspro della colla e del cuoio. Ci sono scarpe sparse dappertutto, stivali, ciabatte, zoccoli... Peter è piccolo e scorbutico. Ha la barba ispida, le dita sporche di pece e mi guarda con espressione dura senza parlare. “Non sono venuto per le scarpe...” incomincio, “è per... l’altro lavoro...” “Ah!” fa lui alzandosi in piedi. Porta i calzoni corti e sopra un grembiule lungo e scuro. Si guarda intorno come per cercare qualcosa fra i ferri, poi depone il trincetto su un contenitore rotondo con scomparti pieni di chiodi. Sposta un cumulo di scarpe accanto a sé per far posto e lasciarci passare. Ci introduce in un retrobottega stretto e stipato di mercanzia. Fa sedere Erika su uno sgabello ed io mi appoggio ai fogli di cuoio messi in pila. Prende della canapa e con le mani grosse incomincia ad attorcigliarla per farne un filo. Quando il filo è abbastanza lungo lo bagna con un liquido che sembra olio. Adesso lo passa lentamente davanti agli occhi di Erika mormorando delle parole. Quando è arrivato in fondo prende lo spago e vi fa un doppio nodo. Tira con una espressione seria e dolorosa poi ripete l’operazione seguitando a ripetere le parole. Il suo capo grosso e calvo è tutto sudato mentre prosegue concentrato nel compito di fare quei piccoli nodi. Quando la cordicella ne è tutta piena la lega tre volte al polso della ragazza. “Ecco fatto. La segnatura cammina da sola e fra tre giorni avrete qualche risultato” conclude. Lascio Urban con una speranza grande nel cuore. Erika appare più scettica io invece chissà perché sento una grande fiducia in questi sistemi primitivi di guarigione. In fondo è un’arte che si è tramandata dai tempi remoti, quando l’uomo era più vicino alla natura. Il giorno seguente resto molto vicino a Erika attendendo con ansia i segni di un sia pur piccolo miglioramento. Nei primi momenti l’assillo di domande, le raccomando di riferirmi se sente qualcosa di diverso, qualunque cosa sia. Trascorso il primo giorno senza niente di nuovo, molto del mio entusiasmo se ne va. Adesso mi aspetto un cambiamento meno brusco e più graduale. Ho molti più dubbi di prima ma non smetto di spiare Erika nell’attesa di qualcosa di nuovo. Passati alcuni giorni devo ammettere che la tecnica non ha funzionato ma non ho perduto completamente tutta la fiducia in questa arte. E così una mattina, ritorniamo da Peter. Come gli chiedo di ritentare lui ha un gesto brusco. Scuote il capo grosso e calvo e intanto ha la solita espressione dolorosa: “No, significa che questa volta non è per me, non rientra nelle mie possibilità”. Allora lo ringrazio e prima di lasciarlo provo a chiedergli a chi altro potrei rivolgermi. Lui si fa ancora più serio poi d’un tratto: “Il vecchio Michael, l’erborista. Sta a St. Anne ma fuori paese verso i boschi. Prendete la strada qui dietro, girate a sinistra e al bivio tirate dritto...” Raggiungiamo St. Anne sul tardo pomeriggio. In una osteria mi indicano l’abitazione dell’erborista. É una fattoria di color rosso cupo avvolta nell’ombra delle robinie. Nel cortile con la ghiaia ci sono dei sedili e tavoli costruiti con tronchi. Delle persone sono già lì e aspettano. Mi siedo anch’io facendo sedere anche Erika ed aspettiamo. Dietro di noi si stende un orto con varie specie di erbe officinali dalle quali suppongo ricaverà i suoi rimedi. Ad una anziana coppia chiedo di lui e vengo a sapere che ha 76 anni, è molto bravo e conosciuto e fa questo lavoro fin da quando era giovinetto. Poi all’improvviso ecco uscire una donna accompagnata da un vecchietto gioviale e svelto dai capelli bianchi. Questo mi viene incontro premuroso tendendomi le mani: “É per la ragazza non è vero? Se ha dei dolori forti la faccio entrare per prima per farglieli passare subito”. Quando sa di cosa si tratta mi dice di aspettare e così resto seduto un’altra mezz’ora durante la quale vedo entrare e uscire altra gente. Arrivato il mio turno ci accompagna in una stanzetta semibuia con tele di sacchi alle finestre e piena dell’odore acre degli unguenti. C’è una brandina e decine di vasi scuri sulle mensole. Dopo aver parlato un po’ con la ragazza rendendosi conto della gravità del caso dice rivolgendosi a me: “Io curo reumatismi, dolore di ventre, ascessi, eczemi, ma la cecità, no”. Poi mi racconta brevemente la sua storia fin da quando, soldato, curava i commilitoni feriti. Mi regala in ogni modo una bottiglietta di acqua preparata da lui con la quale lavarsi gli occhi al mattino. Alla solita domanda: “Conoscete qualcuno in grado di aiutarmi?” “No, per quel genere di cose, nessuno”. Poi pensando un poco: “C’era il vecchio Jack ma è morto”. Mentre mi dà il commiato con calorose strette di mano. “Aspettate, perché non provate da Miss Veronique a Perex, è a 30 Km da qui. Andateci ditegli che vi manda Michael e... buona fortuna”. ***** Ecco la nebbia... si distende in lame sugli avvallamenti del terreno sale dai fossi... E cammina, la maledetta. Si sposta nei campi con il suo sudario opalino e traslucido. É tornato un’altra volta l’autunno. Odio l’autunno con la natura in sfacelo, gli scenari grandiosi in disfacimento. Lo odio con tutta l’anima perché assomiglia alla malattia, all’agonia sul letto di morte. Oh è orribile e ogni volta mi trova impreparato. Anche l’inverno è orribile con il suo squallore grigio, la desolazione dei paesaggi. Ma almeno l’inverno assomiglia a uno scheletro, bianco, terso e spolpato. L’autunno invece... Indeciso varco la porta della fattoria accompagnato dal cane che scodinzola mentre mi guida nella saletta profumata. Dalla finestra entrano i raggi gialli del sole autunnale. Erika sta seduta a un tavolo con espressione seria. Da uno scrignetto a carillon toglie delle collane e le tocca un attimo con le dita sottili poi le depone delicatamente accanto a sé. Evidentemente ne sta cercando qualcuna da indossare. Provo una pietà immensa e in questo momento darei ogni cosa perché lei potesse vedere le sue collane. Non oso disturbarla perciò me ne sto in silenzio a guardarla. Ma lei ha ugualmente avvertito la presenza di qualcuno perché solleva la testa di lato e resta a fissare il vuoto. “Erika, sono io...” Il volto di lei si illumina e con le mani ha uno scatto di gioia così la scatola si rovescia un po’ e il carillon incomincia a suonare. Delle note argentine si spargono per qualche tempo nel silenzio pesante della stanza. Un pagliaccetto sulla sommità della scatola si mette a girare. Lei lo cerca per un istante con le mani e trovatolo arresta il meccanismo. “Amore, amore, amore...” le sussurro stringendola contro di me. “Ti amo, ti odio, mi piaci, mi fai paura... C’è tutto nell’amore, tutti gli estremi. Vieni qui adesso... Amore, vorrei tanto che tu vedessi...” Lei ha un sorriso di incredulità: “Lo sai Claude che non è possibile, il dottor Torres ha detto...” “Taci, non parlare, non serve a niente parlare. Le parole sono trappole, reti, specchi... Con esse si può sviare, imbrogliare. Sono cose false e vili, e io non credo più alle parole”. La trascino sul divano dove rimaniamo abbracciati, in silenzio durante un tempo che vorrei protrarre per l’eternità. Non esiste più niente dopo un po’, solo il corpo morbido di lei che si stringe a me con tutte le sue forze. Verso sera lei mi fa sedere accanto a sé e mi chiede che l’aiuti a rimettere in ordine le collane. Le sollevo con cura districandole e gliele porgo una alla volta. Collane lunghe o corte dai grani colorati o traslucidi che accenno a descriverle mentre lei soddisfatta le ripone. Finché sono tutte nello scrignetto che lei solleva stringendolo al petto e poi mi lascia solo per riportarlo di sopra. ***** Un pomeriggio alcuni giorni più tardi salgo i gradini che portano all’abitazione di Miss Veronique tenendo Erika per mano. É lei stessa a ricevermi, una donna di mezza età ancora piacente, dal fisico pieno e il carattere espansivo. Mi fa accomodare e ci dice di attendere. Lo studio di Miss Veronique è addobbato di quadri e diplomi. Un canarino canta ogni tanto dentro la sua gabbietta. Quando arriva le espongo il motivo della visita: “C’è una ragazza che avrebbe bisogno di lei... Ha già provato con i mezzi tradizionali della medicina, ma poiché questi non sono stati di utilità ho pensato di rivolgermi a delle... cure alternative... ai guaritori insomma”. “Capisco” dice lei alzandosi in piedi. “E ha fatto bene; infatti guardi qui”. E passa a mostrarmi alcuni risultati del suo lavoro del quale va molto fiera. Da un segretaire prende un album pieno di foto, alcune ingiallite, di persone sofferenti di ogni male. Spesso, accanto ad ognuna c’è la foto della stessa persona ormai guarita, con sotto delle scritte. Una donna sdraiata mostra la sua gamba destra gonfia e rossa. Un bambino dagli arti rattrappiti. Il volto di una donna deturpato per metà da una macchia scura che pare cancrena. E ancora: la foto di una bambina con il braccino ripiegato. La schiena di un vecchio. Una donna obesa... Per ognuna di esse Miss Veronique mi racconta la loro storia con ricchezza di particolari. Lei si considera una guaritrice autenticamente dotata che ha scelto questa strada come una missione. Dalle sue mani che emanano calore proviene un fluido benefico una specie di magnetismo, mi spiega, capace di risanare anche i mali più ostinati. “Con trenta sedute sono riuscita perfino a far parlare un bambino di otto anni che era muto dalla nascita” afferma a un tratto. Sento il cuore salirmi in gola mentre mi viene spontanea la domanda: “E la cecità?” chiedo interrompendola. “No, questa non l’ho mai curata” afferma. “E non potrebbe riuscire a farlo?” “Non so... É la prima volta che mi capita una cosa del genere... Comunque possiamo provare per sentire se è ricettiva”. Si mette davanti a Erika: “Rilassati cara, non pensare a niente. Distendi i muscoli delle gambe... bene adesso quelli delle braccia... così... il tuo corpo è calmo rilassato e stanco... e sentirai una piacevole sensazione di benessere e di calore...” Quando ha finito questa fase preparatoria passa le mani con le dita aperte sul viso di Erika. I palmi si muovono al di sopra dei suoi occhi tante e tante volte senza toccarli. Agisce in silenzio adesso. Seguita a passare le mani con gesti lenti e precisi sul viso di Erika. Dopo circa una mezz’ora scuote le mani e va a lavarsele al rubinetto. Quando si volta mi guarda muovendo il capo: “Non reagisce... Si potrebbe riprovare un’altra volta...” La ringrazio ugualmente vedendo che ha fatto tutto il possibile. Miss Veronique guarda Erika e appare molto dispiaciuta di non poterla aiutare: “Ci vorrebbe qualcuno più forte...” suggerisce. “Qualcuno che possiede questa capacità specifica”. “E lei conosce qualcuno in possesso di questa dote?” “No, non conosco nessuno... mi dispiace. Mi dispiace molto”. Poi chiamandomi da una parte: “Se vuole posso riprovare io, senza promettere risultati, senza farle illusioni... Quanti anni ha?” Anche a lei ripeto la storia di Erika: “É così dalla nascita. I medici dicono che non possono fare niente e che resterà sempre così. Quando era bambina l’hanno portata anche a Lourdes...” “Oh.” Esclama. Restiamo in silenzio per un po’, poi lei riprende a parlare: “Senta, allora faccia così. Proverò a chiedere al mio maestro cosa si può fare. Ritorni qui, da solo, fra una settimana e le darò la risposta”. ***** Alla mia prossima venuta a Perex da Miss Veronique, questa si scusa dicendomi che nemmeno il suo maestro può essermi di aiuto... Dopo un po’ mi congedo. Tanto per non aver fatto un viaggio inutile mi fermo in paese per informarmi se ci sono altri guaritori. Tutti mi danno risposte negative così mi tocca ripartire. A metà strada sul ritorno mi fermo per riposarmi all’osteria delle Vigne Bianche. É situata davanti a un cancello obliquo in mezzo a due salici squarciati e contorti. Alcuni gradini che scendono portano in una saletta da dove si passa in uno stanzone scuro pieno di botti. Un mazzo di zampe di capriolo sono appese allo specchio posto dietro il banco. Una bambina si alza. Appare strana e scontrosa. Ha pelle bruna, i lunghi capelli neri e i suoi occhi sono tristi come se avesse appena pianto. “Una birra per piacere” chiedo. Mi versa da bere senza parlare sempre tenendo lo sguardo abbassato. I lunghi capelli le cadono davanti, le piccole mani tremano un poco. Esco sul retro sotto il pergolato dove mi siedo su un sedile di pietra. Vicino a me c’è un tavolo di giocatori. Sono tutti e quattro vecchi e lenti nel tirare le carte. Un tipo col cappello nero e occhiali segna i punti su una lavagnetta. Ad una pausa del gioco quello più vicino mi dice: “Scusi, le dispiacerebbe dire alla ragazza di portare dell’altra birra?” Corro dentro per ordinargliela e quando ritorno indietro mi è venuta un’idea. Chiedere a caso alle persone che incontro informazioni riguardo ai guaritori. “Arriva subito”. “Grazie, grazie” borbotta l’uomo grasso ben pettinato. “Di niente. Se abitassi più vicino verrei anch’io a giocare qui. No, ora non posso fermarmi sono diretto a Gallosh. Anzi volevo chiedervi se sono sulla strada giusta. Vengo adesso da Perex dove sono stato da Miss Veronique”. “Ah, la guaritrice” dice un tale con la mascella gonfia. Improvvisamente rivolgo a lui tutto il mio interesse. “La conoscete? Ne conoscete altri guaritori?” Quando riparto fra saluti e strette di mano ho gli indirizzi di due nuovi guaritori in tasca. Sono diventato molto bravo ad attaccare discorso con gli sconosciuti e a portare la conversazione sul tema dei guaritori, fino ad arrivare a chiedere se ne hanno incontrato qualcuno nella loro vita. Con i vecchi questo sistema funziona quasi sempre e il mio taccuino si va riempiendo di indirizzi. Annoto tutto, anche le informazioni vaghe, le voci a controllare. Tengo una specie di contabilità dei guaritori. Segno i loro nomi annotando anche il loro indirizzo, la distanza, le testimonianze raccolte, le tecniche impiegate. ***** Zemelin il cestaio abita ad Abber. La gente, in paese, ci guarda passare con ammirazione. Ho difficoltà a trovarlo. Chiedo di lui in un vecchio forno che espone cavallini e stelle fatte di pane. Seguendo le indicazioni camminiamo io e Erika lungo una stradina sempre più disusata, fino al sentiero che costeggia un fiume largo e mezzo in secca. Chiediamo a degli uomini che lavorano su grandi barconi a fondo piatto. La sua casa sta proprio sotto l’argine. Nel cortile ci sono vasche e mastelli pieni di acqua. Delle pietre trattengono mazzi di salici sotto l’acqua. Una vecchia sbircia dal portico. “Abita qui Zemelin, il guaritore? Ci manda David”. Ci fa cenno di seguirla sotto il porticato. Entriamo in un ambiente stranissimo con pile di ceste accatastate fino al soffitto. Poi vedo l’uomo. Grosso e paralitico su una specie di carrettino. Quando ci vede entrare arretra spingendosi con le mani sul pavimento. Poi la vecchia gli parla e lui avanza verso di noi. Le gambe si vedono appena, ripiegate sotto il corpo sul carrettino a tre ruote alto solo pochi centimetri. Dopo averci ascoltati ordina alla vecchia di preparare il necessario. Questa mette un pentolino di acqua a bollire sul fuoco e raduna alcune cose. Intanto gli chiedo qualcosa di lui. “Sono così dalla nascita 66 anni fa. Una volta i genitori mi trasportavano sulla carriola. Non posso muovermi, ma non mi importa perché ho un amico che cammina per me, da secoli”. E indica il fiume che scorre dietro la casa. Nella stanza sa l’odore secco dei vimini. Ovunque ci sono pile di cesti di tutte le fogge, rotondi, ovali, bassi, a cilindro, a baule, ad anfora... Cataste di cesti color marrone, piccoli panieri, cestoni con coperchio... “Quelli li avete fatti tutti voi?” “Sì, mi ha insegnato mio padre a impagliare i fiaschi da bambino. Adesso mia sorella va a procurarmi le bacchette di salice”. Poi, con voce autoritaria mi chiede un indumento intimo di Erika. Dopo un attimo di perplessità lei si sfila la maglia di lana apparendo bellissima, con i seni nudi. Incomincia il rituale più strano al quale abbia mai assistito. Distende la maglia sul pavimento di terra. Con una lama primitiva si fa un piccolo taglio sul polso e lascia cadere alcune gocce di sangue. Accende dei ceri davanti a una pannocchia con gli occhi dipinti di rosso. Indossa una stola anch’essa rossa. Poi si mette a recitare le formule con voce reboante in un dialetto arcaico che non mi riesce di capire. Ogni tanto getta manciate di erbe aromatiche sul fuoco e la stanza si riempie di fumo. Accompagna gesti da sciamano con suoni gutturali. Il fuoco e il sangue. Nella stanza piena di fumo dietro di lui, le pile sbilenche dei cesti appaiono come torri di un paese inquietante e fantastico. Prende quattro pentolini di acqua vi butta cenere, sale e steli di frumento. Mette i pentolini in croce sulla maglietta intercalandovi quattro candele. Poi aiutato dalla sorella li scalda a uno a uno sul fuoco e li tiene sotto il viso di Erika in modo che il vapore la lambisca. Intanto ripete delle parole in maniera concitata sempre più forte. Alla fine, tutto sudato ci assicura che fra qualche giorno appariranno i segni del rito benefico. Erika si riveste e prima di congedarci compro un cesto da tenere per ricordo. Sono passati sette giorni durante i quali ho visitato ancora altri guaritori. Alcune volte ho portato anche Erika. Sfogliando le carte con i loro indirizzi cancellati adesso provo un senso di stanchezza. Alcuni indirizzi sbagliati, altri sconosciuti, cartomanti erboristi, aggiustaossa... Non è questa la strada buona. Eppure devo insistere, non esiste altro sistema. Prima o poi salterà fuori quello giusto. Ho avvisato amici, ho manifestato il mio interesse a moltissime persone di ogni ceto sociale. Una sera riordinando il materiale raccolto la mia attenzione è attratta da due testimonianze riferitemi da due persone diverse. Un certo Geoffrey, sarto, malato al fegato in maniera incurabile; dopo aver provato tutti i dottori Geoffrey si è rivolto a un guaritore che lo ha salvato. Il caso è di alcuni anni fa ma ha fatto parlare molto la gente. É un caso un po’ vecchio, comunque varrebbe la pena di indagare anche perché il paese non è troppo lontano. Ci vado da solo la mattina successiva in treno. La località, St. Raphael, è una frazione del paese di Mox. Una piazzetta acciottolata con alcune case e un lungo muro di cinta. Meglio così, il posto è piccolo e lo troverò prima. Invece non è tanto facile. Credevo che fosse conosciuto ma quando chiedo di Geoffrey il sarto, nessuno sa dirmi niente. Mi indicano un religioso, certo Frate Tiburtius priore del vicino convento, che pare lo conoscesse bene. A un tratto lungo il muro si apre un arco di mattoni con un portone borchiato e la scritta: “Convento di Clausura dei Frati Minori di S. Bernardin”. Tiro il campanello e aspetto un tempo che mi pare infinito davanti alla gradinata. Allora mi decido a suonare ancora. Questa volta si apre uno spioncino. “Scusate avrei bisogno di vedere il Padre Priore”. “Avete un appuntamento?” “No”. “Allora non è possibile oggi. Riceve sabato pomeriggio e domenica mattina” e fa per chiudere lo sportello. “Aspettate! É una cosa brevissima ma di vitale importanza. Chiedetegli di Geoffrey, il sarto miracolato...” “No, adesso il Padre Priore sta riposando. Ripassate fra mezz’ora. Buongiorno”. Ritorno indietro. Giro a caso per il paese. Vado a vedere la chiesetta fatta erigere per volontà di un duca, come dice la lapide. Dopo mezz’ora ritorno all’appuntamento. É il frate guardiano ad aprirmi: “Dovete aspettare ancora qualche minuto nella foresteria”. “Va bene”. Mi fa entrare in un giardino folto e ben curato circondato da edifici massicci. Sotto i porticati del chiostro, i nostri passi sollevano echi sui mattoni, fra le ombre oblique delle colonne. Entriamo in un salone nudo e freddo con le alte bifore e le pareti imbiancate. Ci sono delle panche e un grande crocifisso laggiù in fondo. Rimango ad aspettare ancora per molto tempo. Finalmente da una porta emerge un frate alto e magro che ispira riverenza. Mi inginocchio e passo a esporgli il motivo della mia visita. Quando parla con la sua voce calma e suadente si mostra molto comprensivo: “Sì, mi ricordo bene di lui perché veniva spesso qui, dopo che fu guarito, 40 anni fa”. La sua affermazione mi lascia sbalordito: “Così tanto tempo è passato? Scusate padre, siete sicuro di non sbagliarvi?” Ma quello insiste: “No non mi sbaglio, forse è di più ancora”. “E sapete anche se è ancora vivo?” “No, è morto nel ‘37 precisamente. Me lo ricordo perché l’anno prima morì il nostro priore”. “Sapete se ci sia rimasto qualcuno della sua famiglia?” “No la sua casa è stata venduta più volte. É ancora in piedi però. É quella con gli archi giù in paese, la troverete facilmente”. Resto in silenzio per qualche tempo. Un’altra pista sbagliata. “E potete raccontarmi la sua storia?” “Veramente quando l’ho conosciuto lui era già un uomo maturo... Poveretto aveva sofferto molto, la sua vita era stata un calvario prima ma poi il Signore gli ha concesso la grazia ed è guarito” dice allargando le braccia. “Per favore spiegatevi meglio Padre. Che cosa aveva?” “Un male grave al fegato”. “E come è guarito?” “Tutto all’improvviso. E da allora per oltre venti anni veniva qui tutte le settimane a ringraziare il Signore”. “E sapete il cognome di questo Geoffrey?” “No, non me lo ricordo. Aspettate. Delin Mebin o qualcosa del genere”. “Sapete se aveva parenti, figli...” “No, non era sposato. Dei fratelli, mi pare, ma non so se siano ancora in vita”. Poi faccio l’ultima domanda: “Questo Geoffrey, dove è stato sepolto?” “Nel cimitero di St Raphael, è qui vicino”. ***** Il recinto è piccolo oscurato dalla vegetazione dei ligustri e dei sempreverdi. Due vasi di tufo sono posti ai lati del cancello aperto. All’ingresso mi guardo attorno: non c’è nessuno lì, neppure l’ombra di un guardiano. Cammino per il vialetto. I miei passi lì dentro paiono affondare nella felpa. Anche il sole si è oscurato nel cielo pieno di vapori e di nubi. Attentamente guardo le lapidi: “In ricordo di Soard Lucy morta il 17/1/1944. Il marito e i figli”. Una pietra a forma di croce è incastrata nel muro. Sulle sue braccia scheggiate si intravede la scritta coperta di licheni. “Duard Magnum d’anni 34 colpito da un accidente il giorno 6 Marzo 1816. Pregate per l’anima sua” “Farr Lewis 23/9/1828” Pozze d’acqua sono raccolte sulle pietre. La scultura di un vegliardo con i baffi. “Residor Adrian N. 28/2/1808. M. 2/4/1894” “Mary Kingsport nel dolore posero...” “Lewis Antony padre e sposo esemplare...” “Victor Mirr a ricordo perenne...” Colonne di pietra in fondo. Una croce nuda attorniata da cespugli di tasso potati a cilindro o a cono. Ritorno indietro per l’altro sentiero. “Bart Angel. I tuoi cari...” “Romer Ector la moglie e i figli...” Una cappella di marmo rosso: “Famiglia Kaldan, Raphael, Ester...” Una tomba spoglia e invasa dall’erba: “Famiglia Weszelka. Martha Weszelka...” segue una lunga serie di nomi. “Ment Alfred di anni 42. Improvvisamente è mancato...” “Albin August 79 anni...” Una lapide con parole semicancellate. Una croce di perline bianche e fiocchetti trasparenti. Dove si sono staccate si vede l’intelaiatura del fil di ferro. “Alexia Rhinner di anni 6...”. Perché? a cosa è servita una vita così breve? Ancora il senso di nausea. Sento il terreno sotto di me rullare come se fossi sul ponte di una nave. “Regina Camp dal cielo sorride e veglia sul consorte e figli” “Camp Charles Q.M.P....” “Chatherin Ross...” “Vannon Angel la moglie addolorata pose...” “Margareth Finn dopo 4 mesi di vita ritorna al cielo...” “Hirel Holga di anni 29...” Fiori appassiti, candele rovesciate. “Burt August di anni 88 riposa in pace...” “Octobon Carol di anni 44...” Un volto dolce e sereno: “Zannon Lucy di anni 21 Nata 3/9/1928...” Improvvisamente il mio sguardo scorre sul nome Geoffrey. Mi chino e osservo con attenzione. La lapide è crepata, rovinata dal tempo e dai licheni e la scritta si legge a malapena. “De Quinn Geoffrey N. 1866 M. 20 Luglio 1937. I fratelli in memoria posero”. Questo mi basta. Esco e percorro la strada del ritorno di buon passo. Provo un senso di ansietà nell’anima mentre faccio progetti per le mie prossime ricerche. ***** Il municipio di Mox è un vecchio palazzo sormontato da uno stemma grigio e sfaldato e con tre grandi cancelli al centro. Per l’anagrafe si sale uno scalone e si va in fondo al corridoio. Un ufficio stretto e sporco diviso dal banco di legno. Mi appoggio e aspetto che arrivi qualcuno. L’impiegato è miope e pallido dai modi bruschi: “Prego?” “Vorrei l’indirizzo dei fratelli del fu Geoffrey De Quinn”. “Quando è morto?” “Nel 1937”. “Il motivo?” “É per delle ricerche storiche”. “Non basta. Bisogna redigere un certificato di residenza”. “Sì va bene, faccia pure il certificato”. Si volta e cerca nello schedario. Tira un cassetto e sfoglia parecchie schede. “De Quinn... De Quinn ce ne sono molti... ecco qui... Geoffrey De Quinn nato il 5 marzo 1866 deceduto il 20 luglio 1937, figlio di Remigius nato nel giugno 1839 morto nel novembre 1912, e fu Rose Darret...”. “E i fratelli?” “Prima bisogna risalire allo stato di famiglia” sbuffa lui. Cerca ancora nello schedario. “1935... 1928... 1916... No, non c’è”. Incomincio a sudare: “Che significa non c’è?” “Lo schedario arriva fino al 1916, questo è deceduto prima e bisogna cercarlo nei libri vecchi dell’archivio. É una faccenda un po’ lunga...” “Per favore, guardi in quei libri... veda se può trovarlo”. Va nello scaffale in fondo sale su una scala e passa in rassegna i dorsi dei registri. “Se non c’è nemmeno qui significa che è troppo vecchio e dovrà rivolgersi all’archivio parrocchiale” lo sento borbottare. Finalmente tira giù un volume e lo deposita sulla scrivania. ‘1911-1915’. Sfoglia il libro nero e mezzo sfasciato. “Vediamo. 1911... 1912... Dunque... marzo... maggio... Ecco. No... De Quinn... Sì c’è” annuncia. “Remigius De Quinn di Bartolomeus nato nell’aprile 1806...”. “Sì va bene, lasci stare. Guardi solamente i figli”. Riprende risentito: “Quattro, tre maschi e una femmina: John, Geoffrey, Nelly, Hermann”. “E i loro indirizzi?” “Adesso bisogna cercarli nello schedario dei vivi...” Ripone il volume e tira le cassettiere. “Hermann, è deceduto. John... deceduto”. “Geoffrey lo so che è morto resta Nelly...” “De Quinn... Nelly nata il 1873 di fu Remigius e Rose, ecco è questa...”. Ho un tuffo al cuore. “Si è trasferita al n. 49 di Clerke Street, in Manner”. Porto a termine le formalità e torno a casa con l’indirizzo in tasca. Questa pista si è rivelata troppo dispersiva e forse mi converrebbe abbandonarla. Rischia di portarmi troppo lontano, chissà se la sorella è al corrente. Chissà se Geoffrey si confidava con lei. E se non fossero stati in buoni rapporti? Tutto è troppo complicato. Il giorno dopo decido di andare ugualmente anche se con scarsa convinzione. Arrivo a Manner di mattina, in treno. Seguendo le indicazioni prendo a destra della stazione, attraverso un ponte, alcune piazzette, prima di giungere sulla via giusta. É una stradina tutta curve in salita fatta di lastricato e gradini. Muri alti, cortiletti incassati. Un museo chiuso e in rovina. Il numero 49 è proprio l’ultimo in cima alla via ed appartiene a uno stabile di quattro piani chiuso che sembra disabitato. Leggo i nomi sui campanelli: Parrot, Diller, Smith, Charlson. Forse non abita più nemmeno qui. Oppure è rimasto il cartellino con il cognome dell’inquilino precedente. Suono al primo piano dai Parrot. Una vecchia si sporge dalla finestra. “Scusate, abita qui Nelly De Quinn?” “Sì”. “Ah. E qual è il suo campanello?” “Non ha campanello, abita in soffitta”. “Come si fa ad entrare allora?” La vecchia che è anche la portinaia viene ad aprirmi e mi infilo su per le scale. Busso più volte, ma nessuno risponde per cui sono costretto ad andar via. Ritorno ancora nel corso della mattina e finalmente al mio bussare e chiamare la porta della soffitta si apre. Appare una donna anziana dai capelli grigi. Un tipo sbrigativo e diffidente, comunque mi fa accomodare in cucina. “Frate Tiburtius mi ha mandato qui perché avrei bisogno dell’indirizzo del guaritore di suo fratello...” incomincio. Lei mi fa cenno di smettere e va a chiudere le finestre. “I vicini chissà cosa penserebbero... Ce ne sono tanti e sono così pettegoli qui...” Si volta per armeggiare coi fornelli. Poi ritorna da me. Gesticola: “Tanti anni fa aveva un male al fegato e i dottori non riuscivano a fare niente. La necessità l’aveva spinto a interessarsi dei guaritori. Ne consultò parecchi finché trovò quello che riuscì a farlo star meglio. Ci andò e tornò a casa guarito. Non ebbe più niente per tutto il resto dei suoi anni”. La speranza si affaccia ancora alla mia mente: “Sapete dove abita questo guaritore?” “No, so solo che si chiamava Keller. Ma ho l’indirizzo del dottore che l’aveva mandato là. Era uno studioso di occultismo, un dottore che era stato radiato dall’albo... per i suoi esperimenti... capite, mio fratello si rivolgeva dovunque esistesse una speranza”. “E avete detto di sapere dove abita?” “Sì, in una cittadina di nome Lenon, ho il suo indirizzo da qualche parte nelle lettere di mio fratello”. Tira fuori una valigia marrone e polverosa da sotto un armadio. Contiene pizzi, cianfrusaglie, vecchi documenti e anche un pacchetto di lettere ingiallite e spiegazzate. Si mette gli occhiali e incomincia a sfogliarle. “Ecco... è questa...” dice a un tratto e me la legge: “Cara Nelly, ti scrivo per avvertirti che giovedì non potrò venire perché il signor Perton mi accompagnerà a Lenon dal dottor J. H. Forrest in Chanter street. Ha insistito lui per farmelo conoscere ecc. ecc. Ecco. É tutto” Mi copio l’indirizzo e faccio ancora qualche altra domanda: “Quando è stato questo?” “Oh, è passato molto tempo”. Legge la data della lettera: “Marzo 1908” Con la speranza che si fa sempre più tenue, lascio Miss Nelly e faccio ritorno a casa. ***** “Conoscete il dottor Forrest?” chiedo a un barbiere stando sulla soglia della sua bottega. “Scende a radersi qui da me tutte le mattine” è la risposta. Seguendo le sue indicazioni percorro le vie di questa modesta cittadina ai piedi delle colline. Entro in un cortile acciottolato immerso nell’ombra degli edifici. Là in fondo c’è una specie di torretta, alla mia sinistra, sotto un colonnato, partono due scaloni con sopra un elegante ingresso a vetri ondulati. Leggo i nomi sulle targhette. Dott. John Herbert Forrest. Ci siamo; schiaccio il campanello. Dalla guardiola si affaccia un viso smunto con un berretto da portiere. Quando gli dico chi cerco apre e dopo alcuni gradini sbocco in un salone dal pavimento nero di graniglia con al centro la gabbia dell’ascensore. Mentre apro la porta a rete l’uomo mi informa: “Dottor Forrest, quinto piano”. Un signore vecchissimo con bretelle e ciabatte mi guarda interrogativamente stando sulla soglia. “Dottor Forrest mi interesso al fenomeno dei guaritori e vorrei da lei qualche informazione...” Mi fa accomodare in uno studio pieno di libri e con vetrine strapiene di feticci colorati: gri-gri africani, jou-jou della Melanesia, tiky, maschere dal prognatismo accentuato. E ci sono ancora mazze, tamburi, figure paliformi, pettini, fiasche, coppe... “Ho passato tutta la vita a studiare gli stati alterati della mente, quelli dei veggenti, dei mistici o dei santi”. “La veggenza non mi interessa”. “La veggenza è solo il primo stadio. Dalla veggenza alla psicocinesi c’è solo un passo: dalla capacità di predire a quella di modificare, la distanza è breve”. Si accomoda davanti a me in una poltrona tirandosi addosso una vestaglia da camera perché l’ambiente è umido e fa un po’ freddo. “Mi ha mandato la sorella del povero Geoffrey, il malato che era venuto da lei perché non sapeva più dove andare. Si ricorda?” “Ah sì, aspetti, ricordo ancora quel caso di 40 anni fa”. “Lei ha consigliato Mr. Geoffrey di andare da un certo Keller, vero?” “Lei capisce, sono come dei fantasmi per me ormai, cose di tanti, tanti anni fa... La sorella non la vedo da tantissimi anni. Sì consigliai io Mr. Geoffrey di andare da Keller. Era un grande guaritore, l’avevo conosciuto a Ferton l’anno prima ed avevo avuto modo di studiarlo e sperimentare con lui”. “Mi scusi di cosa soffriva questo Geoffrey?” “Di una cirrosi epatica allo stadio terminale che gli procurava molti dolori e che nessuno era riuscito a curare”. “E questo Keller ce l’ha fatta a guarirlo?” chiedo con ansia. “Oh sì, completamente”. Dalla cupa torre dell’orologio di fronte a noi provengono sei lenti rintocchi. Sopra il camino ci osserva un viso piatto, circolare, dipinto di rosso munito di corna con occhi a goccia rovesciata bianchi e con la bocca rettangolare. Nelle bacheche lunghi colli ad anelli, vassoi per divinazione, guardiani delle ossa con volti stilizzati, naso a diedro e corpo a losanga. Nello studio si ode solo il crepitìo del fuoco nel caminetto adesso. “Dottor Forrest, avrei anch’io bisogno di rivolgermi a questo Keller. É per un caso di cecità che mi sta molto a cuore”. Il volto sorridente del dottore si fa serio: “Arrivate troppo tardi signore, Keller è morto da dieci anni ormai; era già vecchio quando io l’ho conosciuto”. “Ah!” resto in silenzio pieno di sconforto. La mia ricerca finisce qui. Poi ho una nuova idea: “E ne conoscete altri guaritori?” “Ho conosciuto imbroglioni, ciarlatani, veggenti, bigotti; sono stato da illusi, pranoterapeuti, aggiustaossa, curanderos, psicopatici...”. “Ma io cerco un vero guaritore, un grande guaritore...” “Lei cerca un santo, e la santità è rara come il genio e la bellezza. No, mi dispiace deluderla, ma in tutta franchezza devo dirle che non conosco un uomo all’altezza di questo compito”. “Ah capisco”. “Inoltre è spesso difficile da individuare anche se io dopo tante esperienze ho imparato a riconoscere un vero guaritore e a quale categoria appartiene. Un grande guaritore è un uomo che attinge a una fede superiore che lo fa diventare un asceta”. Fa una pausa prima di proseguire a voce più bassa come parlando a se stesso: “Un asceta con una completa dedizione verso questa meta; un uomo che ha tralasciato tutto ed ogni cosa. Un puro, un folle, un uomo nel quale l’amore per l’umanità è una forza travolgente. La società egoista nella quale vive lo sottovaluterà fraintendendo le sue reali intenzioni”. “Sì, ma quelli che gli stanno vicino, quelli che avrà beneficiato, sapranno pure chi ringraziare” obietto io. Lui riprende a ricaricare la pipa: “Chissà, forse non se ne saranno neppure accorti. Forse la sua anima era talmente in alto da sembrare piccola. E la sua santità era così profonda da diventare incomprensibile. Sì, credo che sia necessario grande acutezza e discernimento affinché la sua figura non passi inosservata. Forse il suo troppo amore lo farà apparire duro, e per la sua sete di dare sarà giudicato un egoista e un asociale”. “Capisco quello che volete dire; con quelli immensamente grandi nel bene e nel male si può prendere degli abbagli perché gli estremi si incontrano e si assomigliano”. “Sì più o meno. L’uomo che cercate voi è innamorato della vita al punto di trascurare se stesso. Un mistico che crede nelle finalità delle cose, uno che è passato al di là delle apparenze. Un uomo contraddittorio in fondo che si è ritirato dagli uomini perché amava troppo l’umanità”. Un pensiero attraversa in un lampo la mia mente per poi svanire subito dopo. Intanto il mio interlocutore prosegue nel suo discorso: “Chissà se esistono ancora persone così. Un santo del medioevo. Un eremita...”. Dove ho conosciuto un uomo così? Smetto di ascoltare quello che dice il dottore per seguire il mio ricordo. A tratti interrompo le mie riflessioni per tornare a guardare il dottore che mi sta di fronte, i ritratti dietro di lui, raffiguranti uomini con baffi a manubrio in alta uniforme, donne in crinolina recanti dedica e firma... No, non ho mai conosciuto nessuno... Sì invece! O forse sì! La sera che mi recavo a casa del cavaliere: chi era quello che andava predicando deriso dalla gente? Forse era solo un pazzo o un ubriaco. Per essere sicuro devo trovarlo ugualmente. É fra persone come lui che può nascondersi quello che cerco. Entusiasmato da questi discorsi lascio la casa del dottore in stato di profonda agitazione. Ma una volta in strada l’idea che prima mi era apparsa così brillante la trovo assurda e insensata. Infatti dove si troverà quell’uomo adesso? E sarà veramente un santo? ***** Ricomincio con Erika il lungo pellegrinaggio delle visite ai guaritori nella speranza di trovare prima o poi quello giusto. Consulto la lista dei loro indirizzi. Ne prendo uno a caso, abbastanza vicino. Myriam - Osteria sulla strada per Palex. Indirizzo datomi dalla sua amica signora Ford. Sul tardo pomeriggio siamo da lei. L’osteria è protetta da un bel pergolato di foglie ormai rossastre. Oltre i vetri la figura di una donna giovane e magra sta seduta dietro il banco. Forse è lei. Entro nella penombra e ordino da bere restando in piedi. La donna magrissima ancor giovane è dotata di una certa bellezza: ha occhi profondi e capelli nerissimi sciolti sulle spalle. Al petto in fondo a una catena pende un medaglione ovale col ritratto di una bambina. “É la sua?” chiedo. “Sì” “É molto bella... Come si chiama?” “Ketty... è morta...” “Oh mi scusi” Il silenzio riempie la stanza per un certo tempo. Un silenzio greve e pesante rotto dal tintinnio lieve dei bicchieri che lei sposta sul banco. Ha mani lunghe, sottili che tremano. Anche il corpo è fragile, esile, sempre in agitazione. Poi mi faccio coraggio e riprendo a parlare. “Conoscete la signora Ford?” le chiedo. Il suo viso si illumina. “Siete suo amico?” “Sì. Mi manda lei”. “É stata molto buona con me. Mi è stata molto vicina in quei giorni...” Poi riprende: “Ketty mi aiuta e aiuta chi ha bisogno”. Mi parla di quando va in trance e allora la sua mano si lascia guidare da Ketty e in questo modo scrive delle frasi. É la scrittura automatica. Le chiedo di mostrarmi qualcosa. “Questi li ha fatti lei” e mi tiene davanti un foglio pieno di disegnini sempre più piccoli fino a dei punti. “Significano il passaggio di una vita all’altra. Questo qui è il momento dell’arrivo della guida... Qui si sottomette alla gerarchia... Qui sotto la sua protezione...” Seguita a parlare come trasognata e i suoi occhi brillano in maniera innaturale. “Anche i puntini hanno un significato sapete? Ma questi che vedete non sono punti. Sono anch’essi disegni di concetti, solo che sono così piccoli che la penna non riesce a staccare le linee...” Lascio l’osteria con quella madre dalla mente sconvolta per la perdita della figlia. Ancora un indirizzo sbagliato. La vecchia Emma, indirizzo datomi da un certo Gaspar. Questa è una vecchia guercia che va in giro vendendo scope e abita in una catapecchia fuori paese. Di fianco al fiume, oltre la palizzata sfondata, c’è un orto pieno di sterpi e di saggina. La porta è aperta e si intravedono mucchi di scope, ramazze e rastrelli appesi alle pareti. Dentro sa odore di bruciato. La vecchia corpulenta porta una vistosa benda nera che le nasconde l’occhio sinistro. Sta facendo qualche strana operazione davanti al camino, fra i pentolini di terracotta, e non alza nemmeno la testa quando ci vede entrare. Mi avvicino di un passo. Fra le sue ginocchia c’è una tavoletta con sopra alcune braci. Con la mano grassoccia sta muovendo qualcosa di luccicante. É uno spillo e lo pianta senza stancarsi sulla tavoletta con cadenza monotona scandendo ripetutamente delle parole fra le quali mi sembra di capire: “Dolore e tremore... tremore e morte...” Sulla tavoletta è fissato un pezzo di cartone con una figura e ai lati sono disegnati dei segni con delle frecce che le arrivano al cuore. Qui il cartone è tutto strapazzato da minuscoli buchi inflitti dalla vecchia. Ma è una strega, e sta compiendo una fattura! Piano piano arretro spaventato. Non mi importa di sapere più niente da lei, adesso voglio solo andarmene. La megera sembra aver intuito qualcosa perché altera la voce e il tono della cantilena si abbassa. Solleva una pietra piatta e nera con su incisi dei segni e rapidamente vi infila sotto la tavoletta. Prendo per mano Erika e la tiro fuori. Sento la risata stridula e saltellante della vecchia inseguirmi fin sotto il sole dove mi sento attraversare da un brivido. ***** L’atelier della sarta è ricavato in un retrocucina. Vi si accede passando sotto un arco in muratura e le finestre alte illuminano una stanzetta bianca piena dell’odore delle stoffe, con metri di corda, gessi, busti. Ci fa sedere su una panca di legno accanto al tavolo. Dopo alcuni minuti di silenzio nel quale prova a concentrarsi impone le mani sopra la testa di Erika tenendole ferme per un lungo tempo. Poi le tira verso il basso, riparte dall’alto, ripassa verso il basso restando in piedi con gli occhi chiusi, dietro la ragazza. La tecnica non ha funzionato. Hercules è un uomo grande e grosso. Tanti anni fa la moglie aveva un male al ginocchio che le impediva di camminare e nessuno riusciva a far niente. Dapprima si interessò ai guaritori. Successivamente scoprì che anche lui aveva delle capacità benefiche; volle sperimentarle sulla moglie e questa guarì. Quando ha finito di raccontare, accende una candela, si versa parecchio whisky che serve per aprire il terzo occhio, dice lui, poi esegue su Erika i passi magnetici. Agisce con i polpastrelli della mano destra tenuta come una piramide rovesciata. L’uomo si impegna profondamente senza ottenere però alcun beneficio né subito né nei giorni seguenti. Dò una riordinata al fascio di fogli zeppo di annotazioni e di indirizzi: - Fratel Victor, riferiscono che si nutre solo di un po’ di brodo e va in estasi; un confratello della comunità di Vagh in collina. - Signora Loarne, una donna che ha perduto una sorella in un incidente e da allora fa dei sogni premonitori suggeritigli dalla sorella morta. - Una vedova, buona medium e convinta spiritista che in seduta fa la diagnosi e suggerisce i rimedi da adottare. - Un iniziato di Caster che pratica la teurgia. - Le benedizioni apotropaiche del venerabile canonico di Bosch... Man mano che il cerchio si allarga le distanze aumentano e i viaggi si fanno sempre più lunghi e faticosi. La mia lista è tutta piena di nomi cancellati ma decine di nomi nuovi si aggiungono tutti da verificare. Dopo alcune settimane di spostamenti, delusioni, nuove speranze, decido che è ora di smettere, se non altro per prendere un po’ di riposo. ***** Ho modificato il mio comportamento allo scopo di ottenere più informazioni con minor perdita di tempo. Avvicino persone malate e dò loro indirizzi di guaritori che io non ho ancora sperimentato. Dalle loro esperienze che poi mi faccio raccontare, mi rendo conto della personalità del guaritore, del tipo di mali curati e della necessità o meno di andarlo a trovare. Finora sono stato da un contadino malato di gotta, una donna con l’eczema sulla testa, un ferroviere in pensione e altri ancora. Oggi sono molto in ritardo perché nelle prime ore del pomeriggio ero atteso da Hugh il ferroviere che ha portato la moglie malata da fratel Victor, su mio suggerimento. Saprò così da lui se ha ottenuto dei risultati e se vale la pena di portare anche Erika. Sono affaticato e stanco. Senza cambiarmi per non perdere altro tempo esco per recarmi all’appuntamento. Al bivio che porta dalle parti della stazione la mia attenzione è attirata da schiamazzi in fondo alla via. Suoni di campanacci e belati. Poi, fra una pausa si ode uno che parla in tono solenne: “E il Salvatore dell’umanità venne come un re vestito da mendicante, come un povero”. Quella voce... Dove l’avevo sentita prima d’ora? “Il messia è giunto per portare la luce...” É una voce piena di spiritualità e di pace... Rivela profonda maturità ed equilibrio interiore. Intanto la voce va affievolendosi fra gli scherzi dei ragazzacci e le risate dei perdigiorno che si accodano dietro per curiosità. Non mi riesce di vederlo fra pecore e gente che corre nella polvere della strada. Arrivato a casa del ferroviere ascolto il resoconto che mi fa della visita a fratel Victor. Al mio ritorno avvicino un gruppo di persone per sentire quello che dicono. Parlano di un pastore di nome Jordan che si sposta di villaggio in villaggio predicando la venuta di Dio. Chi lo chiama santo, chi dice che è pazzo. L’unica cosa certa è che è stato visto all’uscita del paese. Mi precipito a casa di Erika ed entro come un forsennato. Ho il cuore che mi scoppia per la corsa ma ancor più per l’emozione. Forse è proprio questo l’uomo che cerchiamo da tanto tempo. “Vieni, vieni via subito non c’è un minuto da perdere” le dico tirandola per mano. Lei è sorpresa e spaventata. “Ti spiegherò dopo, strada facendo ma adesso dobbiamo andare”. Speriamo che non sia troppo tardi speriamo di arrivare prima che se ne sia già andato. É passato del tempo, pochi minuti ma sufficienti ad averlo distanziato perché io ho camminato fino alla fattoria di Erika in direzione contraria. Ecco adesso sono arrivato al punto di partenza. Erika non mi ha ancora chiesto niente ed io non ho tempo per parlare. Ha intuito che stiamo inseguendo qualcuno e ciò le basta. “Avete visto il pastore? É passato di qui il pastore?” Chiedo a un uomo che cammina per la strada. Scuote il capo facendo segno di no. “Vieni dobbiamo proseguire ugualmente”. Forse è proseguito per questa stessa strada. Mentalmente faccio il conteggio del tempo immaginandomi quanto può essere andato avanti. Forse era meglio se l’avessi fermato subito da solo, senza andare a chiamare Erika. Ma andava così piano con le sue pecore, ho pensato di farcela, era così lento. Non può essere tanto lontano. Non avrà fatto tanta strada. “Ehi voi,” grido avvistando due uomini intenti a segare la legna. “Siete qui da molto? Avete visto passare il pastore?” “No non è passato nessuno. Ma noi siamo qui solo da poco”. Avanti di corsa, senza perdere tempo. Per fortuna c’è un vecchio dentro un orto. “É passato di qui il pastore?” “Sì”. “Avete visto dove è andato?” “No, ma basta seguire lo sterco del gregge sulla strada”. Sulla strada bianca si notano i pallottolini scuri lasciati dietro dalle pecore. Ma proseguendo il fondo stradale si fa erboso e non è così facile seguire le tracce. Arrivati a un quadrivio non so più che strada prendere allorquando vedo una figura curva davanti a me. É la vecchia delle scope che è intenta a battere la saggina per liberarla dai semi. Senza accorgercene siamo arrivati davanti alla sua casupola. Mi ripugna terribilmente dover chiedere un’informazione proprio a quella strega, ma non si vede anima viva in giro. “Hai visto Jordan?” chiedo. La vecchia ha un sorriso bieco: “Chi credi di essere tu?” Poi abbassando la voce con disprezzo: “Non vedi tutto il male che è in te. In te c’è tanto odio da poter incendiare l’universo...” Forse vorrebbe dirmi dell’altro ma non la lascio continuare: “Dov’è l’uomo che si fa chiamare Jordan?” chiedo bruscamente. Per tutta risposta la vecchia prorompe in una risata stridula. Sento crescere dentro di me un’onda di repulsione e di odio. “Dov’è Jordan?” grido con rabbia. Lei pare non scomporsi troppo: “Quel pazzo!... Ha preso la strada lungo il fiume”. ***** Il fiume Lavinio è stretto, tortuoso. É uno strano fiume con le rive profonde piene d’erba e con la nebbia che fuma incessantemente. Lo seguiamo per qualche kilometro camminando sulle erbe rosse nella pianura piatta intorno a noi. La visibilità è ridotta a causa dei cespugli e delle colture. Nel tardo pomeriggio sto ancora girando nei posti dove è stato visto il pastore. Proseguo sempre più in fretta tirandomi per mano Erika, senza parlare. Catapecchie scurite e cadenti senza segni di vita. I mattoni sono corrosi, i profili ondulati dalla vecchiaia. A un contadino che lavora nei campi chiedo se ha incontrato il pastore. Poi a una vecchia che sta seduta dietro a una finestra e accenna di no con la testa. La strada serpeggia con giravolte inabissandosi talvolta in mezzo alle colture alte del mais. Proseguiamo quasi di corsa adesso seguendo le palline di sterco delle pecore. Ecco. Nell’aria si avverte a tratti l’odore aspro delle pecore. Da questa parte. Ma a un certo punto sulla strada finiscono le tracce delle pecore. Ci sono dei sentieri erbosi che si inoltrano tra file di salici nei campi. Decido di seguirne uno cercando le tracce del passaggio del gregge. Eventualmente torneremo indietro e ne seguiremo un altro. Dopo una breve discesa il sentiero piega a destra e si ferma davanti a un fiume. Torniamo indietro risalendo sulla strada e deviamo per un sentiero largo più avanti. Dopo due curve dal sentiero parte una deviazione. Dun... Dun... Dun... Eccolo! Sono le sue pecore. Il suono arriva a volte appena percettibile poi scompare del tutto. Puntiamo verso quella direzione seguendo la riva di un fiumiciattolo fino al ponte della prossima stradina. Ancora la campagna nella quale perdere lo sguardo. Dopo una curva un ramo secco e nero in lontananza mi dà un sussulto perché credevo di averlo visto. Dun... Dun... Den... Ancora le pecore. É qui intorno e adesso grido il suo nome in direzione del suono. Provo a chiamarlo con le mani a imbuto attorno alla bocca: “Jordan... Jordan... Jordan...” Silenzio. I battiti del mio cuore, il pulsare del sangue contro le mie tempie. Guardo Erika che trascino per mano dietro di me. Ha un’espressione smarrita e stanca sul volto. Andiamo di qui. Se solo riuscissi a trovarlo prima che venga buio, prima che raggiunga qualche cascina in cui trascorrerà la notte... I campanacci si fanno sempre più forti. Den... Dun... Dun... Den... L’afrore intenso delle pecore mi arriva vicinissimo. Dun. Dun. Più presto. Il sentiero scende lungo il fossato e le colture secche del mais formano un muro impenetrabile. Dun... Den... Dovremmo vederlo... É vicinissimo adesso. Il cielo si va riempiendo di una bambagia scura che sporca il celeste. La sera si fa più cupa nel sentiero basso. Il mais toglie completamente la visuale alla nostra destra. Erika inciampa e sta per cadere ma faccio in tempo a sorreggerla. Finalmente le colture finiscono e compare una distesa di terra con alti ciuffi di erba sparsi qua e là e macchie di erba più bassa. Si vedono anche alcune pecore brucare laggiù in fondo. Troviamo un passaggio che scende nel fossato asciutto pieno di erba e di rovi. Aiuto Erika a risalire tirandola dall’altra riva. Quando la ho di nuovo per mano mi incammino sull’estensione del terreno. Finalmente lo vedo. Sta in mezzo al campo. Alto e jeratico, nero sullo sfondo di una macchia rossiccia nel cielo: il sole che sta tramontando dietro le nubi. “Jordan, Jordaan” grido con il fiato corto fra il rumore dei campanacci e i belati delle pecore. Non mi ha sentito e la sua silhouette rimane immobile alta e obliqua intagliata nel nero. Il terreno è molto accidentato e proseguo piano con lo sguardo teso mentre giro attorno ai grossi cespugli selvatici. “Jordan Jordan” seguito a chiamarlo avanzando e tirandomi per mano Erika. Allora mi vede, o così almeno mi pare, perché la sua sagoma diviene angolosa nel voltarsi di un quarto di giro puntellandosi al suo bastone. Poi incomincia a incamminarsi piano in diagonale verso ovest. Allora lo chiamo ancora ripetutamente e questa volta ci ha visti davvero perché si ferma restando a guardarci. Sto per raggiungerlo e sono a pochi metri da lui. Nel gran rumore di campanacci e belati delle pecore intorno a me non mi riesce di tirar fuori una parola, ma non serve perché vedo che mi ha riconosciuto. Quando gli sono vicino lascio la mano di Erika e cado in ginocchio. É vestito con una specie di lungo saio scuro. Il volto, con la barba vagamente bionda, sembra lavato dalla luce del sole. Ha una espressione assente quasi di rapimento. I suoi occhi grandi e chiari sono dilatati, come illuminati da una misteriosa luce interiore. A tratti vedo passare lampi di luce come per una visione di dolore o di estasi. Dopo un tempo lungo abbassa la testa per guardare dietro di me. In preda a una emozione fortissima mi volto anch’io per seguire il suo sguardo. Erika è rimasta in piedi, da sola, alcuni passi dietro di me e guarda di lato verso l’alto. “Erika è lui inginocchiati... É un santo...” vorrei dirle ma la mia voce esce strozzata sovrastata dai belati e dal rumore dei campanacci. Erika non mi ha sentito e rimane là impalata di fianco, senza capire. Allora mi volto verso il pastore, con il corpo che trema incapace di pensare o di chiedere. La sua presenza mi dà uno stato di tensione intollerabile e mi sembra che il cuore voglia sbalzarmi dal petto. Egli alza lentamente le braccia magrissime verso il cielo con il palmo delle mani rivolte verso di me. Luce. Sto vivendo l’esperienza più strana della mia vita. Mi sembra di venir sopraffatto da un peso che non riesco a sostenere. Coni di luce, linee, archi... Sento un brivido e un irraggiamento. Resto ammutolito, schiacciato mentre percepisco la sua figura ingrandirsi e innalzarsi in una fuga verso altezze vertiginose. Vedo turbini di luce. Mi sento attratto e trasportato da una forza superiore che mi attira nello spazio. É uno spalancarsi di porte, di cadute o di ascese. Una luce bianca folgorante vividissima è il centro di ogni mia percezione. C’è un espandersi e una dilatazione fino a confondere il mio essere, fino a farlo diventare esso stesso nient’altro che un atomo, una goccia, di un abbagliante indescrivibile splendore. Rimango così per un tempo breve o lunghissimo abbagliato, stordito. Il mondo non esiste più intorno a me riempito dalla presenza di lui che dilaga fin dentro l’intimo del mio essere. Non vedo più il suo sguardo perché sta controluce ma mi sembra trasognato, assorto. Il Santo mi sorride e dopo si volta e si incammina allontanandosi. Le pecore lo seguono e il cane le rincorre riunendole. Cammina davanti a loro adesso traballando come una marionetta verso un punto sempre più lontano a occidente. La sua figura diviene confusa nella distanza. ***** I giorni passano ed io spio Erika alla ricerca di un qualche cambiamento. Sono nell’attesa di un fatto nuovo. Tanta è stata la mia fede in Jordan che mi aspetto che Erika ritrovi la vista. Nei primi momenti ne ero sicuro. Poi col passare del tempo questa sicurezza si attenua. Era stata solo una speranza, Jordan era solo un folle, la possibilità di guarire non esiste. Eppure a giorni sento che non è così e in uno di questi ne parlo a Erika. Lei mi ascolta senza convinzione. “No, dalla cecità non è possibile guarire”. “Ma perché dici questo? Che ne sai tu della realtà? Che sappiamo noi cos’è la realtà? La realtà è complessa, imprevedibile, piena di eccezioni e di contraddizioni. Non devi rassegnarti, tutto è possibile. Può accadere qualsiasi cosa...” Lei mi guarda sforzandosi di compiacermi. “Sì, io sono preparata a tutto, ma non voglio illudermi, se accadrà ci crederò, ma per adesso non credo ai miracoli”. “Mi giudichi un credulone? Io sono più scettico di te. Ma i miracoli noi li abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni, tutti gli istanti. La vita è tutta un miracolo, il nostro incontro è stato un miracolo, il sole è un miracolo, e tutte le cose più grandi che ci sono state donate a questo mondo. Non devi rassegnarti, non devi smettere di sperare...” le dico con trasporto. “No” fa lei con un balbettìo “la speranza non muore mai, ma io non posso e non voglio illudermi... Mi è già accaduto...” Ancora parole. Ma credeva lei a quello che le dicevo? No, e non ci credevo più nemmeno io stesso. Il santo non aveva dato quello che volevo ottenere, non aveva ridato la vista a Erika, questa era la realtà. ***** Lo stato di eccitazione in cui ero entrato mi dava un senso penoso di soffocamento un bisogno di uscire fuori, all’aria aperta. Lascio la casa di Erika con un senso di sgomento nell’anima. Cammino senza accorgermene preso nel turbine dei pensieri. É una sera fredda dei primi di ottobre. Una luna gialla splende bassa sui campi. A occidente il cielo è ancora macchiato di rosso quando raggiungo il paese. L’attraverso mentre sento giungere a tratti nell’aria l’odore aspro del vino. Nella mia stanza mi butto sul letto senza riuscire a distendermi. Seguito a rigirarmi tutta la notte in cerca di riposo. Penso a lei. Ma penso anche a me. Cos’era stata in fondo la mia vita? In che cosa avevo sbagliato? Sì avevo regalato delle opere d’arte al mondo, l’illusione della bellezza, attimi di oblìo... Ma mi bastava? Avrei potuto dare di più? Ero diventato semplicemente un genio quando sarebbe stato possibile diventare un Santo. Sono pensieri assurdi. Fino a che punto siamo liberi noi? “La sofferenza... Dio càricane ancora su di me. Di più ancora. Ti prego... ti supplico...”. Nella mia testa risento le parole di Jordan. “Quella sofferenza sconfinata riversala su di me... Tutto il male che è in loro... I loro dolori, i loro martiri, accresciuti anche, ma libera gli uomini... liberali dalla sofferenza...” Quella notte la passo malissimo. A poco a poco sento come un’onda montare dentro il mio corpo. Un’onda che sale dentro il mio petto fino quasi a volerlo squassare. Poi se ne va, ma subito dopo ne sopraggiunge un’altra più forte della prima e l’effetto di questa non è ancora passato che ne sopraggiunge una terza. Non mi sembra di poter resistere. Sento il mio cuore battere impazzito quasi a voler uscire fuori dal petto. Provo un dolore e una confusione indescrivibile. Mi sembra di morire. Le convulsioni aumentano sempre. Sento un intenso calore interno. É come se le mie viscere siano diventate un vulcano di fuoco che mi dà dolori orribili e strazianti. Vedo passare davanti a me le immagini di tutta la mia vita. Ad ogni crisi sento acuirsi i dolori così da temere che il mio cuore non ce la faccia ed io stia per morire. Tardissimo trovo un po’ di riposo. Mi sveglio verso l’alba perché ho freddo e rimango in un dormiveglia per lungo tempo, fino a riaddormentarmi di nuovo. ***** Il fenomeno si ripete parecchie altre volte così resto a casa malato per non so quanto tempo. Quando sto un po’ meglio vado a casa ragazza. “Ah, sei tu” fa Erika appena la chiamo per nome, “pensavo... non volessi più venire...” “Ecco, lo sapevo, tu non ti fidi di me”. “Ma no io mi fido è che a volte...” “Cosa? Cosa credevi che mi fossi stufato di te e ti avessi abbandonata?” le dico prendendola per un braccio, “che ti avessi lasciata qui da sola?” “No, no,” risponde lei con convinzione “adesso io mi fido di te, completamente”. “Ti ho detto che prima o poi me ne sarei andato” riprendo con un tono di leggero rimprovero “ma era solo uno scherzo. Mi credi forse un senza cuore?” Le parlo sempre senza lasciarle il braccio e poi prendendole anche l’altro: “Sai cosa voglio io da te?” Una pausa di silenzio durante la quale lei alza la testa verso di me. “Erika, io voglio che tu veda!” ***** “Non so, mi fanno male gli occhi, quello destro soprattutto... Non mi era mai capitato prima... mi lacrima... devo continuamente toccarlo...” Le sue parole mi fanno una strana impressione. Soprattutto quel “Non mi era mai capitato prima...” Perché? Cosa sta accadendo agli occhi di Erika? Rifletto buona parte della notte e la mattina seguente torno di nuovo sull’argomento. Le metto le mani sulle spalle con molta dolcezza e guardo dentro i suoi occhi nella speranza di vedervi qualcosa; ma sono come sempre, forse quello destro è un po’ più arrossato. “Erika... i tuoi occhi... senti forse qualcosa di diverso?” Lei mi ascolta senza capire. “Sì, voglio dire è possibile che ti facciano male perché ci sia qualcosa dentro che si muove e che sta... migliorando?” Ha un sorriso amaro: “Sì, io mi muovo...” Poi riprendendo nel tono normale: “No è tutto come prima Claude. Non cambia niente di questa mia condizione ed io l’accetto”. Lei prende la chitarra e incomincia a suonare. É bellissima mentre suona con un’espressione trasognata del viso. Io non posso fare a meno di guardarla e pensare intensamente a lei: “Dio mio. Fa’ che veda. Fa’ che veda” seguito a ripetere dentro di me. “Toglimi la vista ma fa’ che lei veda. Toglimi la vista ma fa’ che lei veda...” ***** “No, spostati più avanti...” “Erika!... Ma tu... ci vedi!” grido sbalordito. Lei risponde ancora in preda all’incredulità e stupore: “Solo delle ombre, con l’occhio destro...” L’attiro a me per guardarle gli occhi. Quello destro appare infatti arrossato e lacrima un poco. Sembra impossibile ma forse qualcosa sta cambiando. Non oso crederci. “E prima? Cioè ieri, e gli altri giorni... che cosa c’era di diverso?...” L’emozione che provo mi fa sbagliare parole. “Sì voglio dire, qual è la differenza? Anche prima riuscivi a vedere qualcosa?” “Prima vedevo solo una nebbia e le ombre quando erano vicino al mio viso...” É notevolmente felice, lo si vede. Io non so cosa pensare. Non voglio illudermi certo, ma non voglio rinunciare a sperare... ***** É una mattina radiosa e piena di sole. L’aria è frizzante e fa vibrare le goccioline d’acqua sull’erba nei posti in ombra. Per due giorni non andai da Erika. Avevo molto da fare per dare una parvenza di ordine al mio studio. Tele da buttare, lavori da finire, altri da migliorare. Inoltre sentivo che avrei provato a dipingere un nuovo quadro. I miei rapporti con Erika si vanno un poco raffreddando. Me ne accorgo da piccole cose: lei non vuole più che le accarezzi i capelli, che tenga la sua mano fra le mie. Quando vado a trovarla ha sempre da fare. Sono passati i tempi nei quali quando arrivavo trascurava tutto e tutti e si mostrava sempre disponibile per stare con me. Adesso ha da badare alla casa, agli amici che vanno a trovarla, oppure è lei che va da loro. Con me è più disattenta, annoiata, a volte appare perfino seccata. Perciò vado a trovarla meno spesso e quando ci sono altre persone non mi chiede più di restare, così vado via. Sua madre è morta ed è arrivato subito Paul per starle vicino in quel periodo. É rimasto giù alcune settimane durante le quali sono stato solo due volte a casa sua e la mia visita è durata solo pochi minuti. Il tempo di offrirle di contare su di me se mai avesse bisogno, poi sono andato via. Ho modo di ritornarci adesso, alcuni giorni dopo la partenza di Paul. Erika è ancora una creatura bisognosa di aiuto. Mi manifesta la sua intenzione di vendere la fattoria e per questo vuole sentire anche il mio parere. Poi mi chiede di accompagnarla dall’amica Mary e dall’avvocato Tress, suo amico di famiglia. Abitano lontano a Kingcross e ha paura di andare da sola. Acconsento di passare a prenderla nel pomeriggio quando anch’io devo recarmi da quelle parti a trovare un mercante di quadri. É una giornata grigia di novembre quando arrivo in bicicletta. Erika è già pronta davanti al portone. “Sei molto bella oggi” le dico. “Grazie”. “Sei stufa di stare ad aspettare?” “No”. Provo ad accarezzarle i lunghi capelli biondi, ma lei non vuole: “Lasciami stare, non toccarmi!” dice scostandosi bruscamente. Il silenzio cade fra di noi. La sento fredda e lontana. Poi dopo un po’ lei cerca di dissipare la tensione con una spiegazione. “É la giornata, è così brutta, e poi sento freddo”. Sale sulla mia bicicletta e partiamo verso il paese di Kingcross. C’è parecchia strada da fare che sembra ancora più lunga adesso che la conversazione è caduta. Dal cielo piove una luce color ferro. Attorno a noi sfilano campi interminabili di stoppie, fossati gonfi d’acqua scura, terreni allagati. I cespugli di platani assomigliano a fasci di fuoco per il rosso cupo delle foglie. Il viaggio prosegue in silenzio. Passiamo prima dal mio amico, il mercante di quadri, però non è in casa così si riprende il cammino per la prossima destinazione. L’avvocato abita in una villetta vecchia e arcigna, piena di balaustre e decorazioni. Si entra da una torretta che sta di fianco, alta e stretta. Erika è attesa e viene fatta passare subito nel suo studio, mentre io aspetto nell’anticamera. Accanto a me c’è un uomo giovane in uniforme e uno più anziano in borghese. Scherzano tra di loro e il tempo così passa più in fretta. Quando esce l’accompagno fuori e riprendo il viaggio. “Ce ne hai messo del tempo. Come ti sei accordata con l’avvocato?” “Ha detto che verrà a casa mia”. “E che cosa ti ha consigliato di fare?” “Non ne ho voglia di parlarne adesso”. “Ehi, hai litigato con l’avvocato? Hai l’aria di averlo fatto”. Tace e proseguiamo in silenzio nella campagna fredda e nebbiosa. “Bisognava andare prima da Mary, e adesso siamo in ritardo di due ore”, mi rimprovera. “Ma era per non fare la strada due volte. Siamo passati dal mio amico, non è colpa mia se non era in casa”. “Dovevi avvertirlo prima; o andarci un’altra volta da solo senza portare anche me... É difficile restare amici con te. Pretendi che gli altri facciano sempre quello che vuoi tu”. “Ma io ti sto accompagnando a Enson da Mary adesso anche se non ho niente da fare là... Se l’avvocato non ti andava puoi mandarlo via quando verrà a casa tua, potevi fare a meno di restare là per tanto tempo. Io ero stufo di aspettarti”. “Lo so benissimo”, sbotta lei. “No, l’avvocato va bene, sei tu che non vai...” Lascio che si sfoghi: “Sei sempre così chiuso, preoccupato... perché non sorridi mai?” Non so e non voglio rispondere a questa domanda. Più avanti fa un altro tentativo per rompere il gelo che si è venuto a formare. “Sono preoccupata per la mia amica, cosa penserà non vedendoci arrivare...” E dopo un po’ riprende: “Devi cambiare, Claude. Sì tu devi cambiare, devi diventare diverso...” “Non è necessario che io cambi, basta che tu cambi amico. Ci sono tante persone a questo mondo”. “Io voglio divertirmi. Lo dice anche Mary che ti lagni troppo. E poi c’è un’altra persona che ti trova antipatico...” “Chi è?” Una pausa lunghissima durante la quale penso che non voglia dirmelo. Quando non me lo aspettavo già più mormora un nome: “Paul...” Capisco che è arrivato il momento di mettere fine a questa situazione e c’è un solo modo: “Senti, facciamo così, non vediamoci più. Domenica non verrò a scocciarti a casa tua... Io ti ringrazio per tutto quello che mi hai dato. Tu hai Paul e stai bene con lui. Hai anche altri amici”. “No non volevo dire questo. É che oggi sono stufa e stanca... La prossima volta ti dirò cosa mi ha detto l’avvocato per la casa...” “Non ci sarà una prossima volta”. Attraversiamo altri paesi e intanto è scesa la sera. A Enson metto la bici al posteggio dell’osteria e bevo in fretta qualcosa: “Vuoi niente tu?” “No”. Riprendiamo a piedi verso la casa della sua amica. A una donna chiedo informazioni per trovare la via. Quando siamo arrivati grida arrabbiata: “Non è questa la sua casa. Te l’avevo detto che volevo andare da Mary. Qui abita Margareth. Scemo, cretino non ti ricordi mai niente”. Nella fretta ho confuso le strade. “Ma perché non me lo hai detto un paio di volte, io ti ho accompagnato qui la volta scorsa e pensavo volessi ritornarci...” “Scemo, te l’ho detto anche prima che devo andare da Mary”. “Vieni facciamo tutto il giro”. Si riprende a camminare per un viottolo scuro e senza lampioni. Oltrepassato il ponte costeggiamo la vecchia fabbrica e finalmente si arriva alla casa di Mary. La casa è buia ad eccezione di una finestra illuminata al pianterreno che rischiara un poco il prato antistante. Tiro il campanello e quando vedo un’ombra passare davanti alla finestra saluto Erika e mi allontano. Il suo saluto di risposta arriva in ritardo e contiene, mi pare, una nota di rimpianto. ***** É trascorso un lungo inverno da quando non ho più veduto Erika. Nella solitudine adesso che Erika è partita faccio fatica a ritrovare me stesso. Dagli amici che vengono a trovarmi ho saputo che lei vive in città assieme a Paul. Dopo che la vecchia madre è morta ha venduto la fattoria e si è fatta una vita nuova. Non so se si sono sposati. La gente dice di sì e che hanno anche un figlio. I dottori che l’hanno visitata asseriscono che nelle sue condizioni è impossibile che ci veda. Ma invece è proprio così e quel poco di vista recuperato le consente di fare una vita abbastanza normale. Altri dottori parlano di diminuita pressione endobulbare. Alcuni parlano perfino di miracolo. Da quanto mi hanno riferito lei è convinta di sì e ne attribuisce a me il merito. Lei è rimasta molto buona. Sèguita ad aiutare gli altri, a soccorrere chi soffre con aiuti materiali e spirituali, ad alleviare le sofferenze. Penso che si senta realizzata: adesso ha la possibilità di continuare la sua missione con accanto un giovane della sua stessa età che l’aiuta e non la fa sentire più sola. Chi ha provato una volta la sofferenza non può più scordarla e anche quando è guarito la sente negli altri e prova il bisogno di alleviarla. Non so che dire di tutto ciò che è capitato. Ho perduto una ragazza meravigliosa, anche se troppo giovane per me, che mi ha regalato delle sensazioni uniche. Erika è troppo presa a lavorare per gli altri e non viene mai da me. In fondo è sempre stata così: pensava sempre agli altri fino a trascurare se stessa. ***** Sono rimasto solo con il dono di Jordan. Non mi interessa più niente al mondo. Adesso che ho rinunciato a tutto mi accorgo che le cose che amavo e per le quali prima lottavo erano cose fatue e immeritevoli. Nel mio cammino ascensionale mi accorgo anche che tutti i desideri mondani distoglievano la mente da qualcosa di più alto e sublime. I desideri, le tendenze, gli scopi, le istanze che mi prefiggevo senza posa annebbiavano per così dire la mente impedendole di scorgere ciò che stava dietro il velo della realtà. Lottavo, sprecavo energie per mete indegne e insignificanti mentre l’anima umana ha sete di infinito. La realtà è caduta a pezzi davanti a me. Dapprima ne ho sentito la mancanza, ho sofferto molto, ma non volevo più accontentarmi di surrogati, di illusioni, e ho resistito. La mia vita adesso è fatta di austerità e di totale distacco. Salire la scala dell’evoluzione significa innalzarsi verso méte sempre più ardite. L’ascesi è come una luce pura e ineffabile. Lo spirito si sente risvegliato come da un lungo sonno. E man mano che avanzo mi si rende più chiaro di quanto sia lunga la strada da percorrere e di quanto sia preziosa la meta. Mi sento indegno. Il modello della santità si allontana a mano a mano che avanzo. Mio Dio, basterà questa vita per raggiungerla? Le imperfezioni, le debolezze sono a ogni passo e scopro mille mancanze, deviazioni, errori. I pensieri che distraggono, il corpo che disturba talvolta, l’orgoglio mascherato di umiltà, l’egoismo, l’amore non ancora totale, tutte cose che impediscono di annientarmi in Dio. É una folle ascesa dell’evoluzione, una fuga sulla scala degli Dei. Una pace meravigliosa irraggia nella mia anima dopo ogni battaglia superata. Prego continuamente. Il mio spirito rimane teso come un arco verso un’unica meta: l’ultima, e la prima. ***** Delle persone vengono a trovarmi. Malati, bisognosi arrivano fino alla mia casa per chiedere di venir curati. Chiedono che parli loro, che metta le mie mani sopra i loro mali. La gente parla della guarigione di Erika come di una cosa prodigiosa e ne attribuiscono a me il merito. Io ero solo una strumento, ero solo un mezzo. Alcuni arrivano da molto lontano e non oso scacciarli. Durante l’inverno questa specie di pellegrinaggio è cessato ma con l’arrivo della stagione buona prevedo che diverrà più numeroso tanto da indurmi a trasferirmi o a cambiare casa. Provo una grande pietà per loro e con alcuni resto a parlare. Poi sollevo più volte su di loro le mani come per scacciare i loro mali ed essi se ne vanno più sollevati. ***** Come le altre mattine, ora che è arrivata la bella stagione, faccio una passeggiata per i campi. Nella natura voglio incontrarmi con Dio. Il sole risplende alto sopra di me e un profumo sottile sale dall’erba sui prati dove spuntano le margheritine. Il cielo è celeste percorso da onde di pura bellezza. Il mio sguardo è rapito dal volo incostante di una farfalla che sale in alto, nel mistero e nella solennità del creato. Qualcosa di scuro va comparendo adesso sulla strada all’orizzonte. Incuriosito devìo fra i campi per vedere di cosa si tratta. Intanto incominciano a delinearsi delle persone raggruppate che procedono lentamente sotto il sole nella polvere della strada. Dal mio posto di osservazione guardo il gruppo che arranca oscillando su per la salita, scomparendo a volte nelle curve del sentiero. A tratti mi arriva l’eco del rumore che fanno: voci, brusìo, un canto di chiesa... Mi sposto ulteriormente balzando fra i sassi e scavalcando alcuni cespugli per portarmi più vicino di fianco a loro. Attraverso uno spiazzo d’erba verde chiaro fra i fossati e ceppi scuri degli alberi marciti. Tutto eccitato percorro un sentierino poi lo lascio per scendere giù per una scarpata. Il cuore mi batte e mi arriva un senso di fresco col vento sulla pelle. L’ebbrezza della corsa mi ha fatto sentire agile e leggero. Raggiunto un nuovo punto di osservazione dietro una siepe di sambuchi mi fermo stupito. Lo spettacolo della sofferenza sta davanti a me adesso. La strada si va ingombrando di una moltitudine di folla lacera, afflitta da ogni sorta di malattie e menomazioni. Ci sono storpi sorretti da grucce, ciechi che avanzano brancolando, paralitici spinti su sedie a ruote, esseri deformi, bambini dall’espressione idiota, spastici con la bocca storta e spalancata. Mani rattrappite tese in avanti, arti amputati striscianti nella polvere della strada, volti deturpati da piaghe, corpi derelitti con bastoni, stampelle, croci, statue, stracci, fra un gran rumore di grida e gemiti e preghiere. Sembra che tutta la sofferenza, tutte le brutture, tutto il male dell’universo si riversi sulla strada che porta alla mia casa. Verso mezzogiorno la folla va aumentando; e ne stanno arrivando ancora. Sono giunti a centinaia, forse a migliaia, un numero incalcolabile di esseri dilaniati dalla sofferenza. Uomini e bambini, donne e vecchi accorrono da ogni dove spinti dalla speranza di liberarsi dal male. Rimango immobile, al mio posto, teso, shockato. Sento l’impulso di fuggire via, lontano, ma non servirebbe a niente, perché so che sarebbe inutile voler ignorare tutto questo. D’altra parte so che cosa mi aspetta se accetto di aiutarli: l’Ingratitudine! Dovrò restare ugualmente a condividere le loro sofferenze? Ancora una volta c’è il buio davanti a me e sono chiamato a fare una scelta. FINE Stesura 1986 Revisione 1995 2004 dic 2006 LA RAGAZZA DEL PAESE STREGATO CAPITOLO PRIMO Hanno rappresentato la morte in cento e cento maniere: hanno detto che é nera, bianca, invisibile, abissale, gelida, crudele, benigna, misteriosa. No, la morte è grigia. E’ una nube grigia e fumigante sospesa sulla palude della vita. Frank Graegorius “Vielle 15 Novembre 1956 Vostra zia est morta stop Funerali dopodomani stop Severin.” Partiamo col furgone alle prime ore del pomeriggio io e mio cugino Tom. Fino a un certo punto conosco la via da seguire, ma poi sono costretto a chiedere indicazioni a dei contadini intabarrati alla guida di un carro. Quando arrivo in vista di quella strada stretta che taglia in diagonale i campi in direzione nord provo un senso di familiarità che solleva nella mia anima ricordi tenui e sopiti dall’infanzia: immagini di posti inondati di sole, di luce bianca... É una giornata grigia di novembre. Tom non dice una parola e nemmeno io ho tanta voglia di parlare. Il paesaggio è viscido, sfumato, il cielo coperto di nubi. L’aria ha un tepore gradevole dovuto alla troppa umidità. Il primo paese che incontriamo è un raggruppamento di casolari anneriti sparsi ai fianchi della strada. Ne incontriamo altri così, sono piccole frazioni non segnate sulla carta che l’auto non impiega molto ad attraversare, gruppi di cascinali smorti e privi di vita, affondati nella pianura. A volte leggo senza interesse i loro nomi: Michellorie, Mieg, Caselle... Grossi topi ci passano davanti con una andatura goffa. La campagna ha una lucidità irreale sotto i ristagni di nebbia leggera. Vorrei conoscere i sogni di quelle cappellette romantiche e semidiroccate che vediamo talvolta ai crocevia. Sogni senza fine, come la lenta ondulazione dei campi sotto la foschia lattiginosa. Pensieri di morte si susseguono nella mia mente. Un grassone con la faccia rossa che non bada al nostro passaggio, seguita a ridere smoderatamente su uno spiazzo deserto in riva al fiume. C’è un ponticello da oltrepassare al di là del quale la strada diventa infangata sotto gli alberi spogli. Dai rami bassi cade un perenne sgocciolìo d’acqua e di umidità. Una luce giallognola che si diffonde talvolta nel cielo di lana e denso di nubi accresce il senso di oppressione e di vuoto. Dopo alcune ore giungiamo in vista del primo cartello: “Vielle”. É storto, arrugginito, inchiodato sul grosso tronco di un salice. Un altro cartello ci aspetta una decina di chilometri più in là, e indica una strada incassata fra le case basse di un paesino. Ancora un altro, più avanti, e un altro ancora in un crocevia di curve a gomito. Ma la prossima biforcazione è priva di segnali e il galletto di legno posto in cima a una croce non è di nessun aiuto. Frutti marciti della maclura sono disseminati sulla strada. Poiché siamo proprio in aperta campagna e non c’è anima viva a cui chiedere, scelgo a caso di svoltare a sinistra. Una strada strettissima che si inoltra nella fuliggine della sera. La prima sosta è proprio davanti a una chiesetta. Tracce di colore celeste perdurano tuttora sull’intonaco in parte scrostato. Deve essere antichissima. Una croce in legno poroso si eleva sulla sommità fra due vasi di fiamme. Mentre la osservo vengo coinvolto nel gioco di alcuni bambini apparsi all’improvviso dietro di me. Da essi apprendo che la strada per Vielle era l’altra e non questa. Poi mi precedono uno ad uno in fila indiana per mostrarmi la chiesetta. Nella luce soffice dei ceri l’interno è intimo e silenzioso. Alcuni quadretti di santi sono appesi alle pareti, sotto i finestroni a mezzaluna. I bambini mi conducono dietro l’altare e mi indicano lo scheletro posto in un’urna, che la tradizione fa risalire a St. Lucy. Una donna vestita di nero è apparsa sulla soglia. Deve essere la madre venuta a chiamarli, visto che i piccoli le vanno incontro. All’uscita prima che se ne vadano insisto per far prendere all’ultimo di loro una moneta. Ma quello seguita a rifiutare scuotendo il capo impaziente di correre per raggiungere gli altri che intanto si stanno allontanando nella nebbia. Da alcuni minuti filiamo su una strada accidentata fra sassi e buche profonde piene d’acqua. Un forte odore di carogna in decomposizione entra dai finestrini. Proviene dalle grandi distese di cavoli che non finiamo mai di attraversare. In fondo si intravede una cappelletta ottagonale con una lanterna dai vetri rotti. A sinistra, poco prima di un ennesimo bivio c’è il portone spalancato della fattoria. Il crepuscolo ristagna nel cortile immenso al di là dei nespoli carichi di frutti. La vecchia colombaia pendente sembra raccogliere i riflessi della luce che sta per morire. Le sagome degli altri edifici si prolungano nell’oscurità e le ombre affollano il porticato. C’è una saletta ad accoglierci oltre i gradini rotti e inclinati dell’ingresso. Mobili scuri o totalmente neri di forma bizzarra e antiquata. Una lampada a petrolio a luce bassa è posta su una mensola. Silenzio e forte odore di stantìo. É Severin, il fattore, a darci il benvenuto. Ci conduce in cucina dove lo zio Ally, che non ci ha sentiti arrivare, è occupato a fare i tarocchi. É un uomo alto lo zio, forte e con una corporatura massiccia. Quando si leva in piedi su quei zoccoli mal tagliati che si fabbrica da sé, la sua testa raggiunge quasi le travi basse e affumicate del soffitto. Non è mai stato espansivo. Pur essendo ricco il suo animo di sentimenti buoni e generosi, raramente è riuscito a esternarli. Di carattere ruvido, un poco scontroso gli manca la comunicativa e il savoir-faire nei rapporti con gli altri. Anche ora, nel dolore per la perdita della moglie che aveva amato molto, rimane muto, e chiuso in se stesso. La cena si svolge in silenzio. Solo il crepitìo del fuoco o gli scricchiolii delle grosse sedie impagliate. Siamo rimasti soli Tom e io. Gli altri hanno già mangiato e sono di sopra a vegliare la salma. La minestra di cavoli è densa e quasi fredda nei piatti a fiorami. C’è un fiasco di vino e del buon pane con il salame. Ogni tanto mi alzo per attizzare il fuoco e mettere della legna perché non si spenga. Nello stanzone basso e mal rischiarato non c’è molto caldo. Dal di fuori, la notte di nebbia preme ai vetri delle finestre. Quando arriva Severin ad accompagnarci di sopra comincio ad avvertire la pesante atmosfera di tristezza che grava sulla casa. Scale strette di legno scricchiolano al nostro passaggio. Una stanza buia piena di setacci messi in pila lungo le pareti macchiate di salnitro. La porta pesante che si schiude; la zia è là. Una forma scura composta nel letto. Le donne intorno piangono. Uno specchio ovale riflette le fiamme delle candele poste sul comò. Più tardi vado a far la spesa a Vielle che non è molto lontano. All’inizio del paese incontro un venditore ambulante che trascina un carretto con patate dolci già cotte, melagrane, frutta secca e dolciumi. Nebbia grigia e buio lungo la via principale dove stanno allineati i lampioni a petrolio. Passo vicino a una fontana cilindrica. Un fascio di luce gialla esce da una porta sormontata dall’insegna: Vendita Vino e Generi all’Unione. ***** “Quando saremo morti diventeremo terra da pipe!” É una espressione ricorrente qui, dove un tempo esisteva una fabbrica di pipe in terracotta proprio vicino al cimitero. Ma è ingannevole questo modo di dire, e non rivela nulla della mentalità superstiziosa degli abitanti. Anche mio zio non fa eccezione. Quando nel togliere una pentola dal fuoco vi si attacca un po’ di brace o quando la cenere si accumula nel fornello egli ne ricava dei presagi. Io sorrido della sua ingenuità, e intanto sono felice di essere tornato qui per aiutarlo a ristabilirsi. Dormo nella stessa stanza che occupavo da ragazzo. Non è cambiato niente da allora. Dentro l’armadio ho ritrovato perfino la mia scatola dei birilli. Era allo stesso posto, e nessuno l’ha mai toccata durante questi anni. Nel rivedere i buffi cilindri di legno con la faccia quadrata e l’espressione arcigna sono stato assalito da una sensazione strana, come di nostalgia o di paura. Sarà colpa della nebbia, che non cessa mai di fluire. Non c’ero mai stato d’inverno, qui. Questo posto lo avevo sempre veduto col sole delle lunghe estati, quando venivo a trascorrere le vacanze. Ci sono stanze murate nella casa che era stata un convento, e mio zio quand’ero piccolo mi raccontava che suo padre vedeva i frati che salivano le scale di sera con una candela in mano. Adesso dopo i funerali, abbiamo ritrovato un po’ di tranquillità. Zio Ally non è riuscito ancora a rassegnarsi, ma almeno ora dice qualche parola. Ciarliero non lo è mai stato. Oggi, per esempio, mi ha detto davanti al camino, che non è buon segno quando un fuoco estinto manda improvvise scintille. Altre volte mi parla di un tesoro, alla cui esistenza lui crede fermamente. Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo. La fattoria è un mondo a sé, limitato, che non si può rinnovare. C’è una pace profonda sotto i porticati delle stalle, nell’aia convessa che svanisce fra i fumi del letamaio e la nebbia dei campi. La vita ha un ritmo lento, specie d’inverno. Dalla mia finestra vedo gli spaventapasseri, e Severin, che con i suoi movimenti sonnolenti sembra un fantasma mentre lavora sul fienile. ***** Il paese soffre di antichità. Un triste pomeriggio di nebbia di fine gennaio mi sorprende, in compagnia di Tom per le vie deserte e silenziose. Cammino e sfioro vecchie case dai grossi muri obliqui, lunghe mura cinte di merli. Due lapidi sbrecciate sono poste sulla dimora dei signori di Vielle. La prima commemora i fasti principeschi e le orge avvenute in occasione del soggiorno, nel castello, di duchi e principi di passaggio. La seconda parla di gallerie che mettono in comunicazione i sotterranei con le vicine frazioni. La mole rosso cupo e altissima del castello, ora abbandonato, si intravede sullo sfondo di questa vasta proprietà. Il motto del feudo è scritto in lettere di ferro in semicerchio sulla sommità del cancello. Una corona di conte è scolpita in altorilievo sulla pietra. Costeggiando le mura merlate arrivo fin sulla piccola piazza acciottolata dove sorge la chiesa, antichissima. Angioletti di tufo si sporgono dalla lunetta del frontale. Statue di santi si elevano al di sopra del timpano e altre sono racchiuse in due nicchie laterali: un profeta e un martire con il corpo trafitto da lance. Al centro appare lo stemma del casato: uno scudo a tacca a campo inquartato con figure naturali e chimeriche coronato da un elmo con cimiero e la divisa in caratteri gotici “Memoriale così va”. Due ragazze, probabilmente sorelle, camminano sul marciapiede opposto. Una è bruna e indossa un soprabito sgualcito con il bavero alzato. Ha un profilo morbido e a volte mi guarda come se mi conoscesse. L’altra, una biondina più giovane, dai lineamenti duri, ha una maglietta lisa con una spilla di latta appuntata davanti. Entrambe hanno i capelli lunghi. La minore gioca con i sostegni in ghisa dei lampioni. La ragazza bruna mi sorride. Anche per sfuggire solo momentaneamente alla nebbia fredda, mi dirigo verso la porta della chiesa. Le mie dita toccano le bellissime rose intagliate nel legno, poi un tepore gradevole mi accoglie. L’interno è buio quasi assoluto. Alcune fiammelle galleggiano là in fondo, come sperdute nelle tenebre. Rimango immobile alcuni istanti prima di tornare ad immergermi nel freddo squallore della nebbia. Il vecchio giardino pubblico di fronte alla chiesa a tratti sembra scomparire assorbito dal grigiore opaco e impalpabile. Sul limitare sono le ragazze, in piedi come in attesa. La biondina corre fino al carretto del venditore ambulante portando delle carrube all’altra. Questa alza lo sguardo fino a incontrare i miei occhi, poi insieme si allontanano. Tom tossisce e ha brividi di freddo. Battendo i piedi e stringendo i pugni nelle tasche attraverso la strada e le seguo. Un tabellone sbiadito con la scritta Locanda al fiume. Luci basse oltre i vetri sudici, odore di stantìo e brusìo di voci che filtrano fin sulla strada. La ragazza ferma davanti a me si stringe nel soprabito. La più giovane invece corre attorno le aiole del giardino e tenta di arrampicarsi sugli alberi. “Non avete un teatro o qualcosa di simile da queste parti?” chiede Tom. Lei si gira e indica i resti di un edificio incendiato. Il suo volto pallido mi affascina con un sorriso malizioso. “É la prima volta che noi veniamo a Vielle...” affermo. “No,” mi interrompe, e i suoi occhi neri si fissano nei miei, “io ti ho visto ancora qui”. “É vero,” convengo, “un paio di volte”. La invito a bere qualcosa di caldo nella locanda, ma rifiuta. Nonostante il freddo rimaniamo fuori a chiacchierare di cose futili. Una trina diventa il nostro dialogo, un cauto arricchire i discorsi convenzionali con significati più profondi e con risposte che alludono, sempre in sospeso nell’incertezza. É un gioco ai limiti del fraintendimento. Se il suo contenuto diventasse troppo trasparente la ragazza sarebbe la prima a ritirarsi, ma poiché questo non accade il gioco prosegue. É un lento sfogliare, uno scoprirsi di veli psicologici. Tutti e due diventiamo piacevolmente eccitati e sorpresi. E le raffinatezze si fanno sempre più complicate per me che sono in grado di seguirla e comprenderla, e la sua anima si rivela un abisso. Improvvisamente la sorella la chiama: “Mirta. Mirta”. Lei ha un gesto di impazienza. Adesso so anche il nome. Più tardi ci separiamo. Fa quasi buio, e io mi avvio a percorrere la strada verso casa. Su una antiquata biciclettona nera la rivedo passare con in mano il secchiello del latte. Mi viene da ridere, ma per fortuna non se la prende e sorride anche lei. “Ci vediamo domani?” grido mentre scompare nella nebbia. Nessuna risposta. ***** Qualche tempo dopo in un giorno di sole, sono di nuovo a Vielle in compagnia di Tom. Un clima di magia sembra avvolgere il paese rimasto fermo a tradizioni secolari talvolta affascinanti, talvolta ridicole. La giornata è fredda ma splendida. Da qualsiasi punto si può ammirare l’imponente mole del castello rosseggiare alta nel cielo fra festoni di edera rinsecchita. Qui le leggende più strane trovano motivo di sostentamento. Su tutte le case più antiche di Vielle, e saranno una decina, è ripetuto in ferro sopra la porta il motto “Memoriale così va”. Mio zio attribuisce a queste parole il significato di commemorazione di un evento strano. Si tratta di questo: due sacchi di monete d’oro destinate al re per pagare i mercenari erano partiti dal castello seguendo una galleria sotterranea. Ma non arrivarono mai a destinazione, perché essi scomparvero misteriosamente assieme alla mula che li portava e agli uomini della scorta. Non furono più ritrovati, nonostante le ricerche eseguite anche in tempi posteriori e da allora un antenato del conte ordinò che questo motto comparisse sul suo stemma e fosse apposto su tutte le case di sua proprietà. Ascoltando adesso le confidenze delle persone, mi accorgo che tutti qui sono convinti della serietà di questa storia e anzi, molti sperano ancora in un possibile ritrovamento del tesoro. Qui i superstiziosi timori di mio zio, che riflettono la mentalità di tutti, si giustificano in un non so che di vago, di fatato che anch’io, un estraneo, riesco a volte a percepire piacevolmente nell’aria. Passo davanti ad una villa chiusa, bellissima, semicelata da un parco secolare e lussureggiante. Non vi abita nessuno. É una delle tante proprietà del conte, come la casa dove sta Mirta, con la quale confina. Seguendo la via del centro costeggio i giardini, la chiesa, e mi spingo fin oltre il portone spalancato che interrompe la cinta di mura merlate alla mia sinistra. Un’aia sconfinata coperta di vinacce allo scopo di proteggere i mattoni dal gelo, chiusa per due lati dai bassi edifici delle stalle. Visto che non c’è nessuno proseguo attraverso il cortile immenso. A destra sorge la residenza dei conti che reca ancora visibili i segni di una gloriosa, passata ricchezza. In fondo, il castello con le torri, circondato da macerie di edifici crollati. Un uomo alto con i baffi rossi a spiovente entra ed esce dalle stalle spingendo una carriola. Mi dirigo verso di lui e noto i riflessi del sole spostarsi sui vetri delle casette adiacenti alle stalle. Due ragazze ci spiano passando da una finestra all’altra per non farsi notare. Superato il porticato raggiungo lo stalliere e gli chiedo notizie sul castello. Egli posa la pala che serviva a caricare il letame e mi racconta che le porte d’ingresso al castello sono state da tempo murate in seguito a incidenti capitati a curiosi caduti dentro ai trabocchetti. Poi passa a narrarmi delle carneficine che gli antichi feudatari compivano ai danni degli ospiti illustri, dopo averli ubriacati con feste, banchetti e danze. La perfidia, la crudeltà di un antenato aveva finito per gettare il terrore sui vassalli, e aveva dato origine a superstiziose dicerie alle quali molti non hanno smesso di credere. Lascio l’uomo ai suoi lavori e compio mezzo giro del cortile fino al pozzo per ammirare l’architrave istoriato che lo sormonta. Resto appoggiato alla vera larga e bassa, poi volto la testa di scatto. Le ragazze si ritirano nell’ombra del colonnato, ma vedendosi scoperte fingono indifferenza. Dopo un primo sguardo non mi interessano già più. La loro bellezza è del tipo provinciale, ha una carenza, una nota comune a tante altre. ***** La mia permanenza alla fattoria dovrà protrarsi più del previsto. I lavori da sbrigare sono tanti: bisogna cuocere il pane, pestare il sale, c’è da torchiare la pasta, sbattere la panna per ottenere il burro, dar da mangiare ai polli e ai conigli. Severin si lamenta per i reumatismi, e zio Ally stenta a superare la sua crisi di depressione. A volte, quando appare abbattuto più del solito si ritira in cucina, toglie di tasca il mazzo dei tarocchi che porta sempre con sé, lo mescola ed estrae cinque carte che mette in croce sul tavolo. Questa mattina l’ho sentito borbottare e sono entrato. Pareva assorto. Io mi sono avvicinato e lui mi ha sorriso, ma poi ha ripreso a fissare le carte. C’era un diavolo grottesco, la forza, dei cani che abbaiavano alla luna, le trombe del giudizio e una ruota con delle figure che giravano. Mi ha messo in guardia contro la malvagità degli abitanti e delle arti sottili che impiegano per far ammalare i loro nemici. É convinto che la fattoria sia stata stregata da una persona che vuole la sua rovina. In luna calante i cani si arrabbiarono. Gli specchi, le lame dei rasoi si erano appannate e la tela anneriva al bucato. Ora i germogli bruciano nell’orto e il pozzo ha subito un incantesimo per cui non è più possibile attingere l’acqua. Così, di sabato, nell’ora di Saturno l’ho aiutato a fabbricare gli amuleti, cioè dei sacchetti contenenti foglie di salvia, cera vergine, sale, punte di ferro e un foglietto ripiegato con delle scritte. Vuole che ne teniamo appeso un sacchettino in ogni stanza della casa. Vuole anche che io mi dia da fare per cercare l’imbocco della galleria che porta al tesoro. In tutta serietà mi ha raccontato di averlo cercato a lungo in passato. E quegli sforzi non sono stati inutili perché lo hanno guidato molto innanzi sulla strada del suo ritrovamento. Adesso resta poco cammino da compiere ed io che sono giovane, se seguissi i suoi consigli, dovrei riuscirci. Me le sento ripetere spesso queste storie. Tanto che una sera mi è parso di vedere una luce fioca che procedeva lenta, saltando in diagonale, fra i campi. Devo essermi suggestionato. Forse, a lungo andare finirò per credere anch’io a queste vecchie leggende. ***** CAPITOLO SECONDO Insieme alla fanciulla toccò remote spiagge incantate lambite eternamente dal mare della vita, sotto un cielo infinito e senza tempo. Frank Graegorius Una giornata chiara ai primi di febbraio. Dalla finestra guardo la fuga di campanili esili allontanarsi da quello basso e tozzo di Vielle. Là è St. Gregory, poi Bonhall, più in là ancora St. Stephen, Zimel... La massa scura delle montagne appare irreale nel cielo trasparente a nord. Assieme a Tom esco nel vento freddo. La luce splendente, fulgidissima, abbellisce anche le vecchie case conferendo ai muri corrosi colori più vivi. La polvere scorre per le strade deserte portata dal vento che non smette mai. Cammino seguito da Tom che si tiene ben alto il bavero del pastrano. Alcuni uomini stanno in piedi con lo sguardo fisso davanti a una casa. Una nenia lamentosa si ode provenire dall’interno. Mi fermo anch’io e guardo oltre la soglia aperta. In una cucina bassa e scura c’è un cadavere disteso su una panca. Ha il viso lungo, decrepito, con la bocca aperta che mi ispira ripugnanza. Alcune vecchie vestite di nero fanno scongiuri, altre tappezzano le pareti con piante secche di datura. Al mio ingresso tutte smettono le loro attività e restano a guardarmi. Allora volto le spalle e mi allontano. Proseguiamo nel vento fino alla casa di Mirta. Dopo aver oltrepassato quella casa alta, mi volto e lei appare sul marciapiede insieme a una bambina di quattro o cinque anni. “Buongiorno”, le dico andandole incontro. Lei mi guarda e mi sorride. Camminiamo insieme davanti ai cancelli del parco dove sta giocando un altro suo fratellino. É indicibilmente bella. Per me ha indossato una gonna viola che dona alla sua figura snella una grazia insospettata. É bella. I capelli che si flettono, il suo sorriso semplice e misterioso, tutto in lei parla di freschezza e di dolce abbandono. Sensazioni mai provate mi prendono mentre trascorro il breve pomeriggio insieme a lei. Nelle sue parole spontanee, nell’incanto della sua giovanile presenza scopro sogni nuovi e ingenuamente mi illudo. Dimentico il tempo che scorre, i ragazzini che si rincorrono, Tom appoggiato al muro che aspetta pazientemente la fine dell’idillio. Mirta ha solo quindici anni. Tutto è assurdo insieme a lei, tutto è possibile. Il mondo, la vita, non mi importa più nulla... Nei suoi occhi sono le speranze folli, nelle sue parole la fiduciosa allegria di chi scopre la vita per la prima volta. E il suo gioco insensato, coloratissimo, mi prende, mi inebria. Il vento cala di intensità. Fortissimo, nell’aria, si avverte il profumo sottile del calicanto. Una campana batte un rintocco, la mezza, poi altri cinque lentamente, con monotonia. Nella luce che declina a poco a poco ritorno in me. Una finestra del primo piano si apre sulla strada di fronte a noi. Una donna ci guarda con insistenza. Allora mi accorgo dei giovinastri che ci spiano dall’interno di un portone. Più avanti due ragazze fingono di conversare con un’altra donna, ma tenendo la testa inclinata di lato ci osservano. Il paese vive, ostile intorno a noi. Ancora una volta sento la presenza di quel mondo chiuso incombere sulla libertà dei singoli abitanti. Leggi ambigue e false si insinuano nel nostro amore insieme a dolorosi tabù. A malincuore, lascio momentaneamente Mirta e cammino seguito da Tom costeggiando il parco. Le ragazze riprendono a passeggiare, la donna alla finestra si ritira. I ragazzacci ci inseguono, correndo da un portone all’altro. Saliamo sul furgone e percorrendo alcuni giri per il paese riesco a far perdere le mie tracce. Poi, lascio Tom e torno ancora là. Mirta mi aspetta, ma ormai la notte fredda è scesa su di noi. ***** A poco a poco mi rendo conto come i timori che prova mio zio non siano del tutto infondati. Certo non credo alle stregonerie né ai discorsi ingenui sulle fatture di Severin. Si tratta di ben altro. Una specie di sordo rancore, di sguardi schivi di disapprovazione che riesco a cogliere per le vie di Vielle. É difficile da spiegare. Forse è questo che intendeva dire mio zio parlando degli inconvenienti che succedono vivendo qui. Questa pigrizia, questo trascinarsi nella vita da parte degli abitanti, la loro mancanza di rinnovamento, il peso incombente di una morale rigida e di princìpi oscurantisti ha finito per immergere il paese in un clima di suggestioni. Mio zio conosce un veggente e mi ripete spesso che dovrei andarlo a trovare per sapere da lui da dove parte la galleria che conduce al tesoro. Ma oggi non mi sento molto bene. Questa umidità finirà per far ammalare anche me. Ti penetra nelle ossa, assieme al profumo della nebbia e quello della terra marcita. É un languore, un gioco di penombre che confonde fino alla sonnolenza. ***** La notte striscia furtiva per le strade deserte di Vielle. Si è fatto tardi ma sono contento. Sono stato assieme a Mirta fuori davanti ai cancelli del parco. Anche se non mi aspetto niente da lei, anche se mi rendo conto dell’assurdità di questa situazione non posso quasi più fare a meno di questi pochi deliziosi momenti trascorsi insieme. Ha l’ingenuità di una bambina, la malizia di una donna. La sua grazia semplice, la sua amicizia disinteressata, la spontaneità del suo comportamento non le avevo trovate mai prima di allora. Mirta non ha studiato, non è mai andata più lontano di St. Stephen ma pur non rendendosi conto di quel mondo chiuso nel quale vive, non sembra farne parte, perché possiede quella conoscenza istintiva e naturale che guida tutti gli animali selvatici. “Vuoi che ti porti qualcosa?” le ho chiesto oggi. Sorridendomi, dopo una pausa, a bassa voce: “No, non ho bisogno di nulla”. Eppure io per lei rappresento solo una breve parentesi della sua vita, perché non sa approfittarne? Se avesse espresso un desiderio avrei fatto in modo di realizzarlo. Perché? Perché non si rende conto della sua bellezza e non tenta di ribellarsi al destino che l’ha fatta nascere in quella famiglia di poveri, in quel paese senza uscite nel quale scorrerà la sua vita futura? Perché è lei che dà a me? La nebbia fuma tristemente intorno ai fanali, sale dal fiume, si riversa nel vicino cimitero e per le vie scure e prive di vita. A un incrocio la fiammella di un lume a olio tremola davanti all’effigie incupita di un santo, chiuso in una nicchia. Il vento fa oscillare i tralci secchi di un glicine davanti alla grata di ferro, producendo rumori come di passi. La gioia di vivere di Mirta, il suo carattere dolce e informale lascia trasparire l’immagine di un’anima precoce e delicata capace di percepire le sfumature di emozioni nuove e adattarsi alla molteplice varietà di rapporti. Oggi ho rivisto anche le ragazze delle stalle e ho notato che tentano di avvicinarmi per mezzo di Mirta. Ma il contrasto di caratteri e l’impossibilità di una vera amicizia era evidente. Mirta doveva badare al fratellino, un bambino sudicio e maleducato che giocava con una trottola, alla sorellina piccola e all’altra sorella che la chiamava per giocare a palla. A volte andava da loro, ma poi tornava subito accanto a me per non lasciarmi da solo. Mi ero dunque innamorato di Mirta? Sì, fin dal primo momento. Ora però non era più un segreto e avrei voluto vivere insieme a lei in un mondo libero dalle convenzioni. Intanto l’ostilità cresceva intorno a noi gelida, serrata. Un muro di silenzio, di sguardi inquisitivi di disapprovazione, di parole sussurrate ai crocicchi o nelle salette dietro le tendine delle finestre. Quando ero insieme a lei fingevo di non accorgermene, quando ero solo mi voltavo agli sguardi troppo insistenti. Erano leggi ambigue quelle che dominavano il paese. Non erano scritte in nessun codice eppure tutti le seguivano ciecamente per timore, per superstizione, punendo i trasgressori con muti rimproveri e false benevolenze che creavano una disagevole inquietudine nei rapporti di tutti i giorni. In quanto a me, me ne infischiavo ma era di Mirta che mi preoccupavo. Avrebbe saputo resistere contro il giudizio di tutti? Con me, era un’altra faccenda. Io non ero uno di loro, ero un forestiero e potevo combatterli con l’indifferenza e il disprezzo. Il freddo mi penetra fin nelle ossa. Il paese pare morto o abbandonato. Solo il fumo dei comignoli e qualche filo di luce che filtra dalle fessure denota la presenza delle persone dentro le case. Da un’imposta rotta vedo una stretta cucina rischiarata dal lume con alcuni vecchi seduti accanto al camino e una donna che fila con il mulinello. Odore di cipolle e di cibi caldi. Ancora la nebbia. Una vecchia erboristeria chiusa con l’insegna marcita in legno. Un altro crocicchio di strade con all’angolo il solito lumino posto davanti all’immagine sacra per rassicurare il passante. Il vetro tutto appannato e la griglia arrugginita lasciano vedere ben poco dentro la nicchia. I tralci secchi dei glicini che pendono dall’alto del muro fanno strani rumori. Non c’è ragione di allarmarsi. Le strade, di notte, sono completamente deserte. L’ombra di un ubriaco dai capelli crespi si profila davanti a me all’improvviso. Mi viene incontro. Altre due figure emergono dalla nebbia. Quando è molto vicino toglie la mano da dietro la schiena e vedo che stringe un coltello. “Permetti una parola?” É alto molto più di me, e tutto avvolto in un mantello nero con il bavero che copre parte del viso. Ho un tuffo al cuore. Sento che non devo mostrare paura. Una fuga è impossibile perché gli altri si sono fermati attorno, anche se a maggior distanza. Nella nebbia non riconosco le fattezze di nessuno di loro. “Che cosa vuoi?” rispondo con voce ferma. “Lascia stare quella ragazza” ordina. “Chi sei?” “Un parente” Gli altri si avvicinano. Adesso ho paura. Gli lascio capire che farò come dice lui, magari non subito affinché Mirta non sospetti di niente. Mi sforzo di sembrare convincente. “Chi ti dice che quella ragazza mi interessa?” “Anche oggi sei stato con lei”. In un lampo penso a tutti i rari passanti che ci hanno visto insieme. No, non sono in grado di ricordare nessuno. Abbozzo una specie di sorriso: “Va bene, quando è così... Farò come dite...” Sono di nuovo solo. La nebbia fluisce per le strade, infida, appiccicosa. Sono tutto sudato. Allungo il passo verso casa. Da questo momento ho deciso di diventare ipocrita e falso con quella gente. E di agire con determinazione, ma con prudenza in modo da non essere mai più sorpreso solo in un luogo deserto o di notte. ***** Un leggero velo di freddezza è sceso fra me e la ragazza. Mirta sembra evitarmi oggi. Solo verso sera riesco a parlarle in una strada secondaria, di fronte a un vecchio panificio. Accenno subito a ciò che mi è capitato. La sorella minore insiste per conoscere i particolari, ma Mirta sa già. Non dice niente, ma sento che è al corrente, che sapeva già da prima e che adesso anche lei ha ricevuto il medesimo avvertimento. “Chi è quell’uomo?” le chiedo dopo una breve descrizione. Accenna un sorriso ambiguo: “É... un mio lontano cugino”. Allora la sorella più giovane interviene: “Ma io non conosco questo cugino”. “Sì, sì, tu lo conosci,” insiste Mirta, “è Mark” le dice guardandola negli occhi. L’altra tace, avvilita, perplessa. Ecco la sera. Le vie assumono una tinta celeste, le vecchie case appaiono più cupe. É un’ora fredda. Il vento si leva silenzioso, la poca luce fugge. Solo i ruderi merlati del castello rosseggiano dei bagliori dorati del tramonto. É un’ora piacevole, nella quale le parole non servono. Il volto di Mirta esprime una malinconica rassegnazione. Guarda le torri là, alte, lontane, investite di luce, e non dice niente... ***** La mia decisione di andare a trovare Albert mi costringe a violare altri assurdi tabù. Sono divieti imprecisi, dei quali nessuno parla ma la cui presenza si avverte nell’aria. Gli sguardi gravi di disapprovazione, i sorrisi falsi, le supposizioni calunniose. Tutta un’atmosfera pesante di vergogna e di colpa che ristagna nel vicolo cieco dove abita il sensitivo. La sua casa è proprio l’ultima, in fondo. É lui stesso ad aprirmi e ad accogliermi in una stanza dove la ricercatezza e il raffinato estetismo sono spinti all’eccesso. Bastoncini di incenso bruciano nel treppiede. Campanelli d’argento per scacciare gli spiriti, catene, ninnoli, stoffe e pietre preziose. Si siede davanti a me e parla con voce stranamente melodiosa. É quasi calvo, ha lunghi baffi arrotolati all’ingiù, veste da orientale. Le lunghe dita sottili nei gesti effeminati fanno brillare i sigilli magici sugli anelli d’oro. Vive da eremita e solo raramente riceve visite. Date le sue tendenze particolari, è lui stesso a farmelo comprendere quasi subito, gradirebbe molto approfondire la simpatia che prova verso di me. É dotato di intelligenza e sensibilità paurosa. Non è un uomo di carne, mi vien da pensare, ma di anima e di nervi. I cristalli sono ciò che egli ama di più. Ce ne sono dovunque, dalle forme più bizzarre, nei posti più impensati, tanti da intralciare i movimenti e confondere con l’arcobaleno dei riflessi moltiplicati dal pavimento lucido e nero. Steli, coppe, botti esagonali, prismi, curve e spigoli. Un paradiso, un inferno di cristalli. Molti sono spezzati, presentano incrinature o segni. É l’amore che prova per loro, è questo sentirli vivi, spiega, che provoca lo strano fenomeno. Vetri e specchi si infrangono intorno a lui, senza subire urti, a poco a poco insensibilmente. Frequentandolo un paio di volte ho avuto modo di assistere io stesso alla rottura di un vaso che si incrinava, tintinnando sotto i miei occhi. Restiamo a parlare di arte, di magia. Nella lunga stanza fredda in penombra, risuonano le note di un carillon. Alla mia richiesta per scoprire l’imbocco della galleria, estrae da un cassetto un pendolino di bachelite nero e lo tiene sospeso per il filo su una carta topografica. Difficili anni di esercizi, digiuni, privazioni sono serviti ad ottenere questo; poi tace. L’attesa mi procura sonnolenza. La volpe impagliata e le pellicce diventano partecipi della mia noia. Sprofondato nella poltrona, egli percorre con la concentrazione assoluta le vie che portano alla conoscenza. Finalmente come destandosi e in una pace profondissima mormora: “La risposta è a Zimel”. ***** La strada per Zimel è stretta, tortuosa, bianca di polvere e di sassi. La imbocco insieme a mio cugino, proprio di fronte al cimitero di Bonhall e per un buon quarto d’ora siamo sballottati su quel fondo stradale pessimo che si snoda a fianco di un fiume. Poi finalmente una salita, una macchia di sempreverdi neri nella giornata di sole e il lastrico polveroso del paese. Di colpo dopo un paio di curve a gomito la scena cambia. Un paese fermo all’età del medioevo, un borgo isolato e fuori dal mondo. Questo è Zimel. L’argine del fiume taglia la strada perpendicolarmente e il paese finisce lì. A sinistra un edificio alto e scuro da cui trasuda un’aria di muffa e di vecchia cantina. A destra raggiungo la chiesa, un vero gioiello di stile gotico e mi perdo nella contemplazione di quegli archi fragili, delle colonne sottili, delle guglie che toccano il cielo. Alcuni bambini si fanno subito intorno a noi e ci guardano con immensa meraviglia, a bocca aperta. Tom chiede cosa ci sia di bello da vedere a Zimel e allora tutti indicano un edificio lungo e basso e salgono i gradini di pietra sull’argine. Li seguo e arrivato in cima non trattengo un grido di stupore. “É zucchero...” dice Tom alle mie spalle. No, è schiuma. Il vento soffia impetuoso da lassù. Una cascata fa cigolare la ruota marcita della segheria, poi l’acqua si frange in un ribollente spettacolo di flutti sui quali si inarca l’arcobaleno. La segheria abbandonata affonda le sue fondamenta nell’acqua stessa del fiume. Porte e finestre sono ovunque sbarrate, impossibile entrare. Un’ombra umida avvolge perennemente l’edificio in rovina. Giro da tutte le parti e i ragazzini incominciano a raccontarmi delle esecuzioni che avvenivano molto tempo addietro sulla loggia in legno. Effettivamente un cappio pende ancora dall’alto di una trave e oscilla. Scricchiolii si odono nel fragore della cascata. Il posto può aver dato origine a qualche leggenda, non so cosa pensare. In ogni modo Tom appare impressionato. Accanto all’edificio una torre nella quale è racchiusa, lassù, una grande ruota da carro, messa di sbieco. Insistenti cigolii di lamiere attirano l’attenzione su un altro edificio al di là del fiume, altissimo con la facciata accecante di luce riflessa. Sui tetti grossi tubi ricurvi sono mossi dal vento. “É un mulino, anch’esso abbandonato da molto tempo”, spiegano i bambini, poi, stanchi della nostra compagnia se ne vanno lasciandoci soli. Il luogo ha un fascino stregato, la sua solitudine si avverte come una presenza viva. Do ancora un’ultima occhiata in giro, al fiume, alla facciata del mulino, con le sue finestre ingraticciate, poi ridiscendo. Sulla piazzetta ritrovo i bambini che corrono tutti verso la casa alta di fronte al fiume. La sua vecchiezza estrema mi fa provare un senso di repulsione. Una gelida umidità mi accoglie oltre l’ingresso. Salgo le scale di pietra: un piano, due piani. Un salone squallido quasi buio nonostante le finestre spalancate. In un angolo una enorme stufa di terracotta spenta, alla parete di fondo una grande pala: l’angelo giustiziere ritto nell’armatura, trafigge con la spada in un gesto d’ira l’uomo in catene steso in fondo alla tela. Un sapore di umidità e di liquirizia ristagna nell’aria. Il soffitto è alto, del tipo “a perline” color verde. Fra le grida dei bambini che giocano lì dentro odo, nel sibilo del vento, il cigolìo dei tubi giranti sul tetto del mulino. Salgo ancora. Improvvisamente le scale si affollano di bambine che scendono di corsa i gradini minacciate da un uomo che si sporge dalla ringhiera. Terzo piano. Un tanfo di latrine o di acqua marcia invade il corridoio e le stanze tutte deserte. Poche sedie di paglia, un tavolo... Uno sguardo febbrile e la flessuosa silhouette di una bruna discinta appare per un istante dietro l’ultima porta socchiusa. Al mio sopraggiungere, anche l’uomo rientra nella stanza e il silenzio quasi tangibile riassorbe le loro presenze. Da lassù la vista è spettacolare. La piazza acciottolata nell’ombra profonda sotto di noi, un sentiero in salita che raggiunge il ponte in ferro sul fiume. Nel frattempo le bambine hanno ripreso a salire cautamente le scale. Una biondina con lo sguardo acceso guida il gruppetto. Tutte appaiono tese, attente a evitare il più piccolo rumore. Le osservo divertito mentre si dirigono proprio verso la porta chiusa in fondo al corridoio. L’ultima a passarmi davanti ha i capelli sciolti sul vestitino bianco. Una espressione di indefinita tristezza traspare nella luminescenza celeste degli occhi. A turno una ad una, si chinano per spiare dal buco della serratura. Con movimenti aggraziati e regolari, con ordine, tutte ripetono questa specie di gioco. Come un cerimoniale che ben presto si svolge in un crescendo di meraviglia mista a paura, tanto da indurmi a chiedere: “Che cosa fanno là dentro?” Rossa per l’eccitazione la biondina si volta di scatto compiendo gesti rapidi per ottenere il silenzio. Poi spalancando gli occhi, a voce bassissima scandisce piano: “L’a-mo-re...” Intanto, dall’altra parte dell’argine è sorta la luna. ***** Lasciato quel posto, con alle spalle il senso di malsano che lo permeava, attraverso il ponte e studio la possibilità di entrare nel mulino. Dall’unica finestra accessibile vedo un intrico di imbuti, di tortiglioni. Tutti i congegni di ferro appaiono inchiodati dalla ruggine di una immobilità secolare. La luce gialliccia filtra dai vetri sudici. Le sagome nerastre dai contorni bizzarri si prestano a sconcertanti paragoni. In quest’ora del crepuscolo, un tocco di surrealtà si libra nella stanza polverosa. Il giorno seguente sono ancora qui. Un sesto senso mi dice di cercare l’imbocco della galleria all’interno del mulino. Dall’alto dell’argine guardo che non ci sia nessuno in vista. Poi spezzo il filo di ferro che tiene unita un’anta ed entro dalla finestra. Alla luce del sole tutto sembra diverso. Un profumo di stantio inquinato da un leggero odore di acqua marcia impregna l’ambiente. Attraverso sale con pulegge sistemate là in alto sotto il soffitto, dalle quali partono cinghie che scendono e che salgono. Mi aggiro fra una infinità di tramogge, di cassoni, vasi di vetro, misteriose finestrelle. Dalla mia ispezione resta esclusa solo l’ala sud, che probabilmente comprende gli uffici o i magazzini e non è accessibile. Tutto impolverato esco fuori e vado nel giardino dietro la canonica dove ci sono delle antiche prese per l’acqua con l’iscrizione: “Andate alla fontana a bere e a lavarvi 25 Febbraio 1858” Sto per lasciare il paese quando scopro “il quadrante universale dei meridiani terrestri”. É sistemato sul lato sud della chiesa e occupa buona parte della parete. Fatto incidere da un navigante, segna le ore in tutte le parti del mondo, dà indicazioni sulle maree, la direzione dei venti, il moto dei pianeti. Tutte le iscrizioni che lo contornano sono in gotico, e dall’insieme traspare la perfezione del capolavoro. Segmenti neri su sfondo bianco, curve a otto, angoli inclinati per creare l’ombra, dischi forati per il raggio di luce, tutto su una miriade di nomi che convergono sull’asse mediano dove è situato Zimel. Non smetterei più di guardarlo. “Ingegnoso, vero?” mi chiede un vecchietto apparso all’angolo della chiesa. Resto a conversare con lui, perché conosce tutta la storia del paese, pur non essendovi nato. In gioventù abitava a Vielle, e pure lui ha cercato l’oro della leggenda. Egli conosceva un uomo che di sicuro era riuscito a trovare la galleria. Quest’uomo si chiama Crispin e fa il sacrestano a Prexan. La stessa sera raggiungiamo questa frazione che vedo per la prima volta. É scesa la nebbia. Una chiesa nuova è sorta di recente in sostituzione della vecchia, ora chiusa al culto. Mi dirigo verso questo edificio, situato in fondo alla strada. Una mole imponente quadrata di mattoni e cubi di pietra. Girandole attorno e passando nell’umidità del bosco, dà un’impressione di enormità questa massa nera, piena di rigonfiamenti e qua e là rovinata dai crolli. Risalendo dalla parte opposta si vede il campanile, con l’orologio a numeri romani. Un uomo si dirige di corsa verso la porticina. Lo chiamo a voce alta: “Crispin. Siete voi Crispin?” L’uomo si volta: “Venite, venite!” e scompare dentro il campanile. Lo raggiungo assieme a Tom. “Tirate!” ordina indicando le funi. Le vecchie campane rimbombano soverchiando le nostre parole. “Vedete quello stemma che raffigura uno stivale?” grida. “Qui c’erano le paludi. L’acqua arrivava fin là”. Poi in una pausa mette la testa fuori: “Vedete quegli uomini lassù?” Sono quattordici omini scolpiti nella pietra della parete esterna. “Sono gli oblatori. E riuscite a vedere l’altro ancora più in su? É il capomastro”. Detto questo ci fa cenno di smettere, quindi usciamo e lui rinchiude la porta. Ha il passo svelto nonostante l’età. Gli tengo dietro e finalmente mi riesce di fargli capire cosa voglio da lui. Con frasi corte mi parla di un rabdomante. Quest’uomo era entrato in uno sbocco per l’acqua lungo il fiume e aveva scoperto che il paese era crivellato da un intrico di gallerie. Una di queste comunicava con il tombino in un punto dove la parete era crollata. ***** Da questo momento, il mio rapporto con la ragazza assume forme di profonda e inaspettata complessità. La sua psicologia si intorbidisce dal momento stesso che si cela. É una passione dell’anima adesso, si carica di risvolti oscuri, diviene peccato. Mirta fa il primo passo. Sento che ha deciso di rompere, se mai c’era qualcosa da rompere, e fa di tutto per evitare di incontrarmi. Quando questo accade lei non parla. Ha paura, ma poiché adesso sono io che scopertamente insisto nel cercarla, l’affranco da eventuali punizioni e assumo su di me tutta la responsabilità. Lei ha obbedito, e giudica folle il mio comportamento perché sa che questa mia sfida al paese finirà per perdermi. Così, ora che si sente al sicuro può permettersi una condotta più informale. Più ambigua direi: infatti, che cosa significano quei suoi sguardi di profonda tristezza che sempre mi accompagnano quando la lascio sola? Eppure non mi guarda se le sono vicino, non risponde alle mie parole. Ma immancabilmente, se mi volto dopo che mi sono allontanato, lei è là, esile, bruna, con i neri occhi che non si staccano dai miei e quasi chiedono perdono. Passano i giorni, e Mirta riprende a parlare, con monosillabi dapprima, poi ostenta una gentilezza diversa da quella a cui ero abituato. Il paese si stringe intorno a noi, con i suoi divieti, e Mirta ha deciso di approfittare di questa mia amicizia prima che veniamo separati. É una trovata ingenua la sua e forse prova rimorso. Ecco perché lascia che sia la sorella minore a parlare: “Sai cosa desidera mia sorella? Una gonna blu”. “É così Mirta?” Lei fa un cenno affermativo. Le prometto di portargliela dopodiché vado via. Da questo momento sento di averla perduta. L’indomani sono di nuovo a Vielle. Almeno mi resterà la consolazione di non aver mancato di parola. Mirta è davanti casa con la sorella. Forse prova vergogna e non risponde al mio richiamo, anzi mi volta le spalle e rientra in casa. Io, per toglierla dall’imbarazzo consegno all’altra il pacco. ***** “Il conte Cipriano di Serego fu celebre et chiaro nella milizia e di generosità et magnificenza tali ch’egli diede ricetto nelle sue stanze alla Fossa, non pure a duchi di Rovere et ad altri gran principi per passaggio tenendoli per molti et molti giorni con gran splendore, ma a Carlo V imperatore et alla sua corte piena di molti signori, con tanto ammirabile et sontuoso trattenimento, et con tanta abbondanza di elettissime et esquisite vivande et apparecchi, che Carlo restato stupito hebbe a dire che da pochi o da nessuno altro principe era stato così regalmente trattato. Franciscus Sansovino della origine et de fatti delle famiglie illustri in Veniero presso Altobello salicato MDLXXXII a carte 339.” “I nobili marassi valvassori nella marca Trevigiana conti del Sacro Romano Impero e di Serego, del loro antico castello che qui sorgeva, collegato per via sotterranea cogli altri di Mieg, di Korian, di Anson, fecero nell’epoca del rinascimento, celebrato ritrovo di cacce fastose, di cavalleresche letterarie artistiche conversazioni. Nel 1500 l’imperatore Massimiliano I vi fu ricevuto dal conte Cipriano colla moglie Massimilla Martinengo. Carlo V ospite del conte Cipriano e di Camilla Visconti Borromeo vi soggiornò dal 4 ai 15 Novembre 1532. Il castello poi per vetustà cadente fu in parte trasformato ad uso rurale su disegno di Pandolfo da Veniero dei 23 Agosto 1564 in parte rifatto ad abitazione moderna nel 1775.” Tiro il campanello alla porta situata in mezzo alle due lapidi con iscrizioni, e a una cameriera anziana chiedo di vedere il conte. Eccomi solo in un salone cupo, mentre lei è andata ad annunciarmi a Sua Signoria. Il soffitto altissimo è affrescato con scene d’amore e di caccia che si inseguono fin nelle ombre scure della loggia, lassù in alto. Un passato denso di avvenimenti grava nell’aria. Ogni angolo, ogni crepa del muro partecipa di un mondo estinto che qui ancora sopravvive. Fantasmi passano, bisbiglii, accenni a storie di sangue il cui ricordo perdura tuttora. Le due campane poggiate a terra, le ruote di cannone, i pugnali. Perfino i muti testimoni hanno finito per assorbire col tempo le vibrazioni di cui è saturo l’ambiente, questa luce sporca offuscata, e anch’essa vecchia. Un maggiordomo in livrea arriva strascicando. Lo seguo su per lo scalone e poi in corridoi lungo vetrate a piombo fin nello studio del Conte. Un’accoglienza calorosa mi attende, un nobile molto avanti negli anni, con una foltissima chioma di capelli lunghi e in disordine tutti completamente bianchi. La fronte alta da studioso, le mani che tremano in continuazione, il vestito completamente nero. Dalle carte appese alle pareti con i segni dello zodiaco e le loro corrispondenze con le pietre, i metalli, il corpo umano, comprendo quali sono gli studi e gli interessi del Conte: Astrologia e Occultismo. Ci sono segni cabalistici, figure allegoriche dell’alchimia, pentacoli, tabelle con impronte di mani. Alle sue spalle scaffali sovraccarichi di libri e bellissime tavole rinascimentali di rose geomantiche. Una sfera armillare. Sulla scrivania, un sestante e un compasso. “L’armonia è l’elemento risultante dalla interazione delle parti che formano il tutto”, spiega, “e il suo studio si chiama magia. É... la comprensione di una sintesi, la visione delle linee che uniscono gli antagonisti nel gioco dell’alterna preponderanza, l’unità degli estremi, il dinamismo di un ciclo”. Quando espongo i motivi che mi hanno portato qui, il mio interessamento alla storia del paese, alle sue leggende, si mostra piacevolmente sorpreso e mi fa strada verso la biblioteca. Alcuni gradini immettono in una galleria di quadri. Vedo ritratti di cavalieri e dame che hanno vissuto intensamente. É tutto quello che rimane di passioni, amori, odio e bellezze ormai finite. ***** Finirò per ammuffire anch’io fra questi vecchi libri e documenti. Seguitando a sfogliare carte e leggere storia rischio di perdere la nozione del tempo presente. O forse sarà l’ambiente, la biblioteca, dalle cui bifore nelle lente ore pomeridiane vedo le torri, oltre l’intrico dei doccioni grotteschi. Non so più neanche io da quanti giorni vengo qui. Il Conte è un vero gentiluomo: la sua larghezza di vedute e la schiettezza nel dire le cose lo rendono malvisto dai rozzi abitanti di Vielle. Purtroppo la sua salute non è più quella di un tempo e anzi va peggiorando. I malanni intaccano il suo corpo e piegano lo spirito che si rassegna alle avversità perché gli manca la forza di combatterle. I ricevimenti sfarzosi, la caccia, i viaggi, fanno parte dei suoi ricordi di gioventù, dei quali egli ama parlare volentieri. Ora il suo tempo lo trascorre in biblioteca e nell’arcaico laboratorio, dove fra storte ed alambicchi si sforza di ottenere ciò che Paracelso chiama “La magnesia dei filosofi”. Il paese in questi tempi affonda nell’odio e nella gretta cupidigia. Ma non è stato sempre così. Notizie storiche fanno risalire la sua origine in tempi anteriori all’occupazione romana avvenuta nell’89 a.C.. Da cronache medievali si apprende che, dopo sanguinarie rivalità fra feudi Vielle, imposta la supremazia, raggiunse l’apogeo del suo splendore nei secoli compresi fra il 1200 e il 1500. Segue un periodo di fervore durante il quale gli intelletti più acuti convergono al castello da ogni parte attirati dai favori del Conte Cipriano. Maghi e ciarlatani praticano l’alchimia. Negromanti, eresiarchi scampati ai roghi della chiesa trovano rifugio in questa roccaforte delle scienze esoteriche. Narrazioni di fatti straordinari, accaduti durante questo periodo, sono innumerevoli. A partire dalla diffusione della pestilenza del 1630 il paese si avvia verso una lenta decadenza. Lo scoppio della guerra di successione della Polonia del 1733, le invasioni napoleoniche del 1797, tutto influisce negativamente sulle sorti della zona. Il prosciugamento degli acquitrini, lo sviluppo a iniziativa dei frati Umiliati della lavorazione della lana e il mercato dei bozzoli segnano gli ultimi avvenimenti o tentativi di risollevamento da una stasi dovuta all’avvento dei tempi nuovi. Il silenzio è opprimente nella stanza. L’odore della carta ammuffita è così intenso che a volte mi sembra di svenire. Dalle bifore guardo il crepuscolo stendersi sul paese in fasce di luce grigia. Ma nella piatta immobilità di tutte le sere c’è qualcosa di diverso questa volta, come una specie di agitazione di ombre che il vento scompiglia. Non sono ombre. Sono uomini. Procedono strisciando lungo i muri e attraversano i crocicchi di corsa. ***** Giorno di sole a Vielle. Dopo averla cercata inutilmente per tutto il paese la scorgo da lontano sulla strada dritta che porta a St. Gregory. Non sono sicuro che sia lei e inoltre non è sola ma in compagnia di altre due ragazze. Quando le sono accanto ho il cuore che mi scoppia per la corsa appena compiuta. Lei tace. Pare sorpresa, smarrita. Forse ha paura che le rimproveri la sua ingratitudine, teme che mi senta in diritto di chiedere, di essere ricambiato adesso. Per farle comprendere che io non pretendo nulla da lei, le ho portato un secondo dono. Lei rifiuta di accettarlo e io allora lo consegno alla sorella. Il sorriso di Mirta va oltre le parole ed esprime tutte le vibrazioni della sua anima. É bella. Il lungo filo di perle segue la linea flessuosa dei seni sotto la maglia bianca. Da questo momento, so di averla al mio fianco, guida e complice in questo amore furtivo. Si preoccupa di me adesso, mi dice di non portarle niente, mi assicura di non aver bisogno di nulla. Le altre ragazze, passato lo stupore del primo momento, vanno a raccogliere fiori sulla riva inclinata del fiume. La giornata è una girandola di luminosi incanti, di sorrisi, di profondi occhi neri e sospiri. Sulla via del ritorno poi, Mirta adotta mille precauzioni per evitare di passare davanti ad alcune case, mi guida in un dedalo di vicoli e mi insegna scorciatoie attraverso cortili abbandonati. É guardinga, circospetta, ma appare molto sicura. É una specie di cerimoniale questo inoltrarsi nelle viscere segrete del paese. Qui i suoi vizi, le sue passioni, trapelano dai muri di mattone crudo, le sue debolezze si riversano dalle basse finestre insieme a un odore di vaga umidità. Cortili bui, cucine fredde e squallide, testimoniano l’esistenza di una vita segreta, a parte, da cui ci sentiamo completamente esclusi. Ogni tanto, lassù, sotto le grondaie sfondate, arde un lumino davanti a una immagine sacra sbiadita dalle intemperie. Più avanti si intravede una croce in ferro traforata, fra i comignoli in bilico. La minuscola chiesetta sempre aperta ci accoglie. Odore di cera sfatta nell’aria fredda dell’interno. Il pavimento di mattoni è bagnato per la pioggia entrata dalla porta e dai vetri rotti dei finestroni. Il soffitto è celeste. Mirta si sofferma davanti all’altare dove sta una madonna di legno attorniata da quadretti romboidali e stampelle che testimoniano le grazie ricevute. É uno spettacolo d’altri tempi, lo sento, pure rimango impressionato da quei pezzi di legno consunti e dal loro muto messaggio di sofferenza. Tornati all’aperto ci dividiamo per un breve tratto di strada per evitare di passare insieme davanti a certe case, poi più avanti la ritrovo ancora accanto a me. Quando la piazza appare all’improvviso, sento di aver imparato qualcosa lasciandomi alle spalle quei vicoli tetri perché ora mi sembra di conoscere quel sudiciume e di esserne immune, ma forse è la presenza di Mirta a infondermi questa sicurezza. ***** Si può mentire dicendo la verità, si può dire il vero mentendo. Nei giorni trascorsi insieme a Mirta, le parole si allineavano in discorsi dietro ai quali la nostra sensibilità acuita di amanti percepiva il dialogo meraviglioso dei sentimenti. Da anima ad anima. Senza intermediari. Senza o quasi, perché gesti, sospiri, sorrisi, sguardi si prestavano a infinite possibilità e ricorrevano con i significati più contraddittori. Li distinguevo tutti perfettamente. Ogni suo “no” assumeva di volta in volta il significato di sì, forse, no per paura, per costrizione, per evitare di venir sorpresi insieme, per rimandare in futuro o per negare definitivamente. Azioni ne nascondevano altre per cercare risposte celate dietro alle risposte. Come quando insisté per chiamare e trattenere con pretesti futili alcune sue amiche finché apprese dalla mia mancanza di attenzioni che non mi interessava conoscerle. In questo stato di sensibilità che sfiora la veggenza questa notte ho fatto un sogno: Una donna vestita di nero divisa da me da un abisso, afferma di essere sua madre. “Dov’è Mirta?” chiedo nel sogno. “All’ospedale”. “Perché?” “--- sinistra...” “Dove?” “... a sinistra...” Non sento più nulla. Il risveglio mi getta in una sofferenza indicibile. Anche se sono convinto che il sogno realizza semplicemente un desiderio insoddisfatto, questa volta non dubito che si tratta di qualcosa di diverso. Intanto passano i giorni e Mirta non ricompare a Vielle. Otto giorni sono trascorsi e Mirta non è ancora ritornata. Il nono, lo trascorro interamente a cercare qualcuna delle sue sorelle per sapere qualcosa. É un giorno grigio. Sta per piovere. Ad un tratto riconosco il fratellino che gioca con uno scatolone sulla riva del fiume. L’emozione mi impedisce quasi di sentire cosa risponde il bambino alle mie domande. “Dov’è, dov’è Mirta?...” Egli parla male e in fretta per cui riesco a capire solo poche parole dei suoi discorsi, fra le quali “... andata all’ospedale...” Dopo averglielo fatto ripetere molte volte riesco a comprendere la località Goodfaces, 40 chilometri più a nord. Ma non riesco a capire di cosa soffre sua sorella. Forse non lo sa nemmeno lui. Parto immediatamente assieme a Tom che mi accompagna di mala voglia questa volta. Non conosco le strade, perciò perdo del tempo a chiedere la via da seguire ai passanti di St. Stephen e dei paesi successivi. Piove. Le gocce rigano il cristallo dapprima lentamente come lacrime, poi sempre più rapide, più grosse, e si scatena un acquazzone. Strade dritte. La pioggia diminuisce la visibilità così che i luoghi non familiari paiono ancora più estranei. Finalmente, all’arrivo ho la fortuna di rintracciare l’ospedale abbastanza in fretta. É un edificio squallido, dalle lunghe vetrate sudicie e ingrigite. Persone vanno e vengono nell’atrio. Un portiere mi sbarra la strada proprio all’ingresso. “Cerco Mirta Finner di anni quindici”. “Di dov’è?” “Di Vielle” “Che cosa ha?” “Non so bene... io...” “É partita”, afferma con tono glaciale, “già andata a casa”. “Ma non è possibile, è qui lo so, è ancora qui all’ospedale...” grido “Terzo piano corsia di sinistra, ma fate presto perché l’orario delle visite sta per scadere”. Le scale, una rampa, una seconda. Un cartello bianco in alto sul quale spicca la parola I Piano. Salgo ancora. Ho un lieve capogiro, le persone con il pigiama celeste che stanno a guardarmi, per un attimo le vedo come attraverso una lastra di vetro ondulato. Al terzo piano un lungo corridoio fino alla biforcazione Uomini-Donne. Svolto a sinistra: stanze, stanze, aperte, chiuse. Di sfuggita colgo le espressioni dei volti all’interno. Donne vecchie, giovani, tristi, assonnate, bocche che ridono, che piangono, che mangiano... Il corridoio sta per finire, ancora due o tre camerate. Improvvisamente sull’ultimo letto della numero ventotto, Mirta. ***** Un guizzo flessuoso di chiaroscuri, sullo sfondo delle vetrate. Seminuda, al mio apparire si è infilata di scatto sotto le coperte e rimane immobile a guardarmi. Appare più pallida, l’ambra della sua pelle raggiunge un tocco di perfezione ineffabile con un baby-doll nero a fiori rossi. Mi avvicino. Ha delle fasciature alle braccia, alle gambe ed ecchimosi. Le domando cosa è successo. Lei sorride dicendo di essere caduta e di essersi fatta male da sola. Insisto per conoscere i particolari, voglio sapere se qualcuno le ha fatto del male. Scuote il capo: “No, no, la colpa è soltanto mia.” Mi sforzo di rincuorarla. Lei sorride ancora. Sento che mi è grata per quello che faccio, sento di amarla con tutta l’anima. Poi mi chiede notizie di Vielle e mi ascolta quando le racconto le peripezie che ho fatto per rintracciarla. É convinta di guarire presto. Sembra serena ed ottimista ma ciò potrebbe derivare da una accorata rassegnazione. Le chiedo se ha provato dolore e lei mi assicura di no. Rimango a farle compagnia e intanto metto sul suo comodino un piccolo dono. Martedì, forse, la lasceranno tornare a casa. ***** “Che cos’è?” Il vecchio conte solleva lo sguardo dal foglio diviso in caselle: “É una scienza araba”, risponde, “come l’algebra e l’alchimia”. Alla mia richiesta per sapere qualcosa sul futuro di Mirta e del mio amore per lei, si era rilassato nella poltrona fino a cadere in una specie di trance, e in quello stato aveva tracciato alcune serie di punti. Adesso, al risveglio dal breve sonno ipnotico, compie dei calcoli e costruisce delle figure strane fatte di cerchietti, da inserire nelle caselle. Quando il tema dell’oracolo è completamente ricavato, passa alla sua interpretazione sottoforma di commenti ai simboli. “Amissio occupa la prima casa, quella dell’individualità. É il Solve degli alchimisti, il contrario del Coagula. Tutto ciò che è causa di espansione, altruismo o impoverimento. Le forze che dominano il rischio e il gioco. Populus, in casa due sono le acquisizioni, molteplici, eterogenee e prese dalla vita stessa. Cauda Draconis è propriamente la natura disgregatrice e ingannevole della maggior parte dei suoi rapporti con l’ambiente. Carcer in quattro: la famiglia, il peso opprimente dell’ereditarietà. Un mondo chiuso, senza vie d’uscita. La grazia e la dolcezza dell’amore che la ragazza prova verso di lei è dato da Puella in quinta. Ma Amissio migra in settima e in nona la quale è anche la casa della questione. É l’insuccesso quest’ultimo celato in fondo alle sue aspirazioni più alte. Cosa questa che non le impedirà di realizzarsi materialmente nella vita, nonostante la partenza handicappata, perché il dieci è la sua parte di fortuna e contiene Caput Draconis. Per far ciò dovrà contare solo su di sé. Carcer in undici nega i favori di eventuali amici o protettori e Puella in dodici rivela un destino, inteso come complesso di forze esterne, di causalità, abbastanza favorevole...” Fa una pausa, nella quale la sua attenzione si sposta sulle figure in fondo al foglio che mi indica con la punta della penna: “Sono i due testimoni” lo sento dire. “In Puer, quello di destra risalta il carattere forte della ragazza e la capacità di superare gli ostacoli che pone Albus, la sua sorte avversa, il testimone di sinistra...” Un’altra pausa. É arrivato adesso proprio all’ultima figura composta di quattro cerchietti disposti verticalmente. “Questa è la Via, la negazione della riuscita. Terribile in qualità di giudice. Significa il distacco, il fallimento, e mette nel vostro amore l’interminabile lentezza, l’instabilità. Due amanti la percorrono a partire dalle estremità, ma non arriveranno mai ad incontrarsi, perché la lunghezza della via è senza fine...” “E dopo?” chiedo. “L’esito della questione è tutto qui. Si può ancora ottenere un’altra figura, il subjudex. Ecco Acquisitio, ma ha scarso valore. Si riferisce alla ricchezza spirituale, nel tempo, che risulta da una sconfitta. ***** Ci sono i fiori di carta e le tendine davanti alle cappellette. Sulla strada che porta a te, la luce sbianca le immagini, allontanandole. Una bambina senza sorriso mi guarda. Visioni passano nell’alito caldo dei glicini, mentre corro per raggiungerti sulla via dritta che porta a St. Gregory. “Mirta” sospiro. É vestita tutta di bianco. Alle mie parole il suo morbido profilo si dissolve nella notte degli occhi. Io non so più nulla, io vivo in un sogno. La sorella e l’amica che l’accompagnavano si fanno da parte per lasciarci soli. La bellezza discende intorno a noi. Nel silenzio di quegli spazi riverberanti di sole il nostro idillio furtivo intreccia sensazioni incomparabili. Provo piacere ma anche tanta paura. Per questo sulla via del ritorno, sono costretto a lasciarla proprio all’inizio del paese, per evitare di mostrarci assieme. Da solo attraverso i giardini della piazza per raggiungere i tigli, il luogo del nostro appuntamento. Cammino con la voglia di rivederla, di riprendere al più presto l’idillio interrotto. Nell’euforia dell’eccitazione vado a urtare contro un tizio sbucato all’improvviso e che non avevo visto. Gli chiedo scusa e faccio per proseguire, ma non è così semplice liberarsi di lui. L’uomo scende borbottando dalla bicicletta. Capisco subito di trovarmi di fronte a un nemico. É alto, veste di scuro e ha i capelli ondulati e impomatati tirati all’indietro. La sua voce è piena di disprezzo e di odio. Nel tentativo di prender tempo per comprendere la situazione nuova mi sforzo di sorridere. “Le rifaccio le mie scuse, io non l’avevo visto...” “No! No! Non - rida quando parla con me”. Ha i movimenti lenti e un lieve difetto di pronuncia come una specie di balbuzie che lo obbliga a delle pause fra una parola e l’altra. I pochi oziosi seduti davanti alla caffetteria fingono di non vedere. “Come vede non è successo niente, e inoltre non ho tempo da perdere” gli ripeto. Adesso l’uomo incomincia a inveire con il braccio alzato e la voce roca. Quando prevedo che sta per aggredirmi mi scosto di lato e mi sento afferrare per un lembo della camicia. Con uno scatto mi lancio dentro ai giardini e proseguo di corsa verso la riva sinistra del fiume. Raggiungo l’intrico dei vicoli nel cuore di Vielle e lì rallento l’andatura. Provo un senso di perplessità quando mi accorgo di non essere inseguito. Penso a quanto è successo e tutto mi sembra così assurdo. Guardo lo strappo sulla camicia e il lembo di stoffa mancante. Che cosa ne farà adesso? Con i sensi all’erta, simulando calma e indifferenza mi inoltro a casaccio in quel senso di pace, di decrepita vecchiezza. Ancora i cortili putridi, le case basse che paiono abbandonate, i lumini a olio e i santi. ***** Ho fatto male a scappare. L’avvenimento unito a quel mio aggirarmi senza scopo nei vicoli si è distorto in una luce cupa agli occhi di coloro che mi hanno visto. Adesso cerco inutilmente Mirta. Incontro sguardi cattivi di ubriachi, persone che danno ribrezzo per la bruttezza dei loro lineamenti. La presenza dei subnormali deve essere superiore alla media in questo piccolo paese. Forse dipenderà dalla sua posizione geografica, oppure la lontananza con altri centri può aver spinto i suoi abitanti, in passato a contrarre matrimoni fra parenti favorendo così le tare ereditarie. C’è un uomo di nome Richard che incontro dappertutto. É ributtante per la sua magrezza fisica e i movimenti legnosi. Una volta l’ho sentito anche parlare. La sua voce assomiglia a una specie di grido perché non riesce ad articolare bene le parole. Poi c’è un individuo grasso con i capelli lunghi. É un abietto frequentatore dell’osteria, una specie di stretta cantina situata vicino alla casa dove abita la ragazza. Tutte le volte che ci vado lui è sempre là, in fondo, e smette di parlare quando entro e mi fissa a bocca semiaperta con una espressione ambigua. Non meno losco un tipo piccolo e tarchiato con gli occhi stretti e i modi sornioni. A volte mi sorride a volte mi fa dei gesti che non comprendo, da lontano, e muove la testa. ***** Soffro. Soffro terribilmente. Per gli abitanti che escono fin sulla porta di casa quando passo da solo, che ci dividono con i loro sguardi. Per i sorrisi biechi delle vecchie comari, per tutta questa marea di fango che sento premere intorno. Ieri, una voce alle mie spalle mi ha gridato di andarmene. Adesso il paese mi appare ancora più serrato, più stretto nei suoi propositi di minaccia. Vi circolano calunnie, voci che raccontano mostruosità sul mio conto. Lo so. Sento i rigurgiti di un odio che diventa ogni minuto più feroce. Questa solitudine mi farà impazzire. A volte mi ribello, ma anche questo è diventato inutile. É come colpire con i pugni una gomma elastica che si ritira da una parte e ti circonda più stretta dall’altra. Non vedo più Mirta. I miei reumatismi si fanno sentire più forti e certi giorni resto chiuso in casa. Per far tacere un poco i pettegolezzi infami, sono stato costretto a rinunciare anche alle mie visite ad Albert. Adesso stanno covando l’idea che io frequenti il vecchio conte per derubarlo e per approfittare delle sue ricchezze. É inaudito come queste fandonie trovino presa sulle menti e si diffondano aumentando il rancore verso di me. Comincio ad aver paura a frequentare il paese anche di giorno. L’inquietudine serpeggia per le strade, mi attanaglia. Tutti questi sguardi, questi atteggiamenti alla derisione, tendono ad espellermi. É una congiura. Vogliono che me ne vada. Ma non lo farò. ***** Un altro cambiamento. Ho cominciato a frequentare di nuovo il paese e tutti sembrano ignorarmi. Un paio di volte ho rivisto Mirta. Mi limito a guardarla da lontano, per ora e anche lei mi guarda. Sento che un giorno o l’altro le parlerò. In fondo non è successo niente. Il paese sembra svuotato. Un paese di morti, di larve. Gli sguardi di Mirta si fanno sempre più lunghi e nostalgici, degli accorati richiami che non posso più ignorare. Oggi ho tentato di avvicinarla. Le ho chiesto di perdonarmi se le ho procurato qualche guaio. Nessuna risposta. Poi sono passato ad altri argomenti, più frivoli, e lei ha ripreso a parlare con il tono che le è usuale. Ma all’improvviso, come se avesse fiutato il pericolo passando davanti a una certa casa, mi ha gridato: “Che cosa vuoi da me, vai via, vai via”. Gli occhi. I suoi splendidi occhi non esprimevano collera, ma angoscia, paura. Mentre mi allontanavo, la sorella rimasta più indietro mi sorrideva come per rassicurarmi che quelle parole non erano destinate a me, ma a coloro che ascoltano; che non dovevo prestarci fede perché era tutta una commedia... Una commedia. Anche oggi vicino alla legnaia, in presenza di un’amica Mirta ha assunto un tono formale e annoiato che contrasta con la luce passionale degli occhi, con i tratti del viso. C’è un divario tra il significato delle parole e la sua maniera di pronunziarle, fra i suoi discorsi che dividono e il suo comportamento che attira e incoraggia. Fin quando durerà? Nel pomeriggio per evitare di attraversare la piazza ho preso la via dei campi. Il paese, visto da fuori appare chiuso, serrato. Una striscia di sagome basse e contorte strette sotto le mura merlate del castello. ***** CAPITOLO TERZO Il gorgoglio di un veleno versato in una coppa di puro cristallo, al chiaro di luna. Frank Graegorius Mi sembra che sia passato tanto tempo. Le sere sono più tiepide. Tutte queste sporgenze dei muri, gli anfratti nerastri, i contorni dentellati, gli stemmi araldici sono diventati compagni inaspettatamente piacevoli. É accaduto qualcosa. Le antiche pietre si animano al crepuscolo, ed è sempre più facile sorprendere i loro sussurri e palpiti. Dentro le mura merlate di mattoni cotti circolano fremiti. Un segreto intimo è sul punto di venir rivelato nel mistero di una notte di primavera. Tutto assomiglia sempre più a un sogno. Mirta mi evita, mi cerca, mi chiama, mi respinge... Gli avventori alla locanda tornano a ripetersi vecchie storie. Le ascolto, nel silenzio della sera, li ascolto, e sento il loro odio rinfocolarsi contro il conte e gli antichi privilegi. É un odio forsennato, che macera le coscienze da più generazioni. Non avrebbe più ragione di esistere questa forza negativa prodotta dalle menti che contamina e inebria nella sofferenza. Il conte è malato di enfisema polmonare e prossimo a morire. I suoi accessi convulsi di tosse asmatica sono la causa di crisi nelle quali rischia sempre più spesso di rimanere soffocato. L’ultima volta che mi sono incontrato con lui, l’ho visto piangere e ho provato un profondo senso di pietà per quell’uomo solo, senza aiuti e privo della consolazione di un affetto. Il suo stato suscita commiserazione. Ma essi seguitano ad odiare e la forza del loro odio li distruggerà. ***** É una sera strana, silenziosa. Il vento si insinua fra le vecchie case, mette in fuga i fantasmi. I coni girevoli posti sulla sommità dei comignoli stridono in maniera lamentosa. La nebbia leggera che sale dal fiume. Un uomo che accende la pipa sulla soglia di casa. Il vento smuove e gonfia le tende alle finestre della villa. Tutto è buio. Sul tardo pomeriggio ero passato di qui ma non avevo potuto parlare con il conte. Il maggiordomo aveva ricevuto l’ordine di non disturbarlo. “Da più di tre ore sta chiuso là dentro” aveva asserito, e accostandosi a una finestrella mi aveva indicato una stanza oscura. Il conte era là, seduto, che fissava una boccia di vetro ripiena d’acqua, posta davanti ad una lampada ad alcool. Non sapevo cosa significava. Per questo sono tornato stasera e mi accorgo di una certa agitazione presente nelle facce dei domestici. É il conte in persona che mi viene incontro questa volta dal fondo del suo studio, con un largo sorriso. “Avanti, avanti! Bene, ha funzionato!” mi dice tendendomi la mano. La boccia di acqua è ancora sul tavolo, ma la lampada ad alcool è spenta. “Venga a vedere. Adesso che questo è qui, mi sento molto meglio”. E indica una bambola di cera deforme, recante strani segni sul dorso. “Raffigurano l’elevazione delle stelle nocive”, spiega. “Con la bottiglia di Cagliostro sono riuscito a visualizzare il luogo dove si trovava, una casa semiabbandonata, così ho mandato subito James a prenderla. Era appesa per i piedi dentro il camino, ed esposta all’azione del fumo”. É assurdo, questo paese annegato nella magia. Dei suoni secchi come di ferri che battono sul selciato si odono venire da fuori. Una lunga fila di fiammelle si distorce nei vetri ondulati della finestra. Alcuni uomini percorrono le vie in processione sorreggendo un trono dorato con una figura che traballa, nera, al di sopra delle loro teste. “Guardate! Che cosa accade?” chiedo. Il viso del conte si è fatto improvvisamente serio. “Sarà meglio che lei torni subito a casa”, mi esorta. “E stia attento a non farsi vedere... vanno al Sabba”. ***** Il vecchio James mi accompagna dabbasso borbottando. Guarda dallo spioncino, prima di aprire appena la porta per farmi passare, poi rinchiude rapidamente. Il rumore dei catenacci che vengono tirati si ode attutito alle mie spalle, dopodiché tutto è silenzio. Mentre sto appoggiato con le mani al legno rugoso, sono colto da una sensazione spiacevole, come un leggero brivido di paura. Forse ho fatto male ad uscire in strada. La maggior parte dei lampioni sono spenti. A malapena distinguo delle figure immobili sparse davanti alla villa. Muovo qualche passo in direzione della piazza. Anche le ombre si spostano allora, e tendono a raggrupparsi fino a formare un largo semicerchio. Ma cosa vogliono, penso fermandomi a guardarle. Adesso, così serrate si avvicinano. Non c’è un minuto da perdere. Prima di venir circondato, ammesso che sia stata questa la loro intenzione, mi lancio in una corsa folle a zig zag per le vie. Vicino alla locanda scavalco con un balzo un muro di cinta, basso ma con la sommità cosparsa con cocci di vetro, e attraverso orti bui raggiungo finalmente la riva del fiume. Di qui sarà facile, deviando poi attraverso i campi, raggiungere la casa dello zio. L’abbaiare rabbioso dei cani nei cortili va pian piano affievolendosi. Solo qualcuno seguita a ululare in lontananza. La superficie immota dell’acqua ha una lucidità ferrigna. La luna si alza nel cielo diventando da rossa a bianca. É una notte densa, afosa. La rugiada dell’erba ha reso fradici i miei pantaloni e sento la camicia diventare appiccicosa per il sudore e la gran umidità. Il senso di oppressione è accresciuto dal frinire dei grilli e dal gracidare intervallato delle rane. Lievi tonfi nell’acqua precedono il mio passaggio. Fruscii. La scia luminosa di qualche lucciola vagabonda nella notte. Anche il miagolìo lamentoso di un gatto in amore si fa sentire adesso. Il richiamo davanti a me ha accenti tristi, quasi umani. É proprio in prossimità della foce del tombino che scarica i liquami delle fogne di Vielle. Una figuretta esile si alza in piedi. Nella coltre ovattata di pace, la sento piangere. Il suo volto è in ombra, perché la luna è alle sue spalle. Poi, sempre piangendo sommessamente, mi corre incontro e mi abbraccia. “Mirta!” grido. Mentre stordito dalla sorpresa la stringo sul mio petto, sento che tenta di dirmi qualcosa fra i singhiozzi: “...Mark... Mark... É... stato Mark...” La sua voce rotta dall’emozione spalanca nel mio essere un gran senso di pietà, ma nell’udire quel nome sento i miei nervi irrigidirsi per fremiti di rabbia sorda e la mia coscienza oscurarsi per i rigurgiti di un odio feroce, verso Mark e verso tutto il paese. Mi sforzo di rincuorarla, dicendole che adesso non è più sola e può contare su di me. Insisto per sapere cosa è accaduto e lei in silenzio mi prende per mano e mi attira verso il tombino. Si infila per prima chinandosi molto ed io la seguo. Cammina lentamente davanti a me; non piange più adesso. Attraverso una grata della strada la luce lunare crea un bizzarro disegno di sbieco verso il basso. Accendo un fiammifero, ma Mirta sembra vederci bene anche al buio. Dopo pochi metri mi fa cenno con il braccio di fermarmi ed io accendo un altro fiammifero. Sulla parete di destra il muro in un punto è crollato forse a causa delle infiltrazioni d’acqua e da qui proviene una corrente d’aria fredda e ammuffita. Mirta mi guarda, poi sempre senza parlare si infila dentro. La mia fiammella rischiara un tratto di galleria a volta di mattoni che si perde nel buio da ambo le parti. C’è un leggero dislivello e Mirta è già scesa lungo il cumulo di detriti ammucchiati in quel punto. Il mio salto sul pavimento sottostante provoca un rimbombo cupo che mi fa rabbrividire. Nel buio mi arriva l’odore della polvere che ho sollevato insieme all’odore di acqua putrida. ***** Camminiamo già da alcuni minuti. Proseguo alla cieca, sentendo il corpo di Mirta davanti a me e sfiorando il muro scabro alla mia destra. Talvolta mi fermo per accendere un fiammifero. Anche Mirta si ferma e il suo volto ha una espressione assente e muta. Il percorso risulta agevole data l’ampiezza della galleria. Poi sul soffitto compaiono delle grate e mi accorgo che il tunnel è finito e siamo passati in una vecchia cantina. File di bottiglie scure sono ammassate sulle scansie, fra polvere e ragnatele. Alcuni scalini sui quali strisciano le lumache, ci portano finalmente fuori, all’aperto, in un posto che mi sembra di riconoscere. Non ero mai stato nel vecchio parco dietro la villa abbandonata, di notte. Vallette allagate di nebbia. Un satiro in tufo che si masturba spiando le ninfe danzanti al chiar di luna. I tetti sconquassati di alcune costruzioni in rovina sotto la luna hanno riflessi celestognoli. Furtivamente ci muoviamo tra gli alberi fino a raggiungere una porticina semiaperta fra l’edera del muro di cinta: il cortile nero e squallido dietro la casa di Mirta. Un cespuglio di melagrane fradicio di umidità è accanto all’ingresso posteriore. Un ferro di cavallo è inchiodato sul battente. Salendo i gradini la ragazza mi fa cenno di evitare ogni rumore per non svegliare i fratellini che dormono all’ultimo piano. Entriamo. La luce rossiccia di un lume a olio non basta a fugare le ombre opprimenti. La mano di Mirta mi guida nel buio. Una scala. Dei gradini consunti, un corrimano lucido di ottone. Al ballatoio del piano superiore Mirta apre una porta. I cardini cigolano, le vecchie assi del pavimento hanno improvvisi schianti secchi che ci fanno sussultare. Una lampada a petrolio posata sul comodino rischiara una camera all’antica con la mobilia severa e l’alto letto. La luce della fiamma è bassa e si spande nella quiete silenziosa. Mirta mi guarda, ed io non comprendo. Poi la mia attenzione si sposta su alcune macchie del pavimento. Sangue. I frammenti insanguinati di una caraffa di vetro dall’altra parte del letto, e il corpo bianco di un uomo completamente nudo, con un coltello da cucina conficcato nella schiena. Non c’è un minuto da perdere. Come per una tacita intesa ci mettiamo subito al lavoro. Mentre la ragazza si preoccupa di pulire il coltello e far sparire le tracce di sangue io avvolgo il cadavere nella tela incerata. Agisco con sicurezza e fredda determinazione badando a non commettere errori. Non mi sembra di aver mai visto quest’uomo magro dai capelli ricci prima d’ora e non provo nessuna pietà per lui. Mirta è in pericolo. Tutto il lurido fango di Vielle sta per riversarsi su di lei. Nessuno in paese crederebbe alla sua innocenza, forse anche i genitori, se arrivassero in questo momento, non saprebbero vedere al di là delle apparenze. Dentro un sacco preso nella legnaia infiliamo il morto assieme ai suoi indumenti. Poi, insieme, passo dopo passo, scendiamo le scale, portandolo con noi giù fin nel cortile. E poi nel parco dove ci fermiamo ansimanti e sudati nel fresco della notte. Nessuno di noi ha pronunciato una parola durante tutto questo tempo. Nemmeno ora. Lo stridìo bieco di una civetta. I riflessi di zinco delle lance che sporgono dalle grondaie... ***** Nella galleria il tempo pare essersi fermato. Mi sembra di camminare da ore, e invece non ho ancora raggiunto la breccia che comunica con il tombino. Avanzo sempre più lentamente, tra festoni di ragnatele. Con una mano reggo la candela che mi ha dato Mirta prima di lasciarmi, e con l’altra trascino il sacco dietro di me in attesa di trovare un posto per nasconderlo. La testa mi fa male, i pensieri si susseguono caotici. Forse mi sono perduto; la galleria avrà delle biforcazioni che ho oltrepassato senza accorgermene finendo in un ramo sbagliato. Sì, è così, altrimenti a quest’ora avrei già raggiunto la breccia, ma non me la sento di tornare indietro e non mi resta che proseguire. Devo uscire da questo labirinto prima di aver consumato la candela. Il sacco è diventato pesantissimo e affonda sempre più nella melma. Proseguire in queste condizioni è impossibile, per questo decido di abbandonarlo in una buca con l’intenzione di tornare per seppellirlo. Procedo più veloce adesso, fra il rumore dei miei passi e il martellare secco del cuore. Squittii di topi in fuga là in fondo. I vecchi di Vielle lo sapevano che il sottosuolo è crivellato di gallerie. La mula con due sacchi d’oro... e gli uomini della scorta non ce l’avevano fatta ad uscire, in quella pazza leggenda... La galleria sfocia in un basso locale con le volte a crociera sorrette da pilastri. Sono sporco di ragnatele e con le scarpe infangate. Suppongo di trovarmi nei sotterranei del castello. Da qui partono altre gallerie buie. Ne scelgo una la quale dopo un breve percorso ritorna su se stessa. Al secondo tentativo trovo la scala che sale verso l’alto. Tiro un sospiro di sollievo. Oltrepasso una porta marcita e dopo alcuni ballatoi bui entro in un enorme salone con alte bifore rischiarate dalla luce fioca della luna. I miei passi sollevano echi che mi fanno rallentare. Mi avvicino alle inferriate per guardare fuori. Mi trovo nell’ala ovest e devo spostarmi più a destra dove vi sono numerose aperture. Percorro corridoi e attraverso altri saloni vuoti del castello. La tensione nervosa mi prende in una morsa lo stomaco dandomi un senso di nausea. Sono tutto sudato e provo brividi di freddo. A tratti mi pare di sentire un brusìo attutito provenire da qualche parte dell’esterno. Adesso sembra aumentare di intensità. Da una feritoia vedo lumi che oscillano e bagliori di fuoco laggiù in basso. Quando la prossima apertura mi permette di guardare di nuovo fuori, resto immobile, per uno spettacolo allucinante. Tutta la vita notturna di Vielle è radunata sotto le mura nord del castello, le uniche ricoperte di edera. Dal punto in cui mi trovo domino la scena sotto di me. Un calderone che bolle al centro di una spianata. Fumo, ossa di morti, gatti e bisce infilzati nei pali. Una celebrazione magica è in pieno svolgimento. La congrega, formata da un centinaio di persone, comprende forse tutti gli uomini e le donne di Vielle. Sento che sarò ucciso se si accorgono che li sto spiando. Vedo pelli di lupo, olle di terracotta piene di radici poste davanti a un altare pagano. Qualcuno grida e si contorce, poi fra le convulsioni emette un flusso di parole che appartengono a una lingua sconosciuta o è un fenomeno di glossolalia. Non posso restare qui. Il profumo acre dei turiboli giunge fino a me dandomi un senso di stordimento. Mentre mi allontano, odo grida lascive fra improvvisi scoppi di risate. Procedo nel buio adesso che ho consumato la candela e tutti i fiammiferi. Nella mia mente passano continuamente le immagini di tutti gli avvenimenti che ho vissuto stanotte. Cammino lungo i muri perimetrali senza inoltrarmi nelle sale dell’interno. Raggiungo un’ala devastata dai crolli. Il soffitto è sfondato e vedo il cielo notturno oltre i resti delle travature. Cammino su travi cadute e scavalco cumuli di macerie. Raggiungo una breccia in un punto più basso e da lì salto giù nell’erba, nel cortile del conte. Alcune finestre sono ancora illuminate alla villa. Nel timore che qualcuno possa scorgermi proseguo di corsa fino al cancello aperto e, in strada, finisco contro la bicicletta dell’arrotino che sta passando proprio in quel momento. Nella caduta mi sembra di vedere uno sguardo maligno nella sua faccia tonda che sorride al di sopra della mola. Sento il dorso delle mani bruciarmi per le escoriazioni. Forse vorrebbe aiutarmi, ma non lascio che si avvicini. Barcollando mi rimetto in piedi e riprendo la mia corsa per le strade sporche e deserte, nella luce grigiastra dell’alba. Arrivato a casa, mi aggrappo sfinito alla zucca appesa alla parete per bere, bere... ***** Le cornacchie sono venute ad abitare da noi. Le sento gracidare e dalla mia finestra le vedo sui rami dei salici oscillare nel vento. Quando mi affaccio il loro grido cessa, ma restano a dondolarsi al loro posto, pronte a riprendere appena smetto di guardarle. Così, per ore. Non esco quasi più. Il paese mi opprime, mi soffoca con i suoi silenzi malevoli, dopo i pettegolezzi e le calunnie. Mi isola con la falsità e la sorniona ipocrisia del sospetto. Anche Mirta non esce più, lo so, sebbene eviti di passare davanti a casa sua nelle mie sempre più rare escursioni. Ieri, per esempio, l’ho vista per un attimo, da lontano. É uscita per pochi secondi ed è subito rientrata. Indossava un vestito celeste. Erano almeno venti giorni che non la vedevo e adesso sento il bisogno di andarmene. Mio zio si è chiuso in un mutismo ostinato e passa giornate intere a interrogare i tarocchi. La sua mente non funziona più molto bene dopo la morte della moglie, e la sua mania di persecuzione va peggiorando. L’ho udito poco fa che confabulava con Severin sul modo di preparare gli anelli per una forte controfattura. Questa mattina il carbone riluceva più del solito, e le asine hanno abortito. Severin parla sempre di stregoneria e mio zio gli dà ragione. ***** A qualche chilometro dal paese, sulla via del ritorno, foriamo una ruota e Tom mi dà una mano a cambiarla. É una giornata molle, atona. Il sole compare solo a intervalli nella foschia. Al secondo bivio devio a destra, perché ho intenzione di rivedere la chiesetta visitata la sera del mio arrivo. Di giorno ha un aspetto diverso. É isolata, trascurata. Vorrei entrare ma il cancelletto è chiuso. Anche la porta appare chiusa oltre il giardinetto lasciato alle erbacce. C’è un’aria di abbandono. Mi guardo intorno mentre cammino verso la casa dall’altra parte della strada. É l’unica visibile e deve essere quella dove abitano i bambini. Compio il giro per raggiungere l’ingresso che dà sul cortile, e resto interdetto. Non abita nessuno qui, da chissà quanto tempo. Sulle travi crollate è cresciuta l’erba e le grondaie raccolgono i sibili del vento. Fatto qualche passo nell’ombra dell’interno, sento il bisogno di uscire fuori, sotto il sole fioco, e raggiungere Tom che ho lasciato ad aspettarmi sul furgone. Ripartiamo subito. Passando davanti alla casa guardo la facciata tetra, resa nerastra dalle intemperie. ***** Mirta è diventata una prostituta. Sul rettilineo ai margini di una grande città, nella monotonia delle brevi passeggiate avanti e indietro e negli sguardi profondi per attrarre l’attenzione, si dispiega la sua vita. L’ho incontrata una sera, per caso, con il sole che tramontava proprio in fondo alla strada. Le macchine sfrecciavano veloci, passandomi vicinissime, perché non c’era marciapiede. Mirta stava là. L’amica che era con lei, una brunetta spiritata coi capelli in boccoli, l’avevo vista allontanarsi verso i raggi del sole, a bordo di un’auto che poco dopo rallentava per deviare in una stradina laterale. Mirta resta a guardarmi, voltando le spalle a quelli che sono appena partiti. É una donna alta dal corpo stupendamente modellato che ispira sensualità e pienezza di vita. I suoi capelli seguono a flettersi nel vento, lunghi e lisci, proprio come nella ragazzina di Vielle. Il suo sguardo mentre mi avvicino è turbato da sentimenti profondi, dal riproporsi di conflitti ed emozioni che credeva finiti per sempre. “Ciao... vuoi fumare?” Le chiedo a bassa voce. Lei scuote il capo, sempre guardandomi intensamente. Anch’io la guardo. Per cercare i resti di una verità che ormai non mi interessa più conoscere forse, o il motivo di un’esistenza, un tenue filo conduttore attraverso gli abissi di tempo nel quale abbiamo camminato, il senso, la ragione di noi stessi. “Sei ancora più bella”. Sorride appena, come solo lei sa farlo. Un sorriso da adolescente solo accennato pieno di rossori e di tenerezza. Indossa una gonna bianca, con una maglietta arancione a maniche corte poiché fa molto caldo, anche se siamo in settembre. Il suo respiro, ogni tanto è coperto dal sibilo rabbioso delle macchine che passano veloci. “Vuoi venire a Colonia con me, per sempre?” “No”. Il tramonto è un incendio di luci, una festa di colori sgargianti oltre le lunghe ombre degli alberi nella via. Il rombo di un’auto che arriva per poi ripartire in senso inverso dopo aver scaricato la ragazza di prima. Mirta le va incontro e la ragazza le chiede: “Che vuole quello?” Lentamente mi allontano senza guardarle. Alle mie spalle ancora la voce irritata della ragazza che grida: “Ma insomma, che cosa voleva quello là?” ***** Un edificio scalcinato, in periferia. Un posto qualunque che incontro nel mio girovagare. Suoni discordanti di tromboni a tiro escono dalle finestre. Li accompagna un canto rauco proveniente da qualche parte in fondo alla strada, assolata e deserta nelle prime ore pomeridiane. Lentamente entro, e mi avvio a salire le scale. Adesso so che è lei la vera colpevole. Anche se non credo abbia fatto apposta a non avvertirmi che la galleria si diramava ed era facile perdersi; nella confusione di quei momenti si sarà semplicemente dimenticata di insegnarmi la via da seguire. Mark non è mai esistito. Forse, l’uomo ucciso da Mirta è lo stesso che mi ha minacciato quella notte a Vielle; il suo amante che incontrava all’insaputa di tutti alla foce del tombino, e che si portava in casa quando i genitori erano andati via. Quella sera avranno litigato, non so cosa sia successo, poi lei, spaventata, è fuggita per la strada da dove erano venuti e che conosceva bene: la galleria. Forse quell’uomo era ancora vivo e lo si sarebbe potuto salvare. Che importa ora. Anche il fratellino di Mirta non avrà una sorte migliore degli altri. É diventato un giovane delinquente e la sua foto è apparsa sui giornali proprio in questi giorni. Sui gradini corrosi si depositano i calcinacci. Cartelli sono appesi ai muri con i calendari e i regolamenti di questa scuola di musica. La scala termina su un ballatoio sudicio. Fra le tante porte sgangherate mi dirigo verso quella da cui provengono le note stridule delle trombe. Tutto sembra sul punto di crollare qui dentro. Al di là del battente, uno stanzone squallido in un disordine di sedie e con il pavimento sporco di polvere e di mozziconi di sigarette. Un uomo sudato e occhialuto in una stinta divisa blu si esercita con il suo trombone. Una tuba è appoggiata per terra là in fondo. C’è un tizio che non avevo veduto il quale mi viene incontro interpellandomi: “Scusate, sapreste dirci chi è che canta in quel modo laggiù in strada?” Ha gli occhi assonnati e il sorriso bonario. Fa caldo. Senza rispondere resto appoggiato allo stipite della finestra a guardare una nuvola bianca nel cielo celeste. Uno spesso velo di desolazione e di tristezza è sceso sul mio cuore. FINE Stesura Marzo-Dicembre 1975 Revisione 1988 1991 2004 2006 2011 SORTILEGIO Amare è come affacciarsi a un abisso. Frank Graegorius 1 È trascorso molto tempo da ciò che sto per narrare. Adesso, dopo tanti anni la mia vita scorre tranquilla, monotona. Vivo da solo. Nella mia vecchia casa trovano rifugio i cani randagi che in diverse occasioni ho raccolto per strada e da allora stanno insieme a me. Io adoro i cani, specie quelli bastardi, soli e senza qualcuno che pensi a loro. Amo vivere con semplicità seguendo il mio ideale in mezzo alla natura. Il tempo libero lo dedico a lunghe passeggiate in campagna, e d’inverno resto in compagnia di buoni libri e di fogli bianchi per scrivere. Due volte all’anno vado a Minerbe, ma quel piccolo paese tanto cambiato mi è quasi indifferente adesso. A intervalli un sogno ricorrente viene ad allietare le mie notti. Ritrovo una ragazza ogni volta diversa in un paesino sempre differente e a ciò si accompagna una profonda gioia che perdura anche al risveglio. Forse, alla fine di questo scritto mi si rimprovererà di non aver fatto tutto il possibile per ritrovare quella ragazza. Mi considero un uomo felice e fortunato, ma nelle grandi occasioni, nei pochi momenti decisivi della mia vita la sfortuna era accanto a me, e mi ha guidato la mano nella scelta. Quell’agosto 1966, è lontano ormai. Ero giovane a quel tempo, avevo solo diciannove anni. Diciannove anni, l’età delle grandi idee e dei sogni irrealizzabili. Nel giugno dello stesso anno avevo conosciuto Jan che era diventato in breve tempo il mio migliore amico. Magro, basso di statura, viso triangolare. Un carattere ribelle e anticonformista unito a una mentalità libera che disprezzava le convenzioni. Indossava sempre un vestito originale che mi piaceva, per cui presumevo avesse un carattere affine al mio. Una sera il caso mi offrì il pretesto di conoscerlo e in pochi giorni la nostra amicizia era consolidata per sempre. La vita goliardica che per un breve periodo di tempo condivisi con lui contribuì al mio arricchimento psicologico. Ci scambiavamo le ragazze, facevamo il bagno nudi nei fiumi. Insieme ci lanciavamo in ogni specie di avventure: le scorribande notturne al cimitero, le puntate folli sul rouge di una roulette clandestina, le ubriacature, le donne... Il mese di agosto di quell’anno fu molto caldo. Per tutta l’estate non aveva quasi mai piovuto e nei primi giorni del mese faceva un caldo afoso e opprimente. Assieme a Jan ero stato alle sagre di Isola e di Castagnaro. Adesso volevamo andare alla sagra di Minerbe. Il nome derivava dalla dea Minerva poiché anticamente un tempio sorgeva in quel paese. Il mio amico, che aveva promesso di portarmici, cambiò opinione il giorno seguente e per tutta la settimana dichiarò la sua avversione per quei luoghi nei quali aveva trascorso l’infanzia in un collegio. Da solo non sarei partito, perché non conoscevo la strada. All’ultimo momento però Jan cambiò idea e mi chiese di accompagnarlo. Era l’una e trenta del pomeriggio quando feci il segnale convenuto sotto casa sua. Lui scese dal balcone aggrappandosi ai rampicanti, per non svegliare la nonna, e poco dopo correvamo sulla sua decappottabile rossa verso Minerbe. Non dimenticherò più quella domenica. Se qualcuno mi avesse avvertito della strana avventura a cui andavo incontro, forse mi sarei ritirato per lasciare ad un altro questa possibilità. Era la prima domenica di agosto. La strada si snodava in curve in mezzo alla campagna. Il cielo era fulgido di luce, privo di nubi, l’aria era calda. Solo il sole sopra di noi e intorno la pianura sconfinata. Ogni tanto si intravedeva qualche lontana fattoria fra le messi tagliate o le ultime colture. Dopo aver attraversato quattro paesi, arrivammo a una lunghissima doppia curva dalla quale si vedeva, oltre il verde degli alberi davanti a noi, una torre campanaria, esile, altissima, complicata. “Quello è Minerbe” indicò Jan, ma eravamo lontani perché le abitazioni non si vedevano ancora. Dopo le curve ecco un breve rettifilo fiancheggiato da alberi. Poi ancora il sole sopra di noi e infine un crocevia con un palo sovraccarico di segnali indicatori. Eravamo arrivati. Lasciata la vettura procedemmo a piedi per la via principale del paese che immetteva in una piazza. A sinistra dopo il municipio si innalzava quella torre campanaria che mi aveva incuriosito da lontano. Vista da qui sembrava ancora più sottile e complicata con le feritoie e i blocchi di pietra inseriti fra i mattoni. Poi veniva la chiesa in stile barocco e più in là un lungo viale. Sul lato opposto una canonica allineata con il palazzo delle poste e l’imbocco di un’altra strada. Di fronte alla chiesa, una pesa pubblica e un muro lungo e basso chiudevano il perimetro della piazza. La fiera stava lì al centro con il suo Luna Park colorato e rumoroso. Gli altoparlanti diffondevano una musica dolcemente cruda e che sarebbe stata di moda per tutta l’estate: Girl, dei Beatles. La fiera si era rivelata molto modesta tanto da farci rimpiangere di essere venuti. Circa un’ora dopo non restava più niente da scoprire a Minerbe. Il paese era piccolo e il grande caldo sembrava renderlo ancora più vuoto. Nella via principale che lo tagliava in due, non c’era ombra e le finestre delle case erano tutte chiuse, le saracinesche abbassate. Allora sempre a piedi tornammo indietro nella piazza dirigendoci verso il viale situato oltre la chiesa. Era un viale di tigli lungo e dritto che finiva davanti a una stazione ferroviaria in disuso con il tetto coperto d’erba. Ai lati c’erano panchine bianche e vecchie villette scure nascoste nella penombra dei giardini. A metà si trovava un minuscolo chiosco sotto il buio di un pergolato. Più oltre le villette si facevano più rare, più distanziate le une dalle altre. E in una di queste, uno splendido cespuglio di gelsomini dal profumo amaro e sognante era abbarbicato alla ringhiera. Poi in fondo, lo spiazzo della stazione con le mimose e un cancelletto che conduceva ai binari. Ripercorremmo il viale in senso inverso e oltrepassato il piccolo bar ci sedemmo su una panchina per riposare. Una penombra azzurrina, una chiusa intimità fra cose dolci e care. Dopo alcuni minuti mi sentivo invadere da una piacevole stanchezza e avvertivo una sensazione profonda di quiete. Senza parlare guardavo le coppie a passeggio. C’era un grande silenzio rotto solo dal ticchettio attutito o il conversare sottovoce dei passanti. Passò ancora del tempo. Ricordo che Jan stava parlando mentre la mia attenzione era attirata da una persona lontana che camminava nella folla anonima. Era una ragazza. Camminava da sola sulla strada verso di noi. A mano a mano che si avvicinava la vedevo sempre meglio. Indossava una blusa rosa e una gonna nera. Rosa e nero. La guardavo con più interesse adesso. I capelli castani erano sciolti, lisci, lunghissimi. Gli angoli della bocca erano piegati verso il basso. La ragazza era bella fino all’inverosimile, fino alla sofferenza. Senza sapere perché ero diventato agitato e ansioso di conoscerla. La vedevo molto da vicino adesso: era un angelo. L’angelo della luce. Sentivo come un soffio caldo e spossante. Il volto era di una bellezza indefinibile, magica. Ricordo che le offrii da bere qualcosa proprio mentre stava per oltrepassarci. Rifiutò ringraziandomi ed io restai a seguirla con lo sguardo mentre proseguiva fra le coppie lontane. Di colpo avevo perduto la pace. Trascorremmo alcune ore fra le attrazioni della fiera ma non riuscivo a distrarmi. Intanto la folla aumentava e con essa il rumore. La fiera giunta al suo culmine dispiegava tutti i giochi, le novità e i mille richiami di cui disponeva. Jan incontrò perfino un compagno di scuola e restò per un po’ a chiacchierare degli anni passati. Quando fummo stanchi di girovagare ci allontanammo dalla piazza, punto di convergenza della folla che non smetteva di affluire. Veniva la sera. Sul viale era disceso un velo violaceo e rosa fatto di ombre e di profumi indistinti. Quella sera la vidi una seconda volta. La incontrai all’improvviso all’inizio di via delle poste. Il pretesto per scambiare qualche parola con lei fu il primo che mi venne in mente: mi offrii di accompagnarla a casa. La ragazza rifiutò indicando la sua abitazione a pochi passi da noi. Lasciammo Minerbe che era quasi buio. La strada del ritorno la percorremmo in compagnia di due graziose autostoppiste delle quali non ricordo i nomi. 2 Jan partì per la Germania alcuni giorni dopo. Il miraggio di un futuro migliore e di una vita più facile lo avevano spinto a partire, e da allora non l’ho più rivisto. Questi semplici avvenimenti, ma soprattutto il ricordo della sconosciuta di Minerbe mi resero inquieto durante quella settimana. Provavo una sensazione di distacco verso tutte le cose che giorni prima costituivano la mia vita, i miei interessi. Mangiavo poco e non riuscivo più a dormire di notte. Ciò che mi era caro mi diventava indifferente e il pensiero di lei mi rendeva estraneo agli avvenimenti che mi circondavano. Era una smania. Altre volte mi ero innamorato prima di allora ma era stata una cosa ben diversa. Ora non provavo piacere ma ansia, e una sensazione di vuoto, di sfinimento fisico. Alle ore tredici della domenica seguente presi la bicicletta, perché non avevo ancora l’automobile, e partii sulla strada piena di sole che porta a Minerbe. Dopo aver percorso la provinciale si arriva al primo paese con poche case e una bottega da barbiere. Più avanti si trova Legnago un modesto centro con lo scalo ferroviario, il parco, lo zuccherificio. Da qui bisogna risalire il ponte per raggiungere l’altro paese, situato più in basso del letto del fiume e protetto da un poderoso argine in terra battuta. A sinistra per alcuni chilometri; poi ancora a sinistra. Qui l’orizzonte è visibile a tutti i punti cardinali. Nessun ostacolo ad eccezione dei boschetti di pioppi e delle colture. Naturalmente adesso, dopo tanti anni quei luoghi hanno subìto dei cambiamenti. Ma non importa. Nella mia memoria li vedo perfettamente come li ho visti sfilare allora. C’è una frazione che porta il nome di un santo. Ricordo un’osteria, la chiesa e la minuscola piazza affollata di bambini che uscivano dalle funzioni proprio in quel momento. Non più di una decina di abitazioni grigiastre, addossate le une alle altre che seguivano le curve della strada. Muri decrepiti non a perpendicolo con finestre cieche, inferriate, comignoli, vecchi portoni. Ancora alcuni chilometri poi la grande doppia curva con di fronte, oltre gli alberi, l’esile torre campanaria di Minerbe. Un senso di quiete mi ispirava quella visione. I mattoni cotti della torre parevano più chiari a causa della luce abbagliante che li investiva. Il cielo era celeste con grandi nubi bianche, la campagna tremolava con tutte le gradazioni del verde. Entrai in Minerbe. Il paese dopo la fiera non sembrava più lo stesso assopito com’era nei riverberi del caldo. Andai subito alla stazione dove bevvi dell’acqua e mi rinfrescai. Poi raggiunsi la piazza per osservare la casa dove abitava la ragazza. Era proprio in fondo alla breve via situata fra le poste e il muro di recinzione. Si trattava di un vecchio palazzo con la porta a volta e le finestre chiuse. Una pianta di glicini avvolgeva il pilastro del portone e saliva fino alla grondaia. Attesi a lungo sorvegliando l’ingresso, ma evidentemente a quell’ora dormivano tutti. Mi spostai allora sulla prima panchina del viale, sul lato sud della chiesa. I colombi tubavano sul tetto. A intervalli poi si levavano a stormi e volavano sopra di me. Il caldo diventava sempre più insopportabile. Ogni tanto mi alzavo per controllare l’ingresso del palazzo, ma la porta rimaneva chiusa, non usciva mai nessuno. Un vecchio dall’andatura traballante camminava verso la chiesa. Vestiva di nero. I capelli erano tutti bianchi sulla sua testa curiosamente schiacciata. Pareva molto allegro e sorrideva. Poco dopo essere scomparso in una porticina le campane incominciarono a suonare e tutti i colombi abbandonarono i tetti. Era il campanaro. Una zitella piccola e gobba vestita all’antica attraversò diagonalmente la piazza ed entrò in chiesa. Altre persone comparvero sui limiti della piazza. Mi alzai e tornai al mio posto di osservazione proprio in tempo per scorgere un bambino che usciva dal vecchio palazzo. Gli andai incontro e lo interrogai riguardo ai suoi fratelli. Disse che non ne aveva. Solamente una sorella; una sorella maggiore. Chiesi il nome. Si chiamava Clara. Soddisfatto lasciai il piccolo e tornai alla mia panchina. Ero emozionato ma contento. Certo avrei potuto chiedere di più, sapere dove si trovava per esempio ma non volevo lasciar trasparire il mio interesse per lei e trovarla impreparata quando l’avessi incontrata. Immerso nei miei pensieri il tempo passò più in fretta e venne la sera. Allora vagabondai per il paese percorrendolo tutto, più volte, senza mai incontrarla. E sulla strada del ritorno pensavo ancora a lei, al bambino, al paese e facevo progetti per ritornarvi al più presto. Fu il giorno seguente lunedì, una festività. Ancora il sole, il caldo in un viaggio che si ripeteva identico al precedente. Unica variante: un amico casuale che intendeva recarsi a una manifestazione sportiva mi accompagnò per un buon tratto di strada. A Legnago ci separammo e il percorso da solo sembrava più lungo. Rividi il ponte. Familiarizzai con le vecchie case di San Vito dall’espressione arcigna. Ancora l’apparizione della torre sulla doppia curva e la gioia che questa mi ispirava. In quel paese deserto aveva luogo la mia lunga attesa, sulla stessa panchina mentre ascoltavo il tubare monotono dei colombi. Alla solita ora comparve perfino il campanaro seguito dall’arrivo della zitella gobba. Con i colombi che fuggivano via se ne andava un altro giorno. Una lunga attesa che però ero disposto a ripetere anche le domeniche successive per poter rivedere quella ragazza. Allora lentamente il sole si oscurò. Grosse nubi si andavano ammassando nel cielo. Gradatamente la luce calava di intensità per lasciar posto a un chiarore vitreo e grigio. L’afa intanto, era aumentata. Stavo per andarmene quando la vidi. Ero già sulla via principale che taglia Minerbe e lei camminava dalla parte opposta, da sola. Lasciai la bicicletta lì vicino e la raggiunsi proprio mentre stava per attraversare la piazza. Camminavo al suo fianco lentamente, senza parlare, guardandola. Lei pareva non accorgersi di me. La sua bellezza mi faceva provare un’ansia sconfinata. Mi rendevo conto che non avrei potuto seguitare ad accompagnarla a lungo se rimanevo silenzioso. Provai ad attaccare discorso. “Ciao... Vuoi che facciamo conoscenza?” Si fermò di colpo volgendosi verso di me. Il volto era di una bellezza estrema. Sorrise, e nel farlo la sua bocca assunse la forma di un cuore: “No”. Rimasi immobile osservandola mentre proseguiva da sola. Però vedendo che si allontanava e che ero sul punto di perderla, dopo tutto quello che avevo fatto per trovarla, provai una specie di rabbia che mi spinse a raggiungerla di corsa: “Dimmi almeno il tuo nome” supplicai. Eravamo all’inizio del viale dei tigli. Questa volta le sue labbra si mossero in un impercettibile sussurro: “Loretta”. In questo modo iniziai la conversazione con lei. Percorremmo tutto il viale, fino a una villetta dove ella entrò per pochi minuti. Uscì insieme ad una bambina di quattro o cinque anni e le accompagnai di ritorno fino alla chiesa, felice di starle accanto, di poterle parlare. Non era un dialogo vero e proprio; lei rispondeva a monosillabi senza guardarmi, ma sembrava prestare attenzione a ciò che dicevo. Poche volte riuscii a farla sorridere. Quando ciò accadeva lei si voltava verso di me. I capelli lunghissimi frusciavano, le labbra piegate verso il basso assumevano la forma di un cuore. Intorno a noi la penombra azzurra, il silenzio, il profumo intenso del gelsomino. Questi semplici avvenimenti mi procurarono una voluttà per la quale provo, anche a distanza di tempo, una specie di pudore. Seppi che aveva diciotto anni, un genitore di origine francese e lei lavorava come sarta. Mi congedai sulla piazza di Minerbe per non sembrare scortese restando troppo a lungo. Dentro di me era un intreccio di sofferenza e piacere mai provati prima di allora. Sulla strada del ritorno nubi basse e colori sbiaditi. Si levò il vento e l’orizzonte a occidente divenne nero. Oltrepassata una frazione, il vento si fece impetuoso sollevando vortici di polvere e di foglie. Ero solo sulla strada. Proseguire in quelle condizioni era impossibile, per cui deviai a sinistra fino a raggiungere una vecchia fattoria. Là una donna mi accolse in una saletta quasi spoglia, poi andò via senza parlare. L’ambiente era triste. Dai vetri sporchi rigati di pioggia filtrava una luce scialba. Dopo un violento e breve acquazzone cadeva una pioggia monotona che ticchettava fra i sibili del vento. A tratti giungevano appena percettibili le voci di persone che conversavano a grande distanza. Uno scalpiccio di piedi nudi sulle mattonelle; subito dopo la porta si spalancava e una ragazza senza reggiseno apparve bianca nel riquadro scuro. Udii un gridolino di stupore, poi la porta tornò a richiudersi di colpo. Ero ancora solo, in quella saletta all’antica, fra le tele di ragno e le sedie di vimini polverose. Più tardi ripresi il viaggio. L’aria era fredda e pioveva ancora sotto i grandi platani. 3 Nei giorni che seguirono insieme a lei, provai l’estasi più perfetta, più vera. Nessun altra esperienza può reggere al confronto. Loretta era il suo vero nome. Non abitava nel vecchio palazzo ma nella casa adiacente, così il ragazzino da me incontrato non era suo fratello. Loretta appariva come una ragazza chiusa, introversa e, forse, infelice. Il suo sguardo era tanto dolce e caro, ma vi trovava posto in esso anche il gelo e il cinico distacco. Le labbra piegate verso il basso la facevano apparire ancora più triste. Io non so, ma ho provato fin dal primo momento l’impressione di trovarmi di fronte a una persona che aveva conosciuto una felicità immensa e poi l’ha perduta. C’era nella bellezza di quel volto il ricordo di una gioia finita e la consapevolezza insieme di non riuscire più a ritrovarla. Ma non era solo questo. Frequentarla era come accostarsi a un sublime segreto. Il suo carattere fu sempre un enigma per me: parlava pochissimo ed era vera e falsa allo stesso tempo, i sentimenti più opposti si alternavano in lei senza continuità. A volte sembrava consapevole della sua bellezza e tesa ad impiegarla con il massimo vantaggio e a volte no. Stranezza! La sua bellezza forse era legata a ciò, ad una nota disarmonica nella sinfonia. Stavamo insieme quei giorni, ma io la cercavo. Passeggiavamo lungo il viale ma quasi sempre io parlavo sforzandomi di sapere qualcosa da lei, di farla sorridere. Quando ciò accadeva la sua bocca assumeva la forma di un cuore e io mi perdevo nell’incanto di quelle labbra. Non saprei riportare i dialoghi di quelle domeniche. Per la maggior parte lei si limitava ad ascoltare con docilità, senza noia, senza interesse. Quando tacevo rimaneva in silenzio e dava alle mie domande risposte sempre abbastanza brevi. Il nostro rapporto era singolare dapprima. Non era amicizia perché era molto di più, non era amore perché lei non ne provava per me. Tutte le volte che arrivavo lei fingeva di non vedermi. Ero sempre il primo a salutarla e correrle incontro. Ricordo che una volta mi adirai a tal punto per questa sua indifferenza che, appena l’ebbi vista passeggiare lungo il viale, decisi di ritornarmene subito a casa. Fu un pomeriggio vuoto e lungo di rimpianti. Fu questa la mia unica scortesia verso di lei. La domenica successiva finse ancora di non vedermi, ma non mi importava più. Senza Loretta era l’inferno per me e avevo deciso di donarle un amore incondizionato, privo di contropartita. Anche se lei, come era evidente, non provava interesse per me avrei chiesto solo il permesso di amarla perché già questo mi faceva provare una gioia illimitata. Ma quella volta Loretta mi chiese a bassa voce, nella sua solita maniera, perché mi ero comportato così la domenica precedente. Non furono che poche parole pronunciate senza rimpianto e senza entusiasmo; pure ero stordito dalla sorpresa. La sua indifferenza era dunque inautentica? La supplicai di perdonarmi senza aggiungere altro e in cuor mio le promisi di nuovo l’amore più incondizionato. Questa fu una delle poche volte che, in quel suo strano modo ella dimostrò della simpatia per me. La bellezza di Loretta, la sua psicologia indecifrabile, il carattere riservato talvolta assente, ricco di sfumature ed ombre, misteriose come gemme, complesse come astrazioni. Pensavo ancora a lei, mentre ero in viaggio la prima domenica di settembre in compagnia di un amico. Roberto, longilineo, magro, era vestito con giacca e cravatta bene annodata nonostante il caldo. Arrivammo a Roverchiara un paese dominato da un campanile cuspidato e grigio. Dopo una breve sosta ripartimmo prendendo una strada con l’indicazione: Minerbe. Attraversammo un altro paese, il cui nome è il diminutivo di Roverchiara. Al di là del fiume si stende Bonavigo con i suoi grandi boschi e giardini. Arrivati a Minerbe trovai Loretta che usciva di chiesa assieme a quattro o cinque amiche. La seguii camminando al suo fianco nel viale dei tigli ma visto che mi ignorava, come pure le altre che seguitavano a discorrere tra di loro, chiesi in tono scherzoso: “Non riconosci più gli amici, Loretta?” Una ragazza dai capelli lunghi parve stupirsi più delle altre: “Lo conosci, Loretta?” Seguirono le presentazioni: AnnaMaria, una biondina Nadya, Mary, Gloria e qualcun’altra. Roberto, distinto com’era nel suo carattere, si dimostrò gentile e galante con tutte. AnnaMaria era la più bella del gruppo, dopo Loretta, naturalmente. Una figura alta, snella, con il volto molto grazioso, i capelli lunghissimi, lisci. Sorridente, cortese, sarebbe stata la compagna ideale per me, se Loretta non fosse mai entrata nella mia vita. Trascorsi un pomeriggio delizioso punteggiato dai raffinati complimenti di Roberto, fra Mary, la biondissima Nadya, Loretta divina come sempre e incomprensibile. Mi sembrava di percorrere una girandola di piaceri come la carezza di goccioline d’acqua sui fiori. Nessun segno dell’autunno pure tanto vicino si avvertiva; un’eterna primavera si stendeva sul viale denso di sensazioni. Verso sera tornai da solo perché Roberto lo avevo perduto di vista; aveva portato al cinema una ragazza, mi pare. Il caldo della giornata non si era ancora del tutto dileguato. I profumi che salivano dalla campagna rendevano piacevole il viaggio e misteriosi luccichii apparivano lontano nel verde e violetto dell’orizzonte. 4 Con il passare del tempo il mio amore per Loretta divenne morboso. Piacere e sofferenza furono le sole note di quello straordinario sentimento che provavo per lei. Sofferenza quando ero lontano e la sua immagine mi rendeva inconsolabile. Il piacere più completo nei pomeriggi delle domeniche che seguirono. Il tempo era molto peggiorato, e sette giorni dopo si avvertiva nell’aria la presenza dell’autunno. Il cielo, perduto il suo splendore era cupo, l’aria era diventata umida e fresca. La campagna risentiva ancor più del cambiamento e si intravedeva sfumata nella bruma azzurrina. Non era ancora l’autunno dorato di toni attutiti nella pallida luce. Ne era la premessa. Il ricordo di quei giorni brevi è confuso. Fui stupito, le domeniche seguenti, del colore sempre più cupo che andava assumendo la torre di Minerbe vista da lontano. E il fresco nel viale dei tigli faceva rabbrividire nell’oscurità più accentuata. Una volta alcuni ragazzi gridarono passando di corsa: “Loretta stai attenta!” Non ho mai compreso cosa intendessero, forse vi era un’ombra nel passato di lei. Loretta parve colpita ma non disse niente. Per il resto, tutto si svolgeva come sempre. L’accompagnavo per mano in lunghe passeggiate, fino a sera. Lei era sempre docile, passiva. A volte qualche sorriso, o sfumatura di voce, mi facevano sperare che lei provasse qualcosa per me. Ma più spesso era un sentimento in bilico fra l’indifferenza e la cortesia che traspariva in lei, rotto talvolta da stupefacenti e imprevisti cambiamenti. Comunque, anche se avevo perduto la speranza di essere ricambiato, mi era sufficiente amarla. Egoista a modo suo, aveva slanci di altruismo. Poteva rimanere muta e chiusa per ore, e poi sorridere, guardandomi con dolcezza e quasi chiedendo perdono. Il suo volto ridente poteva corrucciarsi di colpo, senza spiegazioni, così senza motivo. Seconda domenica di novembre: avevo preso l’ombrello con me perché sembrava stesse per piovere. Ero stanco e procedevo immerso nella campagna grigia, quasi morente. Un senso profondo di sfacelo scivolava sulle cose fluide ed opache. Lo spirito veniva sopraffatto da tanta quiete, a poco a poco, senza quasi rendersene conto. Le pozzanghere sulla strada, le facciate più scure e sfuggenti delle vecchie case di S. Vito. Poi, la torre campanaria di Minerbe si profilò nera nel cielo di nord-est. Pareva ancora più tetra, più esile, più alta e fragile di quanto avessi notato le altre volte. Con lo sfondo di nubi basse oscillava al di sopra degli alberi, avvolta nella nebbia. Ma non solo il paesaggio era cambiato. Quando incontrai Loretta sul piazzale della chiesa ebbi un fremito. Era ancora più bella delle altre volte, se possibile. I capelli castani erano più lisci, più soffici, più lunghi con sfumature bionde, lievissime. Una maglia di lana color rosa caldo e una gonna in velluto nero. Pallida, raffinata, misteriosamente bella, mentre mi avvicinavo, sorrideva. Tutto in lei era nuance e solamente nuance, così anche il suo sorriso. Il vento era freddo e il viale con i neri tronchi dei tigli si dissolveva nella immobilità della nebbia. Fu più docile di tutte le altre volte. Mi parlò di lei, della sua famiglia ostile verso il nostro rapporto, se avesse saputo. Le allusioni, le reticenze non erano ancora del tutto scomparse dai suoi discorsi. Ma riconoscevo in lei la creatura umana capace, se non di dare, di ricevere quella meravigliosa sensazione chiamata amore. La dea era diventata donna; per me, e solo per me questa grigia giornata di novembre aveva saputo operare il prodigio. Fu docile, appassionata. Passeggiammo nel viale, dove incontrai Nadya che mi sorrise. L’accompagnai per la via principale fino alla chiesetta sbrecciata di San Zeno in periferia. Là abitava una sua zia, una delle tante perché ne aveva moltissime, mi disse, e tutte vecchie e noiose. Mi chiese di aspettare davanti a una casetta unita alle altre tutte basse e scolorite. Dai vetri appannati scorgevo una piccola cucina illuminata e davanti al camino una anziana e magra signora vicino a Loretta. Quando uscì da sola, il nostro idillio riprese come prima. Vedemmo per pochi attimi il sole, abbassarsi scialbo e senza calore, in una cortina di soffici nubi che subito si rinchiuse. Ma il sole era lì accanto a me, con tutta la sua luce e bellezza. Venne la sera. Assomiglia a un turbinio di chiaroscuri smorti una sera d’autunno. Con la nebbia leggera che fluisce piano, piano, con delicata monotonia. Il viale era più intimo, ricco di suggestioni. Lì la lasciai e tornai indietro con una sensazione di dolcezza dentro di me. Dall’estremità della piazza vidi sui gradini della chiesa una figuretta scura con i lunghi capelli che mi salutava con il braccio. Nelle ombre del crepuscolo riconobbi AnnaMaria e risposi con enfasi al saluto, senza fermarmi. 5 Per tutto l’inverno fui alla ricerca di mezzi di trasporto per arrivare a Minerbe, dato che il paese rimaneva praticamente tagliato fuori dalle vie di comunicazione. L’unica corriera veniva soppressa. Un giorno pagai una grossa somma a un tizio perché mi ci portasse con la moto. Le domeniche di sole ci incontravamo e stavamo insieme a volte solo per pochi minuti. In marzo, quando i giorni freddi erano finiti, l’ansia per la lontananza di Loretta si attenuò. Adesso provavo una sensazione di piacere e sofferenza senza punti intermedi. La frenesia di raggiungere Minerbe mi faceva impazzire. La vita si presentava come una doppia possibilità: con o senza Loretta. E gli attimi che trascorrevo vicino a lei accrescevano a volte la paura di perderla. La torre di Minerbe assumeva un colore più chiaro in quel giorno di marzo. Il paese festeggiava San Giuseppe con musica e festoni colorati per le strade. In compagnia di Loretta mi persi nella folla. Il viale si risvegliava a nuova vita offrendo tutte le promesse della primavera, la brezza tiepida era deliziosa perché portava entusiasmanti novità. Fu un pomeriggio indimenticabile. Tra la folla lungo il viale incontrai AnnaMaria, bella come sempre e sorridente. Sostammo un poco scambiando qualche parola. Disse che intendeva trasferirsi in una città, ma non ne era ancora sicura. Nella tiepida luce del sole di marzo il volto di AnnaMaria rivelava la sua stupefacente purezza. I capelli lunghissimi che le ricadevano sulle spalle accrescevano la sua bellezza. Prima di congedarmi le feci qualche complimento che gradì molto. Non si deve pensare che Loretta provasse della gelosia per la mia ammirazione verso l’amica. Tutt’altro. La sua spontaneità nell’indifferenza era autentica, proprio come la sua bellezza. Bellezza che era completamente diversa, più profonda e preziosa. Verso sera Loretta mi presentò ad alcune persone, nel viale di fronte alla casa di una sua zia. Ogni timore di venir sorpresa era scomparso in lei, forse non era mai esistito ed io mi ero sbagliato sul senso da dare ai suoi discorsi. Quel giorno, mi parve, fu l’unico nel quale Loretta mi sembrò felice. Una felicità la sua senza esuberanze, come era nel suo carattere. Quella sera rimasi a guardare i colori del crepuscolo insieme a lei. Come mai prima d’ora la sentivo lieta e serena e ciò la faceva apparire ancora più incomprensibile. La sua dolcezza mi stordiva. La dea fredda e malinconica era lì, l’avvertivo nella raffinata cortesia dei gesti e nel fluire delle brevi frasi. Ma anche la donna a volte affiorava in lei, la donna appassionata dalla infinite possibilità d’amare. La sua bellezza era al culmine. Niente da paragonare, nessun confronto era possibile. La sua era la bellezza pura, astratta, inconoscibile, la bellezza che dà le vertigini quando la si contempla troppo a lungo, che toglie il respiro. Da quando l’avevo conosciuta non desideravo e non mi interessava più nulla all’infuori di lei. A volte mi stupivo che altri non la corteggiassero, probabilmente a causa della sua superiorità, anche se ogni forma di disprezzo era assente in lei. In lei era qualcosa di dolce, di intimo, di tanto caro e bello e di freddo, di egoistico e come un indifferente distacco al tempo stesso. 6 Arrivò maggio con i suoi giorni lunghi e splendidi. Ora avevo molto tempo da trascorrere a Minerbe in compagnia della mia adorata Loretta. Lei non finiva mai di stupirmi, di sorprendermi e le incognite del suo carattere stimolavano il desiderio di conoscerla sempre di più. La campagna verde, i cieli pieni di luce mi davano una sensazione di eccitamento e timore mentre correvo verso la mia sublime Loretta. Ancora la doppia curva con la torre chiara sullo sfondo, il rettilineo ombreggiato. Rallentai nell’entrare in paese, in questo paese tanto caro e sognato, con le indicazioni all’incrocio e le case vecchiotte che erano finite per diventarmi simpatiche. Raggiunto a piedi il luogo del nostro appuntamento, non vi trovai Loretta. Le sfere ghirigorate dell’orologio sul campanile segnavano le due. Attraversai la piazza con calma, nel silenzio profondo rotto a tratti da grida di bambini che giocavano. Avanzai nella penombra turchina del viale dei tigli. Loretta camminava più avanti e mi voltava le spalle. La chiamai correndole incontro. Lei si voltò e mi guardò come se non mi conoscesse. In un attimo ero al suo fianco. Pareva stupita. Mi parlò, sempre camminando piano e senza guardarmi: “Vada via, non voglio più rivederla”. Nella sua voce calma non vi era rancore né rimpianto, solo indifferenza. Era una situazione assurda e non capivo: “Loretta, ma cosa vuol dire?” La ragazza ripeté le parole di prima, con lo stesso tono. Poi attraversò la strada ed entrò in casa. Sorpreso e sbalordito mi sedetti nel piccolo bar sotto il pergolato, di fronte a quella casa e rimasi ad aspettarla per tutto il pomeriggio. In quelle ore di attesa avevo la certezza di rivederla, di parlarle di nuovo, solamente ero triste per quel pomeriggio senza di lei. Nei giorni che seguirono mi sforzai di trovare una spiegazione per quel suo capriccio, anche se nessuna mi pareva plausibile. La domenica successiva raggiunsi Minerbe ma ero preoccupato. Stati d’animo di incertezza e paura si alternavano. Dall’estremità della piazza la vidi avanzare dal fondo della via, ma dopo pochi passi tornò indietro verso l’abitazione di una delle sue tante zie. Allora compresi che non avrei più potuto avvicinarla perché lei sarebbe sfuggita tutte le volte che mi avesse incontrato. La disperazione mi prese all’improvviso. Di colpo mi sentii solo, sperduto in quella piazza grande. Non riuscivo a capire e sentivo onde di nausea. Rabbrividivo ed ero tutto sudato. Girovagai per le strade fino a sera come un ubriaco con la speranza di incontrarla, poi tornai a casa. Sono un poeta che vive per la bellezza e dopo aver perduto Loretta mi sentii disperato. Durante quei giorni pensavo ancora di incontrarla. Mi dicevo che prima o poi le avrei parlato e dopo la nostra relazione sarebbe continuata come prima. Ma sarebbe stato veramente così? Io non conoscevo Loretta. Ancora la disperazione e pensieri di tristezza inguaribile. Per quattro o cinque domeniche Loretta non uscì di casa ed io rimasi a spiarla sotto il pergolato del piccolo bar. Lentamente cominciavo a perdere la fiducia, era accaduto qualcosa che mi sfuggiva. Ma cosa? Di notte non dormivo e pensavo al tempo trascorso insieme a lei. Poi correvo a Minerbe dove sprecavo i giorni nell’attesa di rivederla. E un giorno, tanto tempo dopo, finalmente la rividi. Ricordo che era estate. Ero seduto sulla solita panchina di lato alla chiesa, quando la vidi uscire da via delle poste e risalire la piazza verso di me. Era Loretta, certo, ma come era cambiata, Dio come era cambiata.... I capelli lunghissimi non li aveva più. Se li era tagliati adottando una brutta acconciatura e indossava una gonna a disegni geometrici. Bellezza e raffinatezza erano scomparse. L’attimo che mi passò davanti senza guardarmi fu indescrivibile. Chi era veramente quella ragazza? Non dissi niente e in quell’istante compresi che nessun discorso sarebbe più servito. Adesso avevo la certezza di averla completamente perduta. Rimasi come stordito per tutto il resto del pomeriggio. Verso sera al ritorno, passando sul ponte di un fiume pensai al suicidio. Solo la paura mi trattenne. Per il resto senza Loretta avevo perduto tutto, non mi restava niente altro da perdere. Poi con il passare del tempo, la sofferenza dei primi momenti si modificò diventando cronica. Ero diventato apatico e nulla mi dava più sollievo. Sempre più raramente andavo a Minerbe dove mi accontentavo di vederla da lontano. 7 Tre anni dopo arrivai a Minerbe nella festa di primavera, San Giuseppe, in marzo. Era una giornata con il cielo coperto e le vie erano lucide di pioggia. Pensavo ai giorni trascorsi insieme a Loretta nel viale, sulle panchine sotto agli alberi, dove avevamo vissuto la nostra storia d’amore. Ricordavo la sua voce, il suo profumo. Ricordavo la bellezza del suo volto che mi aveva fatto sognare, che mi aveva fatto soffrire. Con questi pensieri mi lasciai trasportare dalla folla verso i rumori e le luci della piazza. Il viale con le sue seduzioni e promesse passate, era alle mie spalle ormai. Allora rividi Loretta. Era tornata identica a come l’avevo vista la prima volta. I capelli lisci, lunghissimi, il nero profondo del velluto e il rosa tenue, la bellezza estrema che non si può immaginare. Non mancava niente. Sorrideva... ma non era sola. Insieme a lei c’era un uomo bruno, di trent’anni. Mi passarono accanto e tutto era finito. Li sorpresi insieme ancora un paio di volte e dopo non incontrai mai più quell’uomo. Nelle domeniche successive Loretta era tornata di nuovo sola, ma io non riuscii ad avvicinarla perché la vidi sempre di sfuggita: mentre saliva su un autobus o dietro i vetri di una finestra per pochi attimi, così da farmi dubitare che fosse lei. Una volta la rincorsi dopo averla vista attraversare da lontano una via, ma lei era già sparita tra la folla. Per tutta l’estate seguitai a cercarla, familiarizzando con i colombi che tubavano sui tetti, con il vecchio campanaro dai capelli bianchi e l’andatura barcollante e con la zitella gobba che arrivava in chiesa puntualmente alle quattro e mezza. Dalla mia panchina osservavo la vita svolgersi intorno a me, nella pace di quel piccolo paese. In autunno, la marchesa di Dionisi mi propose di fare l’inventario in biblioteca ed io accettai perché speravo che ciò mi avrebbe aiutato a cancellare i ricordi di Minerbe. In una stanza che odorava di troppo chiuso e piena di scricchiolii, sfogliavo i libri che prelevavo dagli scaffali. I volumi erano datati dal 1600 fino al 1800 ed erano bellissimi e di grande valore. Sfogliai romanzi francesi con capilettere miniati con delicate figure di donne; rari libri olandesi di alchimia e stregoneria; vecchi antifonari con serrature e punte di ferro... Sono un bibliofilo e avevo molto entusiasmo all’inizio, ma dopo alcune settimane ero stanco di scrivere e consultare. Anche le visite alla villa e le passeggiate nel parco mi annoiarono. Durante quel periodo il ricordo di Loretta anziché attenuarsi si fece più vivo. Nelle lunghe giornate rimanevo assorto nel tentativo di ricordare il suo volto. Finché perdetti l’interesse nelle ricerche sui libri e abbandonai il lavoro. Improvvisamente ero diventato impaziente di raggiungere Minerbe per vedere se tutto era come lo ricordavo. Ma arrivarono altri impegni, altri lavori che mi costrinsero a rimandare. Chiuso nella stanza di casa mia, per tanto tempo sognai e desiderai di ritornare a Minerbe. Quando ci andai finalmente era primavera e un altro anno era passato. Rivedevo la solita strada, la torre, il paese semideserto e solo adesso capivo come mi erano cari quei luoghi e come la vita risultasse insopportabile lontano da loro. Anche negli anni successivi tornai a rivederli nei pomeriggi di quasi tutte le domeniche. Passeggiavo o trascorrevo le ore seduto sulla panchina assorto in una specie di beatitudine. Ma Loretta non riuscii più a rivederla nemmeno da lontano. Una volta chiesi di lei a delle persone che non la conoscevano, poi ripetei il tentativo con altri, ma sempre senza successo. Una sera d’estate passando per Morubio, incontrai Roberto in una locanda. Appena mi vide mi parlò di Minerbe. In quel paese aveva lasciato il suo cuore, mi disse, anche se Mary aveva scelto un altro e adesso sarebbe stato inutile cercarla. Ricordavo appena quella ragazza. Fui io a presentargliela in quel settembre del 1966, e faceva parte del gruppo di amiche di Loretta. Continuammo a parlare mentre alcuni uomini davanti a noi giocavano a bocce. Non sarebbe più tornato in quei luoghi, affermava Roberto, per non rivedere nessuna di quelle persone. Erano fantasmi per lui e non voleva più incontrarli. Quella notte restai a vagare fino all’alba a cantare canzoni oscene in compagnia dei nottambuli. Un’altra sera, davanti a un vecchio circo incontrai Jan. Era invecchiato, ingrassato. Restammo a parlare delle avventure giovanili, ma anche dei nuovi problemi futuri. Il giorno dopo lui ripartì, e io provai il desiderio di scrivere questa storia. Adesso che il paese è così cambiato penso a com’era prima, quando senza quei fabbricati nuovi era molto più caratteristico. Un giorno ho visto persone nuove nella casa dove abitava la zia di Loretta. Ho chiesto informazioni, ma erano arrivati da poco e nessuno aveva conosciuto la vecchia proprietaria. Persino Anselmo il campanaro, che si vanta di conoscere tutti nella zona, non ha mai sentito parlare di Loretta e delle sue amiche. Il pover’uomo è invecchiato molto in questi ultimi tempi e forse non c’è da fidarsi della sua memoria. Ho incontrato anche una ragazza che, a giudicare dalla fisionomia potrebbe essere la bambina accompagnata da Loretta in quel lontano pomeriggio di agosto. Ho tentato di avvicinarla ma si è dimostrata scortese con me, forse perché mi scambia per un importuno. 8 Frugare nel passato è come immergere un bastone in uno stagno limpido e chiaro. A poco a poco si vede l’acqua intorbidirsi per il fango che sale in superficie, e si sente l’odore della putredine che ci farà smettere e pentirci di averlo fatto. Erano passati quasi dieci anni dal giorno in cui avevo incontrato Loretta e in una domenica di giugno tornai a Minerbe. L’aria era tiepida con un intenso profumo di tigli. Due ragazze incontrate per strada mi avevano indicato la nuova abitazione di Loretta, una villetta che si distingueva dalle altre simili per un pozzo nel giardino. Una sola volta durante le mie passeggiate avevo osservato da lontano, senza farmi notare, una ragazza sola in piedi in quel piccolo giardino. Non ero riuscito a distinguerla bene, ma ero sicuro che era Loretta. Ora ero tornato a Minerbe con l’idea di indagare sulla sua vita. In paese chiesi di lei a un forestiero, poi ad altre due persone che mi diedero una risposta strana: pur conoscendo quasi tutte le ragazze del luogo, quel nome non l’avevano mai sentito prima d’ora. La descrissi, ma inutilmente. E così fu per altri due passanti che interrogai più tardi. Non conoscevano una ragazza con quel nome che rispondesse alle mie descrizioni. Accennai alla sua amicizia con Nadya. Sì, adesso ricordavano di aver visto spesse volte Nadya in compagni di un’amica della quale non sapevano il nome. Non ero scoraggiato. Passeggiando pensavo alle amiche di Loretta che avrebbero potuto aiutarmi. Gloria, ma non la vedevo da molto tempo e forse non avrei saputo riconoscerla. AnnaMaria, ma anche lei era scomparsa, forse era andata ad abitare in qualche città. Restava Nadya, la meno bella delle tre: un gioiello di luce pura.... La vedevo un paio di volte all’anno. Lei e la sorella non restavano mai sole, ma avevano facoltosi corteggiatori con macchine fuoriserie. La bellezza si accompagna alla ricchezza. Spesse volte le avevo vedute salire su quelle auto e lasciare Minerbe. Nadya possedeva anche un piacevole carattere. La ricordavo buona e dolce, simpatica ma non importuna, fine e gentile senza pretendere queste doti dagli altri. Ricominciai a pensare a Loretta. Ero deciso ad andare a casa sua a chiedere di lei a chiunque fosse venuto ad aprirmi, anche al marito. Poi dopo averla veduta mi sarei scusato per averla scambiata con un’altra persona. Era un modo per vederla, anche se solo per pochi attimi. La nuova casa di Loretta era situata fra un gruppo di villette simili alla periferia di Minerbe. Mi fermai alla prima e chiesi di lei a un signore che lavorava in giardino. Non poteva essermi utile. Nella seconda un tizio dopo avermi ascoltato chiamò la moglie, una grassona che sembrava molto desiderosa di aiutarmi. Chiesi a lei di Loretta. La donna mi elencava tutti gli abitanti delle case, insieme con le loro figlie o nipoti. No, nessuna donna o ragazza con quel nome risiedeva in quella via, ne era sicura. Allora indicai la casa: “Forse abita là” dissi. Ma la donna seguitava a scuotere il capo. No, no, a meno che non intendessi una bambina undicenne che appunto risiedeva lì con la famiglia. Ringraziai e proseguii a piedi fino alla casa di Loretta. Rallentai, poi dopo una breve esitazione passai oltre. Volevo sapere, volevo conoscere prima di incontrarla, i mutamenti che erano avvenuti durante questo tempo. Nell’ultima villetta chiesi a un vecchietto che riposava nel giardino. Anche questa volta intervenne la moglie, una anziana signora, e tutto si ripeté come prima. Chiesi di Loretta; ma non la conosceva. Indicai la casa e ancora mi sentii ripetere il nome della bambina undicenne. La buona signora mi assicurò che confondevo le cose. Una donna con quel nome abitava infatti in una fattoria fuori di Minerbe. Ringraziai, ma ero certo di non sbagliarmi; inoltre le descrizioni dell’altra Loretta non corrispondevano per niente. Quella volta tornai a casa perplesso. 9 Se il lettore curioso vorrà visitare Minerbe può farlo, certamente. Se vorrà vedere quel paese a me tanto caro o passeggiare in quel lungo viale dei tigli, ricordi solo di non disturbare i fantasmi di quei luoghi. Lo pregherei di usare la delicatezza e il rispetto che io ho usato, frutto della mia esperienza e di una lunga dedizione. Là equivale camminare nella mia anima. Là tante cose si sono decise della mia vita futura, perché il destino mi ha preso per mano e mi ha guidato per strade dalla prospettiva infinita che io non conoscevo, e che non conosco nemmeno ora. Dopo una breve pausa che mi permise di riprendere fiducia nel mio progetto, la domenica seguente tornai a Minerbe. Ancora il caldo e il profumo intenso dei tigli. Sentivo che avrei perduto dell’altro tempo rimanendo lì e appena arrivato mi era venuta voglia di andarmene. Attraversai la piazza e allora improvvisamente comparve Nadya, in compagnia della sorella. Non mi aspettavo di incontrarla e le dissi solo un breve saluto: “Ciao Nadya”. “Ciao Peter”. Straordinario! Ricordava ancora il mio nome. Il mio nome su quelle labbra che sorridevano aveva un suono strano. La seguii con lo sguardo mentre camminava nelle ombre celesti del viale. Era una buona occasione. L’amica di Loretta. Quante cose avrei saputo di lei! Intanto Nadya non era più nel viale. Mi incamminai nella sua direzione fra le ombre, il profumo, il silenzio. Tutto questo mi stordiva e il viale era come una culla per me, il caldo come una ninna nanna. Proseguii fino davanti al piccolo bar seminascosto dal pergolato e come supponevo Nadya era seduta là, insieme alla sorella e ad alcuni uomini che parlavano forte. Nadya aveva distolto gli occhi dal gruppo e mi guardava. La guardai anch’io; era bellissima ma non potevo parlarle ora, perciò proseguii fino al grande cespuglio di gelsomini ancora in bocciolo. Ero stanco. Aspettai un poco poi tornai indietro ed entrai nel bar. Un’oscurità sgradevole mi accolse. Mi appoggiai al banco e attraverso i vetri vedevo Nadya sempre seduta al suo posto. Dopo un po’ di tempo gli uomini andarono via ma altre due amiche erano arrivate. Attesi un istante poi uscii con disinvoltura dalla porta principale, presi una sedia vuota e accostandola al circolo di ragazze chiesi il permesso di sedermi. Dissi qualcosa rivolgendomi a Nadya e dopo un poco la conversazione era ripresa come prima. Fine, biondissima, gentile, Nadya parlava e sorrideva. Alla mia destra era la sorella, anche lei bionda ma con i capelli lunghi. Non parlò quasi mai. Poi sedeva Nadya, poi le due altre ragazze che non conoscevo e io chiudevo il circolo. Guardando lei provavo una sensazione dolce di quiete. Era bella fino allo splendore nella sua semplicità. Una gonna nera e lucente, una camicetta bianca con bottoni minuscoli di perla. Il reggiseno bianco si notava appena fra la scollatura triangolare. Alle mani un anello sottile come un filo sul quale vi era una sterlina non incurvata. Nessun trucco. I capelli erano fini, cortissimi, biondissimi come le ciglia e le sopracciglia. Le gambe erano accavallate, affusolate, tornite, bianche fino alla coscia. Anche sua sorella era tanto graziosa ma non quanto lei e le altre due ragazze non mi interessavano e non saprei descriverle. Nadya era il sole di quel circolo e tutto luccicava intorno a lei ma di luce riflessa. Fine, gentilissima seguitava a conversare a bassa voce, a sorridere con spontaneità. Mi dichiarai affascinato dalla sua bellezza e lei sorrise ai miei complimenti senza parlare. Lasciai trascorrere dell’altro tempo. La quiete era perfetta sotto il pergolato, il profumo dei tigli faceva sognare. Sentivo che era scortese chiedere ad una donna notizie di un’altra donna, specie se sono entrambe belle, ma ero deciso a sapere, volevo acquietare il cuore che sperava ancora. Mentalmente formulai la domanda: “Dov’è Loretta?” Subito molte risposte si affollarono in me: era sposata, era morta, aveva dei figli, non era più la sua amica, non la vedeva da molto tempo, era malata, era separata, era fuggita.... Preparai le parole adatte alle possibili risposte. Non dovevo rimanere colpito, avrei dissimulato la mia sorpresa e ripreso l’argomento per approfondirlo se possibile; tutto doveva avvenire con spontaneità. Dissi qualcosa per entrare nella conversazione. Resi noto il mio desiderio di venire ad abitare a Minerbe, dichiarai il mio amore per quel paese. Poi mi rivolsi a Nadya, sorridendo. I suoi occhi celesti incontrarono i miei. Sorrideva. Era quello il mio momento. La mia domanda apparve casuale, priva di interessi profondi. “E... Loretta, da quanto tempo non la vedi più?” Ebbe un moto di stupore: “Chi?” Perché voleva farmi ripetere il nome, non era possibile non lo avesse udito. “Loretta” ripetei a bassa voce. Un altro moto di sorpresa, contenuto però, un sincero stupore e un cordiale desiderio di aiutarmi. Non fingeva: “Chi è?” Le altre ragazze si erano fatte silenziose. Mi sentivo imbarazzato; evidentemente Nadya non ricordava bene, giocai a carte scoperte allora: “Ma, Nadya, era una tua amica, era sempre con te anni fa, non puoi non ricordarti di lei...”. Ogni sfumatura di stupore era scomparsa nella sua voce, adesso aveva il tono di chi fa una constatazione evidente o dice una verità oggettiva. E la bonarietà di chi non desidera offendere l’interlocutore che ha sbagliato: “Non ho mai conosciuto una ragazza con quel nome, non ho mai avuto un’amica con quel nome”. Fece una pausa: “Liliana, Rita...”. Passava in rassegna i nomi delle sue amiche per vedere se la confondevo con una di loro. Era straordinario. Non potevo oppormi al destino. Eppure Loretta era il suo vero nome, perché avevo sentito altri chiamarla così. Guardavo Nadya. Non era una commedia la sua, non fingeva per niente, ero io che mi stavo comportando da stupido. Le altre ragazze ripresero a conversare. Non parlavo più, non sapevo che dire, non ero preparato a quella risposta. Ancora il tempo che fluiva nella quiete del viale. Ancora la stessa sensazione di stanchezza. Avevo perduto. La mia ossessione sarebbe rimasta avvolta nel mistero. Nadya intanto si era alzata e mi salutava. Stava per andarsene ed io nella confusione sbagliai perfino il nome: “Ciao Rita...”. Quando mi accorsi dell’errore lei mi voltava le spalle e si allontanava insieme alla sorella. Il posto era diventato scialbo, il pergolato incolore. Sono uno stupido, seguitavo a ripetere dentro di me. Anche le altre due ragazze erano andate via. Rimasto solo attesi un’ora, due ore, poi mi alzai. Guardai le sedie sulle quali eravamo seduti, guardai per l’ultima volta il viale dei tigli che galleggiava in una penombra profumata. Guardai le coppie che passeggiavano assorte nei loro sogni. Feci ritorno a casa che era già notte. Ero sfinito. Nei giorni che seguirono anche Nadya scomparve, insieme alla sua sconosciuta sorella. Non la rivedrò più, lo sento, ed ora appartiene al passato. Con lei che era forse la sola in grado di aiutarmi, se ne vanno le mie ultime speranze. Non la rivedrò più, e so che sarebbe inutile cercarla.... Dopo dieci anni il meraviglioso e crudele sortilegio, del quale non conoscevo né la causa né il fine, si era per sempre concluso. FINE Sergio Bissoli Stesura: 1973. Revisioni: 1982, 1988, 1991, 1992, 1996, 2002, 2003, 2004, 2005 2006, 2007 2011 Sergio Bissoli scrittore bibliofilo regista Youtube bissolis KETTY E IL PROBLEMA Dopo Barbusse e gli Esistenzialisti, lo scrittore Bissoli tocca i temi che stanno alla radice della Vita: l’eros e la morte. La bella Ketty ha uno strano problema. Chi l’aiuta a risolverlo rimane coinvolto. Vuoi provare anche tu? SOLE DI MEZZANOTTE Un artista sensibile al problema della sofferenza compie una ricerca frenetica nel mondo dell’Occulto, fra maghi, veggenti, medium, stregoni, guaritori, pazzi, sensitivi… Erika soffre e ha bisogno di aiuto. Se la scienza non basta, è lecito rivolgersi alla magia? E fino a che punto? LA RAGAZZA DEL PAESE STREGATO Una storia di atmosfera, ambienta in un piccolo paese dove, sotto una grigia quotidianità e un apparente torpore, si agitano passioni estreme, sopravvivono millenarie tradizioni magiche pagane. Un thrilling mistery di qualità scritto da uno specialista di questo genere. Un mistero avvolge la vita di Mirta. Ma prima di risolverlo, bisogna risolvere l’altro enigma, quello del paese nel quale ella vive. SORTILEGIO. Una delicata storia d’amore ambientata nei mitici anni ’60. Il ricordo di un sentimento e di una illusione unica e irripetibile. C’è oscurità e ombra nella vita di Loretta. Chi è veramente questa ragazza? Provare a far luce, significa perderla.

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