venerdì 16 agosto 2013

Virgilio Scattolini La signora che non fu signorina

Virgilio Scattolini LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA Romanzo Copyright © 2012 Virgilio Scattolini Tutti i diritti riservati Presentazione di Sergio Bissoli Anche in Italia abbiamo grandi scrittori paragonabili ai francesi D’Aurevilly, Balzac, Maupassant. Con la differenza che qui da noi non sono sufficientemente pubblicati, diffusi e pubblicizzati. È il caso di Virgilio Scattolini, grandissimo autore purtroppo poco conosciuto e che non viene ristampato da anni. Nato a Firenze nel 1889 è autore di molti libri: CESARINA IMPARA L’AMORE LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA LA BOCCA MI BACIÒ TUTTA TREMANTE EVELINA DRAGO PIACERE DEL MONDO LA RAGAZZA DAI SETTE PECCATI IL PROCESSO DI CESARINA DATTILOGRAFA MARCA AMORE E MORÌ PER TUTTE LE DONNE IL PECCATO ORIGINALE CHE C’È DI MALE LA CAVALCATA DELLE VERGINI LA SIGNORA DEGLI UFFICIALI GIANNETTA DELIZIOSA AVIATRICE LE SIGNORINE MA LEI NON SI UCCISE L’ARTE DI IMBROGLIARE IL PROSSIMO MORFINOMANIA L’IGNORANZA DEI NOSTRI ATTORI AVE MARIA. Il romanzo che presentiamo qui: LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA racconta la storia di una bella ragazza che si accinge a diventare donna. Scattolini descrive poeticamente il variopinto mondo interiore femminile dell’adolescenza. Quei momenti magici, irripetibili di una ricchezza sovrabbondante che sembrano eterni, ma sono destinati a svanire e a essere dimenticati nell’età adulta. È un prezioso tesoro che l’Autore è riuscito a descrivere e immortalare, per il piacere di ricordare i momenti più belli che tutti noi, da giovani, abbiamo vissuto. Poi, nel corso degli anni, il fidanzamento, il matrimonio, la maternità, l’amore e l’odio, il piacere e il dolore. Tutte le bellezze e le brutture delle fasi della vita sono magistralmente descritte nel loro aspetto esteriore ed interiore. Le azioni delle persone seguono schemi di comportamento naturali e i personaggi del romanzo si comportano come le persone vere nel mondo reale. C’è grande realismo e verosimiglianza nelle descrizioni fisiche e psicologiche dell’Autore. Le fasi della vita si susseguono, le stagioni scorrono e il finale sembra prevedibile, sembra che non ci sia più niente di nuovo da aspettarsi. Invece non è così. Proprio come nella vita reale, la fine offre nuove sorprese, imprevedibili ma coerenti con lo sviluppo dei fatti. Scattolini è un mistico dell’erotismo, un Autore che tratta con competenza e grande realismo il poema dell’adolescenza e della giovinezza. Le più belle stagioni della vita e degli amori sono evocate con una grazia e un realismo stupefacente. Bellezze e brutture, splendori e miserie, vertici e abissi della vita sono esplorati e descritti con rara capacità e magistrale bravura. Solamente i poeti hanno descritto la vertigine delle passioni nel momento stesso in cui la vivevano. Pochi hanno saputo descriverle dopo; molti le hanno dimenticate quando le passioni si sono esaurite. Nelle pagine di Scattolini vibra la vita, splende la vita, scorre la vita. Le passioni possiedono una religiosità e una profondità che tocca le radici dell’essere, là dove si nasconde il mistero dell’esistenza. Ecco l’importanza di questo Autore ricco di sensibilità, di esperienze e con il desiderio di condividerle con i lettori. Altro merito di Scattolini: egli ha lavorato per diffondere gli autori italiani. Scattolini si lamentava che gli autori francesi in Italia vengono stampati e diffusi più degli autori italiani. Agosto 2011 I Il pomeriggio di luglio insolentiva coi suoi trentadue gradi di caldo per le vie di Firenze sonnacchiosa. Però il grazioso appartamentino di Cesarina Montaldo era un piccolo paradiso di frescura. Occupava l’unico piano di un villino minuscolo e barocco nei pressi del Viale Mazzini. Era forse quello il quartiere più fresco della città, nel quale i colli di Fiesole sovrastante filtravano l’aria più sana. Costruito in mezzo a un bel giardino inghiaiato, protetto da grandi alberi centenari, trapiantati da un vecchio parco medievale dei dintorni, il villino Cesarina (portava il suo nome) aveva in tutto tre stanze al terreno, quattro al primo piano, il sottosuolo e la soffitta. Giù due salotti e la camera dei forestieri, su la camera di Cesarina e quella dell’avvocato Montaldo, separate da uno splendido gabinetto da bagno e da toilette, in fondo la stanza dell’Assuntina, la fidata cameriera. Pavimenti di legno, mobili modernissimi e leggeri, pareti colorate di chiarità semplice e liscia, soffitti sguarniti, tappezzerie trasparenti, insomma tutto quel confort per cui la comodità della moda contemporanea fa della media borghesia una classe signorile ed elegante. La fanciulla, il babbo e la camerista vi abitavano soli, da poco più di un paio di mesi, in seguito ad uno di quei disfacimenti familiari tanto comuni nell’impossibile società d’oggi. La madre di Cesarina, la signora Luisa, rimasta apparentemente onesta per tanti e tanti anni dal suo matrimonio, aveva aspettato proprio il momento debole dell’età critica per lasciarsi stupidamente sorprendere all’ultimo adulterio. Cosi aveva dovuto fuggirsene presso alcuni parenti lontani, contentandosi che il marito le risparmiasse la vendetta e lo scandalo. Laura, la sorella maggiore, era maritata e stava da sé, pure abitando a Firenze, e Carletto, il fratello, studiava all’Istituto Cicognini di Prato. Cesarina era la più piccola, aveva ora quattordici anni e qualche mese, e siccome il babbo le aveva sempre voluto più bene, da che erano soli la teneva come una principessina. Fioriva meravigliosamente la bimba, diventava una damina portentosa. Prima era troppo lunga e troppo magra, ora era soltanto alta e molto snella, ma formata voluttuosamente. Non aveva più la zazzerina color tango che le dava un’aria di paggetto biondo, ma i capelli finissimi, tanti tanti e tutti accesi le cominciavano a scendere a boccoli per le spalle o se li annodava con dei magnifici fiocchi di raso variopinto. Gli occhi neri neri di mistero e di sogno le apparivano più grandi e profondi nel viso fattosi ovale e trasparente di un carnato latteo venato appena appena con leggerezza. Le mani perfette sempre più esili e più lunghe rivelavano le attenzioni minuziose della manicure, le unghie erano un capolavoro di rosa. Nella camera delicata, fragrante di verginità e di profumi, seduta sul letto basso di legno chiaro, Cesarina si metteva le calze più bionde dei suoi capelli. Aveva una gamba accavallata sull’altra e teneva tra le mani un piedino grazioso come un balocco, appoggiato all’altro ginocchio. Con la sottovita e le mutandine soltanto, le cui trine ricchissime alte quasi un palmo la coprivano appena appena, lasciava intravedere nelle spalle, nel petto, nelle gambe, una fragilità di carne candidissima e morbida come una panna. Allaciatesi le giarrettiere si levò in piedi svelta svelta e si guardò nel triplice specchio del grande armadio con muta compiacenza. Si muoveva con degli atteggiamenti d’innocenza che comincia a sapere, aveva negli occhi belli la spiritualità di un quasi amore. Si infilo la sottanella breve di batista bianca, leggera come un velo, e si allacciò le scarpette gialle uguali alle calze e ai capelli. Tutta quella biancheria esalava una fragranza di carne e di profumo, un aroma inebriante di femminilità ancora in boccio. La vestina di seta cruda, corta fino al ginocchio, tutta intera, stretta alla vita da una cintura uguale, il cappellino piccolo di truciolo rosso, simile al cappuccetto delle novelle, e fu pronta. Si guardò ancora allo specchio, si accomodò bravamente due o tre riccioli ribelli, mise dei soldi nel porta monetine di pelle e questo nella borsetta damascata, e prese i guanti. Suonarono le tre. Come mai Giorgio tardava quel giorno? Di solito veniva sempre almeno mezz’ora prima. Si accostò alla finestra, alzò le persiane e si affacciò sul viale per aspettarlo. Ma contemporaneamente, quasi per smentirla, il brivido sonoro del campanello elettrico corse tutta la casa, e vide Giorgio al cancello del giardino. La salutò sorridendo come il solito ed entrò. Aveva due anni e mezzo più di lei, cioè quasi diciassette, era alto e forte, bruno eccessivamente, ma distintissimo. Coi suoi baffetti all’americana, i capelli foltissimi d’una morbidezza di velluto, elegantissimo come sempre con la paglietta fine, l’abito chiaro, la canna di moda. Cesarina scendendo lo trovò in salotto che parlava con l’Assuntina. Giorgio Dameti, antico compagno di scuola di suo fratello prima che entrasse al collegio Cicognini, e figlio di un amico intimo dell’avvocato Gastone Montaldo, era si può dire quasi di casa. Di più l’Assuntina, per l’affetto cieco che aveva alla bimba, e per quell’istinto di complicità che hanno tutte le serve, favoriva l’amoruccio precoce della sua padroncina. Anche portava dalla sua campagna lontana, questa massima di saggezza. Che a una ragazza non può succeder nulla di male con un giovanotto, ma che soltanto i vecchi sono pericolosi. – Signorina torni presto stasera, perché il padrone deve credere che lei è stata fuori con me – si limitò a dire mentre i due ragazzi uscivano. – Non importa. Ho fissato col babbo di andarlo a prendere allo studio alle sette e mezzo. Dirò che mentre venivo insieme con te ho incontrato Giorgio, e perciò mi ha accompagnato lui. I due ragazzi uscirono nel viale assolato. Cesarina aprì l’ombrellino scarlatto, e Giorgio la complimentò come al solito. La bimba sorrise. – Come sei buffo, Giorgio mio. Mi ripeti tutti i giorni le stesse cose. Si direbbe che mi vedi sempre per la prima volta. – Perché sono sempre meravigliato della tua bellezza. L’Assuntina li guardava con compiacenza dalla finestra, finché non svoltarono. Quei due ragazzi sembravano davvero la bellezza e la gioia. E si vedeva subito, non c’era da dubitarne. Cesarina, con le sue vesti corte, le sue gambe meravigliose, i suoi fianchi perfetti e il suo petto sbocciante attirava dagli sguardi degli uomini lampi di lussuria come un parafulmine. Attraversava bufere di voluttà. Tutti, giovanotti, uomini maturi, vecchi, si accendevano gli occhi di fiamme torbide. Si illuminava intorno alla piccola la fiaccolata dell’orgia. Quando era insieme con Giorgio poi, un brivido di amore precoce attanagliava i desideri di tutti, si aveva la sensazione di cento e cento virilità in attesa intorno a lei, la brama del maschio innumerevole fiutava nel suo profumo di femmina la vigilia della contaminazione. – Dove si va? chiese Giorgio. – Dove vuoi. Sono le tre. Bisogna tornare prima delle sette. Ci sono quattro ore. Prendiamo subito un tram però, perchè fa troppo caldo qui a camminare. Andiamo alle Cascine, al Vial dei Colli, o nel bosco di Vincigliata? – Alle cascine no. Non mi piace. E poi che si fa? – Al Viale dei Colli ci siamo stati ieri l’altro. Andiamo a Vincigliata, a ritrovare il nostro albero del fidanzamento. Camminarono per viale di Circonvallazione alberato di due bordi di ombra nel sole meridiano, traversarono Piazza Beccaria che era un deserto di pietre arse e di facciate di case brucianti di calore estivo, e si fermarono alla caserma dei cavalleggeri per attendere il tram di Ponte a Mensola. Sulla cantonata della via Ghibellina c’era un gelataio ambulante che stappava bottiglie di gazzosa e spremeva diaboliche limonate, c’erano i soldati di guardia al carcere delle Murate che sonnecchiavano oziosi, qualche cavalleggero che tornava in caserma, e le poche persone che aspettavano il tram. C’erano due serve, una contadina vestita a festa, due ufficiali, un altro tenente con una piccola cocotte, un giovanotto e un grosso prete. Cesarina chiuse l’ombrellino da sole, Giorgio era distratto e non parlava, i due ufficiali ebbero una scossa simultanea e si scambiarono un’impressione reciproca sulla fanciulla. Anche il giovanotto la guardò. I suoi occhi parevano accarezzare la bimba sfiorandole la nudità della scollatura, poi si abbassavano alle gambe, con uno sguardo che la spogliava tutta. Il tram di Settignano passò. I due ragazzi vi salirono, e anche la contadina, il tenente con la cocotte, il giovanotto e il prete. A Cesarina nel montare si intravidero sotto i merletti delle mutande lampi di nudità. – Che gambe! – mormorarono insieme i due ufficiali quasi in un’estasi. La fanciulla adocchiò subito un cantuccio, per non sedersi altro che accanto al suo Giorgio. Non parlava, perché tutta la sua attenzione era concentrata nella cocotte col tenente che sedevano nell’angolo in diagonale. L’incuriosivano tanto le cocottes! E mentre la sua testolina fantasticava chi sa che, non si accorgeva che avendo accavallate le gambe, quelli che le erano di fronte le vedevano tutte le calze, la carne bianchissima e quasi tutte le mutandine. E di fronte, oltre il giovanotto salito insieme a loro, c’erano un commesso viaggiatore con la sua busta di cuoio, due altri giovani che parevano commercianti, e un signore ben vestito e dall’aria annoiata. Subito Cesarina fu come un polo magnetico per tutti questi desideri maschili. Si aveva proprio la sensazione che quella carne così bianca, così delicata, così miracolosa sfumasse in un’eternità di gioia profumata. E tutti quegli sguardi di maschi bramosi coprivano il corpo della bimba come un vestito di luce, anzi come una biancheria aderente alle nudità. C’erano tre signorine, due signore, due spose con cappelli, un vecchio e due operai ancora. La cocotte esalava un profumo acutissimo e penetrante, le signore e le signorine invece il profumo più modesto delle donne per bene. Tra questi due estremi oscillava il profumo più delicato e più fine di Cesarina, profumo verginale di attesa d’amore. E nella soffocazione di quell’interno di vettura queste ondulanti sfumature di profumi femminili, si confondevano all’odore di carne grassoccia delle spose, all’acre sentore che avevano nei vestiti e nelle persone gli operai, la vecchia e la contadina, alle esalazioni di cuoio e di carte d’ufficio dei commercianti e del viaggiatore, al puzzo di tabacco del prete, e al bagno di sudore più forte e più leggero di tutti. Per via Fra Giovanni Angelico il tram uscì lungo l’Africo, attraversò il passaggio a livello e da via Filarocca corse nella campagna Settignanese. Bisogna aver viaggiato molto, bisogna esser tornati delusi dai più bei paesi del mondo, per apprezzare quest’oasi di Paradiso Terrestre che è la campagna dei dintorni fiorentini. È una campagna meravigliosamente incittadinata, degna della città sovrana dello spirito e della grazia. La vite, l’ulivo e il grano, solchi biondi a perdita di sguardo, inghirlandati infinitamente di oliveti e di vigneti. E alberi di frutti, peri, susini, meli, fichi, peschi, albicocchi, come un giardino interminato. Ogni tanto una macchina trebbiatrice annunziava col suo fragore la mietitura fervente. Qualche volta era proprio quasi sulla strada. Si vedeva la trebbia verniciata di rosso, con sopra i due operai imboccatori, neri di sudore e di polvere che infilavano giù i covoni un dopo l’altro, le contadine con le pezzuole colorate in testa, sulla barca del grano che li porgevano. Un fremito di vita accesa interrompeva così a un tratto quella bellezza di leggenda morta tutta particolare della campagna fiorentina, e l’armonia soleggiata della città che si allontanava man mano, invadeva graziosamente l’esalazione grave ed umana di puzzo e di profumo della vettura chiusa. Giorgio aveva preso una mano di Cesarina, e ogni tanto le diceva una breve frase indifferente. La bimba rispondeva distratta, sempre attenta a guardare la cocotte. Pareva che volesse interrogarne la vita e il mistero, che ogni particolare di quella ragazza le rivelasse qualcosa di bizzarramente curioso. Le cocottes erano una mania per Cesarina. Aveva imparato a distinguerle con una certezza che meravigliava. Renzo, il marito di sua sorella, e gli amici del babbo si divertivano sempre a farla parlare su queste cose. – Dì Cesarina – le chiedeva il cognato, additando qualcuna che passava – com’è quella lì, una di quelle o una di quelle altre? – Una di quelle – rispondeva pronta la bimba. E qualcuno degli amici: – Dica signorina, quella di fronte a noi è una signorina allegra o una signorina triste? E Cesarina subito: – È una signorina allegra. E non sbagliava mai. E le scrutava attenta attenta, con la malizia che mettono le ragazzine in tutto quello che riguarda l’amore. Per lei il carminio delle labbra tinte, il rossetto delle guance, il bistro degli occhi, i capelli ossigenati erano come i simboli di una poesie tutta speciale. E quel loro profumo, quel profumo stranissimo e stracarico, il cui eccesso si ripeteva tutti i giorni, accumulando detriti fantastici che maturavano quelle carni di piacere fino all’esasperazione! E vi era una mescolanza bizzarra come il destino capriccioso della persona. Le essenze finissime si erano amalgamate con le più volgari secondo i giorni di splendore e di miseria. Una fusione vertiginosa, di untuosità profumata e di corpo femminile prossimo al disfacimento, una saturità porosa di carne odorosamente umida. Una sensazione di frutto così maturo che a morderlo cola da tutte le parti. E Cesarina provava la curiosità di una cosa che sarebbe stata per lei un mistero di tutta la vita, di un mondo che le doveva esser chiuso per sempre, dove non sarebbe penetrata mai. E quel mondo ignoto di corruzione lontana era suggestivo per lei come per noi mortali il problema dell’essere, l’enigma dell’oltre tomba. E avrebbe avuto voglia di interrogarle a una a una come noi si domanderebbe volentieri ai morti quel che succede di là. Era una curiosità uguale. Per appagarla, noi mortali dobbiamo morire. Per appagarla, Cesarina avrebbe dovuto discendere nel disonore abissale, morire come femmina. Era lo stesso brivido. Cesarina nella sua innocenza preverginale non poteva figurarsi mai che le cocottes in fondo in fondo non erano altro che donne che si facevano pagare relativamente poco per fare quella stessa cosa che lei, futura signora perbene, avrebbe fatto nella su vita per un prezzo molto maggiore. La sua immaginazione di bimba attribuiva alle cocottes una sapienza misteriosa di vizio che agli occhi suoi le rendeva tanto superiori alle signore oneste, come le ragazze grandi le parevano dover canzonare le bambine che non sapevano nulla. Le pareva anche che gli uomini se la intendessero meglio con le cocottes che con le signore perbene. A Ponte a Mensola scesero loro due soltanto, gli altri continuavano tutti verso Settignano. Svoltarono lungo la Mensola, quasi secca in quei giorni di estrema calura, e per la strada polverosa, fiancheggiata dal fiumiciattolo e da una fila di case rozze, vecchie e sudice, Giorgio offrì come tutte le altre volte, una sigaretta a Cesarina, ne accese una per sé, e così fumando salirono verso il limite del bosco. La bimba cominciava a saper fumare sul serio, ora. Con disinvoltura leggermente libera si toglieva dalle labbra la sigaretta tra l’indice e il medio e mandava fuori dalla bocchina semiaperta, con voluttà, il fumo traspirato, assaporando il piacere di una cosa segreta e proibita. Con l’altra mano teneva la borsetta, appoggiandosi nella salita all’ombrellino chiuso come a un leggero alpestock. Giorgio, accanto a lei a due passi, scartava con la mazza i sassi della strada. I due ragazzi non parlavano, tutti attenti ad arrivare. Il bosco di Vincigliata è una delle bellezze fiorentine che sono le meraviglie del mondo. Si stende dall’entrata di Settignano fino alle cave di Maiano sotto Fiesole, in tante vallette a precipizio, veri abissi di frescura e di semitenebre ombreggiate dalla boscaglia fittissima anche nel pieno sole dell’estate meridiana. Ha qualcosa del bosco medioevale col suo castello antico sopra uno dei culmini. Una strada a serpe snodata in parecchi semicerchi lo attraversa tutto a diversi livelli, dando l’idea di molte strade. Qualche viottolo unisce un anello della strada a quello sottostante. In fondo a qualcuna delle vallette si trova spesso una piccola sorgente d’acqua fresca e limpida. A tratti ha qualcosa di Ariostesco e di leggendario. Alla svolta di un viottolo ci si aspetta di incontrare Angelica fuggente. Si trova invece una remota casetta di contadini, e ci si ricorda che le domeniche il bosco meraviglioso è la camera ammobiliata naturale che accoglie gli amori di tutte le serve, o il nido spensierato delle multiple famiglie borghesi ed operaie che vanno a fare una passeggiata in campagna. Gli altri giorni però il silenzio vi è magnifico e suggestivo. Dalla strada di Ponte a Mensola, risalendo lungo il minuscolo fiume, si taglia proprio a metà il gran bosco, che dalla parte di Fiesole sale, e dall’altra discende. Cesarina e Giorgio con la pratica esperta di chi è in casa propria, scesero per un viottolo, traversarono due o tre collinette, e si precipitarono verso una piccola conca in fondo alla quale zampillava una sorgente fresca. Il luogo pittoresco e leggiadro avrebbe inchiodato in un’estasi d’ammirazione chiunque non fiorentino. Ma i due ragazzi erano troppo signori della bellezza ed avevano perciò l’abitudine della noncuranza. Saltando uno dietro l’altra si aggrapparono per trattenersi a un piccolo albero che si piegò sull’acqua nello sforzo. A mezzo tronco, incrociata a un ramo, vi era una ghirlandetta quasi secca di fiori di bosco colti lì d’intorno. Sulla corteccia dell’albero erano incisi due nomi: Giorgio e Cesarina, e una data. – Guarda, la nostra corona c’è sempre – disse Giorgio contemplando per qualche minuto l’albero del suo amore. Cesarina sorrise, fingendo disattenzione per un suo ritegno di bambina. Posò l’ombrellino e la borsetta, si tolse il cappellino rosso, e alzandosi il vestitino di dietro, per non macchiarlo, si sedette sull’erba alta. Anche Giorgio si sedette vicino a lei. Prima però stese con attenzione minuta il fazzoletto sull’erba per non sporcarsi l’abito chiaro. Cesarina era nel momento più curioso è più grave della sua vita di bambina. Da due settimane soltanto la prima mestruazione aveva steso sopra i suoi occhi meravigliosi il velo melanconico e languido della vita femminile. In tutta la persona, nell’espressione del viso aveva serbato quel brivido leggero di angoscia spirituale lasciatole dal terrore e dalla paura di quel momento così nuovo, strano ed inaspettato per lei. Abbandonata dalla mamma le era mancato l’affetto più opportuno per preparare la sua innocenza alla materialità paurosa di quel suo primo giorno di femmina vera. Meravigliosamente ignara, nelle sue piccole malizie di bimba, quell’improvviso sprigionarsi d’energia, quella fioritura purpurea della sua primavera di donna, le faceva sentire la mancanza della mamma come un vuoto spaventoso. Le mancava la confidenza naturale in cui la sua breve anima rabbrividita si sarebbe adagiata come in un riposo, si sarebbe abituata giorno per giorno al fatto compiuto della ripugnante necessità femminea, come i bambini si abituano a camminare. Invece soltanto Giorgio, il suo amico d’infanzia, era stato il suo confidente dei più intimi brividi innocenti di quei giorni. Del babbo e della cameriera che l’avevano confortata nel suo primo terrore, si vergognava; padre Anastasio, il suo confessore, al quale aveva confidato quell’angosciosa paura sua di bambina, le aveva detto le poche parole che la religione suggerisce sui doveri della donna di saper soffrire in silenzio l’umiliazione materiale che l’ira di un Dio offeso le ha imposto per secoli. Giorgio, al contrario, aveva partecipato a questo dolore di bimba con tutta l’ingenua spontaneità della sua giovinezza sedicenne. Avvolto nella delicata confidenza di quell’anima innocente e di quel corpo quasi inconsapevole, nel momento in cui gli altri coetanei suoi intravedevano appena l’intimità femminile, come un mondo lontano, remoto e futuro, che esplorano con ansietà curiosa e malsana nei bordelli di terz’ordine, Giorgio amava la sua Cesarina con una serietà quasi commovente. La vigilava con attenzioni delicatissime e assidue, perché nulla turbasse la sua felicità quotidiana di fanciulla trepidante di tutto il presentimento del martirio femminile. E Cesarina si abbandonava a quell’amoruccio con una grazia infantile di donnina precoce. E mentre fino a quei giorni il giovinetto aveva significato per lei soltanto il soddisfacimento della sua malizia curiosa verso l’unico maschio che poteva avvicinare liberamente, da quella malattia triste in cui la sua lieve femminilità lampeggiò di rosso come un’alba profetica, l’affetto verso il suo Giorgio si era fatto più compiuto di anima e di spiritualità. Amava in lui la mamma, che l’aveva abbandonata, amava in lui il babbo, che la prediligeva sopra tutto e che solo per amore di lei si era riattaccato alla vita dopo l’ultimo strazio del suo onore di uomo, amava in lui l’amore, la vita, e di più qualcosa che ancora non sapeva precisamente definire. Giorgio era il suo giorno, senza di lui erano le tenebre. E anche lì, nel frescolino semibuio del bosco, ebbe un momento di esitazione sospesa e indecisa, come aspettando che Giorgio cominciasse ad accarezzarla. Il giovanotto la strinse a sé, cingendole un braccio dietro la vita. Cesarina si appoggio verso di lui reclinando sopra il suo petto la bella testolina bionda e vivace, e le due bocche freschissime di giovinezza e di vita si confusero nel primo bacio. Con l’altra mano libera le accarezzava i capelli morbidi e voluttuosi, e le stringeva le gote piene, sulle quali la baciò poi ripetutamente con una ghiottoneria ingorda come i ragazzi quando mangiano un frutto. Cesarina batteva le palpebre cercando debolmente di liberare il viso da quella stretta. Nello stringersi a lei Giorgio sentì il contrasto di un oggetto duro e solido nella tasca della propria giacca. Ci mise una mano e ne tirò fuori un volumetto rilegato in cartone variopinto. – Ah! disse – non me ne ricordavo più, ti ho portato Salammbò di Flaubert in francese. – Fai vedere! – e la bimba tutta contenta glielo tolse con impazienza. Il francese e la musica formavano da quasi due anni la cultura speciale di Cesarina, e particolarmente da che ella era sola col babbo, studiava con tanta calma e attenzione, piena d’impegno a tutto suo agio, che ormai leggeva a meraviglia i giornali e le riviste di Parigi, e suonava il piano un po’ meglio di una dilettante. La bimba aprì il librettino grazioso. Era un’edizione tascabile in carta velina indiana, interrotta ogni tante pagine da un cartoncino lucido con una elegantissima tricromia minuziosa e precisa come una cartolina illustrata di lusso. Cesarina guardò subito tutte quelle figurette, leggendone i titoli con la sua bella vocina musicale che pronunciava graziosamente i dittonghi e le erre. C’era Salammbò statuaria di pallore lunare che scendeva le scale del palazzo di Amilcare; il grande capitano Cartaginese che parlava davanti ai magistrati incuorandoli a vincere Roma; gli inesorabili sacerdoti venerandi di Moloch davanti alle porte del tempio tremendo; i pesci miracolosi della dea che muoiono di un morbo ignoto nelle vasche della terrazza marmorea; Matho che ruba il velo di Tanite; la sorella di Annibale nell’accampamento nemico offrendo le sua nudità vergine al guerriero vincitore per placare la dea e recuperare il velo prodigioso. Intanto Giorgio, tutto stretto alla bimba, le accarezzava le calze bionde con mano trepidante. La bambina, tutta assorta a guardare le sue figure, pareva non si accorgesse di nulla. L’odore sano e fresco del bosco, nel silenzio dell’ombra fittizia con soltanto lo stillicidio breve della piccola sorgente vicina, un soffio leggero leggero, ogni tanto, di fiori o di foglie, tra i grandi alberi secolari, e il ronzio raro di qualche insetto. A questa suggestione di mistero naturale si mescolava il profumo delicato di quel bel corpo quasi infantile, di quella pelle di velluto, di quella biancheria di bambina. Giorgio si piegò tutto su lei e le due bocche adolescenti e pure confusero i loro aliti freschi e non si staccarono più. L’impeto della giovinezza svelata vinse il pudore dei due ragazzi, e cominciarono a parlare maliziosamente delle loro piccole sensualità sentimentali. Accesero ancora due sigarette, e la denominazione volgare dell’amplesso fu sulle loro bocche inesperte, come un fiore venefico sbocciato verso la gioia nuda. E seguì un’ondata di parolacce. Ma il viso di Cesarina rimase di una purezza radiosa e bionda, come un Gesù bambino nella paglia della stalla giudaica. Fu così che Giorgio si accorse finalmente che la bimba ignorava completamente la totalità dell’amplesso. Aveva una vaga concezione che i baci dello sposo amato, e quelle piccole sensualità che sapeva anche lei, ingrossassero così naturalmente il ventre alla donna gravida, come il sole delle riviere estive fa diventare oscura la pelle. Aveva pensato con un brivido che occorresse aprire il ventre della madre per dare alla luce il figlio generato così platonicamente; altre volte dubitava che il bambino uscisse dall’ombelico materno mediante una operazione chirurgica. Sapeva di essere vergine Cesarina, ma l’idea più precisa della verginità era per lei che la deflorazione del corpo femminile avviene quando lasciandosi possedere interamente da un uomo, rimane un segno indelebile che lei non sapeva. Giorgio con la franchezza leggera e la malizia ingenua dei ragazzi le spiegò la verginità, ma pure le sue idee si confondevano non essendo ben chiare. Cesarina spalancava i suoi occhioni neri, come i bambini quando raccontiamo loro le novelle paurose ed impossibili dei mostri e delle streghe. Ma la sua sensibilità intima di femmina e quell’istinto meraviglioso che ci guida sempre verso la rivelazione, le dicevano che quella era la verità. Di più, tutto coincideva meravigliosamente con ciò che aveva intravisto fino a quel giorno e lo completava alla perfezione. E davanti alla realtà brutale provava quell’angoscia strana che si prova giungendo in un paese nuovo, conosciuto prima soltanto attraverso le descrizioni dei geografi minuziosi. Stette un po’ sopra pensiero, poi disse: – Mi piace più come si fa noi. Una nube leggera oscurava la sua gioia innocente, e le ricordava, più tenue però, il turbamento della mattina rossa di due settimane addietro. Stettero alquanto in silenzio, poi la bimba disse ancora, preoccupata e distratta: – Che ora sono? E si guardò macchinalmente l’orologino al polso: – Le cinque e dieci. – Sì, le cinque e dodici – corresse Giorgio che aveva guardato il suo orologio. – È l’ora di andare via. – Così presto Cesarina, perché? – Non siamo arrivati a Ponte a Mensola, sono quasi le sei. Se no bisogna correre troppo con questo caldo. Poi, se vogliamo fermarci a prendere qualcosa, mentre aspettiamo il tram. Io ho sete. – Stiamo ancora un poco. Un pochino solo, via. – Prepariamoci intanto. Dammi il pettine. E Cesarina si alzò, camminando intorno al giovinetto ancora sdraiato. Giorgio si attardò, appoggiando anzi la testa nelle mani riunite dietro, supino. Aveva tutto il verde, e un po’ di cielo, sopra di sè, e guardava dal basso in alto la bimba come una chiarità nell’ombra boschiva. Cesarina venne a fermarsi proprio sopra la testa del giovinetto, e così invece del verde e del cielo, fu per un momento sopra gli occhi di lui la felicità carnale. E vide le gambe dritte nella guaina delle calze da cui sbocciava il fiore della coscia nuda, come colonna di marmo biondo e di marmo rosato da un’alba di gioia, e tutte le mutandine immacolate e trinate come il frontone ornamentale del tempio di Venere che nasconde in un mistero di ombre e di luci il paradiso femminile. Febbrilmente si alzò, e baciò forte forte la bimba sulla bocca stringendola a sé con violenza e appoggiandola all’albero per sentire tutto il corpo di lei. Cesarina provò un piccolo grido di sgomento piacevole e mandò un breve strillo. Si sciolsero da quell’abbraccio improvviso e la bimba chiese ancora lo specchio e il pettine. Il ragazzo trasse fuori l’astuccio tascabile e glielo porse. Si riordinarono alla meglio, si rinfrescarono alla sorgente, si ripettinarono i capelli scarmigliati e furono pronti. Cesarina guardò ancora nello specchietto come le stava il cappellino di truciolo rosso. Giorgio le dette un ultimo bacio, quasi non gli riuscisse più distaccarsi dalla sua gioia, e la bambina nel venirsene via si volse ancora intorno, come se lasciasse in quel verde e in quella frescura qualcosa che non potesse più ritrovare. Ci lasciava infatti un altro poco della sua innocenza. Lo sentiva inconsapevolmente, la povera piccola, e andava incontro alla sua vita di donna con una paura sempre più indefinita. Giorgio la cinse col braccio per aiutarla a salire sulla strada e sul limite estremo la baciò ancora. – Fermo, mi spettini di nuovo. Fammi vedere. E tese la manina per prendere lo specchietto che lui si levò pronto di tasca. Ci si specchiarono vicini vicini. Il ragazzo guardò ridendo i loro occhi cerchiati di occhiaie scure e disse malizioso: – Che occhi che abbiamo tutte e due! Però Cesarina non rise e scese accanto a lui stanca e distratta per tornare lungo la Mensola. Arrivarono al Ponte che non avevano più detto forse tre parole. Un’automobile li sopraggiunse veloce dalla via Settignanese. C’era un ingombro di due carri e di un tram che saliva. Le ruote frenate sbadatamente slittarono e la vettura si fermò a due passi dai ragazzi. Cesarina guardò incuriosita. Riconobbe al volante il conte Angelo Aroglio. Accanto a lui era Gioiella Mari, la ballerina famosa, la reginetta dalle mani di cera e dai capelli di bronzo e di rame, come l’aveva battezzata un celebre poeta decadente della giovane scuola. Cesarina l’aveva veduta ballare all’Alhambra una di quelle sere e la riconobbe subito. Anche il conte riconobbe subito la bambina. L’anno scorso era stata, a San Remo, compagna di bagni di Giacomina, la contessina coetanea. Il conte aveva ospitato l’amica borghese della: sua bambina con la nobile signorilità della razza. La salutò, sorridendo e le accennò di accostarsi. Come la bimba gli fu vicina un po’ confusa e congestionata di emozione, la accarezzò con la mano gentilizia sotto il mento e le domandò notizie di sé e della famiglia. – Non siete ancora andati in campagna? – No, andiamo a Viareggio il mese di agosto, perché il babbo non può lasciare per molto tempo i suoi affari. E Cesarina spiegò con parole impacciate e difficili che la mamma non stava più con loro e Carletto ero in collegio. Parlava con quella vergogna tanto soave a vedersi, dell’innocenza che si è vedute agitarsi intorno alle tempeste della passione, e d’altra parte temeva di risvegliare nel conte tristi memorie famigliari. Infatti il viso del gentiluomo serbava le tracce di un recente dolore. Portava ancora il lutto della contessa mortagli da parecchi mesi, dalla quale però viveva diviso. Ma Cesarina sentiva che il lutto vero il conte lo portava nell’anima per una grave disgrazia capitata alla figlia. La bimba non sapeva precisamente quale, non aveva sentito dire di più. Non accennò nemmeno a parlare della contessina, ma stette tutta confusa ad ascoltare il conte che la complimentava ora di ritrovarla tanto cresciuta e fatta bella. E si sentiva a disagio sotto quello sguardo di libertino bigotto che la denudava bramosamente, accendendosi all’immaginazione del suo petto sbocciante, dei suoi fianchi flessibili e carnali, delle gambe diritte e meravigliose di giovane paggio. Le piaceva più il conte dell’anno passato, laggiù a San Remo, che la baciava così semplicemente insieme a Giacomina, come un’altra figlia sua. Gioiella Mari non si era mossa, non aveva fatto sillaba. Ascoltava e guardava con l’immobilità rispettosa e statuaria di amante comprata, di avventuriera galante che subiva il fascino della nobiltà remota. Il conte domandò ancora se l’avvocato Montaldo aveva sempre lo studio in via Cavour, e si fece dare l’indirizzo di casa, poi salutò abbracciando sempre più la bambina con un ultimo sguardo predatore che divenne un po’ torbido volgendosi verso Giorgio che sempre lontano si era levato il capello e lo teneva nelle mani umilmente. L’automobile disparve tumultuando in battiti ineguali verso Firenze, e Cesarina rimase lì accanto a Giorgio, con una tristezza nuova e infinita quasi di un presagio grave, ombrandosi nel viso biondo, come il Nazareno biondo caduto una volta di più nella Via lunga della sua Croce. II Il palazzo del conte Aroglio sull’angolo di via Tornabuoni e del Lungarno, svelto, corrusco e merlato come tutti i monumenti guelfi di Firenze antica, mercantesca e popolare, opulenta in fiorini e in ducati, si chiamava storicamente palazzo Ferroni. Costruito in pietra forte, in quella pietra serena detta arenaria, che le cave Fiesolane fornirono largamente per tutti i secoli a edificare la città comunale e medicea, aveva tre facciate esterne, e si appoggiava dal quarto lato su un ghetto chiuso tra l’Arno e il Borgo dei SS. Apostoli. La prospettiva occupava intero l’ultimo tratto della via Tornabuoni di fronte alla chiesa della Trinità e a un piccolo palazzotto merlato. Aveva tre piani altissimi di tredici finestre ciascuno, forse a scongiuro di fortuna, rade ed arcuate nella pietra scura; il pianterreno ferrato e due portoni asimmetrici ai lati. Uno, il destro, oltre il marciapiede aveva pure uno scalino. Il garage e le scuderie erano accanto al palazzo nella via degli Apostoli. La facciata dell’Arno, sempre aurea di sole, dominava il Ponte Santa Trinità, la più bella architettura gettata a passaggio di fiume. Era l’angolo storico del primo incontro di Dante e Beatrice nel calendimaggio del loro diciottesimo anno. In questa facciata, brevissima, le due sole finestre per ciascun piano avevano delle persiane grigie a riparo del sole perenne. Il terzo lato dava nella piazzetta dove sorge la colonna granducale di Cosimo, che porta in cima la giustizia con le bilance in mano. Era una facciata convessa ad arco, per adattarsi al principio della via stretta e tortuosa al suo fianco. Era lunga una buona metà della prospettiva ed a sei finestre per piano. La sua austerità era interrotta soltanto da un orologio piantato in una delle finestre della seconda fila. Come si vede, tutto il palazzo aveva una forma irregolare e bislacca, sommamente artistica. Fino al primo piano le pietre erano sbozzate e al di sopra, per tutto il resto, incalcinate fortemente. Una frangia di mensole sghembe a piccoli archi fittissimi reggeva la fronte sporgente dei merli guelfi, dando a tutta la costruzione una somiglianza perfetta più in piccolo del palagio della Signoria, che è davvero il più bel monumento. Il conte era di passaggio a Firenze per pochi giorni dopo una lunghissima assenza. Era venuto per accompagnare Gioiella Mari, la sua amante mercenaria, la quale nemmeno per l’amore di un re avrebbe rinunziato ai suoi quattro salti sul palcoscenico dell’Alhambra che costituivano per lei la sua arte. Tutti gli appartamenti dimostravano quel disordine disagevole del vecchio abbandono. La guardarobiera, il cameriere di fiducia e l’autista venuti col conte, erano bastati appena insieme al portiere e alla sua famiglia per rimettere in ordine quattro o cinque camere al primo piano nell’angolo verso l’Arno. La sera stessa dell’incontro con Cesarina, il conte e Gioiella nella provvisoria sala da pranzo finivano di prendere il caffè Suonavano le nove. La ballerina con le sue piccole mani ceree accese una sigaretta, prese un romanzo di Matilde Serao e, silenziosa e impassibile come una bambola automatica, si adagiò su un divano a continuare la sua lettura sotto il riflesso del lampadario elettrico che le screziava mirabilmente i capelli di bronzo e di rame. Il conte accese anche lui una sigaretta, ma non si mosse dalla tavola. Fumando distrattamente pareva assorto da un pensiero fisso. Era molto tempo del resto che il povero Aroglio aveva perduta la sua bella allegria di gentiluomo cui tutto era riuscito vittoriosamente dal lato morale e materiale e in politica e nel ricostruire il dissestato patrimonio di famiglia. La separazione dalla moglie scandalosa aveva dato il primo colpo, ma l’affetto di Giacomina, l’unica figlia sua, lo consolava di tutto. Era rimasta con lui e questo gli bastava. Fin dal dicembre la contessa era morta, rosa nel cuore dal suo cancro di nobil dama degradata, liberando così il marito anche dalla noia della sua semplice esistenza. Ma dopo, una sventura irrimediabile ere piombata sul conte. Giacomina, che appena compiva i quattordici anni, era stata violentata dalla brutalità di un servo. E quello che più rivoltava tutto il suo affetto paterno era che non si trattava della contaminazione di una innocenza inconsapevole; ma la contessina aveva portato in quella bruttura la sua parte di pervertimento e di precocità viziosa. Così era più che morta per lui. L’aveva abbandonata in un convento remoto all’estero, suggeritogli da padre Alfonso Maria della Compagnia di Gesù, suo cugino in secondo grado. Sperava che la regola rigidissima di quelle suore potesse rendergli fra sette o otto anni una figlia pentita e virtuosa, degna di essere in tutto la contessina Aroglio. Sotto lo schianto dello strazio inconsolabile, il povero conte non fu più lui. Si dimenticava persino di tingersi in biondo la bella barba fluente che ora si screziava di un grigiastro macchiato. Si era rituffato nella politica, tornando ad essere una delle colonne del partito vaticanesco, e i cattolici intransigenti cominciavano a considerarlo di nuovo come uno dei loro condottieri. E si dava da fare viaggiando a destra e a sinistra, innanzi e indietro con una attività enorme. Ma nemmeno questo bastava a distrarlo. Allora aveva cercato di affogarsi nei piaceri più pazzi e frenetici. Prima cautamente, nascostamente con la medesima scaltrezza di gesuita che metteva nella sua politica, poi a poco a poco sempre più sfacciato, vigilandosi sempre meno, fino a prendersi un’amante su un palcoscenico. Ma nulla bastava al suo dolore. Brancolava nella sua splendida vita, come cercando chi sa dove appoggiarsi. E quella sera fumando sempre lì presso la tavola sentiva come un disagio nuovo nell’anima sua. E guardava Gioiella dalle mani di cera e dai capelli di bronzo e di rame, e la sentiva lontana, straniera nemica. Aveva spremuto da quel corpo di femmina comprata tutta l’esperienza dei piaceri più viziosi, come si mangia chicco per chicco un grappolo d’uva troppo matura, fradicia quasi. Era ormai un avanzo da buttarsi e lasciava nella bocca e nel corpo di lui un amaro nauseante e grave. E pensava che era facilissimo lasciarla. Anche Gioiella non desiderava altro, ansiosa soltanto di finirla con un forte prezzo di buonuscita. Ma non sapeva risolversi. La sua carne affaticata non poteva disabituarsi da quel piacere quotidiano senza una grande scossa nervosa, senza qualcosa di nuovo che ne riempisse il vuoto acre e pesante. E intanto l’immagine fresca di Cesarina veniva a mescolarsi ripetutamente a questi pensieri del conte. E se la rivedeva davanti, nel sole della strada polverosa, col suo cappellino di truciolo rosso, i riccioli accesi, il visetto bello pieno di confusione. E ripensava la vestina corta corta di seta cruda, e quelle gambe, quelle gambe maliziose nelle calze bionde. E il suo ricordo tornava un anno addietro, quando l’aveva sua ospite nel villino di San Remo, insieme alla propria figlia. Tante volte, appena tornata dal bagno, se l’era presa sulle ginocchia, così tutta fragrante, quasi nuda, con soltanto le mutandine, la vestina e i sandali, e ora, dopo un anno, sentiva la sensazione dolce di quel contatto irrequieto cui allora non pensava nemmeno. E le rivedeva insieme le due bambine, così amiche, così intime. E d’improvviso l’avventura brutale di Giacomina gli oscurava lo sguardo. Chi avrebbe mai pensato in quella sua bambina che pareva tanto ingenua una così precoce depravazione? Chissà che piccola viziosa era anche Cesarina! Una delle due aveva certo pervertito anche l’altra. Quale? Chissà! Chissà! E cercava di scrutare nella sua memoria il carattere della figlia in quel tempo e la confidenza delle due bambine. Ma l’enigma di quella sfinge rimaneva impenetrabile. Allora il pensiero del conte si fermava su Giorgio. Chi era mai? Come conosceva Cesarina? E rievocandosi la scena del pomeriggio gli sembrava che gli occhi dei due ragazzi avessero la stessa malizia un po’ languida. E ce l’aveva in cuor suo con quella bestia dell’avvocato Montaldo che lasciava scorazzare così liberamente la bimba con quel giovanetto. Lasciasse, lasciasse fare, ne avrebbe veduto delle belle! Ma forse il povero avvocato non aveva nessuna colpa. Certo non sapeva nulla lui. Succede sempre così nelle famiglie che si sfasciano. E ripensava anche lo strano destino che aveva egualmente colpito le due bimbe nella colpa della madre. Certo anche la signora Luisa… E la rivedeva, la mamma di Cesarina, con quell’aria morta di pacifica signora borghese. È inutile, o borghesia o nobiltà, si vede proprio che le donne sono tutte uguali, tutte, tutte. E con questo giudizio sommario sulla virtù femminile il conte accese una seconda sigaretta. Insieme al cerino un’idea balenò nel suo cervello stanco, illuminò tutta l’anima sua devastata. Perché non se la prendeva per sè Cesarina? E un guizzo di satiro chiericalesco, di vecchio libertino bigotto prossimo all’impotenza, gli lampeggiò negli occhi chiari alla visione di quella nudità di bambina fragile e acerba. O a lui non gli avevano presa la figlia? Si sentì soffocare nella caldissima notte di luglio. Suonò il campanello. – Fai subito attaccare Mauro e Stello alla vettura scoperta – disse al cameriere. Poi si volse a Gioiella. – Io esco. Torno a mezzanotte. Coricati pure se sei stanca. Non aspettarmi. – Va bene – rispose Gioiella colla sottomissione dell’odalisca che riceve un ordine dal sultano. Aroglio passò nel suo gabinetto di toilette, si cambiò in fretta, e come fu pronto guardò per la finestra nella via. La pariglia era già al portone. L’aria fresca del Lungarno nella corsa dei cavalli fu come una carezza di gioia per il sangue pigro delle sue vene. Era conosciutissima a Firenze quella pariglia del conte. L’aveva inaugurata proprio qualche mese prima della sua separazione dalla contessa Camilla. E i fiorentini si ricordavano ancora la dama bionda e capricciosa, il gentiluomo irreprensibile, e la bimba evanescente come un quadro del Beato Angelico. In quella primavera, tutti i pomeriggi si vedeva la bella carrozza di un verdolino chiarissimo, unica in tutta la città, trainata silenziosamente sulle gomme delle ruote dal cavallo sauro e dal cavallo pomellato che formavano la più bella pariglia dell’aristocratico passeggio quotidiano. Firenze era un deserto, in quelle sere estive. L’aristocrazia era sparita nelle villeggiature suntuose, anche l’alta borghesia aveva esiliato per le campagne e per le stazioni climatiche. Soltanto le classi più disagiate e pochi professionisti trattenuti in ritardo dai loro affari, rimanevano ancora. Perciò teatri e ritrovi eleganti chiusi; soltanto l’Alhambra, i cinematografi, un caffè-concerto, e i caffè accoglievano la sera la piccola borghesia e il proletariato più evoluto che volevano svagarsi un po’ dalla fatica e dal caldo del giorno. La pariglia trottava verso le Cascine e il conte pensava alla sua idea bislacca. E nella sua fantasia, prima ancora di studiare come potesse riuscirvi, vedeva già raggiunto il sogno pervertito e vizioso. Cersarina era sola con lui in una camera del suo palazzo, la camera dove era il grande letto antico col parato giallo. Egli la accarezzava e la bimba dapprima spaventata si persuadeva e si calmava a poco a poco. Era senza cappello, colla vestina di seta cruda di quel pomeriggio, ma senza calze e coi sandali come hanno al mare. L’aveva seduta sul letto e ora la rovesciava all’indietro. Poi, in uno sdoppiamento, come se una forza invisibile staccata da lui la tenesse sempre così piegata, si allontanava per goderne lo spettacolo lussurioso. Poi la spogliava lentamente. Cadeva la vestina, la sottovita, e finalmente, trepidamente, le mutandine e la camicina. E Cesarina, tutta nuda, miracolosa, floreale, gigliata, appariva in una fragilità di giacinto e di rosa, nel suo profumo carico di femmina sbocciante. Tutta nuda, interamente nuda, completamente nuda! E Aroglio cercava di figurarsi i fianchi della piccola non ancora maturi, il petto acerbo appena appena fatto, ancora indefinito, e il fragile ventre di vergine non anche compiuta. Poi a mano a mano studiava la malizia di Cesarina e abituava quel corpo meraviglioso, già favorevole al vizio, alle carezze più profonde e morbose che la propria sapienza satiresca aveva accumulato in più di trent’anni di libertinaggio. E ai soffi più caldi dell’aria notturna aveva sulla bocca tumida e carnosa di orgiasta la sensazione di baciare lentamente, lungamente, perdutamente la gola, i seni, le ascelle della bambna, poi il bacio viscido e peccaminoso scendeva scendeva ai fianchi, alle gambe. E vedeva sempre nella fantasia più libidinosa, Cesarina perdere a poco a poco ogni ritegno, ogni pudore in quella libertà di piacere sciolta da ogni vincolo, da ogni riguardo. La femmina incipiente si scatenava in lei come una furia di follia. Ed egli ritornava giovane e bramoso, avido di stupro come a vent’anni. Immaginava di deflorare la bimba, ora. La vedeva ancora sul letto grande col parato giallo, paurosa del maschio, paurosa della verità sessuale, con tutto l’orrore e la repulsione della carne verginale che presentisce. E gli pareva di stringere quel corpo tremante di sensazioni ignote, di baciare quegli occhi nerissimi perduti in una brinata lacrimosa come una notte campestre calda di fecondazione e di amore segreto. Quegli occhi che baciava erano come due fiori notturni imbevuti di gocce di rugiada nel calice liscio e serico. L’urlo di dolore rispondeva al suo ruggito belluino e barbarico di vittoria e d’impeto ed egli entrava vittorioso e dominatore nella città verginale, come nel medio evo il capitano di ventura invadeva la città disfatta fiutando il saccheggio. E la vergine violata rimaneva lì nel letto grande, morta ed inerte, come il trofeo sanguinoso della vittoria selvaggia. Dei soffi d’aria più fresca lo scossero. La pariglia correva ora assai dentro nelle Cascine sul viale esterno lungo l’Arno, il Viale della Regina. Il cielo era crivellato di stelle come un colapasta fantastico maneggiato dai cuochi del Paradiso nei preparativi di un banchetto divino, e faceva piovere sul mondo un sugo di nettare per delle paste asciutte di ambrosia, e la polvere leggerissima e sfumata della via lattea era come il formaggio grattato per condirle. La luna bassa e leggermente infuocata ricordava la frittata famosa dei nostri grandi poeti secenteschi. I grossi alberi centenari che formavano a destra una interminabile fila piumosa di tenebra notturna, e il fiume mormorante a sinistra, vicino, vicino, dietro l’argine basso, suggerivano l’idea lussuriosa dei giardini di Adone. E il conte sveglio ormai dal sogno orgiastico, studiava freddamente nel suo cervello la maniera più spedita per realizzare i suoi piani. Doveva agire subito? Trovarsi il giorno dopo con l’avvocato per riallacciare la relazione interrotta e la dimestichezza con Cesarina? Oppure aspettare la fine del mese e ritrovarla a Viareggio e passando insieme la stagione dei bagni così come per caso, coltivare giorno per giorno l’occasione propizia al suo desiderio? Gli pareva meglio questo secondo progetto. E studiava le probabilità favorevoli, le gite in automobile, e cercava dove potesse prendere in affitto un rifugio lontano. In mezzo alla pineta per esempio, un villino isolato, un piccolo chiosco fantasioso perduto nella distanza. E si guarda dintorno nella perfetta notte fiorentina, chiara e amorosa, soddisfatto di una bella realtà che si avvicinava per lui. Già l’ultimo tratto del Lungarno, passato il Ponte alla Carraia, si era affollato di belle ragazze venute dai quartieri popolari d’oltre Arno, o dalle strade più vicine che circondavano Borgognissanti, piazza Manin e la Porta al Prato. La piazzetta del Ponte alla Carraia era tutto un brulichio di chiasso infantile. Famiglie intere si godevano la frescura della sera verso le Cascine, e al flutto popolaresco si mescolavano i forestieri eleganti degli alberghi suntuosi, scesi per ammirare lo spettacolo caratteristico di questa onda di amore plebeo. Oltre i giovanotti di San Frediano e del Pignone, anche dal centro e dai quartieri più lontani erano venuti i giovani fiorentini in cerca d’avventure belle. Era un miscuglio di popolo e di piccola borghesia a cui si confondevano anche parecchi ufficiali dei più giovani e dei più bohemien. E coppie innumerevoli si formavano in quei branchi di gioventù. Le ragazzine popolane si erano vestite da festa e cambiate tutte per quella loro passeggiata d’amore. Ed era una chiarità di vestiti leggeri, un bianco di scarpe e di calze, una fragranza perduta di profumi da pochi centesimi, di biancheria delle feste. Un fascino di nudità femminile più vicina per le scollature e i veli delle maniche, di corpi giovanissimi di ragazze che si potevano toccare spiritualmente per la leggerezza dei vestiti. Anche dal Ponte Sospeso entrava nelle cascine tanta giovinezza in amore e si sperdeva per i viali, per i prati, per gli alberi immensi in quell’ora notturna. Tutte le Cascine vastissime davano la vertigine di un nido immenso, di una covata fantastica di fecondazione umana. In ogni cespuglio si vedeva una coppia entrare a nascondersi cauta, su ogni panchina era un bisbiglio lieve di innamorati stretti, stretti, ogni cantuccio d’erba serbava l’impronta di due corpi avvinghiati. Si sentiva nell’aria un brivido di baci infiniti come le foglie. Il conte si guardò intorno soddisfatto, in mezzo a tutto questo incantamento di giovinezza in fiore. Prima, tutto assorto nei suoi pensieri voluttuosi, non ci aveva fatto attenzione alcuna, ma ora la memoria del Lungarno tutto giuncato di femmine compiva in lui la visione notturna di follia erotica. E il ricordo di Cesarina e di Giorgio ritornava assillante, confuso al bisbiglio delle coppie innumerevoli intorno. Però in tutta questa giovinezza esuberante non c’era nulla di vizioso, ma se ne respirava un soffio puro e naturale di vita. La voluttà che empieva la notte fresca di cespugli e di rugiada, era qualcosa di differente della lussuria che aveva acceso le vene del conte nel suo sogno morboso. Perché la giovinezza porta sempre la passione e l’amore, anche nella voluttà più spinta. Al Piazzale del Re il conte ordinò di tornare, e la pariglia gentilizia ridiscese verso il Lungarno. Aroglio sentiva ora una tenerezza nuova fluirgli nel sangue, una nostalgia languida che era qualcosa di più del desiderio di un corpo nudo di fanciulla. La luna si era fatta man mano bianca bianca nel cielo, splendente di un pallore di passione come una morta d’amore, screziando or sì or no il verde cupo degli alberi e delle siepi simmetriche di una luce cenerognola, che al conte dava l’idea delle ceneri spente della fiamma di tutta la sua vita. Sul viale drittissimo e lungo, una striscia di bagliore lunare pareva come un tappeto di chiarezza che guidasse alla città lontana nel fondo, intravista in un sfolgorio di luminarie, come un paradiso perduto che si sta per riconquistare. Ogni tanto una coppia di amanti o un gruppetto di ragazze e giovanotti attraversava quella zona di luce. Era un bisbiglio nuovo, una leggerezza di fidanzati. A mezzo viale, il conte tutto preso di quel fascino mistico, come stordito da quella frescura notturna di voluttà e di gioia, scese dalla carrozza ordinando di aspettarlo al monumento di Garibaldi. E continuò a piedi il suo ritorno, come per tuffarsi interamente in quella passione di fanciulle velate di chiaro, di innamorati esaltati, che prima lo sfiorava soltanto. E sentì tutto il piacere sterile della sua vita, e i suoi cinquantaquattro anni gli pesavano addosso come la veste plumbea dei condannati danteschi. E insieme al profumo della sigaretta vaporosa, si sentì avvolto come da una tenerezza nuova, di quella trepida aspettazione che si sente soltanto a vent’anni davanti a tutta un’esistenza da compiere. E il pensiero voluttuoso di Cesarina che l’aveva tormentato poco prima, si convertì in un’adorazione affettuosa e pura di collegiale e di studente. E sentì che tutto non era perduto per sempre. Una speranza leggera e confortevole come quella frescura notturna, innocente e felice come quei fidanzati sparsi per l’immenso giardino, gli zampillò dal cuore come una fonte d’acqua pura e primaverile da una sorgente disseccata da una lunga estate, da un inverno desolatissimo. E perché no? Perché non potrebbe essere ancora felice? Perché non potrebbe aprire alla bionda Cesarina, alla cara innocente, all’adolescente verginale tutto un paradiso di ricchezza, di sontuosità, di vita bella? Sì sì. Non era il desiderio brutale di un momento che lo attanagliava più oramai. Era un affetto interminabile come gli alberi scuri dintorno, di giorni innumerevoli come le foglie delle vaste Cascine. Ne aveva bisogno per sempre della sua Cesarina, per tutta la sua nuova felicità. E assaporava il benessere tranquillo di un’intimità continuata come l’eterno infinito. E sentiva quasi una giovinezza d’immortalità e i suoi cinquantaquattro anni gli furono d’improvviso leggeri come una primavera. E Cesarina era tutta sua, lo amava con tutta la sua anima ignara, con tutto il suo corpo verginissimo. Diventava donna giorno per giorno nel fuoco di quell’amore incommensurabile. La notte fiorentina era penetrata nel sangue di Aroglio come una follìa, tutta quella giovinezza notturna, tutto quell’amore estivo l’avevano ubriacato talmente che il desiderio più strambo gli sembrava ormai naturale e possibile. Sposare Cesarina gli pareva la cosa più semplice di questo mondo. Tutte le obiezioni, tutte le contrarietà gli apparivano impallidite di luce lunare e sparivano subito nel gorgoglio del fiume che gli correva soavemente incontro ingigliato di barche di amanti, per andare a perdersi lontano lontano, verso la campagna laggiù, verso il mare infinito. III Quando si seppe che il conte Angelo Aroglio sposava Cesarina Montaldo fu come una scossa di raccapriccio nell’innumerevole ambiente dove splendeva il gentiluomo patrizio e nella modesta cerchia di amicizie della fanciulla borghese. I più decisivi avrebbero senz’altro impiccato i genitori della ragazza. Quando poi venivano a sapere che i genitori si riducevano al padre soltanto, commentavano subito la strana coincidenza dell’adulterio della defunta donna Camilla Aroglio e della signora Luisa Montaldo. Ci aggiungevano una breve postilla su quel poco che si conosceva della triste avventura di Giacomina, per concludere che in fondo in fondo si trattava di un male di famiglia. Parecchi si meravigliavano che un cattolico fervente e un clericale militante come il conte Angelo fosse capace di commettere una simile follia di amore per una bambina che portava ancora le sottane corte. Ma il buon conte, che era ritornato al suo imperturbabile umorismo del bel tempo felice e che aveva ricominciato a tingersi accuratamente la bellissima barba, rispondeva a simili osservazioni intraviste o palesi che la religione cattolica non precisava un limite alla differenza d’età fra gli sposi, anzi la Sacra Scrittura ha numerosi esempi di fanciulle quattordicenni sposate da vecchi patriarchi ed anche la Madonna aveva quindici anni all’epoca del suo matrimonio e Giuseppe ne aveva probabilmente più di cinquantaquattro. Per poco, con questo suo bislacco matrimonio il conte Angelo Aroglio non ci rimetteva tutto il prestigio che godeva nel proprio partito e non si giocava la sua felice posizione sociale e politica. Ma tolto questo turbine di commenti puramente platonici, nell’attuazione pratica del suo progetto invece il conte non aveva trovato tutte quelle difficoltà che si aspettava. Intanto il babbo di Cesarina, a cui ne aveva parlato per primo, solo al pensare che la sua adorata diventava contessa e milionaria, aveva sussultato d’intima gioia, e aveva dichiarato subito al conte che, contenta la fanciulla, sarebbe stato felicissimo anche lui. A chi gli faceva osservare che la bimba non era ancora in età di capire il passo che faceva e di poter decidere da sé della propria sorte, rispondeva recisamente che il conte era un vero gentiluomo pieno di esperienza e che avrebbe saputo a meraviglia come va trattata una moglie che è ancora una bambina. Renzo Negretti, il genero dell’avvocato Gastone Montaldo, che era stato promosso allora capitano dei bersaglieri, a soli ventinove anni, e addetto al Comando dell’ottavo Corpo d’Armata, si era mostrato addirittura entusiasta di questo matrimonio della sua bella cognatina. Cesarina, diventata la contessa Aroglio, voleva dire un punto d’appoggio formidabile per tutta la sua carriera futura. Lauara invece, invidiosissima della sorella, non conosceva ragioni e cercava in tutti i modi di persuadere, come poteva, la bimba, che quel matrimonio era una cosa innaturale, turpe e scandalosa. E forse non fu ultima causa che Cesarina si risolvesse in favore del conte, anche per la brama che aveva di salire finalmente a un rango sociale tanto superiore alla sorella. Il conte non aveva perduto il suo tempo. Appena balenatagli l’idea di questo matrimonio, subito il giorno dopo si liberò di Gioiella Mari rimettendola in circolazione con cinquanta biglietti da mille di buonuscita. Poi aveva cominciato a lavorarsi (per usare un gergo espressivo) l’avvocato Gastone. Aroglio, da persona espertissima della vita umana, tagliò nettamente il nodo gordiano dell’età disparata con un colpo di spada, come già il nero azzurro Alessandro. L’abisso dei quarant’anni che egli aveva più di Cesarina era soltanto una questione di virilità. Sotto qualunque velo di frasi fosse mascherata, la paura del padre di fare l’infelicità della bimba con tale matrimonio, si riduceva sempre a questo. Il conte avrà ancora otto o dieci anni al massimo di virilità efficace, in modo che quando a venticinque anni Cesarina è proprio nel momento che la felicità della donna è tutta in un maschio vigoroso che la possa saziare fisicamente, si troverà invece accanto un vecchio impotente e dovrà cercare nell’adulterio quello che non può avere nella famiglia. Perciò aveva egli stesso detto brutalmente a Montaldo queste riflessioni semplici e chiare e le aveva potute ribattere con facilità nella mente dell’avvocato. Infatti l’amore vero, passionale, intenso, dura così poco in tutti i matrimoni, specialmente nei ceti più elevati, che anche se Cesarina avesse sposato un giovanotto, dopo otto o dieci anni avrebbe probabilmente dovuto cercare lo stesso fuori dal tetto domestico un surrogato più attivo alla stanca felicità coniugale. Soltanto quando al materialismo delle gioie sensuali subentra nel matrimonio quell’amicizia amorosa che fa degli sposi due compagni fraterni e casti, si può sperare in un’onesta gioia imperitura della famiglia. Le gioie materne sostituiscono nella moglie i piaceri carnali dell’amore, l’amante sparisce innanzi alla madre. L’avvocato Montaldo si persuadeva facilmente di tale verità, ancor più bilanciandole con i vantaggi immensi che la fortuna insperata di un simile matrimonio offriva a Cesarina. E il conte, con la sua diplomazia finissima, sapeva a meraviglia mettere in rilievo lo splendore del suo stato, così senza parere, con una delicatezza attraente. – Mio caro avvocato – diceva col tono più semplice e bonario immaginabile – lei conosce bene le mie idee. Non creda perciò che io pensi che sua figlia debba rimanere abbagliata perché diventa contessa – e sorrideva nella barba bionda. – No, no, è Cesarina che mi fa un grande onore acconsentendo alla mia proposta, perché se io porto in questa unione la mia nobiltà di gentiluomo e una grande elevatezza sociale, Cesarina porta tutto un contributo di giovinezza, di bellezza e di gioia, che quello che mi dà lei supera di gran lunga quello che le do io. Come non essere conquistati da tanta gentilezza? L’opposizione di Laura rimaneva sola e disarmata, e tutte le obiezioni ragionevoli cadevano sotto quell’assalto di cortesie. Cesarina fino dai primi giorni si era accorta di essere lei la mira del conte in questo riavvicinamento improvviso. Non aveva indovinato affatto quello che tutti intorno a lei sapevano, ma invece con la sua piccola malizia di bimba sensibile sorprendeva negli occhi del conte il desiderio ardente di lei, cosa da cui il pensiero di tutti gli altri era lontano mille miglia. Però la presenza del conte non la imbarazzava per nulla. Tolto quel brivido perenne di solleticamento che Cesarina sentiva del continuo desiderio verso di lei che lo tormentava, il conte sapeva dominarsi compiutamente, in modo che la bimba stava molto volentieri in sua compagnia. Si sentiva a suo agio con lui. La contentava in tutto. La baciava e l’accarezzava come un buon papà, ma un papà di cui la bambina non aveva soggezione e che per farle un piacere sapeva ridiventare quasi un ragazzo. E poi la sua vita si era trasformata in quei giorni davvero in un romanzo. Tutti la trattavano con un rispetto, con una devozione quasi religiosa, come se fosse una piccola Madonna. Perfino Giorgio non osava più farsi vedere nemmeno. Aroglio era diventato per lei il dio tutelare, il suo protettore, il suo angelo custode. Quando si ricordava la soggezione timorosa che ne aveva avuta l’anno passato, in quel mese che era stata con la contessina al mare a San Remo, le pareva che il conte fosse un altro, ora. E poi divertimenti, scarrozzate, gite in automobile e regali, regali senza fine. Ma, quello che Cesarina non indovinava lo capì invece la cameriera, sebbene non messa a parte del segreto. E così di punto in bianco l’Assuntina lo disse subito alla bimba: – Io dico che il conte è innamorato di lei signorina e che la vuole sposare. Per Cesarina lo sposalizio era ancora quella cosa un po’ fantastica del libro di novelle e che può facilmente accadere fra il figlio del re e Cenerentola, e perciò spalancò i suoi occhioni neri pieni di lieta meraviglia, mentre la ragazza la complimentava ridendo e la chiamava: « Signora contessa! ». L’Assuntina aggiunse che la signorina doveva sposarlo volentieri, perchè il conte milionario era sempre meglio di un bel giovanotto senza quattrini. – E poi il conte è un bell’uomo, anche con i capelli tinti! – Perché la prima cosa che aveva notato Cesarina era il conte tanto invecchiato e coi capelli grigi quando l’aveva veduto insieme a Gioiella Mari, e il conte ringiovanito e biondo invece ogni giorno di più. E lì per lì cominciarono tutte e due a tratteggiare a tinte meravigliose la nuova vita della contessa Cesarina, così che da quel momento sposare il conte Aroglio pareva alla fanciulla il sogno più bello. E si abituò così bene a questa idea che quando due o tre giorni dopo, e precisamente il 27 luglio, quasi alla vigilia di partire per Viareggio, il conte e l’avvocato, come avevano minuziosamente stabilito prima, le parlarono insieme per accennarle alla lontana, con un lungo giro di parole, il magnifico progetto, trovarono il terreno così ben disposto, come mai avrebbero sperato. E dire che il conte aveva messo in opera tutto il suo macchiavellismo di diplomatico consumato per persuadere prima il padre e poi gli altri famigliari, calcolando di farsene degli alleati formidabili che di giorno in giorno coltivassero nella bimba l’idea di questo matrimonio. In quel mese di luglio la bimba aveva avuta la sua seconda mestruazione, ma, caso strano, si trovò così presa nella novità di quella vita straordinaria, così ricca quotidianamente di emozioni nuove, che quasi non sentì la noia dell’impaccio fisico che la prima volta l’aveva tanto tormentata. Cominciò a fare buon viso anche a questa cosa disgustante che minacciava di gravare come un incubo su tutta la sua vita di signorina. Ma quando il conte rivelò il suo progetto alla propria famiglia che era lontana mille miglia dal pensare a una tale soluzione, le cose non andarono lisce del tutto. Carlotta, la sorella, e la zia Ludovica vennero subito a Firenze e si installarono in un angolo al terzo piano del famoso palazzo di via Tornabuoni che Aroglio faceva ora mettere tutto all’ordine con gran lusso di arredamenti e gran tramestio di operai. Di lassù, sedendo tutte e due in perpetuo consiglio di famiglia fecero telegrafare al Padre Alfonso Maria, l’altro parente, perché accorresse subito a Firenze a salvare da immediato pericolo l’onore dei conti Aroglio. Ci vollero altri sette telegrammi perché Padre Alfonso arrivasse cinque giorni dopo, e intanto la notizia del fidanzamento si era divulgata per tutta la città. Lo scaltrissimo gesuita, appena messo al corrente della situazione, ne risolse il nodo psicologico in un modo così inaspettato da meravigliare lo stesso conte se lo avesse sentito. – Mie care – disse rivolgendosi alle due donne, con una brutalità di parole quasi futurista, – Angelo è un porco. Soltanto la libidine dello stupro lo spinge verso quella bambina che vuole sposare. È l’animale che agisce in lui. Se quella bimba appartenesse ad una famiglia di prostitute e di ladri, Angelo avrebbe incaricato una delle sue ruffiane di portargliela. Siccome per altre strade ha visto che e impossibile, è venuto fuori con questa bella trovata del matrimonio. Tentare che ci rinunzi è inutile e impossibile. Ha vissuto sempre da porco, quantunque molto copertamente, per riguardo al partito cui appartiene e al posto che occupa in società. Questa sua vita sudicia lo fa ora un vecchio esaurito ed immondo, eccitabile solo alle libidini più strane e più rare. È naturale perciò che il pensiero di Cesarina gli ringiovanisca le forze in fallimento. La ragazza regna sovrana sui sensi di mio cugino, gli è indispensabile perchè nessun’altra donna può sostituirlo in questo momento nella gioia fisica che egli può avere da lei. A una certa età l’uomo è schiavo della donna che può soddisfarlo materialmente perchè tale compiuto godimento sensuale comincia ad essere un piacere raro. Si può dire che la bimba lo tiene per la sensualità che purtroppo è la molla fondamentale della vita umana. Sostituisce per i quattro quinti del mondo il cervello. – Le due donne consideravano il gesuita come un oracolo infallibile e ascoltandolo con un brivido di terrore annuivano in silenzio. – Ringraziamo – seguitò Padre Alfonso – che dopo i due scandali soffocati con tanta fatica, non ce ne capiti addosso un terzo. Del resto c’è un istinto nella famiglia. Vedete anche Giacomina? E se da questo matrimonio ha dei figli vedrete che roba vien fuori. Certo, se si fosse in tempi migliori, ci sarebbero mille altre soluzioni, ma oggi purtroppo non c’è più rispetto per nulla e la figlia di un avvocato è uguale alla figlia di un re se si tentasse di farle il più piccolo torto. Uguale? Ho sbagliato. Dovevo dire di più per questo mondo che non ha ormai ne capo nè coda. Del resto la donna non è in fondo che un bell’animale propter imbellicitatem suam – confermò il gesuita che in questo campo era rimasto fermo nelle idee incrollabili di San Tommaso d’Aquino, e finì – Che bella fiammata con tutte le donne! E i suoi occhi d’acciaio si accesero del bagliore d’un sogno lontano di Santa Inquisizione. E così Cesarina fu ammessa a conoscere la famiglia patrizia. Quel giorno stesso, perchè Padre Alfonso Maria non aveva molto tempo da perdere. Era il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, un lunedì. Venne a prenderla al villino del viale Mazzini la pariglia del conte. Dovevano accompagnarla il babbo e il cognato, il capitano Negretti. L’Assuntina si era fatta in mille perché la fanciulla fosse tutta bella. Il vestito nuovo, ultimo regalo di Aroglio, sebbene improvvisato, dalla sartoria Bossi, le dava un’aria grave di giovine regina pensosa. Infatti Cesarina aveva una serietà da diciotto anni quel giorno. Si abituava a meraviglia ad essere contessa. Era una meravigliosa toilette da passeggio e da visita color vino carico, di raso morbido come un riflesso di tramonto sul mare. Era la prima volta che Cesarina vestiva da signorina grande con la gonna lunga fino alla metà del polpaccio, e gli stivalini alti alti alla polacca, neri, lucidissimi, allacciati di fianco dalla parte interna. L’abito le scendeva dalla vita stretta, ampio e rigonfio sino al ginocchio, per poi stringersi ancora nei volanti indentro a punta di taglio bizzarro. Una cinta di raso uguale, lentissima, annodata dietro la vita, scendeva poi fino all’orlo della gonna. Il giacchettino incrociato alla turca di sbieco, con una breve scollatura e le maniche strettissime lunghe fino al polso. I guanti di pelle nera inguainavano le manine lunghe, sapientemente ingioiellate. Il cappellino era un tòcco piccolissimo e capriccioso, nero, leggero, severo su i riccioli biondi. La pettinatrice le aveva lasciato nell’acconciatura perfetta tre grandi boccoli a destra che le scendevano sulla gotina fresca. Una collana a un giro solo di perle. La borsetta di rete d’oro, l’orologino quadrato e sottilissimo a braccialetto d’oro, due altri braccialetti al polso opposto compivano l’ingioiellatura. L’ombrellino da sole di tulle nero, uguale al tocco. Si era profumata con un’essenza fine fine di rose indiane, un miracolo di delicatezza. Quando salì in carrozza si vide appena appena un dito delle calze nere trasparentissime, e un candore impercettibile di biancheria ricamata. Tuttavia fu più solleticante di quando aveva le gonne cortissime. Il capitano Negretti aveva la divisa nera di mezza gala con le spalline soltanto, e l’avvocato Montaldo un « tout de même » scuro, da signore serio ed elegante. Quando la famiglia giunse al palazzo Ferroni e Cesarina salì lo scalone nudo e vetusto si ricordò con pena l’altra volta che c’era venuta quattordici mesi prima quando aveva conosciuto la povera Giacomina. Anche allora quanta emozione! Ma ora come batteva diverso il piccolo cuore inconsciamente presago! Nel salone improvvisato al primo piano, dal soffitto altissimo arcuato, dipinto a fresco e grondante di ornamenti d’oro, aspettava la famiglia patrizia. La bimba guardò la zia Ludovica, veneranda e simpatica, così alta e magra, con una testa lapidaria e un sorriso di protezione come un quadro del medio evo, e la sorella Carlotta, quasi coetanea del conte, somigliante perfettamente al fratello, soltanto che invece della barba si tingeva in biondo castano i capelli. Padre Alfonso sovrastava monumentale, e la fanciulla lo guardava con un brivido quasi nelle ossa. E davvero questo profondo gesuita, così pratico conoscitore dell’anima umana e della vita moderna, era una figura imponente. Più alto ancora che la zia Ludovica non fosse lunga, atletico quasi, con una faccia grande e dura nella quale luccicavano freddi gli occhi impassibili di Torquemada redivivo. Nel vederlo tutto solennemente preparato per l’accoglienza, così altero e distratto, a conoscerlo bene si sarebbe indovinato subito che ben altra cerimonia avrebbe allestito volentieri a quella ragazza se i tempi fossero meno tristi. Cesarina pareva lo indovinasse e si sentiva freddo alla schiena. Lo sguardo del solenne gesuita la ghiacciava tutta. Il conte fece le presentazioni con la sua abituale amabilità gentilizia. Cesarina fra tutti era la meno impacciata. Non ci sono che le signorine per assuefarsi subito ad essere principesse. Dovette parlare francese, suonare il piano, e cantare una romanza accompagnandosi. Aroglio manifestava quella gioia infantile dei ragazzi che fanno vedere agli amici un bel balocco, un pagliaccetto che sa suonare i piatti e andare in velocipede. Le due nobildonne si degnarono di trovare la bimba un po’ meglio di quanto avevano immaginato, e il gesuita le rivolse a bruciapelo delle domande di religione. Cesarina rispose a lui con una disinvoltura che serbava ancora un po’ di timore. Padre Alfonso seppe così che la bimba aveva fatto la prima comunione nel convento delle suore francesi di Lourdes, lungo il Mugnone, e che il suo confessore era Padre Anastasio. Fu stabilito senz’altro che il matrimonio si compierebbe il primo settembre e che padre Alfonso si interesserebbe che lo celebrasse lo stesso cardinale arcivescovo, nella cattedrale. Infatti, il gesuita, uscì subito nella stellata automobile di Aroglio e si recò al palazzo arcivescovile, di fronte al Battistero. La magia del suo nome facilitò tutto, e un’ora dopo l’automobile stellata si fermava al convento delle monache francesi. Padre Anastasio, sconvolto di tanto onore, non sapeva più che dicesse e che facesse, e ci volle tutta la perspicacia di padre Padre Alfondo Maria per capire qualcosa sul conto della signorina Montaldo. Il gesuita patrizio fu contento del frate plebeo, e lo esortò a continuare ad essere il direttore spirituale della fanciulla anche dopo diventata la contessa Aroglio. Continuando la conversazione capì poi che la signorina Montaldo, quando veniva al catechismo al convento, circa un anno e mezzo prima, aveva fatto amicizia intima con una certa Gennarina, una portentosa piccola santa, che aveva una vocazione divina al chiostro e alla pietà, e che tutti chiamavano il miracolo del convento. Padre Alfonso se la fece condurre per vederla. Entrò una fanciulla esile, pallida, trasparente, con dei grandi occhi chiarissimi come acqua sorgiva. Aveva una gracilità di angelo, una fragilità d’aria e il fascino di una forza invisibile. Davanti al tremendo gesuita non si commosse né tanto né poco, come chi vivendo le sensazioni del cielo nulla si cura della terra. E il terribile sacerdote della setta oscura, il futuro papa nero di quel mondo occulto e inafferrabile, colui che considerava la donna come un animale “propter imbellicitatem suam”, sentì in quella bambina la presenza invisibile della divinità. E con meraviglia di Padre Anastasio la interrogò con un’attenzione minuziosa e delicata, piena quasi di un rispetto ignoto. E Gennarina rispondeva con franchezza umile e semplice. Ma era quell’umiltà di creatura santa che nell’ubbidire al comandamento divino: « Ama il prossimo tuo come te stesso » uguaglia il sovrano e il mendicante. Raccontò che Cesarina era venuta al convento pochi giorni prima per chiedere aiuto e consiglio in confessione a padre Anastasio circa il matrimonio. Padre Anastasio non c’era e allora si era confidata a lei come al solito quando le accadeva qualcosa di straordinario. – E tu figlia mia – interruppe il gesuita – tu che sei una piccola saggezza, non hai sentito il dovere di farle considerare che un simile matrimonio era quasi contro natura, e che poteva essere l’abisso di tutta la sua vita? Tu dovevi farlo, figlia mia. Gennarina non si confuse. Alzò in volto ad Alfonso Maria i suoi grandi occhi chiarissimi come acqua sorgiva e disse: – Io le ho risposto che una cosa sola importa al Signore nella nostra vita. Che l’anima nostra giunga al giorno della morte più pura che è possibile dalle contaminazioni del mondo. Tutto il resto è inutile. Sposare un uomo piuttosto che un altro non significa nulla. Il gesuita la guardò e tacque. Congedandola le raccomandò di essere sempre l’amica e la guida celestiale di Cesarina. Il matrimonio fu stabilito per il 2 settembre, e padre Alfonso ripartì la notte medesima. Le tre settimane che ancora restavano, furono consacrate febbrilmente ai preparativi. I giorni volavano per Cesarina come in un sogno fantastico. La sua vita cominciava ad essere una novella di Mille e una notte. Ogni tanto nel turbine della fortuna improvvisa, il pensiero della bimba rievocava un momento la rivelazione dell’accoppiamento avuta da Giorgio proprio il giorno dell’incontro con Aroglio a Vincigliata. Ma era uno sgomento passeggero, un rossore fugace. Dalle prudenti allusioni del babbo e dei discorsi che intorno a lei si accennavano coi dovuti riguardi, credeva di capire che un uomo maturo come il conte, pratico ed esperto della vita, è molto più delicato e più attento nel deflorare una vergine di che non siano di solito i giovanotti con lo slancio brutale della loro esuberanza. Era questa un’idea che il conte aveva fatto filtrare quasi nell’aria intorno a Cesarina. E poi la testolina fiammante della bimba non aveva tempo davvero di pensare a tante cose. La realtà bella come una lirica le assorbiva tutti i minuti. E il conte diventava di giorno in giorno sempre più amabile, sempre più confidenziale, sempre più delizioso, sempre più innamorato. La bimba finiva per trovarlo il più piacevole di tutti gli uomini. Non viveva che per la sua piccola fidanzata la quale dimostrava tanta disposizione a diventare una gran dama, che egli ne era pazzo di gioia. Ed invece Cesarina in quel suo tirocinio di contessa metteva tanta grazia come le bambine quando giocano alle signore. Aroglio faceva meravigliosamente gli onori di famiglia. Furono fatte venire apposta la direttrice di una delle prime case di moda di Parigi e una gran sarta di Milano incaricate di fornire l’intero corredo della sposa. La bimba nella sua impazienza, felice, dimenticava tutto, persino la sua carne trepida di attesa. La terza mestruazione, in agosto, passò quasi come un episodio insignificante. Tutta preoccupata dei suoi preparativi, delle toilette, della biancheria, delle forniture, dei capelli, si spogliava, si vestiva per misurare, provare e riprovare, con una noncuranza della sua nudità, con una disattenzione, come se fosse addirittura una bambola di biscuit. Le si aprivano nuovi orizzonti di eleganza, di sontuosità e di lusso. Imparava repentinamente che tutte le cose che fino allora aveva considerate eleganti e finissime, erano invece banali e grossolane. Quei vestiti, quella biancheria, quei profumi, che prima avevano formato la sua delizia, li disprezzava ora con una prontezza volubile, come se fosse nata davvero nei palazzi del sangue azzurro. I tessuti più rari si intrecciavano fantasticamente, i ricami più leggeri frangiavano il suo sogno di bellezza e di gioia. Quando riguardava le vesticciuole corte che pochi giorni prima erano tutto il suo desiderio, e le sue mutandine e le camicine immacolate di bimba nelle quali il suo corpo meraviglioso aveva palpitato dei suoi primi brividi di verginità, e quelle calze che finora le sembravano miracoli di trasparenza, i suoi grandi occhi notturni parevano salutare l’agonia dell’infanzia semplice e modesta. E la sera, nella camerina candida della sua casa di fanciulla, quando si sfilava le calze delicate come aliti di fiori, leggere come sospiri di angeli nascenti, che parevano tessute d’aria e di luce di paesi remoti, quando si levava le mutandine grondanti di pizzi a disegno d’artista sapiente, in lievi tonalità d’avorio e di luna, e la camicina da giorno in cui la sua pelle d’aurora si annuvolava come uno scherzo mattutino. Quest’eleganza più nuova, fusa al profumo quasi impercettibile del quale si impregnava aristocraticamente la sua carne giorno per giorno, e ai ricordi della giornata signorile trascorsa al palazzo o nei negozi fantastici fra una turba ammiratrice e servile, melliflua e di una docilità soffice come i guanciali d’oriente, e che mai aveva incontrata fino a quel momento, sempre la sera si sentiva nella sua camerina la mescolanza dei due destini. Il conte non la lasciava un momento in tutto il giorno. Con una pazienza vigile e attenta che soltanto l’amore più pazzo poteva giustificare, egli viveva ogni minuto della sua fidanzata in tutti quei preparativi di intimità che gli acuivano fino allo spasimo il desiderio degli ultimi giorni. Cesarina fioriva per lui tra le eleganze e i profumi, di momento in momento, come la regina Ester maturava i frutti del suo piacere, giorno per giorno, negli oli odoriferi di Susa per la brama di re Assuero. E la sera, quando si coricava solo, spegnendo la fiamma delle sue vene trepide fino a scoppiare di passione nel ghiaccio del letto deserto, freddo e vuoto, contava ancora dieci, ancora otto, ancora cinque giorni e il paradiso promesso splendeva nelle sue visioni di estasi in forma di un foglietto di calendario con scritto sopra: 2 settembre, mercoledì. IV Al grande espresso europeo Berlino-Roma si aggiungevano alla stazione di Firenze un vagone letto e un wagon-salon, riservati per i conti Aroglio che partivano quella mattina in viaggio di nozze. I proprietari del buffet avevano fatto grande sfoggio di piante e di addobbi, perché Aroglio era fra i loro clienti preferiti e il capo stazione principale, Pietri, sempre in ritardo come i suoi treni, si era messe tutte le decorazioni. La croce di cavaliere della corona d’Italia accanto all’Ordine del Diamante bianco datogli dallo Scia di Persia un giorno che quel disgraziato si era trovato a passare per la sua stazione. Poveracci! Avevano fatto tutti una brutta fine i sovrani che gli erano stati larghi delle loro onorificenze. Infatti ostentava la mezzaluna d’argento del sultano di Turchia fatto prigioniero dal Comitato Unione e Progresso, l’Oriente stellato del Kedivè d’Egitto espulso dagli inglesi, il drago giallo del re del Siam, ucciso in una congiura di palazzo, l’aquila verde del presidente del Venezuela, fatto a pezzi dai rivoluzionari. Si vede che non portava fortuna il florido capo stazione. Tra gli abituali sfaccendati della sala d’aspetto e i viaggiatori di passaggio, era circolata subito la voce del matrimonio straordinario di quella mattina. Gli impiegati di stazione, quelli del telegrafo e quelli dei bagagli, i facchini, le commesse della libreria Roncati, e la vispa tabaccaia della sala, si facevano in quattro per raccontare i particolari agli amici. Tutta l’aristocrazia fiorentina era stata invitata alla cerimonia. Si erano contate trentaquattro automobili. I regali fatti alla sposa formavano da soli un patrimonio. Il cardinale arcivescovo in persona aveva celebrato il matrimonio religioso in Duomo. In municipio il prefetto era stato uno dei testimoni del conte. Uno che conosceva l’avvocato Montaldo commentò: – Ma se è più giovane il padre che il marito! Finalmente due magnifiche automobili con gli stemmi stellati di casa Aroglio si fermarono dentro i cancelli. Il conte balzò a terra per il primo, leggero e ringiovanito, e mentre lo staffiere, rigido e imperturbabile, alzava il braccio a guisa di appoggiatoio per la contessa, aiutò Cesarina a scendere. La giovanissima contessa sfolgorò agile ed incantevole in tutta la sua eleganza. Come sembrava alta Cesarina nel suo aristocratico abito da viaggio, coperta dal mantello grande e lunghissimo di velluto in raso nero foderato di raso bianco e chiuso nelle spalle da una pelliccia breve di ermellino candido! L’abito di un damasco orientale azzurro cielo, ben stretto alla persona perfettissima, senza cintura, si apriva per tutto un fianco su una finta gonna di seta grigio perla, che ne usciva dal fondo per più di un palmo fino alle caviglie sottili. Scarpette di broccato perla, e calze di seta uguali alla gonna, che sfumavano nella trasparenza miracolosa della carne. Il cappello ampio con un’unica piuma magnifica del colore d’aria dell’abito, avvolgeva come un giovane cielo l’impeccabile pettinatura bionda bionda, la purezza del visino di luce, e l’ombra notturna dei grandi occhi neri frangiati dalle ciglie chiare e lunghe. I guanti alti alti, di trasparenza grigio perla, inguainavano le manine ducali. In quel lusso la sua estrema giovinezza appariva indefinibile e stonava ancora meno. Tutto aveva del prodigio in lei e null’altro. E poi il vestito di sposa la invecchiava un pochino, e anche il pensare nel guardarla che ormai era contessa. Di più il conte quella mattina era più giovane di vent’anni almeno. Si era tinta meravigliosamente la barba di un bel biondo castano, e nel tout-demême attillatissimo d’un grigio primaverile, il pardessus chiaro al braccio, la canna leggera e la paglietta, sembrava un giovanotto che dimostra qualche anno di più. Veduti così accanto non formavano poi quella coppia eterogenea che si sarebbe immaginato. Insieme scesero l’avvocato Montaldo, la zia e la sorella del conte, e Gennarina che era venuta al matrimonio come damigella d’onore della sposa. Cesarina l’aveva voluta elegante la sua piccola santa in quel giorno, e Gennarina portava alla cerimonia la distinzione eletta degli angeli. Pareva rappresentasse la nobiltà del cielo. Aveva una bellissima veste in crespo di china bianco argento, che le scendeva sulle gambine esili, proprio a metà fra il ginocchio e la caviglia. Sopra, fino al ginocchio, una tunichetta di seta leggerissima, di un bel ametista sfumato in rosa. Dal petto in su, la tunichetta fioriva in un giacchettino uguale a rovesci bianco argento con bottoni di strass. Una cravatta a vecchio punto chiudeva il collo. Il cappello non tanto largo, ma spiovente era in tulle malva guarnito di rose sfumate. Scarpette di seta nera e calze ametista. I capelli prolissi biondo evanescenti, i grandi occhi d’acqua sorgiva, il visino estatico d’una trasparenza translucida, le davano un’aria di vergine preraffaellita che armonizzava a meraviglia con i gesti castigati e con un gran fascio di rose autunnali avvolte in un largo nastro di raso celeste con scritto a lettere d’argento: Alla Contessa Aroglio, le amiche della prima comunione. Nell’altra automobile erano Laura, la sorella di Cesarina, con suo marito il capitano Renzo Negretti, padre Anastasio, due cameriste e la cameriera particolare della contessa. Il segretario del conte, che li aveva preceduti in stazione per gli ultimi preparativi, venne incontro al suo signore e Cesarina vide in confuso la folla che la ammirava, gli impiegati a bocca spalancata e un gruppo di gente nel buffet che le annunziava un’altra sosta noiosa. Povera bimba! Cominciava già ad essere stanca! Erano cinque ore che durava quella storia, da quando padre Anastasio aveva confessato e comunicato gli sposi la mattina presto allo sei. Non l’avevano lasciata un minuto in pace! E vestirsi, e spogliarsi per rivestirsi un’altra volta, e spogliarsi poi per rivestirsi ancora. Non le pareva vero di essere in treno perché la lasciassero un po’ tranquilla! Era stordita. Le girava la testa. E il discorso del sindaco, e il discorso del prefetto, e il discorso del cardinale, e la messa cantata interminabile, e i brindisi degli invitati, e i sonetti augurali. Macchè! Tutti sentivano in sè lo spirito della poesia quella mattina! Eppoi quelle cameriere nuove come la impacciavano! Si era tanto abituata ai modi franchi e liberi dell’Assuntina! E con tutto il daffare che si davano non l’avevano nemmeno saputa vestire. Anche ora aveva la sensazione dì essere infagottata così male! Di più la camiciolina le faceva una piega sull’ombelico, la camicina di seta le si era raggrinzita su una delle natiche perfette e sode e le dava noia. Le avevano pure messa un poco storta la fascetta che di sopra le pigiava un po’ troppo una mammellina e di sotto le tirava le giarrettiere agganciate in mezzo. Anche un volante delle mutandine le stringeva troppo una coscia, e aveva inoltre una voglia matta di far pipì da non poter resistere. E fra tutte queste piccole noie, signora contessa di qua, signora contessa di là, lei doveva rispondere a tutti, sorridere a tutti. La si vedeva un poco turbata, lo notavano tutti e l’attribuivano all’emozione del matrimonio. Anche qui nella stazione, fra tanta gente, Cesarina osservava che tra la folla in Duomo, al municipio e tra gli invitati c’era lo stesso fenomeno della curiosità generale. Le donne avevano negli occhi lampi di invidia grande, gli uomini sorrisi di canzonatura. La piccola era seccata pure da due altri pensieri. In chiesa aveva veduto Giorgio, tra la folla, in prima fila. E le era parso crucciato, triste, arrabbiato con lei. Gli aveva potuto parlare una volta sola, di sfuggita, durante il fidanzamento, ma glielo aveva detto in quei pochi istanti. – Cosa vuoi Giorgio, non è per farti un torto, ma il conte mi sposa davvero, mi sposa subito! Eppure Giorgio non le era sembrato persuaso quella mattina in Duomo. Pensava anche che non si era ricordata di domandare al babbo se aveva messa la bambola nel bagaglio. E si trovarono tutti sotto la tettoia, al terzo binario, dove il treno espresso era pronto a partire. Già si chiudevano gli sportelli. Il corteo aristocratico spandeva intorno ai due vagoni riservati un’ondata di profumo finissimo, quel profumo raro e impercettibile che non si sente venire dalle persone come le essenze più volgari e comuni, ma che è sparso nell’aria intorno ad esse quasi miracolosamente. E gli ultimi saluti furono scambiati. Anche Renzo salutò la bella cognatina, rigido sugli attenti, con un “buon viaggio signora contessa!” correttissimo. E Cesarina rise dentro di sé ripensando al tempo che era ancora il tenentino scavezzacollo, fidanzato a Laura, e col quale nella vecchia casa, dove c’era ancora la mamma, faceva il chiasso insieme, buttando tutto alla’aria che era una disperazione. Ma in tutta quell’etichetta cerimoniosa vi furono due addii, gli ultimi, così affettuosi e confidenziali, che commossero la bimba, come se fossero quelli soli il simbolo del saluto estremo che dava alla sua vita ingenua di adolescente, alla sua felicità pura e infantile. Gennarina dette alla cameriera particolare il gran mazzo di rose, e le due bimbe si abbracciarono e si baciarono con un addio senza parole, che fu commovente come una musica improvvisa. Finalmente anche il babbo non poté frenare la sua confidenzialità borghese nel suo addio estremo. Era questa la seconda volta soltanto che si separava dalla sua Cesarina, ed anche l’altra volta era il conte che se la portava con sé. E si ricordava l’automobile azzurra che partiva per S. Remo. Curioso ripetersi di fatti predestinati nella vita. Ma allora si trattava di due mesi soltanto e poi Cesarina sarebbe ritornata tutta la sua bambina come prima. Ora invece… Il buon avvocato tratteneva a stento il pianto. Cesarina lo soffocò quasi di baci e approfittò di quel gran salutone per domandargli: – Papà, ti sei ricordato della bambola nel bagaglio? – Sì, cara. Era in questa domanda tutta la fresca innocenza che la bimba portava con sè nella sua vita nuova di dolore e di martirio. – E scrivimi sempre, scrivimi tutti i giorni. Ricordati che papà è solo. Si staccarono soltanto all’ultimo istante, quando proprio il treno partiva. Padre Anastasio accennò un ultimo gesto di benedizione; con gli sposi salirono il segretario, la cameriera particolare, le due cameriste e due staffieri, e gli sportelli si chiusero. Il grande espresso si mosse, dapprima insensibilmente, poi man mano più rapido. Il conte e la contessa sorridenti salutavano ancora al finestrino del wagon-salon, poi più nulla. Cesarina ed Aroglio furono soli verso Roma grande. Appena liberi da ogni sguardo indiscreto, nell’ombra vuota del lussuoso wagon-salon, il conte abbracciò e baciò la sua giovine mogliettina con l’affettuosità ardente di un innamorato. – Come va amore bello? Sei contenta? Da fidanzato cerimonioso e chic le aveva sempre dato del lei. L’etichetta di famiglia prescriveva dopo il matrimonio il voi. Cesarina fu tanto commossa di questa tenera confidenzialità che piegò soavemente la testina bionda sul petto del marito, e arrossendo tutta borbottò col suo piccolo broncio di bambina: – Ho tanta voglia di fare pipì! Il conte sorrise, sebbene non capisse tutta l’immensa poesia di questa frase, e la bimba poté così liberarsi del suo lungo tormento corporeo. Mentre fu solo, Aroglio non ebbe che pensieri di voluttà per la sua sposina infantile. Quando Cesarina tornò tutta contenta e soddisfatta, potè finalmente gustare la felicità di viaggiare così splendidamente. Tutto la distraeva. Le poltroncine e i tavolinetti del vagone, gli innumerevoli accessori di quel confort minuzioso, il paesaggio nuovo e inaspettato, la corsa vertiginosa dell’espresso. Scherzavano come due ragazzi. La bimba domandava spiegazione di tutto: a che serve questo? e che è quest’altro? Ma ogni tanto, a uno sguardo più ardente del marito, le ultime ore di verginità le piangevano nel cuore ignaro, nell’anima ingenua, nel corpo fanciullo, come una musica triste. Però man mano che si avvicinava al momento vero, le pareva tanto facile ora amare il conte. La sua anima infantile rievocava le piccole intimità di Giorgio, e il suo cuore ancora troppo vergine non presentiva del tutto le sfumature della simpatia fisica che sono il fondamento dell’amore passionale. Era ancora troppo bambina per questo, e non provava adesso che un piccolo solleticamento malizioso e il brivido di una curiosità immensa. Il treno si fermò soltanto tre minuti ad Arezzo. Alle due pranzarono, sempre nel loro salon, serviti da uno degli staffieri. Cesarina si mise a tavola tutta eccitata da due sigarette che il conte le aveva fatto fumare e da una tempesta di baci che da quasi paterni erano man mano diventati sempre più accesi e più caldi. Si era tolta subito, appena in treno, anche il cappello e i guanti, e così, senza il mantello da viaggio, era ancora più snella e slanciata nell’azzurro cielo e nei contorni grigio perla del suo abito sul quale spiccava ancora la perfettissima pettinatura libera e bionda bionda. In mezzo alla tavola il mazzo di Gennarina spandeva un profumo acuto di stagione matura ed esuberante. Lo staffiere serviva impassibile ed esattissimo, e in principio, il tête-à- tête fu silenzioso. Aroglio osservava con piacere come Cesarina ridiventava subito contessa ai dovuti momenti. Pareva nata apposta per essere gran dama. Il conte era certo che in pochissimo tempo ne avrebbe fatta una delle prime signore della nobiltà fiorentina. In presenza del servitore tornavano a parlarsi col voi. Alle frutta un’allegria vivace cominciò a spumeggiare tra loro, come lo champagne che sorbivano nelle coppe sottili. Si fecero un brindisi intimo intrecciandosi il braccio che reggeva il calice. Poi accesero le sigarette, fu servito il caffè, e appena finito il dolce, a un cenno del conte, rimasero soli. Cesarina si senti attirata in un divanetto dove affondò sofficemente; suo marito abbassò le tendine del finestrino, e la strinse in una carezza affezionata e languida. La bimba si abbandonò alle sue carezze con la felicità di gustare un frutto proibito che finalmente una grazia improvvisa permette e concede. Ora poteva fare senza vergognarsi quello che prima faceva di nascosto con tanto rossore. Anche se lo avesse saputo il babbo, anche se lo avessero saputo tutti, nessuno poteva dir nulla. Anzi, tutti sapevano che avrebbe dovuto fare molto di più questa volta. Quel molto di più le dava una scossa di suggestione indicibile. Come accarezzava bene il conte! Mai Cesarina si era sentita baciare e toccare con tanto piacere! Il pranzo e lo champagne l’avevano elettrizzata, e baciando perdutamente il marito le veniva la sensazione buffa della barba tinta. Aveva la tentazione di guardarsi subito in uno specchio per vedere se il viso le si macchiava. Sentì la mano leggera e delicata del conte attraverso la trasparenza delle calze, e quella carezza viva e continua la eccitava tutta di un’estasi calda. Il conte le vedeva la pelle lattea e illuminata del viso spargersi insensibilmente di rosa come un’aurora, i grandi occhi oscuri e notturni screziarsi di scintille infinite e piccolissime come cieli estivi colmi di stelle. Sentiva le manine di lei lunghe e irrequiete che lo stringevano al collo, annodandosi dietro a lui in un intreccio di ditini esili che gli davano un brivido per tutta la schiena. E le belle braccia seminude gli facevano come una collana di gioia. Vedeva i seni piccoli e turgidi, palpitare e ansimare di respirazione nel corsetto troppo attillato, intravedeva i fianchi divincolarsi impercettibilmente nel presagio di uno spasimo. Il conte, in questo slancio di piacere istintivo si sentì amato sinceramente nonostante l’abisso dei suoi quarant’anni di più, e fu ancora per un momento meravigliosamente felice nella sua povera splendida vita. Nell’impeto selvaggio della sua gioia di maschio declinante, nella bramosia eccitata ancor più dalla leggera ebbrezza dello champagne, gli balenò per un momento la voglia incosciente e subitanea di violare lì per lì quella verginità chiusa e ultra sensibile che gli si offriva come la porpora di un impero. Però l’ubriacatura lieve se lo eccitava di più, gli lasciava ancora abbastanza senno per riflettere che era troppo stanco e che certo le sue forze di cinquantaquattrenne abusato lo avrebbero tradito nel momento più bello. Cesarina pensava intanto che il marito è una gran bella cosa. Solamente il mazzo di rose bianche spargeva un profumo che turbava l’aria come una canzone di nostalgia. Il treno si fermò con una grande scossa nella stazione di Roma. Un quarto d’ora appena. Aroglio affidò la contessa alla cameriera particolare, che l’aiutò a svestirsi e l’adagiò nella cuccetta del vagone-letto perchè si riposasse. Anche Aroglio si ritirò nel suo piccolo scompartimento per sdraiarsi e dormire un poco almeno fino a Napoli. Voleva rimettersi in forze per essere fresco e riposato quella notte. Diamine, voleva farsi onore! Alle otto e due minuti di sera giunsero a Napoli. Come aveva telegrafato il segretario, una automobile speciale del Bertolini-Hotel li attendeva. Tutta stretta allo sposo, sola con lui nell’automobile grande, Cesarina guardava scorrere veloce il rettifilo larghissimo e immenso del Corso Umberto, diamantato di lampade ad arco nella notte già fatta. I famigliari venivano coll’autobus dell’Hotel. Traversarono la piazza Reale e per i nuovi quartieri di Santa Lucia scesero alla Riviera di Chiaia, meravigliosa e freschissima, dove era l’albergo sontuoso. Alla bimba, Napoli fece subito un’impressione di una grande festa di felicità e di bellezza. Le parve una città immensa, con quei palazzi grandissimi e quella enorme folla indolente, quasi cullata dal mare. Correndo lungo Chiaia il mare notturno l’affascinò di commozione improvvisa. Il direttore dell’hotel attendeva al cancello quei suoi ospiti eccezionali. Furono subito accompagnati nell’appartamento già tutto pronto e disposto. Era al primo piano, dalla parte che guardava il mare. Il conte e la contessa avevano due camere elegantissime, col loro gabinetto di toilette, separate da un salottino intimo. Un salotto per la contessa, un fumoir, lo studio del conte, la sala da pranzo, il salone e l’anticamera, oltre le camere dei famigliari nell’ammezzato. Alle nove e mezza precise i due sposi, dopo un bagno profumato, tutti freschi e riposati nelle eleganti toilette da sera, si fecero servire nella sala da pranzo. Aroglio era in smoking attillato e correttissimo, Cesarina era fatta una meraviglia dalle mani esperte della cameriera particolare. Portava un abito di raso oro pallido, drappeggiato con un trasparente di chantilly bianco leggermente ricamato di filo d’oro, rialzato al ginocchio sinistro per scoprire un angolo della gonna che arrivava soltanto fin quasi a metà fra il ginocchio sottile e il piedino minuscolo. Una piccola tunica tutta aperta, in velluto cesellato color albicocca, serrata in una cintura di velluto viola, adorna di un mazzolino rugiadoso. Provocante scollatura. Tutte le braccia, il petto fino ai seni, fin quasi a mezza vita le spalle. Annuvolava tutta questa bellezza un gran velo color d’oro. Scarpette scollatissime con allacciatura alla Salomè, in broccato d’oro, calze traforate color champagne, che si perdevano nel trasparire della pelle in una sottile sfumatura di un rosa pallido albicocca. La pettinatura direttorio, tutta a boccoli, un fascio dei quali scendeva sull’orecchio destro e sul collo, era chiusa da un nastro di velluto viola con una fantastica aigrette bianca. Scintillavano gli anelli, i braccialetti e una collana a setta giri. Il solito profumo impercettibile e suggestionante si mescolava alla fragranza della pelle soavissima per il bagno recente. Si dissero sorridendo “buon appetito” come nel pomeriggio in treno e cominciarono la cena guardandosi desiderosamente. La sala da pranzo abbastanza grande e quadrata, colle pareti in celeste chiaro, il pavimento in legno avana mascherato da tappeti gialli uguali al soffitto da cui pendeva l’innumerevole lampadario elettrico. Altri sei bracci di lampadine multiple erano lungo le pareti. Grandi quadri moderni a cornici leggerissime. Un paesaggio impressionista. Alcuni profili della scuola dei Macchiaioli. Trofei d’armi e di fiori. Due porte finestre avevano un balcone sul mare. Una brezza notturna raffrescava la sala impregnandosi coi profumi. Due camerieri servivano taciturni e precisi come due automi. Cesarina, con la sua compitezza spigliata di contessa in miniatura, cenava pensando a delle cose molto buffe. Il suo biondo cervellino birichinesco di bimba rievocava la voluttà del giorno nel treno, e cercava di immaginarsi con una breve titubanza la voluttà imminente della notte. E provava ancora quel sollievo spontaneo di alcune ore prima, pensando che tutta quella gioia che l’aspettava era legittima e non proibita, che era un dovere e non un peccato, che anzi era stata benedetta da padre Anastasio e dal Cardinale arcivescovo, ed esaltata nei discorsi del sindaco e del prefetto. L’anima sua rideva dentro di lei, intravedendo il gesto di benedizione arcivescovile per le mani del marito che la solleticavano, e la foga oratoria degli uomini di autorità e di governo per eccitare i baci e le carezze che gli sposi si farebbero quella sera a letto. E si stupiva al pensare che quelle cose intime avessero tanta importanza palese nella vita degli uomini e nelle loro cerimonie pubbliche, quasi quanta ne avevano segretamente per lei quando cominciava a illuminarsi di malizia la sua innocenza oscura di bimba. Quanta gente, quante autorità si erano mosse e scomodate, quanti denari e quanto lavorio di tutti, perché Cesarina e Angelo potessero fare ufficialmente quella piccola e dolce cosa che si può fare con tanta semplicità e con tanta naturalezza in un boschetto qualunque di nascosto. Cesarina trovava molto buffo tutto questo. Aveva sempre immaginato, anche più da bimba, che gli uomini grandi si occupassero di cose molto più serie. Il sorriso carezzevole del conte la richiamò alla realtà imminente. – Volete uscire, amica mia? O preferite di coricarvi presto? – Come vi piace – rispose Cesarina, senza sapere che ripeteva una frase di Shakespeare. Si alzarono per venir sul balcone dove era servito il caffè. Accesero una sigaretta per uno e sedettero vicini e soli. Il cielo napoletano aveva sempre una lussuria estiva. Tutte le cose intorno erano bagnate di mare e di luna. Intorno all’albergo giardini e verde. E ville o file di case tra verde e giardini. Tra le case e il mare la larga e dritta passeggiata di Chiaia fino a Posilipo. E il golfo meraviglioso e notturno, e tutta Napoli dietro meravigliosa e notturna. Un milione di stelle nel cielo, un milione di luci tremolanti sulla terra e sul mare. Il Vesuvio da un lato in cima all’arco del golfo. In fondo l’isola di Capri, lontana, chiudeva il semicerchio. A destra il porto. Una foresta tenebrosa e intricata di alberature di bastimenti ancorati. Qua e là gruppi scuri di barche legate alla riva. Vele di barconi nere nere nella notte. Una carrozzella traballante passava a tratti con un rumore sgangherato, qualche pariglia signorile ogni tanto, una automobile come per caso. E gente, gente, gente, oziosa, lentissima, abbandonata all’estasi della frescura serale con una felicità malanconica, come in un paradiso mistico. Straccioni ed eleganti, borghesi decenti e plebei sudici, ragazzi di basso porto, fanciulle popolaresche sguaiate e belle, donne napoletane scontrose e belle. E ancora scugnizzi e scugnizze, guagliò e guaglione. E un vocio confuso come una cantilena di nostalgia e di tristezza lontana. Nello specchio di mare più prossimo, intorno alle rive, barche e barchette cariche di villeggianti. Mandolini e chitarre. I due sposi fumavano lì sul balcone stretti stretti, come tuffati in tanta voluttà che li cullava d’intorno. Cesarina non pensava più nulla. Si sentiva leggera e sognante come quell’atmosfera musicale. Aroglio ne subiva il contatto vertiginoso come un’ubriacatura. Le teneva stretta una mano, e l’intreccio delle dita era una trasmissione elettrica, era l’intreccio d’un romanzo d’amore. Ogni tanto una carezza leggera, un lungo bacio lentissimo a fior di pelle. Non dicevano nulla. Cesarina rispondeva con dei piccoli baci superficiali d’innocenza graziosa, profondi di affettuosità desiderosa. Il marito sentiva la sua bocchina, come fosse la bocchina fresca della notte emozionata. Tutta la pelle miracolosa di quel corpo di bimba, tutta quella carne infantile e prodigiosa, tutta la nudità più nuova pareva fiorire sulla velatura leggera che avvolgeva la giovanissima contessa, come l’azzurro fiorisce sul mare. Il conte la sentiva così nuda sotto le sue carezze, che ne spasimava come un’anima che sta per raggiungere l’inconoscibile. La chiarità lunare si fondeva su quella pelle trasparentissima, su quei capelli cosi strani, su quel corpo solleticante, su quelle vesti profumate, su tutta quella bellezza che il conte sentiva sua. Per ripararsi dalla troppa frescura Cesarina si era gettata sulle spalle un mantello da sera di raso cremisi, e Aroglio glielo aprì leggermente per chinarsi a baciarle il petto e il principio dei seni. E gli rimaneva in bocca come un sapore di zucchero. Improvvisamente una canzonetta più vicina li scosse. Una serenata vagabonda proprio sotto l’albergo. Chitarre e mandolini si accordavano in un bilanciamento di lussuria tenue, in una voluttà ondulata e languida. E le voci malinconiche cantavano in coro: La canzone d’amore Non tiene parole Tu la canti con gli occhi Io la canto col cuore La canzone d’amore. Il conte buttò dei soldi. Allora uno scugnizzo di otto o dieci anni, che insieme ad altri due si era spinto proprio sotto il balcone, cominciò a saltare e a batter le mani in cadenza accompagnandosi una sua cantilena molle: – Quann’è bella ‘a signora! Quann’è bella ‘a signora! Aroglio si sporse dal balcone urlando in una risata discola e ragazzesca: – Se lo ripeti venti volte ti butto cinque franchi. Fu sentito da tutta la strada. E allora in un impeto straordinario, un nugolo di scugnizzi e di scugnizze fu sotto all’albergo ballando in cadenza e battendo le mani. E dieci, venti, trenta, cinquanta voci di tutta quell’infanzia sudicia e bella intonarono il madrigale ingenuo: – Quann’è bella ‘a signora! Quann’è bella ‘a signora! Cesarina era fuori di sé d’estasi e di confusione. E lì davanti al cielo, davanti al mare, in faccia alla notte napoletana, alle serenate e ai ragazzi, suo marito, folle di giovinezza improvvisa, la strinse forte forte in un assalto di baci. V Un’ora dopo, nel piccolo boudoir attiguo alla propria camera, la contessa si faceva preparare per la notte da Agostina, la cameriera particolare. Avvolta in un pettinatoio così fine che pareva quasi un ricamo, si guardava nello specchio, mentre la cameriera, dopo averle annodati i capelli per la notte, glieli imprigionava in una rarissima cuffietta di trina cinquecentesca. Come fu pronta, si alzò e passò nella camera da letto, che era un concentrato di quel lusso eterogeneo dei grandi alberghi cosmopoliti. Voleva raffigurare uno stile modernissimo nelle tinte allegre e chiare che le multiple lampadine elettriche immergevano in un pallore d’oro bianco. Il letto basso basso di palissandro, con un piccolo baldacchino di raso bianco, su la testiera, sormontato dalla corona comitale, e stretto da parer quasi lungo. Armadio a specchio trittico, cassettone, tavolinetti da notte, tavolino da scrivere, tavolinetto tondo, toilette, sedie, poltroncine e divano, tutto in palissandro uguale. Imbottiture e tappezzerie candide come le coltri del letto. Pure due vetrate con balconcino verso il mare. Il letto era un miracolo di merletti, di ricami e di ricamucci tra i quali Cesarina adorabilmente immersa, si faceva togliere dalla cameriera le scarpette e le calze per infilarsi poi le pianelline di raso bianco. E fattala ora levare in piedi, Agostina, toltole il pattinatoio, le slacciava il busto, la combinazione, le mutandine, le giarrettiere, e finalmente la camicina, per passarle la camicia da notte. Per un momento Cesarina fu tutta nuda nella chiarità elettrica e nel riflesso degli specchi. Ma era una contessa e non doveva vergognarsi davanti a una cameriera. Perciò rimase di una noncurante alterigia, impassibile come una statua. E sembrò davvero in quel lampo di nudità l’incarnazione d’avorio e d’oro della più giovine delle Grazie. E l’avorio splendeva nella conca riversa nel ventre sulle spalle perfette, nei seni, nei fianchi, nelle gambe lunghissime e dritte, e l’oro corruscava malizioso ed ubriacante sul pube e sotto le ascelle come insinuandosi nelle cavità più intime. In uno degli specchi si rifletteva la schiena per intero, nelle sue linee di perfezione superba, quasi spezzata ad angolo in due dal solco che la traversava tutta per lungo dal collo alla vita. La camicia da notte scese sul capolavoro statuario come il sipario sul Tristano e Isotta di Wagner. La cameriera posò sul tavolinetto da notte l’acqua zuccherata, il portasigarette d’oro, i giornali del giorno e le riviste più recenti, e chiesto se la signora contessa non comandava altro, si ritirò discreta. Rimasta sola, la fanciulla esitò incerta un istante, poi, come ricordandosi di una abitudine cara ritrovata lì per lì come una amica lontana, si avvicinò all’inginocchiatoio che era in un angolo della camera, sotto a una magnifica copia della Mater Purissima di Domenico Morelli, davanti a cui ardeva una piccola lampadina d’argento. E nella, preghiera trovò come l’essenza concentrata della sua felicità nuova. Tanto che quando ebbe finito l’ultimo Pater, Ave e Gloria e si fu segnata, entrando per la prima volta nel suo letto di contessa fu contenta come una bimba che gioca alle signore. Stette un momento come a godere sè stessa nella nuova felicità della sua prima notte nobiliare, poi tese le sue perfette manine al portasigarette, prese una sigarettina inglese profumata, l’accese e cominciò a guardare, fumando, l’ultimo numero dell’Illustration. Non erano forse cinque minuti che leggeva, quando Agostina bussò nuovamente alla porta. – Avanti – disse la contessa. La cameriera entrò sorridendo maliziosa e disse inchinandosi: – Il signor conte fa domandare alla signora contessa se non disturba. La signora contessa sorrise ed annuì piegando la testa bionda e la cuffietta birichina. Un momento dopo il signor conte entrava cerimonioso e sorridente anche lui. E parve quasi bello a Cesarina con quella sua grande aria gentilizia, e le parve di essere anche più contessa a vederselo davanti nell’intimità corretta della sua veste da notte. E davvero sembrava quasi giovane Aroglio, tutto pettinato e lavato di fresco, col suo costume leggero di panama a pantaloni e giacchetta. Si sedè sulla sponda del letto, e il suo cuore tumultuò di gioia repentina e selvaggia alle carezze festose di Cesarina che baciava il marito con una tenerezza di sposa infantile. L’eccitazione del conte era al colmo. Si stese sopra la coltre accanto a lei, trovandosi, per l’esiguità del letto, strettissimo a quel corpo fatato. Poi, con una mossa improvvisa, si sollevò e tirò giù tutta la coltre scoprendo la fanciulla anche. Il corpo emerse dal letto e dalla camicia da notte, come venendo a galla nelle spume del mare di Afrodite. Si movevano tutti e due come sonnambuli, come spinti da un istinto interiore estraneo alla loro volontà spirituale. Si sarebbe detto che i loro corpi agissero da soli, inconsciamente, e malgrado le loro anime. Anche le loro parole risuonavano vuote e lontane come senza volontà. La bimba dimenticava tutto. Chi era. Che faceva. Se era felice o triste. Era tutta nel momento presente. Quei due metri quadrati di letto erano il suo universo, il suo infinito. Provava ancora una volta la felicità nuova del piacere legittimo, del piacere che i sacerdoti avevano benedetto, che gli uomini le avevano innalzato come il più santo e il più puro dei doveri. Si dicevano poche sciocchezze distratte di quando in quando. Il loro spirito, tutto assorto nell’emozione carnale, non trovava argomenti di parole e perciò si appigliavano a tutto ciò che veniva in mente, quasi con disperazione. A un certo punto Cesarina domandò: – Che ore saranno? Aroglio, senza curarsi di guardare, rispose a caso: – Deve essere quasi mezzanotte. Dalla strada si udivano echi di serenate vicine e lontane. – Tesoro, tesoro biondo! – Mi vuoi bene? – Tanto tanto. Da pazzo. E tu? – Anch’io. – Dove l’hai messa la bambola? – L’ho fatta mettere nel salone. Non l’hai veduta com’è bella col vestito nuovo? – Sarà bella come te, bella mia. Cesarina tacque, tutta scossa dall’estasi del momento. Ebbe un primo brivido di voluttà e di paura. Il conte, memore per esperienza che a cinquantaquattro anni bisogna approfittare dei momenti propizi, allungò il braccio e spense subito la luce. – Che fai, perchè? – Taci, taci piccola! Mia, mia, tutta mia! Soltanto una velatura leggerissima di pallidezza lunare fluttuò per la camera nel buio. Cesarina fu presa a un tratto da un fremito convulso. Era tutta sbigottita e sgomenta. Avrebbe voluto scappare lontano lontano, sparire sotto terra, ma non aveva coraggio nè di gridare nè di rifiutarsi e nemmeno di parlare. Soltanto il buio mitigava il suo spavento e la confortava un pochino. Aveva il presentimento fisico del dolore della deflorazione imminentissima. E d’altra parte, nella sua ripugnanza, si stringeva sempre di più al marito, come all’unica persona vicina che le volesse bene e in cui potesse rifugiare la piccola anima smarrita. Le si gonfiarono gli occhi belli di pianto. Mandò un primo gemito pianissimo, un altro, un altro ancora più sensibile e un piccolo strillo sordo che il conte le soffocò coi baci. L’istinto spingeva inesorabilmente il maschio all’inevitabile. La tregua non era possibile più. Cesarina si spaventò. Sentì che non poteva più fermare quello strazio dolorosissimo che la spezzava. Nel principio aveva resistito, sperando che sarebbe stato un momento, un attimo solo, come quando si era fatta levare un dente a sette anni. Ma ora non sentiva più di essere con l’amico, con l’amante, con lo sposo, col conte che le voleva tanto bene. Era un nemico che la straziava, che lei non dominava più. E nemmeno lui poteva più frenare la forza naturale scatenata nel suo sangue di maschio. Tre millenni di stupri parevano culminare in quell’attimo. Cesarina si sentì come preda di uno sconosciuto, di un brigante, di un selvaggio. E smarrita, perduta, cominciò a urlare, a strillare, a chiamare aiuto. Il conte le chiudeva brutalmente la bocca con la mano come un assassino. Ma nessuno la sentiva la piccola. Tutti sapevano quello che succedeva. Quello strazio della sua verginità, era un dovere umano, era la cosa più naturale della vita. La bimba tacque, e sentì l’alito di belva del marito sulla propria bocca, sentì l’alito caldo, il viso acceso e grondante di sudore, la bestia secolare che non sapeva più baciarla nemmeno. Volse la testolina inorridita, e vide allora nel buio il lumino d’argento della Madonna. La vergine allora pensò per un momento alla Vergine. La vergine ebbe idea di chiedere aiuto alla Vergine. Ma si ricordò subito che quello strazio della sua carne infantile era stato benedetto la mattina stessa da tutte le Vergini sante, e pianse, pianse, pianse silenziosamente senza urlare più. E il conte non la vedeva, non la sentiva più, era lontano da lei, estraneo all’anima sua, tutto assorto nell’atto belluino. E in tutto quell’orrore e quel dolore acutissimo una gioia sconosciuta di donna, fluttuava a intervalli nelle sue vene accese, la teneva inchiodata al marito, cui si avvinghiava suo malgrado stretta stretta con le braccine intrecciate, affondandogli le unghiette rosa nella pelle come piccoli artigli. A un tratto il piacere fu continuo e più intenso e anche le due bocche si ribadirono una nell’altra, quasi le anime volessero trasfondersi nell’alito. Cesarina, compiutamente soddisfatta, ma stordita, indolenzita, pesta, come scampata per miracolo ad una tempesta di bastonate, giacque insensibile nel suo lettino. Il conte, nonostante la sua lunga esperienza, di libertino, ebbe alcuni istanti di imbarazzo penoso. Ricoprì la fanciulla. Riaccese la luce e suonò per la cameriera. Nel chiarore subitaneo Cesarina apparve fra un incanto di merletti immacolati, inerte, quasi svenuta con gli occhi semichiusi e un leggerissimo sorriso stanco stanco sulla faccina smorta. Agostina accorse prontissima. Per ordine del conte era rimasta in attesa nel salotto fra le due camere. – La signora contessa ha bisogno – accennò Aroglio lisciandosi alla meglio i pochi capelli scarmigliati e la barba. Agostina, con la sua pratica di cameriera particolare alzò la copertura, sfilò la camicia di notte, avvolse la contessa in un grande accappatoio, e porgendo le braccia disse: – Se la signora contessa vuole appoggiarsi. Cesarina l’abbracciò al collo, e fu portata così come una bimba nel gabinetto di toilette. Era ancora insensibile a tutto e instupidita di stanchezza. Si lasciava prendere come un bamboccio. Il conte sentì uno scorrere d’acqua, il tramestio della cameriera, e Cesarina rientrò sorretta, coi capelli sciolti, coperta di un accappatoio fragrante che lasciava vedere la camicia da notte cambiata. Agostina la fece sedere sul divano, accanto al marito, e si mise a cambiare il letto. La bimba piegò la testoline adorabile sulla spalla del conte stringendosi tutta a lui. – Come state amica mia? – le chiese gentilmente e premurosamente Aroglio. – Sono stanca, tanto stanca. – Povera amica! Sono tutte le emozioni di questa giornata. Ora vi riposerete e domani starete benissimo. E i due sposi conservarono di fronte alla cameriera la loro alterigia nobiliare, mentre questa, con la sua docilità indifferente, toglieva dal letto i lenzuoli mostrandoli un momento per aria come una bandiera di vita nel portarli via. Come il letto fu cambiato e profumato, la contessa si coricò, bevve un sorso d’acqua zuccherata, e la cameriera veduto se tutto era all’ordine, si inchinò e disparve. Il conte intanto aveva accesa una sigaretta e si accostò al letto della moglie. Cesarina pareva non capir più nulla, come se tutta la sua vita si fosse dileguata insieme alla verginità. E Aroglio la guardava ora. Guardava quella bellezza, quella purezza, quell’innocenza che era stata sua, che ormai era sangue del suo sangue per sempre, e baciò la sua giovine sposa con affetto tenerissimo. I corpi stanchi e morti interamente in loro, lasciavano le anime sgombre e libere di amarsi, di baciarsi, di toccarsi con purità. E fra quei baci castissimi quasi paterni, il sonno vinse la bimba. Il conte la guardò un istante, coi suoi capelli biondi biondi sparsi sulle trine del guanciale, col suo viso bello di angioletto impallidito, e la coprì tutta con rispetto e con tenerezza come una convalescente. Si allontanò in punta di piedi, quando fu sulla porta guardò ancora quella camera tutta piena della sua ultima vittoria di maschio. Aspirò il profumo di verginità appena sfiorita, di donna appena sbocciata, che la riempiva tutta, guardò ancora il lettino miracoloso, buttò devotamente con la destra un ultimo bacio, girò l’interruttore, la camera fu buia, ed egli chiuse la porta e sparì. Un’eco di mandolino si perdeva sempre lontano, lontano, nella via. VI Cesarina, dall’indomani giovedì fino al martedì seguente, 8 settembre, stette fra il letto e il salottino interno, senza poter uscire. Il medico dell’albergo, una celebrità cittadina, non trovò nulla di anormale. Tutto quel disturbo era causato semplicemente dall’età troppo tenera della contessa. Due o tre giorni di riposo e finirebbe lì. Non c’era nemmeno febbre. Spiegò al conte che la grande differenza d’età del marito aveva questa volta giovato alla bimba. Aroglio fu in quei giorni di una affettuosità veramente meravigliosa. Non uscì mai dall’albergo, non si staccò un momento dalla fanciulla qualche volta dimenticò persino di darle del voi e di dirle Amica mia in faccia alle persone di servizio. Del resto Cesarina, a parte il dolore materiale, non si annoiò davvero. Quando stava nel salottino, il conte faceva venire il segretario, che leggeva per lunghe ore l’ultimo romanzo di Gabriele D’Annunzio; Il piccolo mondo antico di Fogazzaro o le ultime riviste italiane, o francesi più interessanti o gli ultimi quotidiani dei giorno. Poi venivano per la strada sotto il balcone le serenate, le mandolinate e le canzonette che cullavano la giovanissima signora nella placida e lenta melodia del loro sogno napoletano. Il conte le aveva anche insegnato, così per passatempo, dei giochi di società, l’ecarté e gli scacchi. Anche la novità della sua vita gentilizia pareva distrarla con ogni più piccolo particolare. Finalmente, nel pomeriggio di martedì 8 settembre, del tutto ristabilita in perfetta salute, poté uscire in automobile. Era una giornata calda di una intensità ancora estiva, e tutte le meraviglie del cielo e della terra di Napoli smagliavano sovranamente. Cesarina, nella sua veste leggera d’un bel verde mare vivo, lo spolverino grigio elegantissimo uguale alle calze e alle scarpette, il cappellino piccolo e il velo ampio che le avvolgeva tutto il viso, era sempre incantevole. Il conte, che la sentiva così sua, così tutta sua, era pazzo di felicità solo a guardarla. E appariva ringiovanito anche lui, nel suo abito da sportman di un avana chiarissimo, col berretto e gli occhiali da turismo, perchè guidava da sè. Avevano la loro vettura, un double phaeton Fiat 24-40, giunto la mattina da Firenze. Erano soli con lo chauffeur, la contessa accanto al marito che teneva il volante, lo chauffeur dentro la vettura. Andarono verso Capodimonte e Cesarina appena uscita dalla città, che le parve immensa, fu tutta presa d’incanto per quella campagna partenopea che sembrava un paradiso terrestre. Le ricordava singolarmente la campagna fiorentina, ma con qualcosa di più acceso e più carico, con le linee più decise e le tinte più vive. Quella differenza insomma che passa tra il sapore dei vino Chianti e quello più grave del vino meridionale. Notava, strada facendo, le indicazioni chiare e precise del Touring Club nelle tabelle bianche, ed ebbe per un momento la sensazione che il mondo fosse fatto apposta per girarlo in automobile. Quando furono in un largo spiazzo prossimo alla reggia, il conte stesso dette alla sposa la prima lezione di automobilismo che insieme all’equitazione faceva parte del programma del viaggio di nozze. Lo chauffer notò con meraviglia che la signora contessa non dimenticava mai di premere il pedale dell’innesto o, come si dice in termine tecnico, di debraiare, che invece è la distrazione e la dimenticanza perenne di tutti quelli che imparano. Cesarina si divertiva pazzamente. Trovava che era una cosa facilissima imparare a condurre, e alla fine della lezione poté fare un giro intero guidando da sola. – Che ci vuole? – diceva con incanto. – È così semplice. Si fa mettere in marcia il motore, si preme un momento l’acceleratore, poi si abbassa il pedale dell’innesto, si mette la prima velocità, si toglie il freno, si alza a poco a poco il pedale dell’innesto e via, si parte. Poi da capo si accelera un istante, si disinnesta, si mette la seconda velocità, poi la terza, poi la presa diretta. Il conte era rapito da tanta facilità di apprendimento, e ordinò allo chauffeur che fin dal giorno dopo preparasse le carte necessarie perchè la signora contessa potesse fra quattro o cinque lezioni, subire l’esame per prendere il brevetto e guidare ella medesima. Tornarono all’albergo per cambiar d’abito. Il conte si mise in smoking. Cesarina in abito da sera, malva cenere, in grande scollatura, e uscirono, sempre in auto, per cenare al Gambrinus e andare al teatro. Aroglio aveva infinite conoscenze nell’aristocrazia napoletana, specialmente quella più nera e ancora mezza borbonica, ma a causa del disturbo di Cesarina non aveva potuto fare e ricevere le visite di cerimonia. Però tutte le mattine trovava la guantiera posta in anticamera dell’albergo, piena di carte da visite di famiglie gentilizie che premurosamente si curavano di chiedere notizie della salute della giovane contessa. Perciò quando il conte e la bimba entrarono nel loro palco ai Fiorentini alle dieci passate, quando già il primo atto volgeva al termine, fecero sensazione nel pubblico più elegante del piccolo ma aristocratissimo teatro. Già la notizia di quel matrimonio tanto singolare aveva preceduto gli sposi, perciò la curiosità del mondo gentilizio napoletano era al colmo. E il palco fu pieno di visitatori che Cesarina accolse con tutta la dignità di neo contessa come le si conveniva. Fu un trionfo per lei. Il marito ne era pazzo di gioia. E la notte, la seconda loro notte d’amore, Cesarina trovò il matrimonio una cosa quasi divertente. La mattina dopo cominciò anche a fare un’ora d’equitazione. Uscirono verso le dieci in auto, e a Posillipo li attendeva lo staffiere con i cavalli. Il conte aveva comprato a Cesarina un morello di due anni, balzano travato, birichino e bellissimo, che si chiamava Mandarino. La bimba, con la sua amazzone nera a coda lunghissima, il cappello sodo da maschio col velo nero annodato dietro, così bionda e bianca, stivalata di camoscio, con la cravache nella destra chiusa dal guanto di pelle nera, era di un’armonia perfettissima. Anche l’equitazione andò subito bene. Lo scudiere che faceva da maestro, reggeva a mano sulle prime il cavallo di Cesarina la quale trovava che andare a cavallo e guidare l’automobile erano le cose più divertenti della vita. Cominciarono ad accettare gli inviti nelle famiglie più azzurre e più nere del gran mondo Partenopeo e Donna Cesarina si divertì fino all’inverosimile, come in un sogno fantastico, tutta ebbra dei suoi inaspettati trionfi. Il 10 cominciarono le feste di Piedigrotta. La giovine contessa fu avvolta in una armonia di canto e di musica, in una tenerezza di amore e di nostalgia che le creava d’intorno un’atmosfera di estasi. La sera seguiva in canotto a motore le file di barche canore e festonate di lampioncini e tornava alla notte all’albergo satura di voluttà e di desiderio, desiderosa delle carezze del marito. La notte di martedì 15, dopo essere stata ad una grande audizione piedigrottesca al caffè-concerto, si stringeva, tornando, tutta al marito, come tutto il corpo le vibrasse quella notte di un amore immenso e nuovissimo. Sentiva tutta la voluttà dello sposo, o si attaccava così a lui come offrendosi sempre più in quei momenti supremi, che il conte si credeva amato pazzamente. E portava una sfacciataggine di bambina viziata precocemente in quella sua sensualità d’amore. Infatti era ancora troppo bambina, il pudore verginale sarebbe cominciato proprio allora in lei, se nella sua anima e nel suo corpo di bimba avessero lasciato sbocciare tranquillamente la fanciulla. Invece, l’affrettato matrimonio l’aveva subito fatta passare dalle prime malizie di bimba che avevano dato una leggera ed ingenua spudoratezza infantile anche alle sue prime affettuosità semplici e maldestre con Giorgio, alla rivelazione legittima e pratica dell’atto d’amore. E perciò portava nel suo letto di sposa tutta l’impudicizia di compiere un dovere piacevole sacro e naturale. Il matrimonio non aveva sfiorito in lei nessun pudore di vergine. Si poteva dire di lei la signora che non fu signorina. Aroglio, banalmente poco pratico di psicologia femminile nonostante il suo libertinaggio satiresco, attribuiva tutta questa espansività sensuale al proprio ascendente sulla giovane moglie e al grande amore che egli aveva saputo ispirarle. Quella notte dunque Cesarina era più che mai ebbra di desiderio puerilmente. Mentre Agostina la spogliava, la spettinava e la preparava per la gioia notturna, guardava distratta le numerose e splendide fotografie delle sue nozze, arrivate allora allora da Firenze. Erano ventiquattro pose differenti, in dodici copie per ciascuna, in formato vastissimo da parere quasi ingrandimenti. A poco a poco la sua distrazione si mutò in compiacimento. E in quella sera sentì come mai, la soddisfazione di essere bellissima, giovanissima, amatissima dal marito, adoratissima e adulatissima da tutti. Entrata nella camera si inginocchiò in fretta a pregare un momento, poi entrò trepidamente nel lettino profumato e aspettò il conte fumando una sigarettina leggera e dolce. E quando egli si fece annunziare, gli tese le braccia perfette e candidissime affettuosamente, armoniosamente, ardentemente. Aroglio la soffocò di baci con tutta la sua brama eccitata al diapason, ma quando, come le altre sere, fece per spengere la luce, la bimba si oppose. – No, – sussurrò ti voglio tanto bene, voglio vederti quanto mi ami! Il conte capì per istinto che quella sera la conquistava ancora di più. Aveva una tendenza naturale al pervertimento, e Cesarina, per la sua viziosità ignara, per la sua fanciullezza sperimentata precocemente era quanto mai un terreno propizio. La baciò, la ribaciò ancora lungamente, eternamente, e la bimba si abbandonò a lui con tutto il suo corpo, con tutta la sua anima. Il momento gli parve favorevole per averla ancora più nuda, tutta meravigliosa d’offerta. La bimba lasciò cadere anche l’ultimo velo di pudore con un vaghissimo gesto di tenerezza. E rimase così tutta raggiante di nudità luminosa, nel mare d’oro dei suoi capelli sciolti, nel mare bianco e spumeggiante dei merletti e delle trine del letto, come l’Afrodite vivissima d’uno statuario ultra moderno ed ultrasensibile. Oh felicità perenne compiuta! Non sentì nemmeno lontanamente il più piccolo male. Il conte era quella sera in un fervore di tenerezza come non era mai stato da lungo tempo. La giovinezza di Cesarina gli aveva fatto bene. Di più era in quel momento eccitatissimo, al colmo delle sue brame di maschio. Sentiva una forza nuova in sé: quasi una divinità creativa. Il potere divino di chi è sul punto di creare un essere simile a sé. E questa forza nuova coincideva perfettamente con la felicità compiuta della giovinetta. Dapprima le pareva che tanta perfezione di gioia le venisse dall’atto di darsi totalmente così nell’impudicizia della luce. Ma poi era una sensazione materiale continua di benessere sempre crescente fino all’inverosimile, come se i due corpi avessero una vitalità intensificata quella sera, come se le due anime stessero per traboccare. Il piacere, la felicità, la gioia fatta materialità concreta, la illuminavano dentro meravigliosamente, irraggiandola, come se l’aurora e la primavera le riempissero, concentrate in essenza, il sangue, le vene, le viscere. Il conte invece provava una felicità divina, come animato da una potenza felice. Si sentiva vuoto tutto completamente, rapidamente, felicemente, come se tutta l’anima si immergesse di gioia nel corpo bellissimo di Cesarina. Non furono che pochi attimi e i due amanti erano sulla vetta dell’estasi umana. E sul culmine aereo di quella pazzia voluttuosa, tutti e due insieme spontaneamente, istintivamente, mandarono un grido selvaggio di animalità soddisfatta, come se arrivati sul limite dell’irraggiungibile vedessero per un istante l’alba del mistero, il sole dell’infinito. E tutta quella gioia sovrumana era per la fanciulla un’altra stazione di più nella Via Crucis del suo martirio femminile. In quel minuto Cesarina fu madre. VII Napoli, 17 Settembre Eccellentissima signora contessa, A voi, creatura eccelsa, divinità angelicata, io mi volgo come il mendicante che aspetta salute da Sua Maestà la Regina. Io vi amo. E voi ve ne siete accorta. C’è nella mia passione tutto il fuoco del Vesuvio, tutta la forza di questo sole meridionale ardentissimo. A voi decidere la mia vita o la mia morte! So che partite! Vi supplico, concedetemi un minuto, un minuto solo, dove volete, anche all’aperto, per dirmi se debbo sperare o no. Non temete nulla. Sono un gentiluomo. Se non volete amarmi, sparirò per sempre. Se mi dite di sì vi seguirò dappertutto. Credete, io posso darvi tanta felicità. Vi bacio le mani umilmente. Duca Salvatore di Albereta. Cesarina rigirava nelle manine morbide il biglietto profumato con lo stemma ducale. E pensava. Era suonato appena mezzogiorno di venerdì 18 settembre e la contessa nel salotto da pranzo dell’Hotel aspettava il marito che stava cambiandosi d’abito. Erano appena tornati da una cavalcata mattinale, durante la quale avevano visitato il famoso Castello Angioino. Quasi tutti i giovani e maturi patrizi napoletani, che avevano subito formato l’entourage degli Aroglio, si erano trasformati in ardentissimi corteggiatori della giovanissima contessa. Però i più pratici riflettevano che anche se con quarant’anni di più e prossimo a rendere le armi, il marito era sempre in questi primi giorni di matrimonio nella più efficace luna di miele, e si limitavano a circondare Cesarina di una muta adorazione sperando in vicinissimi tempi migliori. Albereta invece aveva rotto il ghiaccio. Cesarina da una parte provava una compiacenza segreta e grande a vedersi adorata da tanti veri signori, dai quali, appena qualche mese prima, si sarebbe sentita tanto lontana quanto Cenerentola dal figlio del Re. Ora capiva anche troppo tutto quello che gli uomini volevano da lei. Capiva tutto l’abisso immane che c’è tra signora e signorina. Come leggeva bene negli occhi a tutti il desiderio del letto e dell’alcova. E per una strana bizzarria, appena la guardavano un po’ intensamente, si figurava subito seminuda tra le braccia di loro. Ma col marito quelle cose erano permesse, anzi erano un dovere sacro e benedetto mentre con gli altri non solo erano proibite, ma erano un peccato e che peccato! E sentiva sinceramente che mai avrebbe fatto una cosa simile. Anzi provava una sensazione di schifo per ogni altro uomo che non fosse il conte. Aroglio entrò cambiato per il pranzo. Cesarina gli porse il biglietto che aveva in mano. – È una lettera per me? – No. È mia. – E allora? Non occorre la legga. – Sì. Vedrai che ti interessa. Egli prese il biglietto e lo scorse. Per tutta risposta si strinse la bimba al petto e la baciò pazzamente. – Grazie, grazie, cara. – Tutta la mattina ha tentato inutilmente di darmi quel biglietto. Allora, vedendo che non gli riusciva, l’ha dato al tuo scudiere che l’ha messo nella sella di Mandarino. E quando siamo scesi ora qui, mentre tu salutavi gli altri, lo scudiere, aiutandomi a scendere l’ha sfilata dalla sella e mi ha detto: “Qui c’è una lettera per la signora contessa.” Io non potevo respingerla in faccia a tutti. Per questo ho dovuto prenderla. – Grazie, grazie, cara. – E Aroglio fu felice di quella prova d’amore. – Mi vorrai sempre bene così, cara? Sempre sempre, anche quando sarò vecchio vecchio? – Sì. Ti voglio tanto bene, te ne vorrò sempre, più di tutti. – Amore bello. Come sono felice! Lo scudiere lo mando via subito. Fra due giorni partiremo. E saremo sempre felici, se tu mi vuoi bene. – Tanto tanto! Sempre sempre! – e Cesarina si attaccò al collo del marito baciandolo senza fine. E cominciarono subito i preparativi. Il giorno dopo doveva venire l’ingegnere del Circolo ferroviario perché Cesarina dasse il suo esame di automobilismo. Era un bel vecchiotto tondo e ben pasciuto, una vera pancia da commendatore meridionale. Arrivò troppo presto, la contessa era ancora a letto. Fu convenuto di non disturbarla. Il conte lo trattenne a pranzo. L’esame si farebbe dopo. Aspettando, giocarono a scacchi e parlarono di politica, di corse, di canzonette e di maccheroni, Però dopo il pranzo, che il conte aveva offerto lautissimo, l’ingegnere aveva voglia di dormire. E baciando la mano a Cesarina disse: – Caro conte, l’esame è una formalità superflua, si vede subito che la signora contessa sa condurre benissimo. – Questo, ingegnere, glielo assicuro io – disse Aroglio ridendo. – Eppoi sentiamo. Signora contessa, come facciamo per voltare la vettura a destra o a sinistra? – Si gira il volante – e Cesarina sorrise anche lei. – Brava! conosce benissimo il meccanismo, ne sa più di me. Farò spedire il certificato d’idoneità a Palermo, all’indirizzo che ho scritto sul mio taccuino. E l’ingegnere se ne andò cerimonioso e sonnolente. Il 20 settembre, domenica e festa nazionale insieme, i conti Aroglio dettero nel loro hotel una grande festa da ballo di saluto alla più eletta aristocrazia partenopea, che fu per il duca di Albereta un supplizio di Tantalo, e per gli altri corteggiatori la più eccitante visione del desiderio futuro. La mattina dopo, di buon’ora, si imbarcarono su un grande auto-yacht di 200 tonnellate e che filava come una torpediniera, noleggiato apposta dal conte per la traversata a Palermo. Cesarina, con la sua veste di panama bianchissima, il giacchettino con la goletta azzurra guarnita di ancore bianche come una marinaretta, il cappellone vasto di panama grezzo, gli stivali candidi altissimi, magnificamente bionda in tutto quel candore, guardava sparire lentamente la città e il golfo, portandosene un ricordo di sole, di musica e di gioia. A Palermo si fermarono cinque o sei giorni, poi corsero in automobile mezza Sicilia fino a Messina, Catania e Siracusa. Le piacque molto l’anfiteatro di Taormina. Il viaggio di nozze doveva servire a Cesarina per compiere la sua educazione di contessa. Al seguito si aggiunsero le dame di compagnia che le insegnavano letteratura, storia, musica, inglese, tedesco, spagnolo. Le davano insomma una cultura generale soddisfacentissima in apparenza. Continuava anche l’equitazione, il nuoto e il turismo. Non si annoiava davvero, in quella Sicilia che sembrava il giardino della storia e della mitologia, dove risuonavano ancora nei nomi delle vie luminose gli occhi della Magna Grecia. Ulisse e Polifemo, gli splendidi Tiranni, Pindaro, Circe e Aretusa. Il 5 ottobre si imbarcarono a Siracusa, sempre nel solito auto-yacht e giunsero il 6 a Brindisi, in tempo per partire col piroscafo della Valigia delle Indie. Il giorno 8 arrivarono ad Alessandria d’Egitto, passarono una settimane al Cairo affogandosi in tutta quella retorica orientale che non ha nulla d’Oriente. Cesarina cominciò a meravigliarsi di due cose. Il nessun conto in cui era tenuta l’Italia in quei paesi cosmopoliti, e la grande celebrità di Firenze. Essi erano accolti regolarmente dappertutto come conti Aroglio, ma niente affatto nella loro qualità d’Italiani. Persino gli Spagnoli erano considerati molto di più. Però, appena sapevano che la contessa era fiorentina, il coro di ammirazione e di curiosità, non aveva più limite. Piazza della Signoria, Fiesole, le Cascine godevano di una celebrità mondiale. Se ne parlava in Egitto, come qui in Italia si può parlare della muraglia della Cina. Il ventuno di ottobre si imbarcarono sul postale di Costantinopoli, e al tramonto del ventidue entravano nel Corno d’Oro attraverso il Bosforo. Cesarina si ricordava meravigliosamente la descrizione del De Amicis letta appunto pochi giorni prima. Però, con sua grande meraviglia, trovava tutto differente. Forse perché era il tramonto invece dell’alba. Dalle sue letture, dai ricordi pur recentissimi di scuola, e d’infanzia, si era figurata la capitale della Turchia come qualcosa di fantastico e di lussuriosamente suntuoso che aveva sempre colpito la sua mente bambina. Ci si mescolava il senso di parole strane. Bisanzio, l’Impero d’Oriente e Costantino, Maometto, i Turchi, le Crociate e Teresa Mariani nella Teodora di Sardou. E invece appena sbarcata, attraversando le prime vie nell’automobile dell’ambasciata di Francia, le parve di entrare in un gran villaggio molto sudicio. La stessa moschea di Santa Sofia non le fece nessun effetto. L’ambasciatore francese, amico intimo di Aroglio da molti anni, lo aveva voluto in quell’occasione ospite nel suo palazzo. La sera stessa, al pranzo, Cesarina conobbe Pierre Loti, Paul Claudel e Claude Ferrère, presso a poco coetanei di Aroglio, e come lui cerimoniosi e gentili. C’era anche il capitano di stato maggiore Enver Bey, giovane e bellissimo, che tutti chiamavano il futuro Bonaparte della. Turchia. La fanciulla osservò di nuovo curiosamente che dell’Italia non se ne parlava affatto, non la si ricordava nemmeno, come se non esistesse. Tutti invece evocavano con un’enfasi di lirismo Firenze, come se essere fiorentina fosse tutt’altra cosa che essere italiana. E Cesarina ci rimaneva un po’ male. A scuola l’avevano tanto abituata a considerare l’Italia come la prima parte del mondo! Pierre Loti improvvisò un brindisi molto alato, sentimentale e nullo, alla belle Fiorentine e Paul Claudel un’ode molto libera alla citadine de Bianca Cappello e de Cathèrine de’ Medicis. Cesarina, che aeva letto Partage de Midi, ne fece sfoggio, con visibile soddisfazione del grande poeta cattolico, e contentezza grandissima del marito che la vedeva fare una figura straordinaria citando anche delle battute di Mesa e di d’Isè che ricordava benissimo. Osservò anche meravigliata che i tre letterati francesi non sapevano una parola di italiano, e facevano una confusione tale quando parlavano dell’Italia, che in faccia a una bimba come lei apparivano ignorantissimi. Veramente credeva che i francesi, specialmente i poeti più famosi, fossero un po’ meglio istruiti. Soltanto nella loro parola luminosa scintillava la visione paradisiaca di Firenze, come della città più celebre del mondo. E lì, in quell’angolo di mezzo Oriente, in quel palazzo ricco ma bruttissimo, a quella tavola turco-francese, la visione della città di Dante e di Lorenzo il Magnifico balenava a Cesarina sotto una luce nuova e sorprendente. Come in una nuvola di affresco, come in un cielo di primavera lontana e irraggiungibile, vedeva un’immensità luminosa di marmi, un corruscar di palazzi di pietra bruno-dorati nel sole, un frangere di colonne, di colonnette, di ogive, di bifore e di trifore, di cattedrali ricamate, un popolo infinito di pitture e di statue dalle piazze, dalle chiese, dalle sale di appartamenti profondi e soleggiati, e giardini vastissimi pregni di tenerezza e d’amore, e paesetti rugiadosi come nell’infanzia del mondo. Il giorno dopo Cesarina si sentì un po’ male. La sua vita coniugale aveva preso un tran tran regolarissimo. Tutte le notti il marito la possedeva una volta, e questo bastava alla sua felicità. Nella sua testolina ingenua non pensava si potesse andar più oltre nella gioia d’amore, e quell’ora di piacere notturno era tutta la sua vita. Del resto aveva tante altre belle distrazioni. Il conte non poteva certo abusarsi di più. Nella sua frenesia carnale per la sposa così bimba e freschissima, trovava ancora la forza per mantenere quel suo impegno quotidiano. Ma quanto avrebbe potuto durare? Un mese? Due? Non lo sapeva. Ma sentiva che era una forza passeggera, che la tregua era prossima. Cesarina non sospettava nulla di tutta questa desolazione futura. Nella sua ingenuità credeva che il marito fosse inesauribile come lei. Intanto aveva dei disturbi nuovi e stranissimi. Nausea, disappetenza, un po’ di stanchezza. Fu chiamato un medico celebre della colonia inglese. Visitò scrupolosamente la fanciulla e annunziò sorridendo la fausta novella della maternità. Il conte ne fu pazzo di gioia, come quasi sempre ogni uomo dinanzi a questa affermazione della propria virilità trionfante. Di più gli pareva quasi la prova dell’amore immenso della sua giovanissima sposa. Era uno scopo nuovo, un ricominciamento di vita, un’ultima giovinezza sulla soglia della sua vecchiaia. Cesarina invece non capì nulla. Dapprima ebbe soltanto il sollievo di levarsi il pensiero noioso della mestruazione per tanti mesi. Ma poi fu presa dall’angoscia crescente di altri mali più impaccianti, di altri dolori più vivi che le apparivano all’immaginazione. Guardò la sua bambola, che ora si teneva sempre vicino al letto, e che era la spettatrice incantata di tutte le sue notti d’amore. Tra pochi mesi ne avrebbe avuta una vera, una bambola di ciccia. Il medico aveva detto che la fecondazione doveva essere avvenuta tra il 10 ed il 15 di Settembre, e Cesarina contava sui ditini esili della manina lunga: Ottobre, Novembre, Dicembre... ecco a Maggio, a Maggio sarebbe nato il bambino. Madre, una parola così grande, e le pareva quasi nulla ora. C’era tanto tempo da pensarci, e nella sua leggerezza infantile, scrollò le spalle e corse ancora sorridendo incontro alla maschera impassibile della vita. La sudicissima Bisanzio li stancò presto tutti e due e partirono dopo otto giorni per Budapest. Ci stettero una settimana appena e il 7 novembre erano daccapo nello Sleepig-Carr riservato che li portava a Vienna. Man mano che si avvicinava la tappa di Parigi la loro attesa diveniva febbre. Pareva che Parigi fosse la mèta della loro esistenza. Il 15 novembre arrivarono a Berlino, dove, come dappertutto, Aroglio trovò il suo solito ambiente di celebrità d’almanacco Gotha. In Germania Cesarina, oltre che di Firenze, sentì anche parlar molto dell’Italia e per di più con grande conoscenza. Vedeva la sua Italia studiata con amore e con grande passione da quei biondo-azzurri romantici con aria di fanciulloni. Nei teatri ebbe occasione di vedere opere e drammi italiani, nelle vetrine libri di scrittori nostri. Balbettando un po’ il tedesco e sapendo bene il francese se la cavava a meraviglia, però tutti volevano sentirla parlare in Italiano e stavano ad ascoltarla a bocca aperta, come se nelle sue labbra incantevoli la lingua di Dante e di Petrarca, apparisse come una musica bionda. Finalmente giunsero a Parigi. Il treno di lusso che li portava attraverso il Belgio, dopo una sosta di qualche giorno a Bruxelles, entrò nella stazione di San Dionigi a notte alta il primo dicembre. Gli sposi dormivano soporitamente nelle cuccette del vagone letto. La vettura speciale fu subito staccata dal treno e posta su un binario morto, perché avessero agio di svegliarsi con tutto il loro comodo. Il segretario e i famigliari erano giunti alcuni due o tre giorni prima, alcuni quella mattina stessa, per preparare l’appartamento all’Hotel de Russie, place de l’Etoile, dove sarebbero scesi i conti Aroglio. Soltanto Agostina era rimasta con la contessa, e un cameriere col conte. La loro automobile li attendeva fuori della stazione. Faceva molto freddo. Cesarina, tutta ravvolta nella pelliccia ampia e pesante di ermellino bianco, col berrettino alla russa pure bianco su i capelli biondi, entrò insieme al marito nella limousine ben chiusa e riscaldata come un salotto, e attraversarono Parigi. Erano le tre di notte. Nevicava. Cesarina non vide nulla in quella corsa vertiginosa. Le mancò la prima impressione della città fantastica. Però, senza sapere nemmeno il perchè, le pareva di essere un’altra al solo pensare che era a Parigi. Parigi, Parigi! Questa parola le pareva quasi di respirarla nell’aria. Il conte, che ci era stato tante volte invece, non provava altra sensazione felice che quella di essere con la sua piccola bimba. La Limousine si fermò dolcemente, insensibilmente quasi. Uno staffiere aprì lo sportello. Cesarina entrò in un attimo, freddolosa. E in quell’attimo vide una grande piazza circolare bianca di neve, un grande arco trionfale dietro un velario di neve, una raggiera di strade enormi, fuggenti in un vortice di neve. E una gran luce, una gran luce di lampade ad arco che rendeva accecante tanto biancore. Le pareva un sogno di febbre. Del resto arrivando a Parigi dopo un lungo viaggio così vario e pittoresco, l’impressione materiale non doveva esser poi tanto grande. L’appartamento però le parve assai più elegante di quelli che aveva trovati fino ad ora nel suo viaggio. La sua camera aveva un’alcova che era un gioiello di tepore e di profumo, e quella del conte lo stesso. Anche i salotti e il salone erano pieni di smorfie e di coquetterie. Si svegliò alle cinque del pomeriggio, e dopo due ore della più accurata toilette, passando successivamente per le mani della masseuse, della manicure, del coiffeur, di tre femmes de chambre, fu pronta per il pranzo, e cominciò la sua vita Parigina. Il pranzo era servito nel salone, le cui alte vetrate scoprivano tutta la piazza trionfale. Il conte aveva invitato un mondo finissimo che dimostrava meravigliosamente come egli a Parigi fosse quasi in casa propria. Tre o quattro famiglie delle più antiche e delle più pure del sobborgo S. Germain, le nuove nobiltà del potere e della ricchezza, cioè due ministri, due banchieri e un gran giornalista, con le loro famiglie, tre o quattro accademici di Francia, Paul Bourget, Maurice Barrès e Marcel Prèvost, una grande attrice, e tre giovanotti alla moda. Cesarina, appena entrata, fu colpita prima di tutto guardando la piazza, dalla gran folla che vi si riversava dalle otto strade straboccanti. Se non fosse stata la sposa di Aroglio, avrebbe domandato subito se era accaduto qualcosa di straordinario, ma era contessa e non poteva meravigliarsi di nulla. Però dalla conversazione capì agevolmente che quello era lo stato abituale di Parigi. E da quel momento fu come rapita con brutalità piacevolissima nella pazzia della città folle. Ne conobbe la bellezza misteriosa e la mostruosità enorme. La sua anima di bimba ne rimase schiacciata. Non aveva altro che una visione continua di una moltitudine di pazzi in abito di società. Le parevano quasi gli affiliati ad una setta segreta con i loro smoking ed i loro frack tutti uguali. E per la maggior parte sciatti e trasandati da dare proprio una cattiva idea della famosa eleganza parigina. Ma poi comprese che quella trascuratezza era disinvoltura e chic. Infatti anche Aroglio si era subito fatta quell’aria di strafottenza e di pariginismo, e qualche signore veramente inappuntabile era subito notato da tutti come un provinciale di cattivo gusto. Anche le tanto celebrate parigine le parvero da principio molto brutte e mediocri. Dappertutto dove andava, si trovava di gran lunga ad essere la più bella e la più elegante. E frequentava gli ambienti della più alta Parigi. Lì per lì tutto questo le parve molto stupido, ma poi inconsapevolmente si trovò come dentro al segreto di quel mondo fantastico. Capì che quei centomila tra pazzi e pazze che formano il mondo viveur di Parigi, sono un fenomeno così speciale della società, da meritare davvero alla capitale francese quella fama di bestia rara. Glielo spiegò elegantemente il commediografo Alfredo Capus una sera in un ricevimento all’Eliseo. – Mia cara contessa, non ci chiudono in un manicomio perché tanto si sta sempre fra noi, non si esce mai di qui, si fanno le nostre pazzie in famiglia e non si dà noia a nessuno. E Cesarina trovò in pochi giorni che gli uomini erano tanto simpatici da far parere naturali le più spinte e vergognose enormità, e che le donne traspiravano un’aria di vizio così provocante, che si spandeva intorno tanto spontaneamente, da rendere semplicissime l’eccitazione e la corruzione più morbose. E fu tutta presa anche lei nel turbine di quella follia, correndo in lungo e in largo, abbracciata al marito che ne era un veterano impenitente. E corsero insieme le vette dell’eleganza e bassifondi da estasi. Nei palazzi, nelle ambasciate, alle feste principesche e al Moulin Rouge, all’Opera e Chez Maxim al Cafè de Paris e nei cabarets di Montmartre, alla Comèdie Française e nei teatrini eccentrici di infimo ordine. E tornavano all’albergo alle sei, alle sette, alle otto del mattino, stanchissimi, spezzati, infranti dalla baldoria della noce, ma eccitatissimi e ancora bramosi e insaziati si accoppiavano disperatamente, cascando dal sonno così stretti nell’abbraccio. E al conte, che sentiva stancarsi sempre di più la sua virilità cadente nel naturalissimo amplesso coniugale, non bastava ormai la freschezza della sposa giovanissima per saziarlo, come un eccitamento raro. La morbosità che respiravano quasi nell’aria, li spingeva irrevocabilmente verso altre eccitazioni, verso altre carezze. E Cesarina d’altra parte aveva quasi perduto ogni coscienza di femminilità, e soltanto il suo senso più istintivo di femmina agiva ora in lei. E quelle follie notturne le facevano ammettere tutti i vizi, tutte le stravaganze. Parecchie volte erano tornati tutte e due ebbri di champagne, e finalmente una mattina Cesarina, insaziabile di voluttà, trovò la cosa più naturale del mondo di rianimare la stanchezza del marito col suo bacio più impuro. E il conte non sentì nessuna degradazione a profanare così colei che era la sua sposa, che avrebbe dovuto essere la bandiera dell’onore suo. La fanciulla non aveva la sensazione netta di tanta volgarità. Anzi conservava soltanto un’eco di pensieri buffoneschi e ridicoli, quando vedeva tutti quei signori trattarla con una serietà così cerimoniosa, mentre lei si immaginava nelle sue sfrenatezze intime col marito. E rideva anche dentro di sè guardando le altre coppie gravi e complimentose, e figurandosi il groviglio grottesco dei corpi del signore e della signora. E capì ancora di più il fascino sovrumano delle donne parigine, studiando su tutte quelle bocche artificiose di carminio, le tracce della gioia pervertita. Capì anche che la loro grande eleganza derivava dal sapere che i loro corpi davano sotto le vesti, l’illusione di essere flessibili ad ogni tormento d’alcova. Rimasero a Parigi fintanto che lo strapazzo di quella vita frenetica cominciò a turbare la gravidanza che si inoltrava. E davvero quell’ambiente non era il più favorevole allo sbocciar di una madre. Nella seconda metà di gennaio Cesarina, in un pomeriggio, appena di ritorno dalla sua cavalcata al Bosco (ci teneva tanto la piccola a questa cavalcata quotidiana perché Mandarino, il suo bel Morello, aveva avuto a Parigi un successo èclatant, come si dice là) ebbe alcuni disturbi, e per il 27 del mese il conte decise la partenza. Il giorno prima vollero salire sulla Torre Eiffel per vedere un’ultima volta quella immensa città del male, quell’infezione sanguinante nel corpo della società presente. La piccola, nel suo cervellino immaturo, fu colpita solo dall’infinito candore che ammantava Parigi nell’ultima nevicata. La Senna con i quattordici ponti, la sterminata estensione di tutto quel popoloso agglomerato di edifici, dai più sudici ghetti, ai più suntuosi palazzi, dalle più volgari architetture ai monumenti più geniali. Trovò soltanto una strana coincidenza fra tutta quella neve che copriva tutto quel vizio di cui aveva pieni gli occhi e la memoria dello spettacolo raccapricciante; e la vita apparente della società parigina che copriva sotto il manto dell’eleganza, la vita più sudicia. Le signore parigine sono le prostitute del mondo, ma nei teatri i drammaturghi inneggiano ancora alla santità della famiglia e alla castità della donna e alla purezza del focolare domestico, e nei salotti del gran mondo tutti parlano come se uscissero da una funzione religiosa. Ma Cesarina non poteva capire più in là. Non poteva, abbracciare dall’alto di quella torre, con uno sguardo solo, tutta l’assurdità di questa capitale decrepita innanzi tempo, di questa vecchia imbellettata e viziosa, sulla quale il cielo invernale si stendeva come l’ombra della morte giustiziera. Ma dove sorgerà la vendetta pura? Quale sarà la razza degna di condannare? Non certo la germanica, che ha in Berlino una copia deforme di questa Babilonia; non certo l’inglese, che è volgare perfino negli eroi (vedi Nelson il suo più grande eroe); non certo l’americana, che ha messo il dollaro sugli altari al posto dell’ostia sacramentata. Ma la punizione verrà! Ma la distruzione verrà! Parigi sarà sommersa nel ferro e nel fuoco da una razza nuova che dominerà il mondo. Sarà la razza più forte e dominerà tutte le altre, perché sarà pura, perché sara giusta. Da che paese verrà? Mistero. Forse gli italiani, se trovassero la forza di passare per un lungo purgatorio di purità, di rettitudine e di castità, potrebbero essere domani la razza punitrice. VIII Secondo gli ordini trasmessi a Firenze, il primo febbraio dovevano arrivare dalla Francia i conti Aroglio. Nei cinque mesi che era durato il viaggio di nozze, il palazzo di Firenze era stato disposto tutto a nuovo per ricevere gli sposi. Addobbi, mobili, quadri, appartamenti, tutto aveva subìto una trasformazione fantastica. Al primo piano, sale e saloni di festa e di ricevimento, saloni da pranzo, sale e salotti per la vita giornaliera del conte e della contessa. Al secondo, gli appartamenti degli sposi, immensi, augusti, vastissimi, infiniti quasi. Al terzo, gli appartamenti per gli ospiti. E ce n’era del posto! Al terreno le cucine e la servitù. Una reggia non poteva essere più vasta, più comoda, più elegante. L’appartamento di Cesarina, al secondo piano, occupava la parte verso l’Arno. Cinque salotti, tre camere da letto, una alcova di una profondità infernale. Quello del conte, attiguo, occupava la parte verso la Colonna Medicea della Giustizia. Tre salotti, una biblioteca, due camere e l’alcova. Soffitti altissimi, vastità di perdizione, lusso di spazio, tappezzerie pesantissime. Tutto il mobilio armonizzava con l’architettura del palazzo. Anche la luce elettrica raggiava da grandi lampadari di ferro battuto, antichissimi. Saloni magnifici, addobbati magnificamente, cortili scuri, arcigni, tavole grandi come stanze, spalliere lunghissime di poltrone e di sedie, letti che parevano mari di morbidezza. Tutto un medioevo perduto. E insieme un’aria sottile e invisibile dell’epoca nostra, che Cesarina doveva ravvivare della sua presenza come un personaggio di un dramma di Maeterlinck. Agli ultimi di gennaio tutto era miracolosamente pronto con esattezza. Gli sposi ci dovevano abitare soli, con la loro numerosa coorte di famigliari. Il segretario del conte, giunto la mattina del 30, giudicò che tutte le cose stavano benissimo e fu molto contento. Nell’antimeriggio dell’uno febbraio, la colazione era pronta per le 11, in una grande sala del primo piano. Erano invitati l’avvocato Montaldo, l’altra sua figlia Laura col marito capitano Renzo Negretti, e Carletto, il fratello di Cesarina, un biondino delicato, che aveva sedici anni e mezzo ed era in quinta ginnasiale al collegio Cicognini di Prato. E la famiglia accennava a crescere. Laura aveva avuta una bimba proprio a Natale, e le aveva messo nome Fiorella; tra poco anche Cesarina avrebbe il suo bebè così l’avvocato sarebbe nonno duo volte. E Renzo scherzava volentieri in proposito, dicendo che il signor Gastone era un suocero e un nonno troppo giovane. E davvero l’avvocato Montaldo, sebbene andato un po’ giù da qualche tempo, per gli ultimi eventi famigliari, e anche più per la lontananza della sua Cesarina, portava magnificamente, come si dice, i suoi quarantotto anni. – Diamine – commentò Laura, con una punta d’ironia maldicente – ha quasi sette anni meno di uno dei generi! Però, nonostante il suo commento maligno, come invidiava la sorte di Cesarina! Le importava poco del marito giovane; un marito o giovane o vecchio è lo stesso! Intanto Cesarina era contessa e milionaria, e Laura guardava quasi con rabbia la sala magnifica e la tavola grande, fragrante di fiori e luccicante di cristalli di Sassonia e di Boemia. È vero che anche loro avevano avuto una piccola fortuna. Era morto da tre mesi lo zio di Renzo, il signor Alberto, che provando rimorso di aver portato lo scompiglio in quella famiglia, aveva cercato forse di farsi perdonare lasciando il capitano suo unico erede. Erano quasi trecentomila franchi che promettevano a Laura una larga agiatezza. Ma però dalla magnificenza di Cesarina che abisso ci correva. Suonarono le undici. – Dovrebbero arrivare – mormorò Laura. – Vedrai ci sarà qualche ritardo – commentò l’avvocato – è impossibile che una volta tanto un treno arrivi in orario! – Il treno di S. M. Cesarina non ritarda mai – interruppe una voce allegrissima, e i due sposi entrarono sorridenti e felici. Non si erano sentite le loro automobili. – Come?! vi siete già cambiati d’abito? – chiese Laura stupita osservando la toilette grigio perla della sorellina. – Ci siamo vestiti in Sleeping-Carr – rispose la contessa abbracciando il babbo. L’avvocato non poté trattenere un grido di meraviglia. Come era diventata bella la sua Cesarina e come era diventata contessa! Sedettero a tavola. Cesarina tra il babbo e la sorella, Aroglio di fronte, fra Renzo e Carletto che aveva un’aria di sogno e non poteva farsi l’idea di essere cognato del conte. La fanciulla li aveva voluti tutti lì nella prima emozione del suo arrivo, per un segreto scopo. Fino da tre mesi prima, alla notizia della morte dei signor Alberto aveva maturato un progetto, si era concertata bene col conte e avevano deciso di comune accordo di eseguirlo quella mattina. Appena servita la colazione, Cesarina si volse al padre con la sua nuova aria gentilizia e disse: – Papà, per festeggiare questo giorno che ci rivediamo, voglio un regalo da te. – Piccola, tu sai che sei tutta la mia vita ormai. Quello che vuoi è tuo. – Piccola! sei un bello sfacciato, papà. Sono alta come te, sai. Mi sono misurata l’altro giorno, un metro e settanta. Mi prenderebbero nei granatieri. Sono più alta del capitano, che se ne sta là zitto zitto. Ha perso tutta la chiacchiera, ora. Renzo infatti la guardava con meraviglia entusiastica e non trovava parole. Era quella la bambinuccia che due anni addietro faceva il chiasso sulle sue ginocchia? Che florida contessa era diventata, nonostante la gravidanza. Che petto! Che fianchi! Che spalle! Si notava appena il suo stato interessante, ed era quasi una grazia di più. Soltanto era più bianca ancora, più pallida e più trasparente, con gli occhi ancora più belli e profondi. Non si capiva bene se per l’avanzare della gravidanza o per l’aria di Parigi. E Cesarina continuava: – Mi sono anche pesata. Aroglio commentò sorridente: – Non è mica tutta roba vostra però, amica mia. Ve ne avvedrete alla fine dei nove mesi. – Silenzio, sfacciato! Queste cose non si dicono. Dunque, papà, mi devi dire di sì prima. – Si cara, qualunque cosa tu mi chieda acconsento – disse Montaldo, tutto beato. – Capitano, mi prenda quella cartella là. Il capitano obbedì cerimonioso. La contessa levò un foglio di carta e Renzo le offrì con premura la penna stilografica. – No, scriva lei – e dettò: “Cara. – Preparati a tornare a Firenze per sempre. Fra due giorni verrà a prenderti il segretario del conte Aroglio. Bacioni. Gastone e Cesarina”. Renzo si fermò con la penna in aria. Tutti guardavano sbalorditi, l’avvocato non capiva nulla, il conte sorrideva di soddisfazione e di contentezza. – Scriva, scriva: “Signora Luisa Montaldo. Colledara Provincia di Teramo”. – E ancora: “Signor Direttore. Per gravi motivi di famiglia, mio figlio Carlo Montaldo cesserà di frequentare il collegio. Mio incaricato verrà per soddisfare impegni e ritirare bagaglio. Gastone Montaldo”. – Ma Cesarina, piccola mia... – Zitto papà, hai promesso e basta. Quel mascalzone è morto. Come glielo dico volentieri ora. L’ho odiato tanto. Perciò non c’è più motivo che io stia così lontano dalla mamma. Tu le perdonerai, la riprenderai con te, Carletto tornerà con voi come prima. Così staremo qui tutti vicini, tre famiglie che si vogliono bene. E la contessa abbracciò e baciò il suo papà, che non sapeva cosa dire e piangeva tra l’imbarazzo e la commozione di tutti. Fu chiamato il segretario. – Subito questi due telegrammi. La conversazione cambiò argomento. Cesarina raccontò i suoi viaggi. Poi si passò nell’altro salotto per il caffè, e si ammirarono tutte le fotografie del viaggio di nozze, che erano un album intero. Non mancava nulla, i panorami più belli, le stazioni, i treni speciali, l’auto-yacht, trenta pose di Mandarino, gli appartamenti degli hôtels, le automobili. Poi la meraviglia comune fu al colmo davanti ai regali che gli sposi avevano portati per tutti. Anche Renzo era commosso, anche Laura sentì cadere tutta la sua invidia, e si vide meschina in confronto alla bontà della sorella. Pensava che lei era stata la prima a mettersi contro la madre, che mai aveva voluto sentirne parlare dopo la colpa sciagurata, per timore di danneggiare la sua posizione, e Cesarina invece, in una condizione ben più elevata e difficile, non aveva esitato a prendere l’iniziativa di quel perdono. Tutti guardavano la fanciulla come l’angelo della bontà e sentivano che un’anima così limpida doveva per forza esser felice. Ma si vede che anche la giustizia degli angeli è molto disordinata, oppure che in cielo vige un criterio di felicità e di dolore ben diverso dalla povera terra. Cesarina non fu affatto felice. Tornò la mamma, le tre famiglie godevano il più perfetto accordo, illuminate dallo splendore della contessa, ma un’ombra sempre più triste oscurava gli occhi belli della giovanissima sposa. Nel lusso del suo palazzo gentilizio, tra i suoi gioielli, nella intimità di quella vita elettissima, cominciava a soffrire a poco a poco, insensibilmente quasi, senza che nemmeno lei sulle prime sapesse il perché. Aroglio era tornato da Parigi fiacco e stanchissimo. La luna di miele era stata uno stravizio troppo forte per i suoi cinquantaquattro anni finiti, ed ora nemmeno la freschezza della sposa quindicenne, nemmeno l’incanto del frutto acerbo l’attirava più. Ormai aveva trovato il fondo anche di quel piacere nuovo, di quel capriccio senile che si era pagato col suo lusso di milionario. Non sentiva affatto il disastro psicologico di aver messo, in quella tentazione passeggera, tutta la speranza di una nuova giovinezza nella sua vita che declinava. La sazietà dei sensi gli lasciava per ora anche il cuore tranquillo. La salute scossa lo preoccupava unicamente. I medici avevano attribuito quella sua debolezza allo strapazzo occasionale della vita parigina e gli avevano ordinato soprattutto castità e riposo. Cesarina innocentemente credeva di continuare a Firenze la sua vita coniugale del viaggio di nozze, con la sua razione quotidiana di sensualità che godeva ormai come un’abitudine piacevole del matrimonio come tutte le altre attrattive della sua nuova vita elegante. Perciò quando il conte accarezzandola le disse che ormai inoltrandosi la gravidanza di lei era prudente interrompere e riposarsi fin dopo il parto, le parve una cosa naturalissima, e credette di poterla accettare ben volentieri, da fanciulla buona e saggia. Così come un bambino obbediente, a cui si levi la solita passeggiata quotidiana perchè è troppo strapazzante. Agostina, nella sua qualità di cameriera particolare della contessa, fu la prima ad accorgersi del cambiamento. Non più, la mattina, quando andava a svegliare la sua signora, quell’odore vivo e grave di un corpo di femmina fecondata, rimasto chiuso per tutta la notte nella camera o nell’alcova, intorno al letto di una sposa. La cameriera aveva la prova sicura e palpabile che l’alcova profondissima del palazzo di Firenze era rimasta incontaminata dal maschio, come la camerina di una vergine. Quando la mattina entrava nella camera e socchiudeva le due grandi finestre, soltanto un’aria pesante di stanza chiusa, con larghe onde di profumi e leggere sfumature d’intimità femminile. Alzando poi le tappezzerie dell’alcova, l’odore leggerissimo del corpo che ha dormito tutto pregno di profumi, appena appena ammorbato, si spandeva dal letto di Cesarina come ondeggiante dai larghi addobbi del baldacchino giallo e oro. E Cesarina cominciava a esser presa a poco a poco da un malessere incerto, da una sofferenza misteriosa, da una noia indefinita, che nella sua divina innocenza non sapeva a che cosa attribuire. Lo sapeva la cameriera però, nella sua malizia più esperta. Dal ritorno a Firenze gli sposi avevano iniziata anche la loro vita di coppia aristocratica. Si vedevano raramente insieme. A qualche ricevimento, a qualche festa, qualche volta a teatro. Ma spesso, anche nei salotti più aristocratici della città, andavano ognuno per conto proprio, incontrandosi come per caso. Anche a teatro, spesso la contessa era sola nel suo palco, e il conte solo ad un altro spettacolo. Tutto al più la andava a prendere cavallerescamente per ricondurla a casa. Si era deciso che per quest’anno la contessa non riceveva, impacciata com’era dalla gravidanza. Intanto si sarebbe impratichita per l’anno venturo, frequentando il mondo del sangue azzurro. Ma nonostante questa gran libertà di giovine sposa, nobile e ricchissima, Cesarina non si distraeva molto. La corteggiavano anche, ma vedendola così tutta assorta e preoccupata come in una fissazione unica, anche gli adoratori avevano rimesso le loro speranze a dopo il parto. Intanto la circondavano di tutte le finezze diplomatiche, come per prepararsi un buon turno. Nelle lunghe ore di noia opprimente che le pesavano sulla piccola anima sconsolata, non sapendo trovare altra ragione evidente, la bimba un giorno cominciò a credere di essere angosciosamente preoccupata del prossimo parto. E questo pensiero prese una forma così costante in lei, che in una settimana diventò serio e vero. E allora la strozzava un’angoscia di spasimo e di dolore, in confronto alla quale la nausea e lo schifo della prima mestruazione, e la paura di quel primo sangue era una cosa da nulla. Nemmeno il dolore acutissimo ma improvviso e momentaneo della deflorazione poteva stare in confronto con questo terrore continuo, ostinato, misterioso, ignoto. Passava nel piccolo cuore di Cesarina il soffio gelido della morte. Fisicamente stava bene. La gravidanza era tranquilla, non la disturbava affatto. I medici la trovavano normalissima e rassicuravano la contessa incoraggiandola ad essere tranquilla. Ma nemmeno essi sospettavano il suo spavento. Ed era un segreto per tutti. Una cosa che Cesarina si sarebbe vergognata a dire anche alla mamma. Si era comprata dei libri di ginecologia e di medicina sessuale (ormai era una signora) e li leggeva avidamente. Ma non facevano che aumentare il suo segreto terrore. E le pareva di vedere il suo bel corpo candido e fragile, dilaniato, insanguinato, lacerato turpemente. E vedeva l’amore sotto il suo aspetto più vergognoso e stomachevole. E sentiva tutta l’umiliazione ributtante di esser femmina. Nell’aristocrazia fiorentina era stata addirittura portata in trionfo, questa pallida e bionda contessa quindicenne, e quell’aria di malinconia, che ora la velava misteriosamente, accresceva di più il suo fascino. Almeno per un mese non si era parlato che della contessa Aroglio, ma pure in mezzo a tanto affetto, in mezzo a tanto trionfo, come si sentiva sola, povera Cesarina! E nessuno la capiva. Questo era il peggio. In faccia al babbo, che le voleva tanto bene, fingeva per affetto; con gli altri fingeva per orgoglio o per pudore; soltanto con la mamma si sarebbe sfogata tanto volentieri, e tentava di esprimersi come meglio poteva, di farsi velatamente intendere, ma la mamma sembrava tanto estranea, tanto lontana dalla sensibilità della fanciulla. Era tutta preoccupata di far comprendere alla figlia più che agli altri, che meritava il perdono questa madre peccatrice; il suo caso particolare era per lei il centro della vita, le pareva che nessuno potesse immaginarla disgiunta dalla sua colpa recente. Cesarina, invece, credeva dovesse capire certe sfumature tristi della sua nuova intimità coniugale, ed era davvero commovente lo spettacolo di questa madre e di questa figlia che si cercavano, si cercavano sempre l’una con l’altra, come l’unica consolazione, e non si comprendevano mai. Aveva anche avvertito padre Anastasio del suo ritorno, e il buon frate si era affrettato ad accorrere al palazzo degli Aroglio, meravigliandosi bonariamente della grande accoglienza appena ebbe detto il suo nome in portineria. La contessa e lui passarono subito nella cappella gentilizia dove, cominciando dalla prossima settimana, egli avrebbe dovuto celebrare tutte le mattine. Era stata questa una decisione di padre Alfonso Maria, il gran gesuita, che voleva mettere così a sostegno di Cesarina un sincero rappresentante della religione e della divinità. Padre Anastasio avrebbe perciò lasciato il convento, dove c’era anche un’altra novità. Sempre per la protezione del gesuita, Gennarina doveva ricevere una compiuta educazione teologica prima del suo noviziato, che le permettesse di essere poi una delle più attive missionarie nei lontani paesi da conquistare al cattolicesimo. Gennarina, nell’ardore della sua fede, aveva accolta questa decisione, come la volontà suprema di Dio. La contessa fece la sua compiuta confessione al buon padre e ne fu consolata alquanto. Raccontò tutta la sua intimità di sposa provando il duplice sollievo di poter dire certe cose che le pesavano tanto sul piccolo cuore, e poterle dire con la purità di cui la religione le circonda. E padre Anastasio le fece comprendere, fin dove il suo ministero evangelico glielo permetteva, quali avrebbero dovuto essere i limiti della sua intimità di sposa; e come la fede cristiana, col senso del dovere verso la procreazione, divinizza le sofferenze della madre fino al trono della Vergine Maria. E Cesarina raccontò anche i suoi terrori della gravidanza, i libri che leggeva e che la spaventavano, e il frate la rassicurò facendole sperare che il Signore, che le aveva dato finora tanta grazia e tanta fortuna, non l’avrebbe abbandonata in quel momento. La fanciulla passava nella cappella le ore più tranquille della sua giornata, e si sentiva più sollevata e meno infelice quando padre Anastasio era in palazzo. Era stata anche a trovare Gennarina, e l’aveva fatta venire qualche volta a pranzo. La piccola santa si preparava alla sua vita ascetica di attivo martirio, con una risoluzione ed una tenacia che contrastava straordinariamente con l’esile persona delicatissima. Non era più la fragile e trasparente estasiata dei giorni della comunione, colei che soltanto si disfaceva entusiasticamente nel pensiero e nell’amore di Cristo. Ma ora che era tutta una volontà, il tocco della grazia divina si vedeva anche più in lei, che si preparava ad entrare col suo passo leggero di angelo nelle oceaniche brutture del mondo. E Cesarina la invidiava! Come la invidiava! Vi era nel palazzo una stanza che era sfuggita al riordinamento e al riaddobbo, e che rimaneva costantemente chiusa, con aria disadorna e abbandonata di cosa maledetta. Era la camera di Giacomina, la figlia del conte, l’amica di Cesarina; la camera dove era avvenuto l’atto abominevole, e che Aroglio non aveva voluto che si toccasse, come volesse, per un pregiudizio di fanatismo mistico, avere sempre sotto gli occhi il dolore col quale il Signore Iddio lo aveva colpito. E Cesarina, nella sua poca esperienza di sposa quindicenne, guardava quella camera chiusa, come un mistero. A volte le pareva quasi una maledizione muta e impassibile, che minacciasse lei e i suoi famigliari. A volte invece le pareva spandesse una fragranza di lussuria proibita, e un bel giorno le venne la tentazione di animare quella sfinge, di far parlare quel mistero peccaminoso. IX Su carta vela cinese, stemmata della sua corona nobiliare, Cesarina scriveva una lettera difficile. Si era alla fine di febbraio, con un tempo coperto e freddissimo anche a Firenze. La contessa era nel suo salotto turco, e fumava, scrivendo, delle sigarettine orientali. L’enorme termosifone, mascherato dal camino antico, diffondeva un tepore quasi estivo, da permettere a Cesarina di tenere solo una vestaglia così leggera che ne vaporava la fragranza della quasi nudità Cominciava a intravedersi il sesto mese della sua gravidanza, e la veste sciolta accentuava leggermente la linea curva del ventre gonfio. Scriveva la sua lettera mettendoci tutta la diplomazia di cui era capace. Era diretta nientedimeno che a padre Alfonso Maria. Cosa mai la contessa poteva scrivere al terribile gesuita? Quando una donna pensa una cosa, è superiore all’uomo in questo, che la mette subito in pratica. Così Cesarina. Mancava un mese a Pasqua e lei aveva pensato che quella era un’ottima occasione per rivedere Giacomina Ne aveva accennato con tutta la finezza e il tatto possibili al marito, ed avuto il suo consenso tacito, senza che egli volesse occuparsene però, si rivolgeva ora a quel tremendo parente che solo poteva decidere in proposito. Si vede che, o la lettura era un miracolo di grazia, o il gesuita non era poi tanto severo come pareva, o qualche altra cosa che nessuno poteva pensare, il fatto è che dopo una settimana arrivò la risposta favorevole. E il 12 marzo giunse Giacomina in persona, col permesso di trattenersi fino ai primi di aprile. Cesarina si era immaginata in tutt’altra maniera la scena di questo ritorno. Invece la contessina mostrava una indifferenza e una sicurezza di sè, come se non fosse affatto una colpevole. Trattò il padre così, con la dovuta cerimonia di etichetta; la giovanissima matrigna con l’amicizia condiscendente che le aveva dimostrata due anni prima, quando si erano conosciute, e i famigliari e la servitù con fredda fierezza padronale. Vestiva ancora molto da bimba. L’elegante abito nero del suo convento belga si intonava magnificamente al biondo esangue di lei. Però, nonostante il pallore grande di un abbattimento ancora recente, era tutta illuminata come da una luce nuova che non era davvero la vita monacale. Era sempre magra, e perciò pareva cresciuta anche di più sebbene fosse meno alta di Cesarina. Erano state così intime quell’estate ai bagni, ed erano tutte due passate da una grande prove di vita, che le riunì una perfetta fusione di spirito, appena si ritrovarono ancora insieme. E per quella infantilità rimasta in loro, malgrado le tremende burrasche, si fecero subito tutte quelle confidenze che nemmeno due donne si fanno mai tra loro. E anche ora, come a S. Remo, era sempre Giacomina che prendeva le mosse, che dava il “la”. Cesarina raccontò candidamente tutta la sua vita di sposa e la contessina rideva con sguaiatezza viva ai particolari delle intimità del suo babbo. E affollava la matrigna quindicenne di domande imbarazzanti, e la fanciulla rispondeva con tutta semplicità, provocando i più strani commenti dell’amica. Come rideva Giacomina a sentire che la contessa si dichiarava felice e appagata della modesta razione quotidiana di amore di un vecchio quasi finito, e che aveva accettato con la più grande naturalezza la castità portata dalla stanchezza del marito che si appigliava alla scusa della gravidanza. Cesarina era sbalordita, ma trovava che la sua amica diceva il vero, perché certi suoi istinti intimi corrispondevano perfettamente alle parole tentatrici e canzonatorie. Sì, sì, era proprio vero! Tutta quella noia, tutta quella nostalgia capricciosa, tutta quell’uggia che annebbiava la sua vita presente e che nemmeno lei sapeva definire, non era altro che la mancanza di un marito giovane e vigoroso. Il conte le aveva stuzzicato tutti gli appetiti di femmina e non la poteva saziare. Tutta la sua sofferenza ignota non era altro che desiderio del maschio. Come sentiva che Giacomina aveva ragione! Quel senso di prostrazione continua e di tormento che le veniva dalla gravidanza, non era altro che l’abbandono di se stessa nel quale la lasciava la stanchezza del marito. Con uno sposo amante la gravidanza non fa davvero paura. Tra i baci passano presto tutti i timori. E quando raccontò le sudice carezze a Parigi, l’amica, malgrado la sua perversità sfrontata e precoce, non potè frenare un moto di ribrezzo. – C’era da immaginarselo osservò – che sarebbe arrivato a quel punto. Sono le risorse degli impotenti. Ascolta, io non mi vergogno di niente, tutto di me darei a un uomo che mi piace, ma fin lì mai, mai, mai. E raccontava, coi particolari più vivi e con l’eco del ricordo più nostalgico e affettuoso, quella felicità che gli altri chiamavano il suo stupro e la sua colpa. – Ma come? – interrompeva timidamente Cesarina – un servitore? E ti piaceva? – Ma aveva venticinque anni. Tu vedessi come era bello e forte! – e lo descriveva così alla brava, con una franchezza spudorata. – E com’era ardente e indomabile sai! E una luce d’amore le splendeva negli occhi di acciaio. – Venti giorni si passò, prima che il nostro amore fosse scoperto, e credi non rimpiangerei di morire anche subito, quei venti giorni bastano alla mia vita! – Chissà come ti sarà doloroso ora di stare chiusa nel tuo convento lassù! – Oh! no cara! Non come credi. Io vivo soltanto nella felicità del mio bel ricordo! Del resto ho tutta una giovinezza davanti a me per godere, e questa attesa unita al ricordo mi basta per non soffrire troppo la vita presente. E poi il tempo passa presto. Tra qualche anno uscirò di convento, nella classe nobile non ci sono tanti pregiudizi, e mi troveranno facilmente un marito, e allora anch’io avrò il posto che mi spetta e potrò godermi la mia libertà. – E ti sposi con quest’idea? – Già, perché gli uomini ne hanno molti riguardi per noi?! Vedi, papà, per esempio, non ci ha pensato due volte per un suo capriccio sporco a sacrificare la tua giovinezza e la tua vita. Egli crede di aver comprata la tua onestà sposandoti, e se tu avessi degli scrupoli saresti la più grande disgraziata ed infelice. È già troppa infelicità essere moglie di papà. Capisco ora, ripensando a certe cose, quanto ha dovuto soffrire la povera mamma mia. Siccome Giacomina, nell’agosto trascorso, incinta di tre mesi, aveva abortito lassù nel convento lontano, Cesarina fu curiosa di domandarle se nel parto si soffre molto. – Oh! no! Stai tranquilla! Non fu tutto quel soffrire che io credevo. E sì che l’aborto è più doloroso del parto! E poi curata come lo puoi essere tu qui nel palazzo. Sebbene anch’io in convento ebbi tutte le cure possibili. C’era un medico così bravo, uno specialista. Capirai, il mio è il convento della nobiltà in punizione. Le mie compagne sono quasi tutte nel mio caso. Queste confidenze quotidiane furono una rivelazione tremenda e improvvisa per Cesarina. Quante cose così tutte insieme! Che luce repentina nell’anima sua! Ma era luce di un’eruzione vulcanica, era bagliore d’incendio e di rovina! Che sconvolgimento nel suo piccolo cuore! Che distruzione di terremoto! Cominciava a capire finalmente la differenza fra l’amore vero, anche se fatto di sensualità e di colpa, e il vizio cortigianesco al quale l’aveva trascinata il vecchio marito! Capiva ora luminosamente qual’era la differenza tra l’amore vero e l’amore vizioso che aveva trovato tante volte nei romanzi e nei libri di scienze sessuali! Capiva cosa voleva dire la corruzione tra Madame Bovary e Rodolfo, cosa voleva dire nel romanzo Circe di Annie Vivanti, quando la Tarnowska accusava il marito di averla corrotta. Capiva ora gli amori colpevoli, le viziosità coniugali e degli amanti. E tutta quella lussuria degenerata che suo malgrado e a sua insaputa aveva preso il suo corpo innocente, le pareva la contaminasse ancora, le faceva schifo ormai. Le pareva di essere al fondo dell’irrimediabile, di essere nell’abisso più sudicio. E tutto il suo istinto di femmina sentiva ora l’umiliazione improvvisa del corpo venduto, del mercato di se stessa, a cui aveva acconsentito per ingenua innocenza. E le sembrava di essere peggio delle prostitute. Comprese anche una cosa che ignorava completamente nella sua divina innocenza. La limitazione della virilità maschile, la necessità di questa forza materialissima alla felicità dell’amore. E intravide angosciosamente, con un brivido di terrore, la vita squallida che le si preparava. Accanto a quel marito che tra poco tempo sarebbe divenuto un cadavere vivente, un essere vivo senza vita, un corpo buono soltanto a mangiare e a vegetare. E lei avrebbe dovuto sopportarlo, subirlo, si era venduta per questo. Lui l’aveva comprata e aveva diritto, ogni diritto su lei. E avrebbe dovuto tollerare tutta l’agonia di quella virilità in disfacimento, tutta l’abominevole e stomachevole libidine di quel vecchio che si esauriva. E poi la fine totale, il marito vegetante accanto a lei nella morte compiuta dei sensi, e lei sempre giovane, anzi soltanto allora giovane e desiderosa, nella pienezza dell’ardore e del desiderio. E la prendeva come un’allucinazione fantastica, il tremito dell’inesorabile. E non si poteva tornare più indietro. Ormai quello che era fatto era fatto. Il destino era compiuto. La catena prometea la ribadiva alla rupe di quella vecchiezza. Odiava tutti in quel momento, perchè le pareva impossibile che nessuno capisse nemmeno lontanamente quel suo strazio intimo, odiava persino il suo babbo che, secondo lei, avrebbe potuto e anzi dovuto impedirle quella vergogna perenne della sua vita, quel suicidio dell’anima, quella catastrofe delle catastrofi, e che invece la aveva aiutata e consigliata. Perchè? Non arrivava a comprendere come un babbo non potesse capire nulla del destino della propria figlia. E nessuno valeva a consolarla più ormai. Nemmeno la preghiera, nemmeno padre Anastasio. E passò ancora la sua tormentosa gravidanza così. In queste condizioni fece la sua Pasqua. E non sapeva capacitarsi come nella sua condizione, Giacomina anche nella funzione religiosa, potesse essere compunta e tranquilla. E la vita apparente era calma come prima. Tutti la credevano felice la quindicenne e sorridente contessa, tutti l’affollavano delle loro chiacchiere noiose, senza tregua, senza nessuna intelligenza d’anima. Soltanto Giacomina e Padre Anastasio sapevano il suo vero mistero. Ma Giacomina partì presto. I primi di aprile vennero in un lampo e Cesarina restò sola, priva di quella compagnia vivente dell’anima sua. Come fu terribile quel mese di aprile, come furono tremende quelle prime giornate di maggio. Aveva fatto freddo fino ai primi giorni di quel mese dell’amore e della primavera. E a un tratto, la mattina del tre, la stagione infantile e rugiadosa eruppe violentemente dal cielo e dagli alberi. Per parecchi giorni tutto fu sole e sorriso, tutto fu fecondazione e creazione. E anche Cesarina, anche la piccola aveva il suo seme che sarebbe sbocciato in quei giorni di miracolo, ma non sapeva che piangere e le pareva che in tutto la nascita della natura ci fosse un dolore grande come il suo. X Il 18 maggio, dopo nove mesi e tre giorni di gravidanza, Cesarina sta per entrare nel suo calvario di madre. Nell’alcova profonda, stesa sopra il suo letto vasto di delirio e di pena, da dieci ore le brucia le viscere il fuoco della creazione. Il parto sarà difficile. L’immaturità fisica della sposa quindicenne è un pericolo di più. Il ginecologo illustre non abbandona la camera grande davanti all’alcova. Con l’aiuto del proprio assistente l’ha trasformata quasi in una sala operatoria. Il conte, la sorella Carlotta e la zia Ludovica, che impietosite avevano piegato la loro aristocrazia suntuosa fino ad accorrere a Firenze, l’avvocato Montaldo e la signora Luisa, non lasciavano un minuto Cesarina. Circondavano il letto del martirio con quell’ebetismo dei familiari, innanzi alla presenza invisibile ed avvicinata della morte, in una persona consanguinea o congiunta. Ed anche con quello stupore dolorose, come se le malattie e le agonie fossero cose impreviste, rarissime e straordinarie nella nostra vita. Il palazzo era pieno di confusione soffocata in silenzio. Il segretario, la servitù, le infermiere, tutti si agitavano con grandi gesti misteriosi e taciturni. La strada, sotto le finestre, era stata coperta di sabbia, per attutire il rumore dei veicoli. Nella serata anche padre Anastasio si installò nella camera, disponendo un piccolo altare di fronte ai preparativi chirurgici. Aveva già confessata e comunicata la fanciulla fin dalla mattina. L’alcova esalava un odore pesante di medicinali, di acidi e disinfezioni. Intorno a quel letto di sposa adolescente, nell’aria di sofferenza che si sprigionava dall’anima e dal corpo di Cesarina, tre dolori umani si piegavano con tragica fatalità. Era un padre che soffriva nel martirio della sua bambina cara, che soffriva l’inesprimibile in quella carne della sua carne, in quel sangue del suo sangue. Alcuni mesi prima, l’altra sua figlia era stata pur essa la preda fragile della perpetua doglia generativa. Ma era stata una cosa così rapida, così naturale, così semplice, che egli sperava tanto, fino alla vigilia, anche per questa sua ultima prediletta. E invece, la sua Cesarina così bella, così buona, così carina, agonizzava nella tortura del martirio indicibile. E fuori la primavera meravigliosa indossava il vestito più bello che mai avessero confezionato le sartorie del cielo e si preparava ad essere l’elegantissima alle serate di maggio. E l’avvocato Montaldo guardava quasi con accanimento il conte in faccia a lui, dall’altra parte del letto, come il responsabile di tutto quello strazio, ma poi una parte di questa colpa ricadeva grave anche nel suo cuore, si avvinghiava a tutta l’anima sua. Perchè aveva consentito, anzi aiutato quel matrimonio? Senza di che Cesarina non sarebbe ora in pericolo di vita, sarebbe sana e contenta. Certo, una volta sarebbe dovuto accadere, il marito lo avrebbe dovuto prendere, ma sarebbe stato più tardi... ora intanto... E si esaltava in un risentimento, in una ribellione contro questa crudeltà naturale che infierisce tanto verso la madre. E aveva come un brivido di freddo. Pareva che la morte avesse coperto tutto il palazzo col suo grande mantello, isolandolo dal calore del mondo. Aroglio, di fronte a lui, era pallido come un colpevole, funebre come un reo. Una rete di sentimenti complicati, di sfumature difficili, gli imprigionava tutto l’essere, legandolo a quel supplizio. E come una vertigine lo prendeva, non distingueva più nulla chiaramente, precisamente, una nebbia confusa gli dava quasi una sensazione di delirio e di ubriachezza. Cercava di ricordarsi l’altra volta, quando gli era nata Giacomina, cercava di ripetersi che il Signore Iddio non poteva insieme dargli la gioia di esser padre e il dolore di perdere quella creatura che soffriva tanto perché lo aveva tanto amato. In Montaldo la gioia di essere nonno, la gioia della vita in continuazione, non si affacciava nemmeno nel suo dolore, tutto concentrato nella figlia agonizzante. Anche Aroglio soffriva. Ma in lui quel soffio di vita nuova che stava per germinare nel letto della torturata, doveva alitare, consolatore e benefico, perché in questa creazione era la prova che Cesarina lo aveva amato davvero, quasi contro l’impossibile del tempo, era la prova che ancora una volta c’era della felicità e della potenza nella sua vita. E cercava di fissare il suo pensiero in questa gioia, di alimentare la sua speranza di salvare la sposa amatissima, ma era tutto un sollievo artificiale, voluto, che crollava e si disfaceva ad ogni sguardo sulla realtà imminente e funebre. Malediva quasi quell’ultima gioia della sua vita perché il godimento avuto da tutta quella bellezza che ora moriva, non faceva che alimentare in lui un rimorso invincibile. E allora da quella disperazione insorgeva tutta la sua alterigia gentilizia come per ribellarsi al destino e contendergli la vita della sua felicità, del suo amore. E il servo triste che entrava per prendere un ordine, pareva che portasse in un vassoio d’argento il biglietto da visita di sua eccellenza la Morte, e Aroglio, con l’alterigia della sua razza milionaria, rispondesse fieramente: – Non la ricevo. Tra i due Luisa; la femmina che era stata colpevole, ma che ora era purissima di esser madre soltanto. E non aveva nemmeno i pensieri tristi degli altri due. Non poteva distrarsi pensando; era la mamma, doveva soffrire semplicemente, totalmente. Non li vedeva nemmeno gli altri, non vedeva nulla intorno, era tutta concentrata a spiare le più piccole sensazioni di quel corpo in supplizio, di quel corpo che ella aveva portato nel suo corpo. Il prodigio materno le faceva materialmente soffrire le medesime sofferenze della sua bambina, e questa allucinazione di dolore fisico, tanto viva in lei, era come un sollievo nell’intuizione quasi di diminuire il dolore della figlia ogni volta che lo accresceva in se stessa. Intanto Cesarina mordeva le coltri, esalando nel profumo che le avevano sparso intorno per soffocare l’odore grave di medicina, e disinfettanti, il suo puzzo di malata. Un sudore ghiaccio le grondava dalla fronte, le bagnava tutta la persona. Mandava un gemito continuo, si contorceva ininterrottamente, ogni tanto con un urlo acutissimo lacerava la tristezza funebre dintorno. Quanto era che soffriva così? Dieci ore, dieci anni? Povera piccola! Non si rammentava nemmeno più come ci si sente a star bene! Il fuoco vivo lavorava nel suo ventre, bruciava tutto il suo sangue. Aveva la sensazione che le ossa si disfacessero in una fornace di liquefazione. Ed anche la sua bontà di martire si disfaceva in quel dolore. E sentiva di maledire, di odiare nell’incubo che le sconquassava il cervello, tutto quell’affetto, tutta quell’attenzione, tutta quella dedizione che vedeva confusamente intorno al suo letto. A bagliori, a lampi, si vedeva davanti il marito, la mamma, il babbo. Sentiva il conte chinarsi su lei, sofferente della sua sofferenza. Tutto il resto spariva per lei, e odiava quell’uomo, lo odiava perché era lui che la faceva soffrire così, per lui soffriva e per un mucchio di porcherie. E ricordava con schifo quello che si chiama amore. Poi era il babbo, era la mamma che si chinavano, e odiava anche loro a momenti, loro che l’avevano messa al mondo in una libidine di porcherie e di sudiciume uguale a quella per cui ora soffriva tanto. E lo strazio si faceva acuto, tremendo, interminabile, insopportabile. Avrebbe dato tutto, tutto, perché cessasse anche un momento solo. Anche un minuto solo di tregua. Persino la paura della morte le pareva quasi una cosa dolce. A intervalli aveva come l’allucinazione che bastasse che morissero tutti quelli che le stavano intorno, per liberarsi dal suo male. Ma la maledizione le si strozzava in gola. Non poteva nemmeno parlare. Si scosse, le saliva dalle viscere e dal petto un nuovo urto di vomito. La maledizione le si sfumò negli occhi in una implorazione verso la mamma, che le era la più vicina. Il vomito le lacerava il petto e le spezzava la gola, ma era un sollievo per lei, perché cambiava tipo di dolore. Luisa la capì subito, come le mamme capiscono, l’aiutò a sollevarsi e le tenne la testa ferma nelle mani. Cesarina si piegò un poco fuori del letto, e vomitò a più riprese, macchiando tutto dintorno. La madre sguazzò un momento in quel vomito violaceo e fetido che le parve il profumo del giardino più primaverile, perché la illudeva che la figlia soffrisse meno. Poi l’ammalata ebbe bisogno di orinare. Un’infermiera prese la storta e alzò le coltri. – Piano, piano, per benino – diceva l’avvocato, attento che il vetro non facesse male alle carni della sua bambina. Il conte si accostò abbracciandola intorno alle spalle, perché si accomodasse giù sul guanciale per orinar meglio. Luisa teneva un po’ sollevate le coltri, e l’orina finì nel vetro con un suono triste, come una musica funebre, come una pioggia grave e lenta sui vetri della miseria. Il ginecologo illustre si era accostato: – Ricordatevi di serbare l’orina. Mettetela poi in una boccetta. La voglio analizzare. Lo sforzo di orinare le acuì daccapo la dissenteria cominciata già dalla mattina. La piccola non se ne accorse e per quanto l’altra infermiera facesse presto a metterle sotto la padella, tutto il letto fu pieno. E quegli escrementi liquefatti, già imputriditi nell’intestino, mandavano un fetore acutissimo, ripugnante, che rovesciava lo stomaco. Una cameriera cominciò a spazzare il vomito e altre due infermiere, Agostina e una terza cameriera, tenevano sollevata Cesarina e le cambiavano la tela cerata che aveva sotto il lenzuolo. Intanto stavano tutti sospesi nel pensiero e nella vita, quasi aspettando che il puzzo passasse. Il letto fu profumato di nuovo e anche l’alcova. Nella camera fu bruciato dell’incenso, e la boccetta di orina fu presentata al ginecologo che la mise da parte per analizzarla più tardi. Intanto, con il venire della notte, arrivarono le due suore di carità per la veglia, le tre infermiere per cambiare il turno, Laura, Renzo e Carletto. Ritornò anche la levatrice. Una delle infermiere, Ginetta, era giovane e bellina. Con piccoli riccioli neri che le uscivano capricciosamente dalla cuffietta bianca, tutta snella nel grembiule candido, sembrava una Madonna del sorriso. Ogni tanto usciva dalla camera con una scusa o con l’altra, tutta irrequieta e affaccendata. E si fermava per un corridoio, o dietro un angolo, sempre a interpellare il giovane segretario del conte, che scherzava volentieri con lei. Le aveva trovate tutte lui le infermiere, ma quella lì doveva conoscerla più delle altre. Nella distrazione di tutti, però, nessuno si accorgeva di loro. L’angoscia del palazzo gravava fino al pianterreno, fino alle camere dei servi. Anche il fedele cocchiere del conte era scombussolato. Si avviò verso la scuderia per vedere se tutto andava bene, se il ragazzo aveva fatto quello che doveva. Appena entrò ed ebbe accesa la luce, il primo a voltarsi verso di lui fu Mandarino, che spiccava, così nero, fra Mauro e Stello. Il cocchiere si avvicinò alla mangiatoia. Era ancora piena dalla mattina. Mandarino mandò un nitrito che parve una domanda, un lamento, una delusione. Povero Mandarino, avrebbe voluto la sua padroncina invece! Il cocchiere si accostò al Morello, lo accarezzò, scosse la testa vedendo che aveva lasciata tutta la biada, trasse di tasca un pezzetto di zucchero e glielo porse nella mano aperta sotto il muso. Mandarino annusò lentamente, storcendo la bocca, guardò il cocchiere con una espressione di rimpianto negli occhi vivi, nitrì ancora un breve lamento, poi si decise, quasi con contrarietà e mangiò il pezzetto di zucchero. – Povero Mandarino! – diceva il cocchiere accarezzandolo, – volevi che te lo portasse la padroncina lo zucchero, come tutti gli altri giorni. La padroncina non può scendere, ha la bua, è malata. Ti fa un padroncino, un altro padroncino biondo come lei. E Mandarino fregava il suo muso sulla manica del cocchiere, come per dirgli che aveva capito. Intanto, sopra l’alcova profonda, Cesarina soffriva ancor più straziantemente, man mano che avanzava la notte. I suoi le erano sempre dintorno. Non si erano mossi in tutto il giorno, nemmeno per mangiare. Soltanto per qualche bisogno corporale. Luisa non si era allontanata mai nemmeno per quello. Non poteva pensare di lasciare per un minuto solo il letto di Cesarina. Nella sua selvaggia maternità, in quelle ore tremende, le pareva quasi di tenere viva la figlia solamente col miracolo del suo grande amore di madre, le pareva che abbandonando quel letto anche solo per qualche secondo, la morte riuscisse a portarle via la sua bambina. A mano a mano, i presenti si accomodarono per passare alla meno peggio la notte, così alzati. Nelle camere attigue furono servite alcune vivande fredde, e a due, a tre per volta, tutti mangiarono, all’infuori del conte e della famiglia di Cesarina. Poi, aggravandosi ancor più l’ammalata, il ginecologo volle che soltanto Luisa, Laura, il conte e Montaldo con le infermiere rimanessero nella camera e nell’alcova. Verso mezzanotte il martirio di Cesarina toccò il diapason. Il medico e la levatrice giudicarono l’avvenimento imminente. Allora tutti furono allontanati dalla camera, anche Luisa, che fu dovuta trarre fuori a forza, strappata violentemente dal letto della figlia. E si fermarono nelle due camere attigue. Padre Anastasio, dopo aver benedetto Cesarina in articulo mortis, uscì anche lui e si inginocchiò in un angolo a pregare con le due suore. Gli altri si sparsero qua e là, nel tremito solenne dell’attesa trepidante. Tutti attenti, in silenzio, alla porta chiusa della camera fatale. All’incrocio tragico delle spade della morte e della vita. Come tutte le volte che una vita nuova sta per germogliare nel mondo, la morte era accorsa rabbiosamente e si era piantata là decisa a non cedere. E in tutto quel semibuio di angoscia, in tutta quell’aria di disfacimento, il germe della vita nuova rompeva lentamente, tenacemente il suo involucro dal fondo del grande letto. Invisibile ma presente, come il primo germe dell’aurora quando ancor nelle tenebre lacera insensibilmente e spezza la notte. Nella rotazione perpetua dei giorni e delle stagioni, delle generazioni e dei secoli. Frattanto, nella camera, l’assistente preparava il cloroformio, le infermiere preparavano le fasce, il ginecologo disinfettava i ferri, la levatrice riempiva la siringa per l’iniezione antitetanica. Ginetta correva da un lato all’altro, con le sue scarpette lucide, le calze traforate di seta, il suo profumo che spandeva una nota leggera di lussuria nella notte funebre. Cesarina, nel dolore centuplicato, mormorava parole di delirio. – Professore... muoio... – Già, non ci sarebbe male. Che si fa di questi scherzi! – commentava il ginecologo con la sua franca ed ilare abitudine al tormento umano. – Via, via, ora nasce un bel contessino di sette libbre e termina tutto. La levatrice aveva acceso tutte le lampadine nell’alcova, abbagliante ora di un giorno chiarissimo come per una festa grottesca. Si erano messi tutti e tre i guanti di gomma, e le loro mani parevano gli artigli pronti di belve fatali. Il dottore sollevò la coltre, alzò la camicina profumata, cambiata allora, della mammina quindicenne, e premè il ventre gonfio colla mano clinica. – Il feto comincia a scendere. Sì, sì – accennò volto alla levatrice. Questa, con un pizzicotto, sollevò un po’ di carne e di pelle della coscia di Cesarina e vi infisse l’ago, che stette tremulo come la saetta di Virgilio. Un lampo. L’iniezione tetanica era compiuta. E l’ammalata continuava la sua follia delirante: – No. Il mare non è biondo come me. Non vedi come fa notte presto? Quando si arriva a Costantinopoli? Non ho più cioccolata. Voglio il vestito blu. No. Non te lo do un bacio, se non mi compri un manicotto bianco. Com’è bello questo braccialetto! Sì, prendimi, prendimi, tutta tua! Poi cantò stonando: Illustre pescivendola Era Madama Angot Ma poi rimase vedova Pel mondo se ne andò. – No, – sorrise il ginecologo – fa così – e cantò correggendo l’aria: Illustre pescivendola Era Madama Angot. Intanto l’assistente era pronto con la mascherina in una mano e la boccetta del cloroformio nell’altra. – Signora contessa – disse tutto cerimonioso – vuol contare per favore dall’uno al cinquanta? Cesarina, toccata da lui, ebbe un movimento di coscienza vera. Sorrise con umiltà e ubbidì – Uno… due… tre… quattro… E l’assistente, tenendole sollevata la mascherina sulla bocca semichiusa, cominciò a versare. – Respiri… signora contessa… respiri forte per favore. Cesarina respirò e aggiunse chiaramente: – Professore, lo vedo sempre sa, lei... Stette un momento con gli occhi sbarrati, poi li stralunò. L’assistente le chiuse le palpebre. L’anestetico cominciò a produrre il suo effetto. Un divincolamento tremulo. Poi forsennato. Il dottore, la levatrice e le tre infermiere bastavano appena a tenerla. Cesarina sussultava ora, scolando dalla bocca dei fiotti bavosi. L’assistente continuava a versare il cloroformio. E il dottore seguitava: – Vedi Gina che succede a scherzar troppo con l’amore! Qualche volta te la faccio anche a te questa operazione. – Oh! Per me lei sbaglia professore. Cesarina intanto si scuoteva tutta e le montava sempre più la follia del delirio. Il professore prese il forcipe dalle mani della levatrice, ne incuneò le due morse nella vagina, e strinse i manichi. E seguitava tranquillo: – Molti anni fa, ebbi a fare l’operazione delle emorroidi al Presidente della Repubblica Francese. A Felix Faure. Ah! Come era buffo il primo cittadino di Francia sulla tavola operatoria. E che emorroidi grosse! Quando gliele bruciai fumavano come bistecche! Poi dette un ordine a un’infermiera che si facesse dare da un servitore la lavanda che aveva fatto preparare in cucina e la macchina dei clisteri. Ginetta ne approfittò subito per andare lei. Appena fuori della camera chiusa, tutti le furono dintorno trepidanti ed ansiosi. – È sotto i ferri! – disse brevemente l’infermiera per tutta risposta, e passò rapidissima. Il conte, l’avvocato e Luisa, cedendo dopo tanta resistenza fisica, mangiavano in tutta fretta, macchinalmente, prendendo a caso quello che avevano messo loro davanti. Al pensiero di Cesarina addormentata nel sonno anestetico, che avrebbe potuto essere senza risveglio, ebbero quasi vergogna di compiere simultaneamente quella materialissima funzione di riempirsi la pancia. Eppure è così. Anche nei più grandi dolori umani, anche quando si incrocia nell’anima nostra la maestà della vita e della morte, bisogna mangiare e andare alla latrina. Quando Ginetta fu sola per le scale incontrò il segretario del conte. Si schermì un poco, ma poi si fermò con lui, che l’abbracciava scherzando. Insieme, passo, passo, fingendo tutti e due di non accorgersi di quel che facevano, si rifugiarono in un salotto lontano. – Via, lasciami andare! Mio Dio, debbo portare la lavanda al professore!... – e intanto, nel divincolarsi, si buttava tutta da una parte su lui. E così alla cieca, nel salotto buio, si buttarono a casaccio su una cosa morbida che sentirono essere un divano. Quando Ginetta rientrò con la lavanda, l’ostetrico e la levatrice erano sempre chini su Cesarina, e l’assistente versava ancora del cloroformio, mentre le infermiere la reggevano. Era cominciata l’emorragia, il letto era pieno di sangue. Però il professore era soddisfatto. L’operazione non era più necessaria, il parto si compieva naturalmente, felicemente. La levatrice comprimeva il ventre per aiutare l’uscita del feto, ora che era avvenuta la rottura della placenta. Cesarina rantolava, ma era più tranquilla, sfinita dall’emorragia. Il professore le sentiva continuamente il polso e le ascoltava il cuore, regolando l’assistente nella dose del cloroformio. A un tratto ci fu un divincolamento supremo, una scossa tragica e tumultuosa, di tutta quella carne adolescente insanguinata. La levatrice, prontissima, tagliò il cordone ombelicale, legò l’ombelico al neonato, e tuffò quella massa informe nella lavanda che Ginetta sorreggeva. Le infermiere intanto tamponavano e fasciavano la madre, che fermata la crisi del cloroformio, era ora immobile come una piccola morta. Il professore sollevò quell’impasto appena nato, che la levatrice aveva lavato ben bene e fasciato, e che vagiva ora come un gattino. Aprì la porta e fu circondato da tutti, pallidi e muti. Tenne alto il neonato, come un trofeo di trionfo, e col gesto di un console che annunzia una grande vittoria a un gran popolo, disse: – È un maschio! Tutto bene! Non c’è stato bisogno di operazione! Aroglio, entrando nell’alcova, trovò Cesarina già sveglia e pallidamente sorridente. Le avevano cambiato un’altra volta il letto, ed era ora tutta fragrante nella sua maternità nuova. Accanto al letto avevano messo la culla. Il conte prese il bimbo, tutto fasciato e profumato anche lui, e baciò ed abbracciò contemporaneamente la sua Cesarina nell’estasi della felicità più compiuta. Tutti erano commossi. Montaldo e Luisa non sapevano più nemmeno quello che facevano. Cesarina disse al marito: – Come sono stanca, non mi riesce quasi di parlare. È un bambino. Hai visto com’è venuto brutto!. – No, amore bello – le spiegava pazientemente Aroglio, sorridendo di quell’ingenuità. – È bello invece, cara, tutti i bambini sono così appena nati. Anche tu eri così e invece eri tanto bella! Sorgeva l’alba. Il professore trovò che tutto procedeva regolarmente, e la tranquillità cominciò a germogliare insieme al neonato e all’aurora e alla primavera per tutto il palazzo. Cesarina si riaddormentò, immobile e tranquilla. Quando si svegliò, nel pomeriggio, volle vedere Gennarina, la sua pallida amica della comunione, la piccola santa. Padre Anastasio andò al convento e ne tornò dopo due ore conducendo la fanciulla. Una luce di cielo e di divinità sembrò entrare nell’alcova, quando Gennarina si accostò al letto col suo passo leggero di angelo. Le due amiche si baciarono come nel giorno non lontano della prima eucaristia, e Cesarina disse: – Tu sapessi quello che ho sofferto! È stato peggio che morire sai. E la piccola, ispirata dal Signore Iddio, rispose con la sua voce di oltre anima: – Lo so, lo indovino. Il martirio non è soltanto il nostro. Il martirio è tutta la fede in tutta la vita. XI Il battesimo di Sergio Massimo Angelo Maria Aroglio fu fatto il 16 giugno, con tutta la sontuosità e la magnificenza degna della famiglia secolare. Fu arricchito anche di un incidente buffo. Il piccolo Sergio, per desiderio del conte doveva essere battezzato dal Cardinale Arcivescovo in persona, perciò fu giudicata, opportuna una visita ufficiale di tutta la famiglia, cioè la zia Ludovica, la sorella Carlotta e Cesarina. Ma qui sorsero subito delle strane difficoltà. Le signorine Carlotta e Ludovica avanzarono la loro qualità di contesse di baldacchino. Cioè che i loro antenati avevano il diritto di reggere una delle sei aste del baldacchino papale, al tempo degli splendori della corte pontificia. Perciò non intendevano affatto umiliarsi a baciare la mano all’arcivescovo. Questi, da parte sua, fece obiettare che essendo egli principe due volte, principe della chiesa nella sua qualità di cardinale, e personalmente principe del sacro romano impero, non poteva rinunciare a quell’onore senza offesa della propria dignità. Le due altezzose signorine telegrafarono al cugino Alfonso Maria chiedendo consiglio e appoggio in questo frangente, ma il fiero gesuita rispose che erano un mucchio di imbecilli tutti quanti, uno più stupido dell’altro, e rifiutò di partecipare al battesimo. Finalmente, dopo tre giorni di trattative, si venne a questo accordo. Le signorine avrebbero fatto l’atto di baciare la mano, senza toccarla con le labbra, e il cardinale si sarebbe così accontentato della semplice intenzione. Cesarina, sebbene potesse già alzarsi ed uscire, era però sempre debolissima e in piena convalescenza. E in quel giorno, così pallida e spirituale, così bianca e bionda, sembrò la più bella immagine della maternità che mai avesse concepito il Signore Iddio. L’eletto gruppo di invitati non potè nascondere l’ammirazione commossa davanti a una così divina bellezza. Anche il bimbo, nelle braccia della opulente nutrice, tutto fiocchi, tutto veli bianchi, celesti e rosa, si annunziava bellino, d’un biondo chiaro, quasi bianco per ora. Aveva già qualche linea di somiglianza con la mammina. I medici consigliarono d’accordo una villeggiatura quieta e tranquilla, dove Cesarina potesse terminare la sua convalescenza felice, e tornare in perfetta salute. Anche alla crescita di Sergio avrebbe giovato una campagna solitaria e placida. Fu deciso perciò di scegliere la grande villa che gli Aroglio possedevano a Torre a Monte, proprio sopra a Rignano sull’Arno. Vi giunsero in automobile il 24 giugno Cesarina, il conte, la nutrice, Sergio, l’assistente del medico di famiglia che doveva villeggiare con loro e il segretario. Le cameriere e i servi avevano preceduto i signori. Cesarina conosceva la villa, la fattoria, e alcuni dei poderi per averne viste le fotografie, e conosceva anche il fattore, Egidio, un bravo giovanotto che si faceva chiamare più modernamente agente agrario. La villa vastissima aveva in tutto quarantaquattro stanze. Era un antico feudo dei conti Cavalcanti di Firenze, come attestava l’epigrafe. Pur conservando le linee del medioevo, era stata rinnovata recentemente e all’interno era satura di modernità. La facciata molto cupa e i merli ne attestavano soltanto l’epoca lontana. Era tutta cinta da un immenso giardino meravigliosamente fiorito, e dominava una infinita possessione di trenta poderi, amministrati dalla maestosa fattoria che sorgeva tozza e grave a duecento metri dalla villa. Il fattore con la moglie e due bambini, il sottofattore scapolo, il personale di fattoria e trenta capoccia con le loro numerose famiglie. In tutto più di seicento persone, vegetavano umili e laboriose, in quella distesa sterminata di Valdarno pittoresco e magnifico, nel possesso dei conti Aroglio. E i trenta poderi avevano ciascuno il proprio nome semplice e chiaro di rugiada, di erbe e d’aurora, inciso nella lastra di marmo, su ogni casa colonica: Chiarafonte - Poggio - Castelluccio primo - Castelluccio secondo - Torrina - Casina - Pozzo primo – Pozzo secondo - Montecorneto - Acquabella - Fontalba - Altura - ecc. Cesarina, nei profumi del giardino e nell’aria sana della campagna, rifioriva giorno per giorno, e la sua bellezza quindicenne acquisiva dalla recente maternità una sfumatura più bella, tra quella sua aria di bambina ancora e di donna già esperta e provata. Il conte aveva tentato di risuscitare ancora la voluttà della sposa infantile, ma Cesarina, con la scusa che non si sentiva bene, si era sempre schermita. Con grazia ed affetto perchè dentro di sè era contenta che il marito fosse ancora innamorato folle di lei, tanto che Aroglio aveva credute per verità quelle scuse, certo di essere sempre amato dalla giovanissima sposa. Anche si era persuaso facilmente perchè la sua stanchezza di libertino si aggravava di giorno in giorno e lo spingeva di necessità verso donne più volgari e più esperte di miserie virili. Però si annoiava, in campagna, e approfittava della vicinanza di Vallombrosa per scapparci ogni poco a dei convegni, di comitive eleganti di amiche e di amici. Aveva anzi preso un appartamento all’Hôtel Excelsior dove era stabilito il suo pied à terre. Cesarina era quasi contenta di essere più sola nel rifiorire della salute. Non che la vicinanza dei marito le dispiacesse. Anzi, come compagno, come amico la confortava tanto quella sua cerimoniosa gentilezza patrizia, quella bontà avita e sorridente. Ecco, il suo ideale sarebbe stato averlo sempre vicino, ma negli stessi rapporti del babbo. E sulle prime credette che il dolore tremendo del parto le avesse compenetrato nello spirito e nella persona uno schifo per tutto l’amore. Nella sua debolezza di convalescente, le pareva di aver già superato ogni desiderio carnale. Ormai credeva di conoscere la vita in tutta la sua bruttezza e il suo materialismo, e di essere liberata per sempre. E sorrideva quasi della gran curiosità di vivere che aveva appena un anno prima. Ormai la prova era fatta. Sentiva che ora sarebbe stata calma e tranquilla per tutta la vita. Ed era quasi contenta, ripensando agli ultimi apprezzamenti, e alle improvvise rivelazioni erotiche di Giacomina, era quasi contenta che il conte fosse così vecchio e quindi prossimo alla più assoluta calma dei sensi. Sarebbero stai due buoni compagni, due veri amici per sempre. Era felice di questo pensiero. Si sentiva proprio sicura di poter fare a meno del maschio per tutta la vita. Dal 6 luglio al 15 agosto ci fu la battitura del grano in tutti i trenta poderi, uno per volta. In certe aie c’erano più di cinquanta tra uomini e donne intorno alla trebbia sonora per la macchina veloce e instancabile. E la sera, fino a tardi, interminabili pranzi contadineschi, e suoni, e balli, e canzoni, e amori campestri, e fidanzamenti, e serenate sotto la serenità lunare. La contessa faceva attaccare al calesse Reno, il cavallino storno del fattore, e sola sola con Donatello il ragazzo della fattoria, se ne andava fino alle aie più lontane, tra l’adorazione dei contadini, che non finivano più di ringraziare la Madonna per avere una signora così buona. Nonostante la sua infantilità di quindicenne, la veneravano come una regina, non avevano nemmeno più coraggio di parlare nei primi momenti davanti a lei. Ma poi, guadagnati dalla sua bontà e dalla sua confidenza, si facevano animo man mano, e le si stringevano intorno felici e sicuri, come se la Madonna fosse scesa dall’altare per entrare nelle povere case. Persino Orazio, il sotto fattore, un capo scarico che non rispettava nessuno, tanto che Egidio aveva proposto più volte di licenziarlo, davanti a Cesarina diventava un agnellino. La villa dipendeva dal priore di S. Clemente, come curia religiosa, e la contessa andava umilmente alla messa e a confessarsi con le altre donne. Non aveva mai voluto che il priore si scomodasse ad andare lui alla villa. Ci venisse pure per suo piacere sarebbe sempre l’ospite più gradito, ma lei doveva dare l’esempio alle sue contadine. Anche il vecchio priore di Sociana, altra chiesetta prossima, riceveva da Cesarina una pioggia di cortesie. Era venuto a chiedere al sottofattore se il giorno che battevano al Nido gli avessero battuto il grano del suo piccolo podere. Si trattava di una piccola barca di pochi covoni, che aveva già fatto alzare accanto a quella del contadino della contessa. Orazio che si atteggiava a libero pensatore, aveva sulle prime rifiutato alteramente, ma Cesarina, sopravvenuta per caso, minacciò di licenziarlo lì per lì, poi la sera stesse andò a trovare il vecchio sacerdote, e regalò dei paramenti nuovi alla Chiesa. Una compagnia che piaceva molto a Cesarina era Lisetta Bardi, la fattoressa. Perché Torre a Monte aveva una fattoressa intellettuale. Intatti Lisetta aveva studiato da maestra. Poi, innamoratasi del fattore, aveva acconsentito a ritirarsi in quella campagna. E anche per Sandrina, la sua bambina maggiore una biondina di sette anni, la contessa era il carnevale. Cesarina stava molto in fattoria, Lisetta suonava spesso il pianoforte e cantava. Ogni tanto però la contessa cominciava a provare una sensazione strana, indefinibile, come un ritorno al lontano desiderio maschile, ma era un desiderio però che aveva qualcosa di nuovo. La contessa cominciò ad attribuirlo a quell’aria di amore e di fecondità che traspirava sempre nella campagna, da tanta giovinezza così semplicemente e naturalmente accoppiata, nel raro e sincero panteismo di animali e di piante che s’impollinano tranquillamente sotto gli occhi del sole. Non è retorica. Tutto sembra più sano e più ingenuo nel vasto cielo campestre. Anche il puzzo di umanità e di bestie, diventa in campagna un quasi odore che ha qualche sfumatura gradevole. Però questo solleticamento di campagna era assai diverso ora dall’ossessione tormentosa di due anni prima in Mugello, durante il suo primo sviluppo. Forse perchè allora non aveva provato nulla, ed ora credeva di aver provato tutto. Nelle più belle sere di luna si metteva spesso a una delle finestre più alte della villa, godendosi stranamente l’effetto singolare della luna e delle stelle nella grande campagna notturna. Le mandolinate erano finite da poco, e un’eco rimaneva ancora nell’aria, un’eco di balli, di canti e di gioventù, un ricordo di baci accesi qua e là sulle siepi come lucciole, un’eco languida di mormorii di fidanzati come un filo cantato dai grilli nascosti nella notte. E insieme il profumo acuto del giardino che accarezzava tutta la villa, e l’odore sano della campagna nel cielo immenso. I tre lumi di Vallombrosa di fronte, le luci delle stazioncine del Valdarno, qualche lume sperduto qua e là in un paesetto o in un altro più lontano che pareva dessero languidamente la felice notte. E Cesarina ripensava ai piccoli ricordi della sua giovanissima vita. La sua infanzia sciocca e piacevole d’innocenza totale fino a più di dodici anni e mezzo. E la prima comunione, le amiche, Padre Anastasio e Gennarina, il bel convento severo e dolce, poi la conoscenza del conte Aroglio, il mese delle bagnature con Giacomina a San Remo, poi la villeggiatura in Mugello, la prima sua villeggiatura maliziosa di curiosità femminile, ossessionata di desiderio incommensurabile e sconosciuto. E poi Giorgio, quel primo suo amoruccio ingenuo di adolescenza. Che faceva mai Giorgio ora? Le aveva voluto tanto bene, povero Giorgio! Forse s’era innamorato di un’altra già. E il matrimonio di Laura, e la colpa della mamma e del signor Alberto, il dolore del babbo, la famiglia dispersa e scompaginata, i pochi mesi nel villino di viale Mazzini, il fidanzamento, il matrimonio... e ora. Quanta vita nell’anima breve, nel corpo giovanissimo di una quasi bimba, in così poco tempo, in meno di tre anni! E pensava pure a tutto l’avvenire che, in paragone della sua estrema giovinezza, le appariva come un’infinità interminabile. Che cosa le diceva l’incognito del grande futuro? Quel marito che aveva quarant’anni più di lei e al quale era legata per tutta la vita? E ricordava Giacomina e pensava che paragonandosi a lei era quasi più felice la contessina con tutta la sua tragedia di stupro e di disonore. Infatti Giacomina marciava risolutamente incontro alla vita con tutto un progetto di felicità futura. E mostrava anche, ricordandosi la bufera di pazzia che la aveva travolta, di aver goduto assai più che non Cesarina con tutto il suo invidiatissimo e nobilissimo matrimonio. E la figura tentatrice di Giacomina la turbava e le toglieva tutta la sua bella pace tranquilla. Tutto il mese di settembre l’avvocato Montaldo fu ospite della figlia, e fu l’unica distrazione esterna per Cesarina. Intanto, a compimento dei suoi studi, la piccola contessa leggeva in tutte le lingue, faceva musica, acquistava insomma quella vernice di cultura cosmopolita che ne concludeva la sua personalità di alta sfera sociale. A ottobre ci furono, per tutto il possedimento, le feste vendemmiatrici, con gioia esuberante di balli e canti e amori contadineschi, e tutto emanava nell’aria una leggera ebbrezza di baccanale. Furono ospiti alla villa il capitano Negretti e Laura, e alcuni invitati gentilzi dal conte. Cesarina fece regolarmente gli onori di casa, e in quella confusione di eccitamento vendemmiale, ci furono tra lei e Aroglio alcune notti d’amore, le prime dopo il parto. Le bastarono per capire che tutta la sua nostalgia indefinibile non era che voglia di maschilità sempre più violenta, man mano che la salute e la giovinezza rifiorivano floridissime. Ma era voglia di maschilità che era qualcosa di più del marito. Qualche tono più sopra di quel maschio coi suoi troppi quarant’anni di differenza e di logorio. Il primo di novembre tornarono tutti a Firenze e Cesarina aprì quell’anno le porte del suo palazzo a tutta la nobiltà fiorentina e alla colonia straniera che popolava i grandi Hotels. E fu davvero la contessa Aroglio. Il trionfo della sua bellezza e della sua giovinezza segnò una data negli annali dell’aristocrazia italiana. XII Quando il piccolo Sergio ebbe un anno, e la nutrice cessò l’allattamento fu deciso di toglierlo dal palazzo e affidarlo alle due austere contesse lontane, la signorina Carlotta e la signorina Ludovica perché ne sorvegliassero lo sviluppo e ne dirigessero l’educazione secondo le tradizioni dell’austera famiglia. Questo fu il vero grande dolore repentino e palese che Cesarina ebbe dal giorno del suo matrimonio e si ribellò da prima con tutta la sua forza. Non intendeva ragione. Non che fosse molto madre! Era tanto bambina ancora! Ma provava lo stesso dolore che proverebbe una bimba a cui improvvisamente si volesse portar via la bambola preferita. Infatti la sua si poteva chiamare una maternità baloccona. Il piccolo Sergio era per lei il balocco più bello che aveva avuto finora. Nel suo affetto lo accoppiava un poco alla bambola che era stata la sua compagna infantile, e che ora sedeva tranquilla e paffuta nel salottino intimo. Nell’attaccamento di Cesarina al piccolo Sergio, c’era anche un po’ la soddisfazione di averlo fatto lei quel bel bambolotto biondo biondo e tanto carino, e insieme il pensiero di aver già sofferto tanto per lui. Ma tutto ciò quasi inavvertito. Insensibilmente. Anche quando se lo immaginava orgogliosamente già cresciuto e giovanotto conquistatore di donne, primeggiare, elegantissimo e bello, nei saloni gentilizi, il suo pensiero non differiva dalla lusinga infantile di vedere la sua bambola, vestita da signora, primeggiare tra le bambole delle sue compagne, quando faceva il chiasso anni addietro. Però era un gran piacere per lei figurarsi come sarebbe stato il suo Sergio da grande. E lo immaginava nelle forme più fantasiose e più belle. Sarebbe stato un gran diplomatico, un grande eroe. Se ci fosse la guerra sarebbe generale giovanissimo, come Napoleone. Gli piaceva tanto figurarselo vestito da ufficiale di cavalleria, così biondo, col mantello celeste. E presa da improvvisa tenerezza correva nelle camere della nutrice e delle governanti per vedere il suo bimbo, e spesse volte le sorprendeva mentre gli facevano il bagno, oppure gli cambiavano le pezze perché si era sporcato. E i suoi materni sogni biondi affogavano nel contrasto di quelle coscette grasse grasse, troppo rosse per le continue lavature. Ma era un gran bel bambino però! E lo accarezzava, gli toccava la pancina e lo faceva piangere scherzando. E ora glielo volevano portar via. No, no, no e poi no. Non avrebbe acconsentito mai. Il conte, con la sua solita mancanza di volontà, aveva adottato la decisione della sua famiglia, secondo l’uso ormai inveterato in tutta la discendenza degli Aroglio. Ma Cesarina da quell’orecchio non ci sentiva affatto. Anche quella mattina se ne stava tutta imbronciata, fumando nel suo salottino intimo. Non si era vestita, era ancora tutta spettinata, coi capelli sciolti e il suo costume maschile da camera, pantaloni e giacca. Sembrava un pagliaccetto infuriato. Era sola, tutti la abbandonavano, tutti le davano torto, tutti erano contro di lei in quel momento, nessuno le voleva più bene. A un tratto uno sguardo fisso ed ardente, concentrato immobile, l’attirò irresistibilmente come una forza elettrica e magnetica. Era la sua bambola bella che pareva ricordarsi improvvisamente di lei. E Cesarina guardò un momento con disattenzione quei begli occhioni di cristallo impassibili nella loro sempre dolcezza, quel sorriso largo ed aperto della bella faccina paffuta, quelle labbra rosse rosse che non aveveno mai risposto ad un bacio, quei dentini bianchi bianchi, che avevano quasi un lampo belluino. La bambola immobile tendeva le mani a Cesarina come per invitarla ad un abbraccio, e la bimba in quella crisi dei suoi nervi se la strinse al petto, come se baciasse tutta la sua infanzia perduta. – Capisci? Mi vogliono portar via il tuo fratellino bello, sai. Il tuo fratellino che ti vuol tanto bene. Infatti Cesarina aveva già fatto fare la conoscenza tra Sergio e la bambola, e si era subito dimostrata in tutte due una gran corrente di simpatia. Quando la mammina gli porgeva la bambola, il piccolo Sergio si sporgeva tutto dalle braccia della nutrice, e con le sue manine grasse, con quei ditini di latte annaspava, annaspava, attaccandosi ai capelli ricciuti, alle gote lucide, al vestito di raso. E come piangeva quando lo portavano via! E anche quando faceva le bizze e strillava, bastava gli facessero toccare la bambola, si quietava subito. Forse gli piaceva tanto perchè era l’unico essere immobile che poteva toccare a suo piacere. E la bella bambola pareva sopportare con pazienza evangelica tutti i capricci del bimbo, per compiacenza verso la sua padroncina. Fu picchiato alla porta. – Avanti – disse Cesarina, ed entrò il conte. Vedendo la moglie che giocava con la bambola, credè che le fosse passata ogni idea del bambino, e se ne meravigliò tutto contento, pur concludendo in cuor suo che le donne sono addirittura instabili e in tutti i loro sentimenti vanno sempre a capriccio. Infatti il conte in quanto a psicologia femminile era sempre rimasto a Le donna è mobile Qual piuma al vento Veniva ad avvertire che sarebbero arrivate sua sorella e sua zia. Ma nemmeno le due solenni signorine valsero a persuadere la contessa che si ribellava più che mai. – Ecco, ora le è tornato il capriccio borbottava il conte, sconsolato. Si ricorse allora ai grandi mezzi, al soccorso delle grandi occasioni. Si telegrafò a padre Alfonso Maria, che questa volta si degnò di arrivare a Firenze dopo dieci giorni soltanto. Il gesuita ascoltò impassibile le lamentele del conte e delle due signorine e concluse tranquillamente: – Che imbecilli che siete tutti e tre! – poi – Lasciate fare, ci penso io. Fate preparare il pranzo nella sala degli antenati. Cesarina aveva indovinato il motivo della venuta di padre Alfonso e si era preparata a lottare accanitamente anche contro di lui, ma, siccome quel gesuita le incuteva una paura tremenda, aveva pianto tutta la mattina. Quando si mise a tavola aveva ancora gli occhi rossi. Alfonso Maria la volle accanto a sé, e le domandò con premura: – Che hai fatto Cesarina? Su su, allegra, non bisogna piangere. Vedrai che tutto si accomoderà benissimo. Calpestando ogni etichetta le dava del tu e la chiamava per nome. La fanciulla indovinò la sua tattica, di tentare di convincerla blandamente, gentilmente, e lì per lì se ne meravigliò, ma poi si spaventò più che mai. Subito al principio del pranzo, egli premise che la questione del piccolo Sergio era stata impostata male, creando un grande equivoco fondamentale. Non si trattava affatto di togliere il figlio a Cesarina, ma di decidere insieme con lei come si dovesse allevare il fanciullo. Insomma, ne avrebbero parlato dopo il pranzo, loro due soli, perché Cesarina era la madre e spettava a lei il diritto della decisione. La fanciulla si rinfrancò un poco, ma non fu del tutto persuasa, una voce intima, pareva metterla in guardia contro una minaccia ignota. La sala dove pranzavano, la famosa sala degli antenati, nella quale Cesarina era entrata una volta sola, di sfuggita, tanto la soffocava di noia con la sua misteriosa solennità, era la più grande del palazzo. Aveva cinque finestre sulla via Tornabuoni, e due porte, una per fianco nelle due pareti più brevi. Nella parete lunga, di fronte alle finestre, proprio nel centro, era un grande quadro, l’albero genealogico della famiglia Aroglio, in pergamena e cornice d’oro massiccio. Tutta la parete poi, e le altre due, anche negli spazi vicini sopra alla porta, e pure gli intervalli tra le finestre, erano coperti degli innumerevoli ritratti degli antenati. Le varie epoche erano delineate nei vari stili delle pitture, e nella varietà delle cornici. Gli ultimi quadri erano ingrandimenti fotografici. Anche il mobilio della sala era formato delle cose più care a ciascuno degli avi e perciò era una gran confusione di epoche, di mobili antichissimi accanto ad altri quasi moderni. Un grande affresco medioevale del soffitto a volta, chiuso da lambiccate dorature, avvolgeva come una campana di tempo tanta solennità millenaria. Il gesuita si scandalizzò che Cesarina conoscesse così poco quella sala, e rimproverò il conte e le signorine di non averle fatto comprendere e gustare tutta la grande poesia della loro famiglia. E con la sua consueta strafottenza di ogni cerimoniale intimo, lì davanti ai due domestici che servivano tavola, si alzò tra una portata e l’altra e condusse Cesarina sotto l’albero genealogico, cominciando a spiegarglielo. Il capostipite della famiglia Aroglio era un condottiero Bizantino venuto al seguito di Belisario in Italia, durante le memorabili lotte degli imperi di oriente e di occidente. Aveva per insegna soltanto un cielo azzurro, a significare la sua nostalgia di immensità e di conquista. Dicevano le cronache che la sua mano posava sul rotondo scudetto turchino come un’aquila bianca. Si chiamava Ollino e generò una stirpe di guerrieri e di Vescovi, e una santa, Santa Angelica, beatificata nel 1300. Uno dei suoi discendenti fu esarca di Ravenna. Si chiamava Malrico Ollino. Il figlio di lui, Aurelio, fu vescovo di Roma, ed ebbe affidata una volta la difesa degli altari e della città. Fu vincitore, ed ebbe l’onore di poter mettere la lupa nel cielo azzurro del suo scudo, una lupa grigia sopra un’ara petrigna. E il suo nome diventò Ara Ollius. Un suo nipote, pure Aurelio, si trovò possessore di larghe terre nel mezzogiorno d’Italia, e urtato forse dalla cacofonia del nome, Aurelio Ara Ollius, li unì in uno solo e fece Arollio. Dopo terribili ed oscure vicende, si trovava un discendente di questo primo Arollio alla corte di Carlo Magno in Parigi e in Acquisgrana, e fatto conte dal cavalleresco imperatore. Si chiamava Bruno, e combattendo a Roncisvalle a fianco di Rolando paladino, era, non si sa come, scampato alla strage. A questo punto venne servita in tavola una magnifica aragosta e il gesuita dovette interrompere il suo corso di araldica, perché Cesarina avesse modo di continuare il suo desinare in pace. Intanto aveva ottenuto già molto. La fanciulla lo trovava, in quella confidenzialità, assai più simpatico che non avesse immaginato. Il conte e le due signorine parlavano tra loro soltanto, perché sapevano che Alfonso Maria non amava affatto si entrasse nelle sue conversazioni quando una persona lo interessava particolarmente. Finito il piatto, intanto che si aspettava il dessert, il gesuita riprese la sua lezione cavalleresca e Cesarina questa volta lo seguì molto volentieri. Il superstite di Roncisvalle, conte Bruno Aroglio, col titolo aveva meglio ortografato anche il cognome, emigrò poi in Inghilterra e si imparentò con una principessa di Cornovaglia della corte di Re Marco. Però l’Inghilterra non era forse un terreno troppo favorevole a questa razza meridionale, e dopo alcune peripezie moresche, troviamo un pronipote di Bruno, il conte Anselmo Aroglio, scalare le mura di Gersalemme accanto a Goffredo di Buglione. Imprese di cavalleria e gesta di crociati intesserono tutta la sua vita, e quella dei suoi figli. Un altro discendente, il conte Rodolfo Aroglio, cavaliere di Francia e Normandia, si trovò al seguito di Carlo di Valois quando questo principe entrò in Firenze al tempo di Dante. La città del giglio dovette essere molto attraente per questo Rodolfo, tanto che vi si imparentò e vi trasportò tutte le sue ricchezze; non solo, ma il figlio di lui, Ludovico, ebbe l’onore di aggiungere alla lupa un bel giglio rosso nel cielo azzurro dello stemma che da cinque secoli ormai portava la corona comitale. E tale stemma era ancora oggi l’insegna immutabile di casa Aroglio. Mangiarono il dessert e la frutta così in piedi, passando alternativamente dalla tavola al quadro della genealogia che in rapidi cenni fu conclusa fino al suocero di Cesarina, il conte Bernardo, ucciso a bordo della Formidabile, mentre combatteva accanto all’ammiraglio Simone di Saint-Bon sotto il forte di S. Giorgio, a Lissa. Le lunghe lotte di parte nella primissima storia fiorentina, gli Ugonotti, S. Bartolomeo, un pontefice, Cristiano I, unico di quel nome, la battaglia di Lepanto, i conquistadores, l’Inquisizione, il Regno d’Elisabetta d’Inghilterra, un amico di Baiardo, il parentado con la famiglia Medicea, tutta la più bella storia di Cristianità si mescolava alla vita di quella discendenza fino al conte Massimiliano ferito nel difendere Maria Antonietta e ghigliottinato con lei sulla piazza di Parigi. Alfonso Maria mandò il conte Angelo e le due signorine a prendere il caffè nell’altra sala e rimase solo con Cesarina. Guardavano ora i quadri di tutta quella galleria di gloria e di onore. Era strano, eppure nel ferreo Ollino così tremendo, col suo scudetto color cielo sgombro, erano impressi i tratti fondamentali della figura di famiglia, conservati traverso una lunga filtrazione di impoverimento sempre più gentilizio e più delicato, fino al conte Angelo. Ogni tanto oscuri parentadi con razze giovani, forti e vigorose avevano saggiamente irrobustito quel ceppo secolare. Perciò il matrimonio di Angelo e Cesarina entrava da questo lato quasi nella tradizione della famiglia. E la fanciulla guardava ora con amore quasi fatto di attrattive e di simpatie singolari, quegli avi che prima le erano parsi così brutti, e che la parola calda del gesuita pareva illuminare di una vita tutta nuova. Cavalieri erranti, fanciulle bionde, reginette, porporati e vescovi, la santa, il sommo pontefice Cristiano I, crociati e monache, principesse, una badessa del 1500 che somigliava tutta a Giacomina, un inquisitore, amico di Torquemada, che somigliava tutto a padre Alfonso. Il medioevo cupissimo e soave, il rinascimento lussurioso ed esuberante, il seicento spagnolesco e ricchissimo, il settecento casanoviano, il romanticismo lunare, tutte le generazioni meravigliose erano adunate in quella sala come in un areopago fatale. Cesarina provava come un senso nuovo, l’orgoglio della tradizione, il piacere di essere anche lei di questa famiglia. Il gesuita si sedette accanto alla contessa sedicenne, e senza preamboli, senza nessun accenno di trapasso, seguito a dire: – Mia piccola Cesarina, quando tu dovevi sposare Angelo, io ero contrario assolutamente al tuo matrimonio. Avrei avuto il potere di persuaderti alla rinunzia, ma non lo feci perché poteva sembrare che tutto si riduceva per me a una questione di interesse e di pregiudizio aristocratico. Invece non era affatto per te che ero contrario. Ma per lui, per Angelo. Perché vedevo che la tua unione con lui era il disastro di tutta la tua vita, di tutta la tua felicità. Tra poco sono due anni che ti sei sposata, tu vedi che con me si può parlare con franchezza. Dimmi sinceramente: Sei felice? – No – sussurrò Cesarina e suo malgrado le venne da piangere. – Non rimpiangi nulla? – Tante cose... – e tirò fuori il fazzolettino profumato e trapunto. – Tieni, vuoi fumare? – e le porse la scatola delle sigarette orientali. Cesarina fece una mossa istintiva per prenderne una, poi si trattenne ritegnosa. – Prendi, prendi pure, non farti scrupolo di fumare davanti a me. Tanto alla realtà dei fatti non si può contrastare. – E accese anche lui una sigaretta dopo averla accesa alla contessa. – Vedi – continuò – la colpa principale di tuo marito sta che non ti ha sposato per amore, ma si è comprato coi suoi milioni la tua giovinezza. – È vero, è vero. Ma io non ho colpa, io non mi sono venduta a lui. Non capivo nulla allora, ve lo giuro. Lo compresi soltanto parecchi mesi dopo, alla vigilia del mio parto, ed ho sofferto tanto, tanto. – Lo credo bene cara. Ti faccio questa giustizia. Sono ragguagliato perfettamente su te, e so che nel profondo del tuo istinto sei buona e pura. Hai tutto per essere un’anima eletta. Soltanto l’ambiente della borghesia, che fino a un secolo fa era una classe di schiavi, non è il clima più indicato per la pianta femminile. La tua prima infelicità è cominciata in casa tua. La tua anima, il tuo cuore, il tuo corpo sono sbocciati tra l’ignoranza psicologica dei tuoi. I tuoi genitori sono stati come dei giardinieri che non sanno annaffiare le loro piante a tempo opportuno. Mi capisci? – Sì, sì, come avete ragione! – E Cesarina provava un sollievo che non sapeva nemmeno lei definire. Ritrovava la felicità del tempo della sua prima comunione, di quando aveva conosciuto padre Anastasio. Ma nelle parole del buon frate ella trovava la dolcezza consolatrice di uno che sapeva farsi semplice, semplice per soffrire della sua piccola sofferenza intima; invece in padre Alfonso sentiva una potenza superiore che si chinava verso di lei per sollevarla e aveva come una sensazione di esserne protetta e sicura. – Un’altra famiglia avrebbe capito tutta l’immoralità che c’era nel tuo matrimonio, lo avrebbe impedito assolutamente. Un padre un po’ meno semplicista del tuo, avrebbe considerato che una bambina di quattordici anni e mezzo non può decidere di tutta la sua vita, ed è un delitto rimettersi alla sua volontà. – Eppure il babbo mi vuole bene davvero. Lui credeva di fare la mia felicità! – Lo so, lo so. Non te lo dico! Ha sbagliato soltanto, perché non capisce nulla, pover’uomo! Insomma, ora è inutile recriminare il passato senza rimedi. Pensiamo piuttosto a salvare quanto è possibile dal disastro dell’anima tua e della tua felicità. Perché se tuo padre, nella sua limitata testa borghese, non ha capito nulla di te, anche tuo marito, con tutto il suo sangue millenario, non è stato davvero più esperto. Tu sei stata vittima di uno dei più grandi delitti del secolo borghese, e naturalmente la libertà moderna vieta di vendicarti e di punire i colpevoli. E altri delitti si compirebbero su te, se un animo forte non ti proteggesse, fortificando il buon seme che è nell’anima tua. Tuo marito è già stanco di te, perché umanamente tu non puoi amarlo. La sua volgarità di libertino smidollato, tutta una degenerazione accumulata per secoli, deve rivoltare il tuo sangue giovane e puro. Immagino i godimenti turpi e stomachevoli che avrà cercato nel corpo di vergine. Tu abbassi il viso, ti fai rossa. Vedi, ho indovinato. – Ma io non ho colpa, credete, io non so nemmeno come è successo, ora che ci ripenso. Sì, è vero, certe cose mi fanno schifo soltanto a ricordarle. Ho letto dei libri di medicina, perché così sola, in balìa della vita, la mia grande ignoranza mi spaventava. E così oggi ho potuto indovinare un’altra cosa anche più ributtante. Da certe cure che ho sorpreso che mio marito fa, ho la prova che ora è infetto. E un’altra cosa ho sorpreso! Qui, in questo palazzo, lo vengono a trovare dei mezzani oscuri, e gli procurano delle ragazzine, delle bimbe persino di dieci o undici anni, che lui si gode in due o tre appartamentini lontani, che ha affittato segretamente. Capite fin dove arriva! Non sapevo che nel mondo ci fossero tante porcherie! E la paura, capite, la paura che ho è che abbia infettato anche me. – No. Di questo stai sicura. Te lo assicuro io. Si tratta soltanto della tua rovina morale. Non puoi pensare come sanguini l’anima mia, nel vedere sulle tue labbra fanciullesche e purissime sempre, anche ora più di prima, il fiore venefico di questa tua confessione e di questa tua brutta paura. – Ormai tutto è finito per me. – No no, non piangere piccola e buona Cesarina. Ascolta il Signore Iddio che oggi ti parla per mezzo del suo più umile servo. Ormai hai sedici anni e mezzo, cominci a non esser più una bimba. È questa l’età in cui il tuo cuore fiorisce davvero, in cui dovrebbero cominciare per te i primi sentimenti incantevoli e soavi dell’amore vero ed umano. E tu ci arrivi dopo la più terribile contaminazione. Ma se il tuo corpo di bambina è stato profanato, la tua anima è ora uscita purificata dal tuo grande dolore sincero. Tu sei ora la vergine delle vergini. Aspetta e spera. Il pensiero di Dio ti protegge. Oggi le mie parole debbono aprirti un nuovo orizzonte. Non dubitare, farò io per te quello che avrebbe dovuto fare prima la tua famiglia e poi tuo marito. Dopo il matrimonio tuo marito doveva creare in te la tua vita morale per ristabilire il tuo equilibrio psicologico, interrotto dal giorno che cessò l’incantesimo della tua totale innocenza. Durante la luna di miele l’accoppiamento del corpo doveva bilanciarsi con la fusione dell’anima. Tuo marito doveva veramente formare un essere solo con te. Doveva mettere nel tuo cuore quella passione morale della quale il piacere materiale non è che il compimento necessario, che ti mancava perché eri troppo bambina, e che soltanto ora i tuoi sedici anni cominciano a far nascere in te. E invece ti contaminò, ti vizio e poi ti lasciò sola. E anche dopo, quando la maternità avrebbe dovuto farti sacra al suo amore, ti lasciò con le tue paure e le tue sofferenze ignote. Non ti dette la sensazione della gioia grande che è l’esser madre, gioia morale, naturale e divina che in ogni donna deve fare equilibrio alle sofferenze del corpo. E tu non sapesti la felicità sovrumana che dà il miracolo sovrumano di sentir muovere nel tuo ventre fecondato l’essere nuovo che sta per nascere in te. Nessuno ti insegnò ad astrarti della vita esteriore per contemplare l’interno luminosissimo del tuo essere, nel quale Iddio aveva trasformato l’atto volgare, che il tuo pudore di vergine considera come una porcheria, in prodigio santo di perpetuità di creazione. Ricordati che tu sei santa, perché sei madre. – Capisco, capisco quello che mi dite. Come ve ne ringrazio! Non voglio, non voglio che portino via il mio Sergio. Ed ora più che mai. – È un sentimento giusto il tuo. È bene che tu cominci a sentire che cosa vuol dire essere madre. Perché nemmeno in questo ti hanno mai insegnato il mistero più bello dell’anima femminile. E così, senza capire l’importanza della maternità, tu hai amato soltanto col tuo istinto di madre, ancora psicologicamente bambina e immatura, e nel tuo affetto il piccolo Sergio è stato un po’ uguale a un balocco, a una bambola. Ti hanno detto poi brutalmente che bisognava separarti da lui, ed è giusto che tu ti sia ribellata. – Oh! grazie, grazie. Come vi voglio bene! Aiutatemi voi, non ho che voi. – E invece non si tratta affatto di separarti da tuo figlio. Si tratta soltanto di insegnarti che l’avvenire della propria creatura è il dovere più grande di una madre. Tutto quello che la madre soffre per il figlio suo deve convertirsi in felicità morale nell’anima di lei. Considera che tuo figlio nasce da un padre vecchio, indebolito e degenerato, e discendente da una famiglia il cui sangue si è impoverito per secoli e secoli di degenerazione. In ogni famiglia vi è il buono ed il cattivo, ma più la famiglia è antica, più il male si accumula col sangue dei discendenti, mentre il bene si consuma tutto nell’esistenza individuale. Sergio, non avrà di buono che la giovinezza di una razza nuova e forte che gli viene soltanto da te. È la forza della tua anima semplice e pura. Il resto sarà tutto marcio in lui, materialmente e moralmente. Per fortuna la sua salute fisica gli assicura una esistenza sana materialmente. Considera però che nell’epoca in cui entriamo, la sua nobiltà gli sarà un peso e un ostacolo, anzichè un bene. È l’epoca dei servitori che dopo essere stati nutriti e mantenuti per venti secoli si ribellano contro i padroni agonizzanti e saccheggiano le case. I nobili sono esauriti da venti secoli di vita, i borghesi sono sani e robusti, perchè da un secolo solo fanno i servi padroni. Ora a questa vita difficile bisogna preparare il tuo Sergio, fisicamente e moralmente. Perciò non può rimanere qui dove vive tuo marito. D’altra parte tu sola non puoi bastare all’educazione di Sergio, non per tua colpa, ma perchè hai bisogno di essere consigliata e guidata tu pure. In questi primi anni che Sergio cresce, io ti insegnerò ad essere la sua mamma, ti preparerò al tuo compito di sua educatrice. Te lo prometto Cesarina perchè te lo meriti. – Ah! Come siete buono! Come nessuno vi conosce e vi sa giudicare! – Dunque io stesso avevo pensato di collocare il piccolo Sergio presso Ludovica e Carlotta, prima di tutto perché da loro sono sicuro di obbedienza passiva e quindi mi fido. Secondo, perché mi è più comodo per la distanza, avendo intenzione di vigilare personalmente. Tu, per salvare le famose apparenze, rimarrai qui con tuo marito, ma, per l’avvenire di tuo figlio, non ti parrà gran sacrificio stare più che tu puoi presso di Sergio, e incontrarti sempre con me, perchè io possa creare in te la vera madre. Con l’automobile e con qualche treno speciale potrai farlo comodamente. Non dubitare, tu sarai sempre presso tuo figlio, io sarò sempre presso di te, tua custodia e tua salvaguardia. – Cesarina restò lì a guardar con tanto d’occhi. Le pareva di assistere al prodigio dell’uovo di Colombo. E ammirava estatica quel gesuita che conosceva così bene le intimità più riposte del suo corpo e della sua anima, e ne parlava così francamente. E si domandava come avesse fatto a conoscere così bene il mistero dell’anima e del corpo femminile. Lì per lì le parve che quello fosse il prodigio della vera nobiltà, che lui solo fosse il degno discendente della grande famiglia, che illuminava dai quadri secolari le pareti di quella stanza. E li guardò quegli antenati affascinanti di sorriso e di foschia psicologica, e guardò quelle donne dai volti chiusi di sfinge, e vide tutti, maschi e femmine, attraverso le più volgari intimità, raggianti della grandezza nobiliare, che era come l’anima fulgida della stirpe. Il conte e le signorine rimasero storditi quando videro Cesarina piegarsi così facilmente. E il gesuita pareva a loro un essere meraviglioso una volta di più. Ne provavano come un sacro terrore. Si sentivano davanti ad una superiorità reale e tangibile. Furono fatti i preparativi della partenza. Però all’ultimo momento Sergio fu preso da una delle solite sue bizze. Per acquietarlo si ricorse al consueto espediente di farlo baloccare con la bambola di Cesarina. Il piccolo si quietò, sorrise col suo bel visino tutto latte, ma non volle a nessun costo staccarsi dalla bella bambola. Non ci fu verso. La voleva con sè a tutti i costi, si dovette per forza portare anche la bambola nell’eremo delle due vecchie signorine. XIII Passarono dei mesi. Si era al venti di marzo. Fra cinque settimane, il 23 aprile, Donna Cesarina Aroglio avrebbe compiuto diciassette anni. L’avvenimento più grande di quei giorni era la celebrità improvvisa raggiunta in quell’inverno da una cantante giovanissima. Ughella D’Ore. Quella sera ci sarebbe stato alla Pergola il debutto fiorentino della grande artista reduce dai trionfi di Roma e di Milano. Si eseguiva la Salomè di Riccardo Strauss, di cui la D’Ore faceva la sua creazione più meravigliosa. Cesarina si ricordò l’amica della sua infanzia, la buona e suggestiva Ughella, che era stata sua compagna a dottrina nel convento, ed aveva passato insieme a lei la prima comunione. Anche l’ultima volta, prima del matrimonio con Aroglio, erano state insieme in campagna in Mugello. Non l’aveva più vista, solo di tanto in tanto ne aveva avuta qualche vaga notizia. Era curiosa di parlare con lei, di vedere come si era trasformata. Il conte fu tanto gentile di accompagnarla quella sera nel loro palco, alla Pergola. La città era letteralmente profusa, da parecchi giorni, di innumerevoli ritratti di Ughella. Cesarina trovava che la sua amica era sempre la stessa bellezza misteriosa e diafana di quando era bimba. Tutte le sue singolari e strane grazie di allora, si erano accentuate ancor di più. E se la ricordava in quel tempo lontano, vestita di lutto per la morte della madre, così pallida e sensitiva nell’abito nero. Anche per Ughella quante cose erano successe! Le era morto anche il padre, e la bimba era rimasta sola, affidata a un tutore che ne amministrasse la modestissima eredità. E ora, improvvisamente, eccola celebre e ricca, adorata dalla folla e dal destino. Quando Cesarina e il conte entrarono nel loro palco, la Pergola era gremita. Avevano saputo alla porta che circa mille persone erano tornate indietro Il sipario era già alzato, ma ancora la protagonista non era entrata in scena. La grande musica demoniaca si accendeva come un fuoco d’artificio da ogni scanno dell’orchestra. Tutti quei sinfonici raggi multicolori convergevano poi al vertice della bacchetta direttoriale, e come toccati dalla scintilla magnetica, esplodevano per tutta la sala in una pioggia di fuoco incandescente sulle divine nudità femminili che sbocciavano dalle scollature elegantissime di cento e cento signore. L’anima di Riccardo Strauss ubbriacava tutta la sala vastissima e semioscura. Ed ecco un raccoglimento supremo, un silenzio fatale e sospeso, un’immobilità ossessionante, e Salomè entra in scena. Come era suggestiva la principessa di Giudea quella sera! Cento e cento binocoli appuntarono su di lei la loro curiosità di cristallo. Ed anche quello di Cesarina. Come la riconosceva la Ughella della sua infanzia! Era sempre così lunga lunga e magra magra nella sua flessibilità agile e serpentina di esile efebo. Sempre i suoi occhi nerissimi e vastissimi che stonavano bene sotto la parrucca rossa. Era tutta nuda fino alla cintura, e gli scudetti del reggipetto aderivano alla pelle scarna dei seni, che si indovinavano fioriti di capezzoli di maschio. Sotto la cintura, la veste si annodava proprio al vertice del ventre. Le gambe secche, spropositatamente lunghe, si agitavano per tutto il palcoscenico, nella loro nudità, chiusa soltanto da una brachetta quasi invisibile di maglia, e lampeggiavano sotto la veste spaccata in uno scatenamento di lussuria. Il delirio folle della plebe pubblica, anche se è aristocratica, si ripeté come a Roma, come a Milano, empiendo in un attimo tutta la sala, stellata dai mille e mille occhi protesi. Ogni passo della danza, ogni fiore del canto era un’ovazione, era un’interruzione di bis e di tris. Ci fu un pezzo ripetuto cinque volte. Un vecchietto, tutto commosso e spasimante di congestione imbramabile, diceva a un amico: – Pare di esser tornati ai bei tempi Verdiani! C’era davvero, nel canto di Ughella, una carezza continua, voluttuosa, eccitante; pareva il mugolio della libidine umana sapientemente orchestrato. Anche Cesarina ne fu stordita. Le parve di sentirsi alitare intorno il soffio di un bacio mai goduto. Ecco il segreto della cantante. La voce di Ughella toccava armoniosamente la sensualità della folla, maschio e femmina. Tutta la folla ne era commossa, come i grandissimi popoli negli istanti di suprema epopea. Finito lo spettacolo Cesarina andò a visitare l’amica nel suo camerino. Ughella la accolse con entusiasmo. Però Cesarina si accorse, con meraviglia, che se la figura esteriore rimaneva la medesima della fanciullezza, più in meraviglioso però, l’anima interna era del tutto cambiata. La vergine trionfale si era fatta d’una cerimoniosità leziosa, che quasi stancava, come un dolce troppo dolce. Era davvero stucchevole, tutta gesti e gestini, smorfie e smorfiette. Soltanto si vedeva in lei una felicità fatua e compiuta, tutta fatta di piccole cose estranee alla vita comune. Era come assorta in un’estasi speciale che Cesarina paragonò all’estasi religiosa di Gennarina. Sì, c’era un punto di contatto tra le due felicità, che avevano entrambe il loro scopo fuori del mondo comune. Uscirono insieme dal teatro, le ultime. I pochi rimasti guardarono con invidia l’automobile elettrica di Cesarina e la meravigliosa Fiat della cantante che sparivano nella notte, modernissime. La vergine trionfale fu anche invitata nel Palazzo Aroglio a un pranzo d’onore, prima che partisse per la sua tournèe. In quei giorni la contessa rivide anche Gennarina che fermamente si preparava al suo apostolato di missionaria, e potè meglio paragonare quelle due felicità ultraterrene. Per un momento le sembrò che anche la sua vita degli ultimi mesi, dopo la famosa scena col gesuita, fosse stata un po’ meno triste, tutta presa dal nuovo scopo di maternità. Ma credeva di trovare una terribile sfumatura di differenza tra la gioia delle sue due amiche e se stessa. Era inutile volerlo dissimulare, la maternità non bastava alla sua vita. Era stato un appiccicaticcio momentaneo, come tutte le altre salvezze improvvisate nelle quali si era sforzata di credere dopo la scossa psicologica della sua perduta innocenza. Qualcosa mancava alla sua vita, alla sua felicità, e malgrado non se lo volesse confessare, la figura tentatrice di Giacomina le appariva saltuariamente a suggerirle che soltanto l’amore vero può dare la gioia e lo scopo della vita. E se anche il vero amore fosse una delusione, come tutte le altre speranze sue? E poi che era mai questo vero amore? C’era davvero? Ma l’impulso fisico che era mancato a tutte le sue altre risoluzioni, aiutava invece questa sua illusione ultima. La vergine delle vergini, come aveva ben detto il gesuita, cominciava a parlare in lei. Era quella la prima primavera della sua vera verginità. La donna si compieva vertiginosamente in lei. Il suo corpo si sviluppava alla pienezza delle sensazioni d’amore e si formava compiutamente la sua anima di signorina. Tutta la sua bellezza era come un pianoforte accordato per la musicalità più intensa, era un accumulatore elettrico stracarico della corrente più passionale. Si guardava spesso nei lunghi specchi delle sue camere, togliendosi anche gli ultimi veli della più intima seminudità. Il petto pieno, con due seni che parevano la fusione di tutte le dolcezze del mondo, e tra le mammelle il solco divino che raccoglieva nella breve insenatura tanta felicità da bastare a tutti gli eroi della storia. E la vita esile, spezzata come una stroncatura, le spalle leggerissimamente opulente, la schiena solcata in due, come l’interno di una prora magnifica. E i fianchi statuari, le gambe marmoree, e un’armonia voluttuosissima, inebriante, di ombre e di luci per tutta quella bellezza astrale. E Cesarina si guardava malanconicamente e pensava che era così bella per nulla. A che le serviva tutta la felicità che il suo corpo poteva dare e ricevere? Chi avrebbe raccolto l’offerta per empirla di gioia vera? La primavera fu quell’anno la tentatrice inverosimile, come mai avrebbe immaginato. E l’apparenza del maschio giovane la ossessionava di ultrasensibilità. Ognuno che incontrava le dava un brivido nervoso, come se riuscisse, col guardarla soltanto a toccarle l’intimità più segreta. Erano rapidissimi accoppiamenti di sguardi che la spossavano terribilmente. I più abili corteggiatori gentilizi, forse indovinando col loro fiuto di maschi esperti il momento libidinoso, si affollavano intorno a lei, affamati di brama bestiale. Ma non la tentavano. Ella cercava testardamente, ciecamente, ostinatamente, il vero amore, il simbolo della gioia vera per lei, e, in tutti quei simili di suo marito, non scorgeva che la stupida ed inutile sterilità di piacere, già sperimentata nel suo matrimonio. Di più aveva un terrore folle delle ignobili e vergognose malattie che turpemente la avevano sfiorata nella sua intimità coniugale. Le pareva di essere scampata al più ributtante pericolo, e il maschio la terrorizzava per tale spavento. Ma il suo corpo tradì improvvisamente la resistenza della sua volontà. Un giorno che tornava a Firenze dall’eremo dove cresceva il piccolo Sergio le si guastò l’automobile per via, per fortuna presso una piccola stazioncina remota. Soltanto un accelerato vi si fermava tra un’ora, ed essa l’attese, col solito suo senso di noia, che era il suo stato d’animo costante. Accese una sigaretta, e fumandola si sentì più debole e snervata del solito. L’accelerato aveva più di un’ora di ritardo. Finalmente, dopo quasi due ore e mezzo che aspettava, passò. Era già notte. Salì a caso in uno scompartimento di prima classe, l’unico che trovò un po’ illuminato. Negli altri, i rari viaggiatori dormivano, avendo perciò spento le lampadine. Il suo profumo aveva empito tutto il corridoio affogando il puzzo del treno. Nello scompartimento dove entrò, c’era soltanto uno sconosciuto. Un giovanotto forte e robusto, nè brutto nè bello, nè volgare nè gentilesco. Un tipo così di passaggio. Guardò Cesarina quasi con noncuranza. La contessa indossava lo spolverino da viaggio su un abito aderentissimo color albicocca, e il cappellino piccolo col velo da turismo. Stivaletti alti che rendevano più eccitante la bellezza delle sue gambe e calze chiare che si videro appena per un dito quando accavallò le ginocchia, sedendosi sul velluto rosso dello scompartimento, nell’angolo opposto in diagonale allo sconosciuto. Egli sonnecchiava sbadatamente, mentre Cesarina pensava, come sempre, al vuoto della sua vita. A un tratto egli si alzò con noncuranza e spense la lampadina come volesse dormire. La giovane lo osservava con indifferenza. Passò un’altra mezz’ora e un’altra stazione solitaria, e lo sconosciuto, che si era alzato un momento per guardare dal finestrino, sedette questa volta proprio di fronte a Cesarina. Tirò fuori il portasigarette e domandò se disturbava. Cesarina rispose di no, e trasse dalla sua borsa una sigaretta anche lei. Lo sconosciuto gliela accese con gentilezza sbadata, poi accese per sè. Ella finì la sigaretta e si assopì leggermente in un dormiveglia turbato. Il giovanotto finì dopo di lei, e parve poi sonnecchiare anch’egli. Senonchè, nel suo leggero sonno tormentoso, Cesarina sentì i piedi del giovane che le imprigionavano uno stivaletto. Ma così come disavvedutamente. Ebbe una scossa nervosa e fu come presa da una vertigine che dominava tutta la sua volontà. Nel suo turbamento le parve di essere sveglia, a un tratto e sentirsi sul volto l’alito caldo e ardentemente fecondo dello sconosciuto. Avrebbe voluto ribellarsi, muoversi, ma era incerta di quella pesantezza, inerte come quando non sappiamo bene se ancora si sogna o se siamo già desti. È un sogno che ha precisione di realtà, è una realtà che ha sfumatura di sogno. E Cesarina non seppe più muoversi. La prendeva come un’ubriacatura di essere o non essere. Soltanto a questo semplice contatto Cesarina ebbe il brivido e la soddisfazione compiuta. Le parve che il buio immenso la baciasse con una bocca satanica. Non le bastò, e neanche lo sconosciuto era sazio. Uscì come ubriaca e quasi demente dallo scompartimento, ed entrò in un altro che era vuoto. Rimase lì inebetita senza capire nulla, proprio così a galla nella vita, fino all’arrivo a Firenze. Non si sapeva rendere ragione che in quel treno ci fosse il suo onore di meno. Quando scese, nell’affollamento intorno a lei, si meravigliò che tutti fossero indifferenti, così come se non fosse accaduto nulla in quel treno. E invece era morto il suo onore. Cercò anche di riconoscere lo sconosciuto. Ma non vi riuscì. Non aveva potuto vederlo durante la tragedia lussuriosa. Ed ora interrogava tutti i visi dei maschi più giovani. E invano. Erano tutti chiusi e impassibili. Un onore di meno e un’adultera di più scendevano da quel treno eppure tutti i biglietti all’uscita furono bucati con eguale impassibilità. – Nel tornare ho avuto una panna alla Fiat – raccontò poi Cesarina al marito. XIV E tornò l’autunno, tenero, primaverile eccitantissimo, come una primavera che ha sonno. Cesarina aveva diciassette anni e mezzo. L’adulterio imprevisto e casuale, l’aveva rivoluzionata, mettendole un bruciore in tutto il sangue, un ardore insaziabile. E cercava sempre l’amore. L’amore vero, l’amore fatale, l’amore felice. Ed era assetata di questa felicità come un’agonizzante. Incontrò alcune delle sue compagne d’infanzia, alcune delle amiche della prima comunione. Nerina Fiorani era fidanzata di nascosto con un bel giovanotto biondo e sentimentale, che però studiava medicina. Sua sorella Nanetta aveva esagerato ancora la sua aria infantile di donna intellettuale, ed era sempre fedele all’amoruccio ragazzesco di Carletto, il fratello di Cesarina. E lo eccitava continuamente all’ambizione e alla gloria, dicendo che c’era in lui l’anima di un grande poeta. E Carletto si lasciava lusingare e posava già da genio adolescente e incompreso. Ma insomma si amavano e parevano felici. Anche le altre erano tutte segretamente fidanzate, avevano tutte un grande amore segreto per il quale lottavano aspramente contro la volontà delle famiglie. E Cesarina incontrava queste coppie pazze di giovinezza e di amore, le incontrava nei viali appartati, nei dintorni discreti della città boccaccesca. Incontrando queste coppie Cesarina faceva salire gli innamorati nella sua automobile, e spiava poi ogni loro mossa, ogni loro atteggiamento, ogni loro sorriso, quasi per rubare a quei fidanzati misteriosi il segreto della loro felicità. E sempre, del resto, nelle sue autunnali gite solitarie per la stupenda campagna fiorentina, le coppie sconosciute di innamorati che trovava per la sua via erano una ossessione per lei. Come li invidiava quei fidanzati felici che se ne andavano stretti, stretti, dimentichi di tutto. Qual’era il loro segreto? E tutta la sua giovinezza tutta la sua anima di fanciulla che cominciava allora ingenuamente, candidamente, pudicamente a fiorire in quel bel corpo troppo presto contaminato ed esperto, si protendeva verso il fascino dei fidanzati, verso la felicità dei due cuori che si comprendevano e che erano uno solo, verso la gioia vera che a lei mancava E cominciò a germogliare minuto per minuto, nell’anima di Cesarina il suo lui, il lui misterioso che non si sa ancora com’è, ma che c’è, il lui affascinante di tutte le educande in Collegio. E cominciò a sentire che aveva bisogno di lui come dell’aria per respirare, che lui era la felicità, che lui era la vita. E capì ora tutto l’abisso del suo matrimonio. Si era per sempre tolta a lui, aveva tradito lui. Non poteva più godere tranquillamente, onestamente la gioia di lui. Lui era il frutto clandestino, il frutto proibito, irrevocabilmente, ormai. E capì Paolo e Francesca, Tristano e Isotta, Linda Murri e tutte le adultere della vita umana. La nobiltà, la ricchezza, il denaro tutto era nulla senza di lui. E quando incontrava le coppie misteriose pensava con desiderio che ogni giovinotto era un lui, e odiava le fanciulle felici, con tutta la rabbia della sua invidia femminile. Una sera più delle altre, al caffè-concerto, dove il marito l’aveva condotta, la intenerì una canzonetta popolare che aveva allora gran successo. Era intitolata Principessina e faceva: I. Io ti vedo passar tutte le sere, lucente di gioielli e di pallore. Dalla manina bianca fai cadere, mentre ti guardo, a me d’accanto, un fiore. Principessina, principessina! Cosa non dice mai la tua manina! Un bacio più leggero d’un profumo, la sigaretta in estasi di fumo… Pallida e triste la tua testina… Principessina! II. Cerca l’amore lo sguardo tuo perduto. Cerca l’amore il tuo visino bello. Mentre parla il tuo principe canuto, tu ascolti un lontanissimo stornello! Principessina, principessina! Cosa non dice mai la tua manina! Un bacio più leggero d’un profumo, la sigaretta in estasi di fumo… Pallida e triste la tua testina… Principessina! III. Ti ricordi quand’eri una sartina, sola sola col biondo innamorato; col sogno d’una bianca casettina, col sogno troppo presto, ahi!, dileguato... Principessina, principessina! Cosa non dice mai la tua manina! Un bacio più leggero d’un profumo, la sigaretta in estasi di fumo… Pallida e triste la tua testina… Principessina! La volle imparare e la suonò al piano e la cantò sempre per parecchi giorni. Ma non bastava. Spesso cavalcava lungamente Mandarino, così da sola per i dintorni della città. In qualche viale deserto scendeva, e si tirava dietro il bel cavallo nero, per la briglia, errando perdutamente, pazzamente, come una delirante. Il bel cavallo pareva lo capisse che la sua padroncina era triste, triste, tanto triste. E la seguiva lento, a testa china con gli occhi belli, malinconici anche lui, e quando lei si fermava assorta, le appoggiava il muso su una spalla e con la lingua rosea le lambiva una guancia. A questa carezza Cesarina si scuoteva; una speranza lontana cominciava ad agitare il suo cuore come il primo brivido della luce dell’alba lontana nel cuore della notte. Chissà! Chissà! Non sarebbe mai venuto il suo giorno? Durante questa crisi Renzo Negretti, il capitano dei bersaglieri marito di Laura, ebbe occasione di venire spesso a palazzo a visitare la bella cognata. Ci teneva Renzo alla relazione di Cesarina. E a poco a poco si era tanto insinuato presso di lei da diventare il suo confidente, e quando erano soli si davano ora del tu come quando era il giovanissimo tenente, fidanzato della languida sorellina, e lei aveva dodici o tredici anni. Anche allora Renzo era il confidente di Cesarina, e il primo sbocciare della bimba gli aveva dato più volte strani fremiti di perversa lussuria. A trentadue anni era ora un bel giovanotto biondo e sanissimo il capitano, e la contessa quasi lo invidiava, alla sorella. E un bel giorno, com’era naturale, si trovarono tutti e due, nudi, come due innocenti e ingenui selvaggi primitivi, nel letto grande di Cesarina. Ma la fanciulla ne fu quasi nauseata. Ebbe una delusione di più, e non volle ripetere a nessun costo la disgustante avventura. Passò l’inverno e tornò la primavera. Una primavera precoce. A metà di febbraio c’erano già delle giornate quasi calde. Alle Cascine, in un pomeriggio Cesarina incontrò Giorgio. Non si erano più visti da prima del matrimonio. Giorgio aveva ora diciannove anni e mezzo ed era così bello nella sua bruna e ardente giovinezza, con i nerissimi occhi suggestivi, i baffetti folti e i capelli vellutati. Al vedere Cesarina arrossì, impallidì e, non potendo fingere di non vederla, si tolse il cappello, impacciato. La contessa lo chiamò e fece fermare l’automobile. – Signor Dameti, signor Dameti! – Signora Contessa... – Si dimenticano così le vecchie amicizie? Salga, salga, mi faccia un po’ di compagnia! Dio! com’era timido e impacciato, povero Giorgio! Cesarina non lo riconosceva più. E lo guardava e cercava d’indovinare nella sua persona tutti gli amori di lui in quei due anni e mezzo che lei aveva sofferto tanto. A l’Indiano scesero dall’auto e si internarono in un boschetto solitario e profondo. Giorgio pareva affranto e spezzato. Si sdraiò vicino alla bimba, sull’erba, e non seppe parlare. Chinò la bella testa vellutata e ricciuta, nel grembo di lei e pianse come un piccolino. Allora soltanto parlò e le dette del tu come nei bei giorni lontani. Quanto la aveva amata, quanto aveva sofferto per lei! Non aveva più vissuto da quei giorni tremendi del matrimonio della sua Cesarina. Avrebbe voluto morire, uccidersi, ma era un vigliacco, gli era mancato il coraggio. E le fece, piangendo, la confessione di tutta la sua vergogna segreta. Amava tanto la sua Cesarina anche nel ricordo, che non gli era più riuscito di vivere. La sua giovinezza non aveva più sorriso d’amore. Le donne per lui non esistevano. Non aveva ancora osato di avvicinare una donna. Era ancora vergine. Questa confessione sconvolse Cesarina. Ci pensò per più giorni. Provò il brivido che Giorgio fosse davvero lui, e tremò di sentire avvicinarsi l’avvenimento tremendo e tragico della sua vita. Sì, Giorgio l’amava davvero. Giorgio non era stato di nessuna donna. La sua giovinezza era pura di carne femminile, il suo corpo era incontaminato di femmina. E Cesarina, con la risolutezza di Giulietta, si buttò in quell’abisso di fatalità. Trovò lei un appartamentino segreto lontano, organizzò tutto con l’ostinazione disperata della sua fame di gioia. E un giorno ella e Giorgio si trovarono nella camera solitaria, liberi, e uno dell’altra. Giorgio era così stordito, così fuori di sè, che con tutta la sua giovinezza sembrò un buono a nulla. Cesarina lì per lì ebbe paura davvero di aver lottato tanto per trovarsi con un corpo inutile, con una cosa inerte. Ma poi i primi pudori esitanti furono superati, e la contessa fu maestra al giovinetto della più bella scuola d’amore. E che scolaro era Giorgio! Aveva tutta la purezza dell’adolescente, tutta l’estasi ingenua del suo amore ardentissimo. Tutta l’infanzia incontaminata rifioriva in essi, Cesarina ebbe l’illusione per la prima volta in vita sua, di godere senza peccato. E le difficoltà, i misteri, gli ostacoli che si frapponevano, i pericoli di quel loro amore, le emozioni e i timori occupavano talmente l’esistenza della contessa, da farle quasi credere di aver finalmente trovato quella felicità che cercava. Ma poi all’atto pratico, a lungo andare, Giorgio si rivelò man mano anche lui, inferiore all’aspettativa. L’amava è vero, l’amava follemente, ma non sapeva altro che amarla. Ma poi era un bamboccio sciocco, un’anima fanciullesca nemmeno virile. E Cesarina cominciò a capire che nella felicità vera c’è qualcosa più che l’amore. Quando i loro corpi si furono goduti totalmente, quando ebbero provate tutte le sinfonie del piacere, della lussuria, del pervertimento, non trovarono più nulla in loro. Il vuoto assoluto. Anche l’anima di Giorgio non era altro che un fantoccio. E quando, col seguitare dell’avventura, i pericoli e le emozioni passarono, e le cautele usate si mostrarono atte a nascondere lungamente il loro peccato con piena sicurezza, quando il loro amore fu solo, senza l’eccitamento del pericolo e del mistero, si sentirono sconfitti nel loro sogno di gioia. Cioè no. Giorgio sviluppava felicemente, in quell’avventura prelibata, il suo vigore di maschio esuberante, in piena corsa verso la vera giovinezza. Giorgio godeva da maschio e non altro e non cercava affatto di approfondire in felicità quella sua gioia superficiale. Ma Cesarina, al contrario, si sentiva umiliata e vinta di essere niente altro che una bestia da letto e da godimento. E la su anima tormentata si staccava compiutamente dal suo corpo, anche nei momenti più folli della gioia sensuale. E una sera che lo aspettava, nel suo letto adultero, pianse come mai aveva pianto. Anche Giorgio non era lui. FINE Virgilio Scattolini LA SIGNORA CHE NON FU SIGNORINA Grande Scrittore italiano dimenticato, da riscoprire, amare e apprezzare. Moderno, piccante, imprevedibile. Capolavoro di un erotismo poetico. A cura di Sergio Bissoli

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