sabato 12 dicembre 2020

 

SERGIO BISSOLI

 

RACCONTI  MISTERY

 

 

Presentazione dell’Autore

A me interessa una cosa sola: imbalsamare la vita. Ho scelto la letteratura, il racconto, per questo scopo (a volte anche le foto o i video).

Non scrivo cose inventate; non sono capace di farlo. Non sono uno scrittore di fantascienza, terrore o altro. Ho solamente descritto la realtà nei suoi aspetti tenui, profondi, misteriosi, suggestivi…

 Ecco il  frutto di una appassionata ricerca durata 40 anni. Sono racconti   ispirati a casi autentici, raccontatati dai testimoni, visti in prima persona o ricavati dagli ambienti. Oltre 60 racconti brevi su temi di spiritismo, stregoneria, paganesimo, animismo, insolito e mistero.

Qui racconto la campagna con i suoi tramonti strazianti, la nebbia che sale dai fossi, le case abbandonate, le notti con la  luna di cristallo. Qui c’erano   le vecchie che bollivano i pentolini dicendo parole strane; che facevano segni concentrici con l’anello; che annodavano una cordicella con nove nodi doppi. Qui c’erano le ragazze che si spogliavano nude davanti alla luna per propiziarsi il fidanzato. Oppure danzavano attorno a un salice nelle notti di plenilunio, mentre una vecchia seduta sulla riva del  fosso recitava cantilene. Intorno si sentivano le rane, i grilli; nell'aria si vedevano le lucciole e, talvolta, le lumiere...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutta la vita è mistero

e soltanto mistero.

 

Frank Graegorius

 

 

 

 

INDICE

 

La casa stregata

Vicolo cieco                                                                                   

La coda del diavolo

Ondine e salamandre                                                                       

Sera d’autunno

La strega                                                                                         

L’uomo negativo  

Gioco infinito       

Danza macabra

Giochi del vento

Ombre                                                                                            

L’albero stregato

Destini sospesi     

Gli insetti                                                                                        

Angeli

Sagra paesana                                                                                 

Filtri notturni                                                                                   

Galleria degli specchi     

Notte di tempesta 

Il bosco incantato                                                                            

Il dio in scatola                                                                                

Bella di notte        

Il morto candito

Le erbe vampire   

Il dosso delle streghe                                                                       

Il frutto miracoloso                                                                          

Un mistero di campagna                                                                  

L’uomo che era stato un papavero    

La bara a fiori      

Casa di Emma                                                                                 

Il fabbro fantasma

Il vecchio salice   

Lucia la strega                                                                                 

La casa degli spiriti        

Incontri notturni

La casa della strega                                                                         

Zucche       

Via delle streghe   

La casa con l’edera                                                                         

Vecchie cantine                                                            

Portasfortuna                                                                                  

Comignoli            

Il signore del tempo       

Lammas                                                                                          

Il visionario

L’albero della vita                                                                            

Il guardiano notturno                                                                       

L’entità azzurra                                                                               

La casa inquieta   

Cristalli maledetti                                                                             

Avatar                                                                                             

Veglia funebre                                                                                 

Tombe                

La cosa sotto il cortile                                                                     

Nelle pieghe del tempo                                                                     

Piccoli paradisi                                                                                

L’entità azzurra (Parte seconda)

Musica di mezzanotte                                                                      

Il roseto                                                                                          

La tomba viaggiante

Le tre vecchie                                                                                  

Zia Maria                                                                                        

Amori oscuri 

Tramonto di Novembre

La giostra dei morti

L’uomo nero

La Santa di Raldon

Seconda vista

Sera di Settembre

Lo sconosciuto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CASA STREGATA

 

Al numero 177 di via Scuderlando in Verona c’era, e forse c’è ancora, una casa stregata.

Dopo alcune lettere e telefonate fra il mio amico Roccaforte e la proprietaria, in un pomeriggio di una domenica di dicembre arriviamo puntuali all’appuntamento.

“Napoleone. Napoleoneee.”

Un gatto spelacchiato appare e la vecchia vestita di grigio lo chiama stando davanti alla porta.

“Eccola è quella” dice Roccaforte indicandola.

Una casetta bassa e scolorita non allineata con le altre.

“Sembra una casa normale” osservo.

“É stregata!” mormora.

“Finalmente, signor Roccaforte” dice la vecchia signora con voce lamentosa accompagnandoci in cucina, attraverso una saletta. Dovunque c’è sporcizia: piattini con resti di cibo per il gatto, ragnatele, calcinacci sul pavimento.

“I miei guai sono arrivati fin qui” prosegue indicandosi il naso “quando saliranno ancora per me sarà la fine...”.

Una corrente d’aria fredda e fetida si sente improvvisamente, accompagnata da un forte odore di etere e di muffa che però non è muffa.

“Ecco. Sentite? É questo odore... che mi ha rovinato la salute. Dapprima mi sono rivolta ai medici, ho qui i risultati delle analisi.” Ed estrae un fascio di cartelle che porge a Roccaforte.

“... Globuli rossi superiori al normale... un soffio al cuore ma non dà disturbi... operata di ulcera quindici anni fa... Non c’è niente che possa far pensare a stati patologici...”

“Anche i medici non hanno saputo fare una diagnosi; eppure soffro per molti disturbi: continuo a deperire, mi sento sempre bruciare internamente, non posso stare sdraiata sul divano né a letto; ultimamente sono dimagrita di venti chili. All’inizio, in casa avevo cominciato a sentire delle vibrazioni; come se fosse corrente elettrica. Sentivo l’elettricità toccando gli oggetti metallici, nelle pentole per esempio. Trovavo pezzi di spago, strisce di stoffa intrecciate e piene di nodi. Ce n’erano dappertutto... Anche fazzoletti con degli spilli appuntati. Gli oggetti si spostavano, o comunque non erano dove li avevo lasciati. Gli occhiali del mio povero zio suicidatosi quindici anni prima cambiavano continuamente posto. Allora sono arrivati i ladri che hanno portato via tutto, e quello lasciato lo hanno rovinato. Ma le serrature erano intatte. Ho avvisato la questura, ma non hanno saputo che fare.”

Roccaforte ha cominciato a prendere appunti su un taccuino: “Continui.”

“Sono tornati i ladri, per sette volte...” Si mette a piangere.

Quando riprende a parlare, comincio a rendermi conto di trovarmi di fronte a un caso di natura ignota e solo la presenza rassicurante del mio amico Roccaforte mi dà il coraggio di restare.

“I fiori qui dentro avvizziscono, i cibi si guastano, l’acqua diventa rossa, la cera nera...”

Roccaforte si sposta verso l’acquaio e riempie un bicchiere di acqua. Questa dapprima scende limpida ma a poco a poco il bicchiere si riempie di particelle rossastre.

“Può essere ferruginosa?” intervengo io.

“Può essere” conferma Roccaforte.

Allora la vecchia si alza e ci porta alla ghiacciaia. Del cibo ammuffito e del burro, anche questo ricoperto di una strana muffa rossa.

“Da quanto tempo questa roba è qui?”

“Da questa mattina! Non posso tenere niente in casa e sono costretta ad andare a mangiare fuori anche se tutta la gente mi evita.”

Tornati in cucina indica delle macchie sulla parete che prima non avevo notato. Il muro in certi punti sembra diventato scuro e poroso come per la troppa umidità. Un centopiedi grosso come non avevo mai visto cammina fino a scomparire sotto una crosta della parete.

“Guardate quelle macchie. E gli insetti schifosi. Ce ne sono milioni, sapete? Topi, lumache, scarafaggi, scorpioni infestano la casa. Ho fatto arrivare l’assistente sociale, l’ufficiale sanitario, ma nessuno ha saputo fare niente. Nemmeno un prete che ha benedetto la casa è servito. Allora mi sono rivolta a una chiromante e dopo a una maga.”

“Che cosa ha detto quest’ultima?”

“All’inizio non voleva ricevermi; poi è venuta qui, ha fatto degli esorcismi, è tornata a rifarli, ma è stato tutto inutile.”

Il giorno seguente la nostra mèta è ancora la casa stregata della vedova Nereide.

Credevo di poter esaminare i fatti con obiettività questa volta, invece, dopo pochi minuti l’atmosfera intossicata della casa e i modi isterici della donna hanno il sopravvento sui miei nervi.

“... La notte ho sognato di essere all’interno di buche profonde, e al mattino ho trovato pezzi di fegato nell’orina. In poco tempo i fiori sono diventati tutti secchi.”

Ci sono infatti vasi con gerani, cactus e altre piante che paiono come pietrificate.

“Li ho mostrati a una veggente. Volevo portarli dal prete ma me lo hanno impedito, non mi permettono di entrare in canonica, solo in sagrestia. Ho mostrato anche questo alla veggente, guardate...”

Sono grosse setole, denti di pettine, piume. Restano attaccate ai materassi come per magnetismo.

Io non me la sento di toccare, ma Roccaforte prova più volte a lasciare andare queste immondizie ed esse si comportano proprio come se fossero calamitate.

“Da tanto tempo compaiono dei corpi estranei nelle trapunte, nei materassi. Pezzi di sapone, candele, gomitoli, corone di piume. Ne ho trovati tanti, ma adesso devo evitare questi luoghi,” indica il divano e il letto, “perché mi sono diventati ostili. A volte sento quell’odore cattivo di olio rancido e mi sento bruciare bevendo l’acqua.”

Spesso si percepiscono scie di freddo passarci accanto, correnti d’aria gelide e improvvise. Ci guardiamo intorno, ma porte e finestre sono chiuse.

“Ultimamente ho fatto mettere chiavistelli nuovi e ho cambiato due volte le serrature” dice con voce sconsolata la donna, “ma non è servito.”

La stessa sera siamo chiamati di nuovo a casa della vedova Nereide che chiede con urgenza il nostro aiuto.

Arrivati subito dopo, la troviamo quasi fuori di sé per lo spavento, mentre seguita a ripetere:

“Là, nel ripostiglio, sono entrata e ho visto... ho visto...”

Scopriamo una bambola senza braccia, di stoffa celeste, trafitta di chiodi, con penne che fuoriescono dal sesso e dagli occhi, dentro un piatto contenente acqua putrida, pepe, capelli e altri ingredienti.

Alcuni giorni più tardi la vedova Nereide muore, e né la sorella né i medici sanno spiegare la causa del decesso.

AGOSTO 1982

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VICOLO CIECO

 

Il vento soffia giù nel vicolo stretto e mal lastricato, portandomi in faccia la fuliggine e il fumo dei comignoli.

Cammino in fretta sfiorando i muri di case scurite alte e storte. L’ultima luce del crepuscolo di febbraio spande un chiarore gialliccio.

Cammino sul marciapiede sfondato in più punti e pieno di pozzanghere. Gatti rognosi strisciano negli angoli delle vecchie case da dove proviene odore di urina. N° 515 un barbiere, Rossene. L’insegna sbatte al vento tagliente di tramontana. Più sopra abita la vecchia Boa, quella che lava i morti. Ancora più in su un vestito viola sta appeso alla finestra.

La notte scende nel vicolo, fredda e ventosa, una notte degli ultimi giorni di carnevale.

Dopo l’angolo di un barbacane la finestrella quadrata sfavillante di luce getta una pioggia d’oro sulle pietre di basalto del selciato. Ombre di persone che danzano si vedono all’interno. La festa dell’ultimo di carnevale dell’amico Livio è già cominciata, e adesso sono arrivato.

Spingo la porta che è solo accostata e subito sono preso dall’atmosfera della festa. Luce, caldo, vertigine... L’aria è satura di profumi, stelle filanti cadono dal soffitto.

Mi tolgo il cappotto e vado verso l’amico Livio che ho intravisto insieme ad altri con un bicchiere in mano. Ma prima di arrivare un brutto pirata intabarrato mi sbarra il passo. Una manciata di coriandoli mi fa chiudere gli occhi. Il pirata si allontana nella folla insieme a una bambina con i seni da donna.

Le luci calano di intensità. Ancora coriandoli e stelle filanti. Grida e risate.

Una ragazza con la mascherina azzurra mi viene vicino e mi guarda con insistenza. É snella con i lunghi capelli biondi.

“Chi sei?” chiedo.

“Ah ah...” Mi viene ancora più vicino e mi mette una mano sulla spalla. Sento il suo profumo dolce che fa stordire.

“Non mi riconosci... ah ah...”

La voce anche se contraffatta mi è familiare... Uno spintone e subito sono preso tra il flusso di folla di nuovi arrivati, cosicché non vedo più la mascherina.

Ritrovo la ragazza a metà della serata, quando la luce è ancora più bassa e le stelle filanti formano una ragnatela sopra di noi. Il suo vestito è un velo lungo e ne tiene una parte davanti alla bocca:

“Ah ah... Pietro...”

“Sei Chiara?”

Fa segno di no con la testa.

“Sei Stella?... Ma chi sei...?”

“Sarà tua moglie, Pietro...” risponde un amico di passaggio.

“Non ti ricordi più di me, Pietro?” lei sussurra con voce argentina.

“Sì, io ti conosco, ma adesso...”

I vetri delle finestre sono tutti appannati e vi appaiono strane figure di fiato come in un paese di sogno.

A mezzanotte, quando ormai credevo di non rivederla più mi ritrovo vicino alla ragazza, sempre più attraente, sempre più misteriosa...

Sento di essere vicino a svelare il segreto, infatti lei si appoggia al mio corpo mormorando qualcosa e sta per togliersi la mascherina...

La luce si spegne. Colpi di bottiglia, tonfi, rumori, gran baccano. Musica discordante e indiavolata.

La luce si accende e si spegne più volte. Dov’è, dov’è... mio Dio! Mi appoggio a un divano per versarmi da bere.

L’alba versa la sua luce malata dalla finestra facendo impallidire i lumi.

Qualcuno ha vomitato giù nel vicolo. Rumori di bidoni che vengono spostati e cozzano fra di loro. Una forchetta alla quale manca un dente sta sul marciapiede e la sposto con un calcio.

Dalla fogna sgorga un liquido scuro davanti alla bottega del ciabattino. Freddo pungente e rumore di passi che si allontanano.

Nauseato percorro in fretta il vicolo. Quando alzo gli occhi vedo una bambina che disegna un cuore sul vetro appannato di una finestra.

Alcuni giorni dopo sono costretto a dover passare ancora di lì. Una tosse catarrale accentua il silenzio della mattina bianca e lucente.

Il gelo della notte ha fatto scoppiare le tubature in casa di Livio e gli operai stanno lavorando per sostituirle. Sollevano il pavimento e sotto ci sono ossa e scheletri umani.

“Credevo di essere solo e invece ero in compagnia” commenta Livio.

 

 

DICEMBRE 1982

 

Visibile su youtube sul canale: sergio bissoli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CODA DEL DIAVOLO

 

“La gallina del diavolo! La gallina del diavolo...” grida la donna entrando di corsa dalla cucina.

L’oste suo marito da dietro il bancone indaffarato a riempire i gotti di vino, cerca di minimizzare la faccenda:

“Macché diavolo, ma stai a vedere che dovremo far venire il prete adesso, solamente per una gallina...”

Ma la moglie, una grassona tutta agitata e sudata, non dà segno di volersi calmare:

“É indemoniata ti dico, Amedeo, non è una gallina come tutte le altre; ha fatto scappare il nostro cane, non è neppure una gallina quella...”

Il marito anche lui grasso e in più calvo seguita a brontolare sottovoce per calmarla:

“Ma che razza di discorsi vai a tirar fuori, sono assurdità, sciocchezze... Tu e i tuoi ragionamenti strampalati...”

L’osteria è piena di uomini tutti mezzi ubriachi che giocano a carte e discutono tra di loro, e nessuno, credo, fa attenzione a questo dialogo.

Io sono da poco entrato in questo locale basso e incatramato dal fumo delle lucerne e delle pipe. Mi faccio largo fra un gruppo di vecchi avventori avvicinandomi al grosso banco con il ripiano in granito.

La donna sta cuocendo i cotechini. Il camino ha poco tiraggio poiché c’è un gran vapore che si spande dall’acqua in ebollizione. Portacandele, sale e un macinino del caffè stanno sulla mensola.

“Che cosa ha di tanto strano, eh, questa gallina?” incomincio con tono rassicurante.

La donna si volta di scatto. É ancora sotto l’effetto di uno spavento subìto, lo si nota bene.

“Misericordia signore, c’è la gallina del diavolo nel nostro pollaio!”

“Ma cos’ha di tanto diverso dalle altre?” insisto a chiedere.

“Ha gli occhi rossi, come il fuoco. É cattiva. Non è né maschio né femmina, e aggredisce il nostro cane che ha paura.”

“Oh questa poi! Non mi sembra possibile” dico per stimolarla a parlare.

“Le assicuro che è così signore, è proprio così. C’è il demonio le dico...”

E alla mia espressione di curiosità mista a incertezza prosegue: “Anzi, venga a vedere, venga a vedere anche lei giù nel pollaio!”

Passiamo in un retrocucina semibuio, umido e stipato di scatoloni e bottiglie.

Da un sottoscala si scende in una vecchia lavanderia. Dalla finestrella non entra quasi più luce ormai e il freddo si fa sentire pungente in quello stanzone pieno di spifferi alle fessure. Quasi mi spiace di aver abbandonato il tepore fumoso della taverna per scendere fino qui. Cammino fra le vasche sulle pietre consumate e insudiciate dalle sciacquature.

La donna tira i catenacci e spalanca una porticina là in fondo.

Un cortile grigio appare rischiarato dalla luce color cenere di un pomeriggio di gennaio. Freddo intenso e tagliente intorno a noi.

“Guardi là, è quella” indica la donna.

Nel cortiletto incassato fra la vegetazione brulla e i vecchi edifici, razzolano alcune galline spennacchiate che a prima vista sembrano tutte uguali. Mi volto per guardare il braccio teso della donna e allora di colpo, la vedo.

É diversa dalle altre, sì, senza alcun dubbio.

Le altre galline sono tutte radunate a pochi passi da noi ma quella invece sta da sola, all’estremità del cortile. Al contrario delle altre galline, questa ci ignora completamente così mi azzardo a spingermi un po’ più in là per osservarla meglio.

Ha la forma diversa, più tozza per le penne che formano la coda forcuta e rivolta verso il basso. Sulla testa ha una cresta piumata appena accennata. É brutta. Con gli occhi rossi. Séguita a camminare a destra e a sinistra laggiù, con superiorità, come se noi non esistessimo.

Mi giro con comprensione verso la donna accennandole di aver visto abbastanza.

Allora rientriamo con un sollievo e lei rinchiude in fretta la porticina che ci protegge e lascia fuori quella cosa diabolica.

 

 

 

 

DICEMBRE 1982

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ONDINE E SALAMANDRE

 

Di sera come al solito percorro le vie della città vecchia. Un vento autunnale spazza a raffiche le strade semideserte portando polvere e foglie ingiallite.

Facciate di case silenziose, porte sbarrate, muri pieni di sporgenze che sfioro nel tentativo di evitare le pozzanghere.

Mi infilo nei portici umidi e bui di via degli antiquari, malrischiarati da una lanterna appesa alle travi tarlate del soffitto. A volte arriva fin qui il rumore possente del fiume in piena.

Oltrepasso una antica scultura pagana che sporge da un edificio. Rari e frettolosi passanti si tengono ben alto il bavero, una donna col corpo morbido lascia un profumo di violette dietro di sé.

Oltre il deposito dei vetri rotti cammino in uno stretto viottolo deserto affiancato da alti muri oltre i quali stormiscono alberi frondosi. Mulinelli di foglie turbinano negli angoli portate dal freddo vento autunnale.

La sera allunga le ombre di una piazza acciottolata tra due file di lampioni ancora spenti. La chiesa gotica erge i suoi contrafforti di mattoni e ringhiere dentate di ferro accanto a me.

Salgo alcuni gradini rabbrividendo. Sciacqui d’acqua segnalano la presenza delle latrine.

Profumo di baccalà arriva a volte nell’aria. Alzo gli occhi prima di attraversare la piazza e allora rivedo il vecchietto.

C’è una vetrina alta con specialità gastronomiche. Vasi pieni di lumache, prosciutto cotto nel pane, funghi col sugo e il giallo scintillìo delle bottiglie di liquori. Il vecchietto fa contrasto mentre accudisce il camino gigantesco dove arde una catasta di legna dietro una griglia verticale.

É estremamente vecchio e decrepito, ridicolo quasi con il suo camiciotto bianco. Saltella letteralmente da un punto all’altro fra i cibi e il camino. Gira gli spiedi, aggiunge olio, attizza la legna, regola il tiraggio... É eccessivamente svelto per la sua età, e molto, troppo sorridente. Al calar delle umide sere autunnali egli appare accanto al camino come un folletto indaffarato.

Vi è anche un piccolo bar in quella vecchia piazza del mercato. Come al solito prendo una birra seduto al mio tavolo divertendomi a pensare mentre guardo fuori.

Le bancarelle avvolte nelle tele di sacco sono scosse dalla furia del vento. Tutto è fradicio e marcito per la pioggia caduta durante tutta la settimana. I cespugli nei grossi vasi rovesciati dal vento, la fontana con i delfini allagata.

E quel vecchio continua a far fuoco. Ora vedo la grata arrossata di braci incandescenti tra uno sfavillìo dorato di bianco calore. Vampe azzurre salgono guizzanti, ma a lui pare non bastino, e continua ad aggiungere legna, continua a far fuoco...

Dal mio posto gli lancio ogni tanto un’occhiata e il forno, che emana una luce intensa ormai, deve irradiare un caldo terribile tutto intorno, ma non per il vecchietto evidentemente.

Circa a mezzanotte le nubi nere come la pece sono spazzate dal vento e la luna bianca e fredda inargenta con luce spettrale tutta la piazza.

Si odono dei passi sulle pietre. Uomini in frac e bastone passano a braccetto di donne bellissime e svaniscono nella nebbiolina d’ottobre. Fantasmi. Silenzio profondo rotto dallo sgocciolìo dell’acqua che cade da una grondaia.

La piazza è tutta un luccichìo di opalescenze e di veli, di cristalli e trine d’argento. Il negozio ha chiuso le griglie. Adesso il vecchietto è scomparso, come uno spirito elementare, su per la cappa del camino.

 

 

 

GENNAIO 1983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SERA D’AUTUNNO

 

Un pomeriggio di ottobre avvolto in un tepore nebbioso. Nella luce gialla ci sono solo distese di stoppie sui campi. L’autunno strappa brandelli di anima intorno a me.

Nel cielo chiaro si perde il vapore che esce dai tetti degli essiccatoi. E su questo cielo bianco vado scrivendo i miei pensieri.

Le bacche rosse della dulcamara formano delicate filigrane lungo il fossato. Una ragazza sta appoggiata al parapetto del ponte e guarda l’acqua.

La stradina scende fra alte file di cardi spinosi. Erbe stravaganti crescono dappertutto e un odore acido proviene dai mucchi di rape marcite. La foschia addolcisce i profili, allungando le distanze.

Quando arrivo al villaggio mi appare accucciato, surreale, semisommerso da fasci di rampicanti. Il silenzio è assoluto, pauroso fra quelle vecchie pietre. La vegetazione rigogliosa in certi casi arriva fino al primo piano.

In questi posti si diceva che una volta si davano convegno gli spiritisti.

Oltrepasso due paracarri di granito e cammino su un’aia piena di erbacce. Tini sfasciati e marciti stanno lungo un vecchio edificio di mattoni pieno di inferriate. Rivedo la vecchia scuola celeste, alta e sbilenca. La casa con le finestre verdi dove abita una ragazzina con le trecce e le calze rosse.

Calpestando coperchi di latta arrugginiti mi avvicino all’abitazione del signor Nadir e chiamo ad alta voce:

“Ehi, signor Nadir, signor Nadir!”

Mi risponde solo l’eco delle vecchie case. C’è il rumore di un’imposta che sbatte fra i grossi nidi di vespe sotto il tetto.

Il sole rossastro e come sfocato sta per scomparire dietro agli edifici. Cammino fra i rovi che intralciano l’andatura.

Un rumore improvviso fra l’erba mi fa sussultare, e un gatto grigio fugge sui tetti di alcune baracche.

“Ehi, ma non c’è nessuno qui? Signor Nadir! Siete andati via tutti?”

Lontani nella brezza arrivano i rintocchi di una campana. Proseguo oltre un roseto guardando il pozzo coperto, le finestre murate, le stalle crollate e in rovina. Tutto appare in sfacelo, abbandonato da lunghissimo tempo.

La sera che scende accresce il senso della sconfitta e della disperazione e mi avvio al ritorno.

Fra i vecchi meli contorti incontro una donna dai colori dell’autunno.

 

I983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LA STREGA

 

La vecchia Berta morì in un nebbioso pomeriggio di fine dicembre. Era piccola e zoppa e la gente diceva che per tutta la vita aveva fatto le stregonerie.

La sua casa quel giorno è grigia e fredda. I pochi parenti venuti per il funerale sono in attesa, in piedi nella piccola cucina.

Io sono stato uno dei pochi a vegliare la salma e ad assistere agli spaventosi fenomeni che si sono verificati.

Alle quattro e trenta della sera una nebbia densa fuma per la via impedendo di vedere a pochi metri.

Chiudiamo le imposte e mettiamo il catenaccio alla porta della cucina che comunica con il portico di lato, pieno di buio e nebbia. Il freddo è fastidioso nonostante l’umidità fuori che rende opachi i vetri.

Il cugino Girolamo lavora per accendere una stufetta di ferro mentre lo zio si frega le mani per riscaldarsele. La parentela fra noi è molto lontana e ci conosciamo poco. Le foto ovali appese alle pareti sono di personaggi con baffoni e donne d’altra epoca morti tanto tempo prima cosicché nessuno li ricorda.

Finalmente arriva un po’ di calore.

Zia Marianna, la sorella di un cognato della morta deve andare via e si fa accompagnare dallo zio, così restiamo io e il cugino. Egli, un uomo di quarant’anni con baffetti e cravatta sta seduto rigido sul divano.

Un poco più tardi sentiamo dei rumori di ferraglia di sopra e decidiamo di andare a vedere. La scala di legno è stretta e ripida. La casa è formata di tre stanze: una sotto e due al piano superiore dove è stata composta la salma.

La lampadina posta sopra la testa della morta si accende e si spegne a intervalli irregolari. Giro più volte l’interruttore ma questo non serve.

Il cugino Girolamo scende in cucina perché quassù il freddo è intensissimo ed io lo seguo. Il suo volto è nervoso e molto pallido.

Nuovi rumori, questa volta come di porte che vengono aperte o armadi che vengono strascicati mi costringono a risalire.

Il velo con cui è ricoperta la salma è pieno di macchie marrone. Odore acido ristagna nell’aria. Il viso della morta ha scoperto i denti.

In cucina bevo dalla fiaschetta che Girolamo ha portato con sé. Nessuno di noi intende servirsi dei bicchieri o di altre stoviglie.

Due ore più tardi il mio compagno si è appisolato. Io ascolto sempre più preoccupato i sibili, i gemiti, accompagnati dal calpestìo dei topi.

Una bottiglia si rompe improvvisamente da sola rovesciando il latte sul pavimento. Proviamo a pulire con uno straccio trovato nel secchiaio. Anche lo specchio in cucina che prima era sano ora appare segnato da una spaccatura.

Gorgoglìo di acqua che bolle al primo piano. Il freddo va aumentando e compaiono delle strisce di fumo brune, visibili controluce.

Il gorgoglìo si fa più intenso e il pavimento di mattoni si va coprendo di viscidume specie negli angoli. Io e Girolamo non sappiamo che fare.

Uno schianto secco proveniente dalla credenza di legno davanti a noi. Fetore di uova marce.

Un secondo rombo spaventoso, di sopra questa volta, ci fa sussultare. É come se la cassa si fosse rovesciata. Ci guardiamo allibiti.

Nel silenzio adesso si odono passi duri e meccanici sopra la nostra testa. I passi vanno verso la scala, e incominciano a scendere.

Una schiuma rossa viene giù ribollendo dai gradini.

Di corsa alla porta per uscire fuori con il buio e l’inferno nella stanza dietro di noi. Alle due di notte abbandoniamo la casa.

Durante il funerale in chiesa dalla cassa cola un liquido scuro che scende sul catafalco.

Circa un mese dopo in un giorno di sole sul vialetto del cimitero sono infastidito da un ronzio di mosche e altri insetti.

Un liquame puzzolente cola dal loculo dove è sepolta la zia. La cassa deve essere scoppiata lì dentro, e sciami di mosconi volano nell’aria e stanno attaccati al muro.

 

 

1983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’UOMO NEGATIVO

 

“Oh, barone Pedroschi, buongiorno!”

Così il mio amico aveva salutato l’uomo che stava per entrare nel piccolo negozio di pipe.

Era di luglio, faceva un caldo insopportabile e le tende alla finestra erano tutte abbassate. Le mosche ronzavano senza sosta nella penombra.

La porta a vetri era alle mie spalle così non lo vidi subito. Mi voltai e Cristo, non avevo mai visto niente di simile.

Per non lasciar trasparire la mia sorpresa toccavo le pipe che avevo da provare. Ma quell’uomo, aveva anche il nome appropriato.

Era piccolo, grasso, zoppo e calvo.

Quando si avvicinò al banco notai che portava l’apparecchio acustico dei sordi, oltre che due spesse lenti negli occhiali.

Mai visto un individuo simile, per diavolo. Mentre parlava con il mio amico tabaccaio, che a quanto pare lo conosceva bene, sentii che era anche balbuziente.

Salutai tutti e uscii alla svelta per non ridergli in faccia.

La prossima volta che andai a trovare il mio amico, gli chiesi chi fosse quel tizio.

“Ma come, non conosci il signor barone Pedroschi?” fece lui.

Non lo avevo mai visto prima e quando lo rividi, era morto.

Era seduto grasso e deforme su una sedia sotto un portico. Il caldo era asfissiante e aveva mosche sulla bocca e dentro il naso. Lo avevano sistemato là provvisoriamente perché era deceduto mentre giocava a carte all’osteria.

Quando arrivarono i familiari gli sfilarono l’orologio e l’anello. Quelli delle pompe funebri portarono una cassa provvisoria e ce lo misero dentro. Ma era pesantissimo e nel sistemarlo i vestiti si attorcigliarono su per la schiena.

Da un barbiere furono presi dei giornali sportivi per metterglieli sotto la testa come cuscino, perché assumesse una posizione più decorosa.

In cimitero poi, ero presente quando ce lo portarono. La cassa nuova di zecca color marrone chiaro luccicava sotto il sole. Sennonché l’impresa di sistemarlo nel loculo non fu affare da poco.

I becchini incolpavano il falegname, questo scaricava la responsabilità ai muratori. La cassa per pochi centimetri non entrava nel loculo.

Si provò di traverso, in diagonale. La tomba di famiglia era stretta, l’apertura mal sistemata.

Un operaio andò a prendere la sega.

Segarono, sotto gli occhi preoccupati dei parenti, i quattro angoli della cassa badando a non intaccare la salma.

Fu spinto dentro a forza di sbuffate e si tirò su il muretto con la malta indurita. I pezzi della bara però, furono lasciati a lui e messi all’interno del loculo.

 

1983

Questo racconto, recitato da Sergio Colognese, è scaricabile dal sito RekStory.

 

 

 

 

 

 

 

 

GIOCO INFINITO

 

Una notte di agosto mi trovo di passaggio in un paese di campagna.

Nella via principale stanno alcune persone sedute davanti alle vecchie case. La notte è umida e fosca.

Raggiungo a piedi la mole nera e mastodontica della chiesa in periferia e sto per tornare quando odo le note dolci di un organetto. Proseguo fino alle chiuse di un fiume e intravedo in mezzo a un campo una giostra luccicante che gira, con della gente intorno.

Attraverso una piazzetta circolare immersa nell’ombra della chiesa. Nel cielo le costellazioni dell’estate si sono spostate più a ovest.

Da sotto un arco si passa in un lungo androne che sbocca vicino al campanile. A sinistra si stende il cimitero con grosse lapidi fuori uso appoggiate lungo il muro in attesa di essere rimosse. In mezzo a un grande spiazzo la giostra piena di lustrini gira al suono di una musica un po’ triste.

Sull’erba sotto le lampadine colorate si scatena a ballare una biondina. Ha il vestito rosso e corto e lo sguardo acceso. Ogni tanto invita i presenti ad avvicinarsi per fare uno strano gioco. Fuori dall’alone di luce della giostra la notte è scura come un forno.

Un ragazzo del gruppo si avvicina emozionato mentre lei ride bella e provocante.

Il gioco è questo: il ragazzo deve ripetere i gesti che lei compie per prima.

Si mettono l’uno di fronte all’altra.

La ragazza alza lentamente il braccio e il suo bel volto assume un’espressione seria e concentrata. Gli posa una mano sopra la testa e anche il ragazzo mette la sua mano sulla testa di lei.

Adesso la ragazza abbandona lentamente la mano fino a posargliela sulla spalla.

Il ragazzo a questo punto ha uno scatto nervoso e si tira indietro. Il campanile alle nostre spalle batte undici sonori rintocchi.

La giostra gira, gira, semivuota e la musica si perde nella notte.

La ragazza chiama un altro. Questo dapprima indeciso finalmente acconsente.

I gesti si ripetono ma con più tensione e senso si attesa nelle facce dei presenti. Tutti seguono in silenzio il gioco. É come se dovesse accadere un prodigio da un momento all’altro.

La mano sulla testa. Poi sulla spalla destra... Sulla sinistra…

Ma anche costui a questo punto si ritrae prima che il gioco sia finito.

“Chi viene, chi viene al suo posto?” grida la ragazza. Si muove tutta ed è nuda sotto il vestito rosso stretto attorno al suo corpo. É eccitante e pericolosa.

Un nuovo giocatore spinto dagli amici si avvicina. Si dimostra guardingo anche se non riesce a trattenere la sua curiosità.

Lei, come prima ha smesso di ridere e messasi di fronte a lui lo guarda negli occhi. Si scioglie in un movimento lento fino a posargli la mano sul capo, ed è come se compisse un rito...

Il ragazzo ripete il gesto. Ora si sposta sulla spalla destra... L’espressione di lei è di furberia e lascivia. Piano sulla spalla sinistra... Sul fianco...

Un urlo di terrore esplode fra di noi. La musica muore con una nota sfiatata... Le luci ondeggiano.

Nuove grida e rumori di passi che si allontanano di corsa. Sono scaraventato a terra e rimango nell’oscurità per non so quanto tempo.

Quando mi rimetto in piedi cammino alla cieca perché il buio è assoluto intorno a me. Ora c’è un grande silenzio e si ode solo il coro lontano dei grilli. Provo a spostarmi in tante direzioni ma non riesco a raggiungere il muro ed è impossibile uscire.

Nei fumi dell’alba la campagna si stende irreale davanti a me. Il terreno è fradicio di umidità e i miei vestiti sono tutti infangati.

Non c’è più nessuno, nemmeno la giostra. Sull’erba calpestata ci sono solo alcune tracce nere di bruciato.

 

1983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                             DANZA MACABRA

 

Sulla provinciale per Angiari c’è, nascosta dai cespugli di sanguinella, una stradina bianca in discesa.

Quando la vidi per la prima volta mi sembrava di conoscerla già, di averla percorsa in una vita precedente.

Nella sera di fine estate il sole tramonta in un lago di sangue. Nelle fattorie buttano in aria il mais con le pale per liberarlo dalla pula. Le stoppie si levano nei campi dentro vortici di vento.

Poi all’improvviso il vento si quieta. Il sole manda i suoi raggi in uno scintillio di luci. Pesanti tendaggi rosso cupo e nubi a forma di capelli si stendono nel cielo.

Un gregge di pecore e capre avanza fra il rumore dei campanacci. Davanti c’è un pastore vecchissimo, alto e barbuto, che cammina appoggiandosi ad un bastone.

“Buonasera. Dove porta questa strada?” chiedo.

Senza parlare indica col bastone una targa arrugginita: “Località Vignalon”.

La polvere sta sollevata nella stradina serpeggiante fra i fossati. Qui la campagna si fa più immensa, mi sovrasta nella sera stregata. Discendo per la stradina, e subito mi pento di averlo fatto, ma solo per poco.

Ancora la campagna nella sera infinita. Arrivo a un bivio e giro a caso verso destra.

La strada diventa stretta, tortuosa. Tutto si va incupendo adesso. Dopo una salita arrivo su un ponticello.

É tutto così strano stasera. Il fiume compie anse e giravolte, prima di perdersi nel folto.

Laggiù dopo una lunga curva c’è una donna con i capelli bagnati in piedi sulla riva, e guarda l’acqua.

É solo un’illusione, mi accorgo poco dopo. Si tratta di un salice contorto e una lapide piantata proprio sulla riva. Mi fermo a guardare; sulla lapide coperta di licheni si legge appena un’iscrizione: Sonia Grede  n.1844 - m.1863.

Guardo dietro di me il ponte di mattoni, il bosco di pioppi. Proseguo ancora…

La strada si restringe e diventa un sentiero.

Le prime case che vedo sono fattorie grosse e senza segno di vita. Aie desolate.

Rumori e cigolii mi fanno voltare di scatto. Un secchio rotola da solo su un’aia vecchia di mattoni.

Poi incominciano i salici. O meglio si fanno più fitti con tronchi decrepiti e squarciati che restringono ancor più il sentiero.

Incontro uno zingaro con un violino e lo oltrepasso senza guardarlo.

C’è una congrega di streghe con i larghi cappelli a cono, radunate in aperta campagna. Cantano, fanno incantesimi, o alzano la gonna per orinare contro i salici.

Le streghe intonano una cantilena, ripetitiva e monotona che finisce in un coro dove mi sfuggono sempre le ultime parole:  “Per chi versa la brodaglia -- -- Ah Ah Ah. Per chi beve la brodaglia -- -- Ah Ah Ah.”

Una ragazza vestita di bianco cammina da sola per il sentiero. É bella ed esile.

Anche se è la prima volta che la vedo, mi sembra di conoscerla già, di conoscerla da sempre e di essere atteso al varco da uno strano destino.

In questo momento le streghe ridono tutte in coro e poi riprendono a cantare.

La ragazza ha gli occhi verde chiaro che emanano una luce intensa. Le labbra sono grosse, sensuali e molto rosse.

“Qual è il tuo nome?” le chiedo andandole vicino.

La ragazza ha un sussulto e un sussurro profumato che non mi riesce di comprendere.

Ora c’è una nebbia di luce, una cristallinità dorata e verde che rischiara le cose con un chiarore di cipria.

Le streghe hanno smesso di cantare. C’è solo un grande silenzio intorno a noi adesso.

Mi ricordo di dover dire alla ragazza una cosa importante, molto importante, ma cosa?

“Negli occhi celesti c’è il cielo...” mormoro trasognato, “ma in quelli verdi c’è il mare...”

Lei mi prende per mano e mi attira verso una casa.

Ci sono ortiche giganti in un cortilaccio. Da una finestra della casa lassù escono pipistrelli e ci sono ragnatele lunghe e oblique davanti alla porta.

Le streghe hanno ripreso la loro cantilena.

Il primo bacio è una discesa nel vuoto, una sensazione di assenza... Mai come nell’amore, penso, l’uomo è così vicino alla morte.

Le streghe cantano al suono di un violino stonato, forse intessendo un destino; l’oscurità, il calore di lei e poi la notte.

 

1983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIOCHI DEL VENTO

 

Una giornata ai primi di aprile a passeggio con un amico d’infanzia.

Il vento gioca nell’erba e fra i capelli. L’aria è dolce e si beve come un vino.

Nei boschetti con la loro accoglienza umida e frusciante si perdono i nostri passi. Per il sentiero incontriamo il vecchio Ettore ottantenne che sta avanzando in bicicletta.

“Oh, caro Ettore, sono felice di rivedervi...”

“Non ho tempo, non ho tempo” prosegue il vecchietto con gesti della mano. “Le viti, devo finire di potare...”

Il vento stormisce e ci porta frescura, profumi di foglie nuove, di stagni dove l’acqua si increspa in ondine.

Di passaggio diamo un’occhiata alla fornace abbandonata. É tutto deserto: nei camminamenti, dentro le gallerie di cottura e nei fumaioli, il vento ha un sibilo modulato e incessante mentre solleva una polvere scura.

La casetta con i glicini è chiusa. I muri sono abbaglianti e poi cupi al passare delle grosse nubi davanti al sole. Nubi isolate e immense che corrono nel cielo.

Il mio amico dice qualcosa guardandole, ma le sue parole fuggono nel vento.

Passando dalla casa del fabbro entriamo dal portone, con un cenno d’intesa. Il cortile è ingombro di ferraglia, da dove fuoriescono rivoletti rossi di ruggine. Echi di rumori lontani.

“Ehi, Settimo, una parola sola e poi ce ne andiamo.”

Si odono colpi di martello al primo piano di una baracca e sbraitare di voci. Finalmente la finestra si spalanca e va a sbattere contro il muro. Escono riverberi e la testa del fabbro sopra il grembiule di cuoio:

“Non ora! No, adesso non ho tempo! Un altro giorno, passate un altro giorno...”

Proseguiamo per il sentiero dei campi dove le margherite occhieggiano bianche tra i fiori gialli dei soffioni. Lungo il fiume dove l’acqua ha brividi vanno a cadere come neve i petali del vicino frutteto.

I meli sono innevati di fiori e la lana bianca dei soffioni si stende sotto di loro. Petali bianchi galleggiano sull’acqua del fiume, rotolano fra l’erba trasportati dalle folate del vento.

Inoltrandoci ancor di più nei campi arriviamo alla casa del pastore dove formiche grosse e nere corrono su per i muri.

Il sentiero ha una curva che toglie la visuale e poi la prossima casa appare.

Il vento non si sente più. Lo sentiamo ululare adesso dietro la casa che fa da riparo.

É abbandonata, probabilmente, una delle tante che si incontrano nella campagna. Da chi era abitata? Non eravamo mai arrivati fin qui prima d’ora.

Nel cortile soleggiato il tempo sembra essersi fermato. Solo le nubi bianche si muovono nel cielo.

Restiamo in silenzio a guardare la pietra all’angolo, le finestre semichiuse, i vasi di fiori allineati lungo i muri.

“Forse ci abita qualcuno.”

Stiamo per andarcene quando un gatto color arancio ci corre incontro. É uscito da sotto una tavola marcita del portone e adesso ci segue.

Proviamo a prenderlo ma senza riuscirci. Il vento oltre l’angolo riprende a investirci disperdendo perfino i nostri pensieri.

Alla prossima svolta, poiché il gatto ci segue, decidiamo di tornare indietro per riportarlo al suo posto.

Davanti alla casa ci prende ancora la stessa sensazione di prima, ma con maggior forza. É accaduto qualcosa. Il tempo qui si è fermato.

Ci avviciniamo di più, ma le finestre semichiuse, i vetri sporchi non lasciano intravedere niente.

“Forse qui abita una vecchia...” dice il mio amico guardando su una targhetta sbiadita. Prova a toccare la porta sotto la vite, ed è solo accostata.

“É permesso? Possiamo entrare?”

Silenzio. Il gatto si accarezza e fa le fusa sulle nostre gambe.

É abbandonata, penso, entrando. E sono accolto da una sensazione di buio e umidità sgradevole.

Poi vedo un attaccapanni, una sedia. No, forse ci abita qualcuno e chiamo di nuovo. Restiamo in attesa ad ascoltare l’ululato e i mille scricchiolii del vento all’esterno della casa.

C’è una strana quiete qui dentro. C’è troppa quiete e nessun segno di vita.

Il gatto si è infilato in una porta e lo seguiamo.

Una cucina piccola, con una tavola di marmo e due finestre dalle quali entra la luce di fuori.

“Se ne sono andati lasciando qui quello che non serviva più. Saliamo di sopra.”

Una scala strettissima e poi un profumo di cose care che non so definire.

“Ma c’è qualcuno qui!” esclama l’amico davanti a me e si gira per tornare indietro, ma anch’io voglio vedere. Mi lascia passare e si ferma completando la frase: “O almeno c’è stato.”

Una stanzetta da letto. Tutto è intimo, profumato, raccolto. Dei vestiti da donna appesi a un gancio, vestiti frivoli e colorati.

Il profumo è intenso qui, impregna la stanza come una presenza. Dei capelli biondi su un lungo pettine nero posato su una mensola. Uno specchio ovale, un portaspilli sul cassettone.

E ninnoli, cagnolini di stoffa o di vetro, suppellettili come giocattoli distraggono l’attenzione intorno. Tende soffici come veli, un vestito bianco buttato sul letto disfatto.

“Andiamo via...”

Ma non ci sono altre porte. Il resto dei piani superiori della casa è occupato dal fienile.

“Andiamo via, può tornare da un momento all’altro.”

Chi? Sì, ce ne andiamo e non riusciremo a incontrarla.

É una giornata di aprile e forse lei si è persa nel vento.

 

 

SETTEMBRE 1983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OMBRE

 

“Ecco, lei può sistemarsi qui” dice il vecchio precedendomi su per la scala ripida.

Entro in uno stanzone lungo pieno di finestre. Alle sei di sera, con tutti gli alberghi strapieni per la annuale fiera del paese, posso ritenermi fortunato di aver trovato da passare la notte in questa fattoria.

“Chi ci dormiva qui?” chiedo.

“Nessuno, una volta era la stanza usata per essiccare la frutta. In quell’angolo c’è una brandina ripiegata con delle coperte.”

Ringrazio e gli metto in mano alcune banconote.

Quando sono solo mi affaccio a una finestra con le inferriate. Il sole di ottobre giallo come una cotogna sta per tramontare là in basso. Sciami di moscerini danzano al calore degli ultimi raggi. I campi hanno una luce strana e i mattoni della stanza rosseggiano sotto la luce dorata. É tutto pieno di polvere qui. Chissà da quanto tempo non ci veniva qualcuno.

Mi preparo il letto per la notte, dispiego le coperte e per ultimo provo a distendermi per sentire come si sta. Bene. Le coperte sono scure e ruvide, la rete sotto è ricurva ma è sempre meglio di niente.

A occhi aperti penso al viaggio faticoso che ho fatto, faccio programmi per il giorno successivo. Tra poco scenderò giù in paese per mangiare qualcosa, poi a letto e domattina presto...

Sono svegliato di soprassalto da uno schianto sul pavimento e apro gli occhi. Lo stanzone è imbiancato dal chiaro di luna che entra dai finestroni. Fa un freddo pungente. Perbacco, ero talmente stanco che devo essermi addormentato. Che ora sarà? Fa troppo freddo per alzarmi ma non ho più sonno ormai.

Rimango sdraiato. La luna rende luminoso lo stanzone entrando dalle finestre, disegna le ombre distorte delle inferriate, dei graticci rotti, delle tele di sacco squarciate e penzolanti. Per farmi venire sonno conto le grosse travi sotto il tetto: una, due, tre, quattro, cinque, sei...

Un sommesso grattare, come se qualcuno raspasse a intervalli. Topi. Chissà quanti ce ne sono quassù.

Un lieve sussurro si ode adesso. Resto immobile, in ascolto. Silenzio assoluto.

Passa ancora del tempo. Guardo da una parte e poi dall’altra. Il lungo stanzone è completamente vuoto. Vedo le file dei pilastri di mattoni perdersi nel buio, il pavimento pure di mattoni incurvato, le capriate delle grosse travi di legno...

Un borbottìo basso e profondo proviene dal fondo della stanza.

Balzo a sedere sul letto. Forse è il proprietario che ha dimenticato di dirmi qualcosa. Ma come è possibile a quest’ora di notte!

“Chi c’è là?” E la mia voce si perde in quel grande ambiente.

Mi alzo e vado verso le finestre. Guardo la stanza che appare completamente illuminata e vuota. Allora vado a controllare la porta. É fatta di tavole di legno malsquadrate. Alzo il saliscendi e guardo giù per la scala. Buio assoluto. Rinchiudo fissando il saliscendi con uno spago che sta attaccato lì. Fa troppo freddo per indugiare e ritorno a letto sotto le coperte.

Dopo un po’ di tempo la voce grave risuona ancora in fondo alla stanza.

Con gli occhi sbarrati guardo da quella parte e trattengo il respiro per ascoltare. É un borbottìo basso, lento, indistinto. Proviene dalla parte opposta alla porta, là dove c’è solo il muro senza finestre. Il borbottìo si fa più forte e vedo distintamente un’ombra alta e scura con il mantellino e il cappello da viaggio che avanza verso di me. Resto paralizzato dalla paura. Istintivamente mi tiro su le coperte sperando che non mi veda, che non si accorga di me. Però mi sento ancora più in pericolo e guardo di nuovo.

Ancora l’ombra distintissima con la faccia scura e regge un pacco fra le mani. Quando passa davanti alla finestra crea l’ombra sul pavimento. Si dirige verso la porta passando in fondo al mio letto, e quando è vicina non posso trattenere il movimento brusco di alzarmi. Ma mi arresto di colpo.

L’ombra prosegue e pare non avermi sentito. Il fatto che mi ignori completamente mi fa tornare un po’ di coraggio.

Un’altra ombra va verso la prima. Da dove è venuta? Tutto si svolge rapidamente e in un silenzio di tomba. Non le sento muoversi né camminare eppure agiscono come esseri veri e come corpi opachi creano l’ombra sul pavimento.

Insieme si dirigono verso un punto nella stanza.

Vedo che mettono la cosa che la prima ombra reggeva in mano, in un punto là in alto e poi vedo che mettono dei mattoni.

Lavorano insieme e io nel frattempo guardo in alto per trovare un punto di riferimento. Conto le travi... è sotto la sedicesima trave a partire dalla porta.

Quando guardo di nuovo le ombre sono scomparse e posso pensare che non sono mai esistite.

Sento il cuore che batte e il sudore freddo corrermi lungo il corpo. Respiro profondamente per tornare a calmarmi. Più tardi provo a chiudere gli occhi.

La luce grigia dell’alba entra dalle finestre rivelando tutto lo squallore del vecchio granaio. Subito mi ricordo di quanto è successo e corro a controllare il muro sotto la sedicesima trave. Non c’è nulla da vedere. Solo un muro di vecchi mattoni...

Ma... i mattoni, là in alto, sono inseriti in maniera differente che tutto intorno. Sono tenuti insieme sempre dalla malta, però sono posati uno sopra l’altro e non intercalati. Questo per uno spazio di circa mezzo metro quadro.

Quando scendo trovo il vecchio che dà da mangiare agli animali nel cortile.

“Piuttosto freddo stanotte, vero?” dico con indifferenza.

“Sì, abbastanza.”

“Ma ho dormito bene ugualmente. A proposito, chi ci abitava in quella stanza?”

“Nessuno, le ho detto che era una stanza usata per essiccare la frutta.”

“E allora perché c’era una branda?”

“Ah, quella; sì saltuariamente ci veniva a dormire un girovago...”

“Un girovago?” chiedo con interesse. “Lei se lo ricorda bene? Potrebbe descrivermelo?”

Il vecchio mi guarda sospettosamente: “Bah, era un tipo magro che amava le fiere.”

“E quando è stato qui l’ultima volta?” chiedo.

“Oh. Almeno quarant’anni fa. Ma perché le interessano queste cose?”

“Niente. Pura curiosità.”

Porto il discorso sulla fiera, sul tempo, poi do una mancia e me ne vado.

Dentro di me ho il fermo convincimento che ritornerò un giorno. L’uomo magro era il fantasma dello zingaro, e l’altro chi poteva essere? Forse un suo complice. Che cosa avranno nascosto di notte dentro il muro? Dell’oro, dei documenti, o forse le prove di un delitto?

Questi interrogativi restarono senza risposta. Alla fiera feci numerosi affari e conobbi una ragazza che in seguito divenne mia moglie. Ci trasferimmo lontano da quel paese e il lavoro, la casa e la famiglia fecero passare gli anni quasi senza che me ne accorgessi.

Non sono più tornato in quella fattoria. Non saprei che pretesto inventare per entrare lassù.

Però non ho mai dimenticato quella notte. Dentro il muro di quel granaio, sotto la sedicesima trave so che vi è un segreto nascosto. 

OTTOBRE 1988

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ALBERO STREGATO

 

Esco dalla stazione e decido di raggiungere a piedi la casa dei miei parenti. Una passeggiata mi farà dimenticare la noia del viaggio in treno e recupererò l’appetito. Sono quattro anni che non passo da queste parti e voglio vedere se questi luoghi hanno conservato il fascino che avevano nella mia giovinezza.

La strada è fiancheggiata da gelsi tozzi, sproporzionati e salici vecchissimi. Nella sera di aprile c’è il profumo dei fiori di salice nell’aria. É un profumo strano che evoca pensieri, ricordi di anni passati.

Le catapecchie del villaggio che mi sono lasciato alle spalle appaiono nere contro il cielo rosso. Devo raggiungere il prossimo villaggio, del quale intravedo a volte il campanile, prima che faccia buio.

Il tempo si va guastando. Nubi scure come vapori si alzano in fondo alla lunga strada. Uno stormo di cornacchie si levano sopra di me cantando “rain, rain, rain”.

Arrivo a una casa diroccata. C’è un bivio e sono un po’ incerto sulla strada da seguire. Più in là un uomo curvo, con gli stivali, sta mettendo delle lumache dentro un sacco.

“Sono buone, vero?” gli chiedo.

L’uomo alza la testa: “É un cibo indigesto.”

“É questa la strada per Boschi?”

“Tutte e due portano là...”

“Allora questa è la più corta” concludo muovendo alcuni passi, ma mi arresto subito dopo sentendo il resto delle sue parole: “ma se fossi in lei non passerei per quella strada...”

“Perché? Se devo andare a Boschi che è a est e questa strada va verso est non capisco perché devo prendere un giro più lungo visto che sta per piovere.”

“Perché di là si va dritti all’albero del diavolo.”

“Che cosa? Ah... adesso capisco.”

Probabilmente si riferisce a uno di quegli alberi dove intorno si facevano i sabba. So che era un’usanza abbastanza comune una volta in queste terre.

“E che cosa aspettano ad abbatterlo allora?” rispondo sorridendo.

“Un contadino in cerca di legna da ardere ha provato a tagliarlo e ha avuto il braccio paralizzato. E alcuni boscaioli hanno surriscaldato quattro lame di seghe senza riuscire a scalfirlo” prosegue lui con voce monotona.

Un altro lampo nel cielo. Mi manca il tempo per star qui ad ascoltare il resto della leggenda. Perciò saluto l’uomo e mi incammino per la via più breve.

Tutto è fradicio di umidità. Ci sono salici contorti e avvitati, ceppi di platani bitorzoluti lungo i fossi allagati. Si vede che i paesani non frequentano molto questa strada; è tutta piena di erbe ormai. La stradina compie giri tortuosi affondando in mezzo alla vegetazione. Non una casa, solo distese di campi bagnati.

Il cielo è rosso lungo il fiume e più in alto compaiono lampi silenziosi. Una luce elettrica tremola nelle nubi gonfie. Le nubi questa sera hanno forme strane: la faccia di un vecchio, due gatti bianchi accucciati...

Strada senza fine, stretta, tortuosa. Séguito a proseguire sotto il cielo piovoso senza quasi più speranza di raggiungere la mèta.

Ancora un bivio dove sono costretto ad orientarmi per pura intuizione. Forse, in fondo era meglio se prendevo l’altra strada, più agevole e sicura. Non ho paura dell’albero, non mi trovo qui per danneggiarlo ma solo per arrivare a casa prima che si metta a piovere.

Costeggio il lungo muro di una fattoria abbandonata e all’improvviso lo vedo. É un frassino enorme, con una piramide di lumi posta alla base. Alcuni sono accesi, molti spenti.

Mi fermo per la sorpresa. Allora non è vero che nessuno viene più da queste parti. Chissà quante persone ci sono venute di recente. Ma perché?

L’albero sorge al centro di un crocicchio di quattro strade. La mia strada deve essere quella di destra e per raggiungerla sono costretto a passargli davanti.

Con passo più calmo mi dirigo verso il crocevia. Mi avvicino piano.

É un frassino maestoso, vecchissimo. Al tronco sono appesi nastri colorati, bicchieri con fiori, cordicelle con nodi, simboli magici. Le fiammelle dei lumi ardono silenziose accentuando il senso di venerazione. Adesso capisco perché è temuto. Effettivamente la presenza di questo albero in questa terra desolata evoca suggestioni e timori.

Sto per arrivare sotto ai suoi rami quando accade una cosa assurda. L’albero tremola, diventando a tratti fosforescente. Il suo verde pallido si staglia contro il cielo grigio in un effetto di luce stranissimo.

Apro e chiudo gli occhi più volte per scacciare la stanchezza. Adesso cadono le prime gocce di pioggia.

Improvvisamente qualcosa emerge su dalle rive di un fosso facendomi arrestare dallo spavento.

É una ragazza bellissima. Mi saluta con la mano e mi fa cenno di avvicinarmi. Chi è? Forse mi conosce, ma come è possibile? penso mentre muovo i primi passi.

É vestita completamente di nero e ha unghie lunghe smaltate pure di nero.

Più per istinto che per paura taglio in diagonale attraverso il campo per raggiungere la strada tenendomi il più possibile lontano da lei.

Adesso che mi sento al sicuro mi volto a guardare ma non vedo più la ragazza perché l’acqua mi scende giù per il viso. Solo l’albero scosso dal vento domina la scena mentre sullo sfondo a ovest cade una pioggia obliqua colorata di verde e di rosso.

Riprendo a correre senza più voltarmi finché vedo la banderuola a forma di angelo sul campanile del paese. Poco dopo raggiungo la casa dei miei zii.

Dopo cena, radunati accanto al fuoco, racconto quello che mi è capitato.

Dapprima si fa silenzio; poi, passato lo stupore lo zio più anziano prende la parola per spiegarmi che forse si tratta di una giovane demente rimasta vedova che si aggira a volte per la campagna. Oppure ho visto veramente il Dio Pan, nel posto dove molti contadini affermano di averlo incontrato.

Non so cosa pensare. Forse adesso propendo per la seconda ipotesi.

OTTOBRE 1988

 

 

 

 

 

 

 

DESTINI SOSPESI

 

Cammino per il paese, sotto i cieli di agosto scarabocchiati dal temporale. Incontro un vecchio e gli chiedo se conosce una buona locanda; lui mi raccomanda: L’osteria dei meli.

 “La tratteranno benissimo lì, dica che la mando io, l’oste è mio figlio.”

Così facciamo conoscenza e lo accompagno nella sua passeggiata mentre aspetto l’ora di cena.

“É tutto cambiato qui, è tutto cambiato” seguita a ripetere il mio occasionale compagno.

“Sono stato altre volte qui, e questo paese mi piace” gli dico indicando il lungo viale dei tigli che stiamo percorrendo.

“Sono un museo di ricordi. Ah! mi ricordo quando hanno piantato questi tigli, venti anni fa e quando è passata la ferrovia sessanta anni fa.”

“Scusi, quanti anni ha allora?”

“Ottantaquattro. Ecco vede la via non era così lunga. In questo punto c’era un muro. Qui c’era una porta carraia e dietro scorreva un fiume che in seguito è stato incanalato sottoterra. Sul fiume c’era un ponticello a schiena d’asino...”

“E dove si andava di lì?”

“Si andava nei campi naturalmente. Allora queste case non c’erano ancora e quelli che ci abitano non erano ancora nati.”

Caspita, penso a cos’è il tempo. Fa un effetto strano sentire raccontare queste storie, provo la sensazione di aver vissuto più a lungo.

Si interrompe di raccontare all’avvicinarsi di tre giovani donne e alcuni bambini. C’è uno scambio di effusioni e abbracci, e proseguiamo insieme la passeggiata.

La comitiva, un po’ alla volta, così come si era formata si scioglie. Il nonno e i maschietti prendono una stradina laterale. Due donne sono arrivate a casa.

Per un breve tratto resto in compagnia con l’ultima di loro. Il suo nome è Sara ed è bellissima. Ha la pelle che pare di luna e i lunghi capelli biondi, lisci e morbidi.

Restando a parlare scopriamo di avere molte cose in comune. Marta ha una voce dolcissima. Dalle sue confidenze intuisco qualcosa del suo destino triste.

Di carattere fragile e insicuro si è sposata giovanissima a un carrettiere brutale che la ha sempre trascurata per ubriacarsi all’osteria.

Il pomeriggio spande fiale di profumi intorno a noi. Il cielo è una sfera d’argento appannata in cui tremola un luccichìo di forbici e lucchetti.

Lei mi confida delle sue illusioni giovanili, mi racconta di quando da ragazzina amava passeggiare sulla piazza mentre sognava una vita migliore e diversa.

Ci lasciamo così come ci siamo incontrati, senza arrivederci o addii, con la consapevolezza di non incontrarci mai più.

All’osteria mangio in fretta un minestrone. Anche se non ci siamo dato l’appuntamento, sento che lei mi sta aspettando e che forse la rivedrò.

Pago il conto e dopo pochi minuti sono di nuovo in strada. Per non farmi notare preferisco seguire una via secondaria.

Tutto sembra diverso. La sera fa un po’ paura, scende sul paese come una piccola agonia. Le bambine giocano lungo la via. In un cortile un uomo barbuto suona con l’armonica walzer tristi. Al suono di quella musica una bambina si dondola sull’altalena. L’uomo seguita a suonare senza interrompersi mai. I gatti strisciano lungo i muri e le siepi.

Sulla piazza hanno acceso dei suggestivi lampioni doppi, a coppetta, che creano macchie di luce. La villa scura e la chiesa dormono nell’oscurità. Il campanile con la banderuola traforata si erge nero sullo sfondo del cielo rosso, dove sta appesa una luna bicorne.

Una bambina sta giocando da sola. É bionda e il suo sguardo sembra rivolgermi una domanda.

Ero abituato ad arrivare sulla piazza provenendo dalla via principale. Venendo dal vicolo invece la chiesa è alla mia sinistra. Dunque per raggiungere il viale dei tigli...

Rimango per un po’ a guardare le quattro strade che, viste da qui, non sembrano più le stesse. Poi oltrepasso la chiesa e proseguo dritto. Una strada piena di curve con lampadine pendule e case basse. Ma non è il viale dei tigli questo. Mi giro e muovo alcuni passi perplesso. La bambina sola mi guarda e pare che aspetti.

Vado verso l’altra strada. Dunque, venendo da sinistra il viale deve trovarsi... Mi sorprende come sia facile perdere l’orientamento quando le cose familiari sono viste da un punto di vista differente. Ma che importa? L’importante è di non arrivare tardi all’appuntamento. Ma lei verrà veramente all’appuntamento? E verrà sola?

Una via corta, chiusa sul fondo da un palazzo grigio con una pianta di glicine che sale fino alla grondaia. Nemmeno questo è il viale, rimane solo la prossima strada ed è per forza quella che cerco.

É scesa la notte e l’oscurità rende la piazza più immensa, mentre gli edifici appaiono più lontani. Cammino sotto le isole di luce dei lampioni e mi dirigo con decisione verso la via a destra della chiesa.

L’inizio è rischiarato dalla luce che proviene dalla piazza poi la strada affonda nel buio. Cammino per vedere dove porta ma sono costretto a rallentare il passo. Il terreno diviene soffice ed erboso, sento il frinire dei grilli e intravedo l’ombra di un ostacolo davanti a me.

É un muro ricoperto di edera. Lo tocco allungando le mani, poi lo seguo piano. Verso destra c’è una porta semicadente imprigionata dai tralci dei rampicanti. Il terreno diventa duro in quel punto per la presenza di un sentiero.

Dove porta? Dove sto andando?

Ascoltando con attenzione tra il frinire monotono dei grilli mi sembra di udire il gorgoglìo dell’acqua.

La porta carraia. Il fiume dietro il muro. Che stregoneria è mai questa? Non uscirò più da questo dannato paese che si è spostato nel tempo!

Ma cosa vado pensando adesso? Le bambine che giocavano nel cortile assomigliavano alle donne che ho conosciuto questo pomeriggio. E la bambina da sola sulla piazza è... Devo sapere chi è!

Inciampando torno indietro di corsa, verso le luci sicure della piazza. Tutto è deserto. Non c’è più nessuno ormai.

Un barlume di logica mi suggerisce la risposta. Sarà andata a dormire. Saranno tutti in casa a quest’ora. Mi basta attendere per... per che cosa?

Spaventato e avvilito prendo una decisione. Corro verso la via principale, quella che ho percorso tante volte.

Corro al massimo delle forze. Ho paura. Ho paura di non rivedere più gli ambienti familiari, le cose che conosco bene.

Sul marciapiede incontro un uomo adesso e poi una donna, ma li oltrepasso senza fermarmi. Presto, devo fare presto, devo sapere da me, devo vedere con i miei occhi.

Le luci rosse della vecchia farmacia. Il rumore monotono dei frigoriferi nella macelleria, il botteghino dei dolciumi prima del bivio. Adesso ci sono. Rassicurato mi lascio trasportare dall’inerzia della corsa, poi pian piano mi fermo.

Ora dovrò ripetere il percorso all’inverso e fermarmi non appena noterò qualcosa di differente.

Cammino piano sul marciapiede con un senso di diffidenza e di tensione. Le vecchie case, le porte, le insegne, i paracarri, tutto mi è familiare.

Arrivo sulla piazza sforzandomi di non pensare a cosa mi è appena successo. Meccanicamente, senza riflettere, come tante volte prima di questa sera, mi dirigo verso il viale dei tigli. Oltrepasso la chiesa e il viale appare silenzioso, deserto e malrischiarato, proprio come lo ricordavo.

Lo percorro più volte, avanti e indietro. Mi sento bene adesso, sono di nuovo calmo e rilassato.

Con piacere aspiro i profumi della notte d’estate e lascio la mia mente libera di pensare.

Incontro qualche giovane coppietta. Marta non è venuta a questo tacito appuntamento. O forse è venuta ma in un tempo differente.

NOVEMBRE 1988

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GLI INSETTI

 

A quei tempi lavoravo in una pasticceria. La pasticceria era gestita da due vecchie zitelle Alma e Wilma.

Al piano inferiore c’era il locale riservato al pubblico e sopra, in un granaio era situato il forno con le tavole per impastare e gli scatoloni degli ingredienti. Sacchi di farina, di zucchero, ceste di mandorle, bidoni di latte, di marmellata erano stipati dappertutto ed accatastati perfino lungo la scala.

L’ambiente era uno stanzone basso e scuro e prendeva luce da un lucernario e da finestrini a livello del pavimento. Il mio lavoro consisteva nel fare un po’ di tutto: aiutavo a impastare, caricavo il forno, rifornivo gli ingredienti, facevo le pulizie.

Arriva l’estate, caldissima. Nella pasticceria avevamo messo in funzione i ventilatori e steso le tendine per le mosche.

Una mattina sono giù in negozio quando sento un grido e poi la voce isterica di Wilma che mi chiama.

Corro su per le scale e lei mi indica dei granellini neri sul ripiano di marmo. Li tocco per esaminarli. É sterco di topo, probabilmente. Da dove sono venuti? La proprietaria pare molto preoccupata e mi fa sistemare alcune trappole.

Due o tre giorni dopo, la proprietaria sale di sopra e scopre che le cialde che avevamo messo a lievitare la sera prima pullulano di tarme. Sono animaletti lunghi, pelosi e sembrano molto voraci.

Quella mattina la trascorriamo impegnati a raccogliere le cialde dentro ai bidoni per evitare che si propaghi l’infestazione. É un lavoro massacrante. Le sorelle riempiono i bidoni di cialde inutilizzabili, io scopo e ripulisco tutto intorno ammazzando le tarme. Togliamo tutte le scatole dagli scaffali per ripulire i ripiani e le sistemiamo sul lato opposto della stanza.

Arriva mezzogiorno e siamo ancora indaffarati a rimettere le cose al loro posto. Comunque tarme non se ne vedono più, tranne qualcuna che scopriamo nascosta sotto il forno o lungo le scale.

Il giorno successivo le cose sono peggiorate. Sugli imbuti, dentro alle terrine, sopra ai mestoli è comparsa una polvere grigia leggera e impalpabile. Veli di polvere sono stesi anche sui ripiani e sulle pale di legno.

Il pomeriggio dello stesso giorno compaiono le formiche. Wilma fa la scoperta appena entra in laboratorio e mi chiama disperata.

Lunghe file di formiche minuscole vanno dai sacchi di farina fin nelle crepe del pavimento. Mi manda giù a prendere una bottiglia di alcool. Poi ne versa un poco sui mattoni, lungo la fila di formiche e dà fuoco. Un odore irritante si propaga dalle fiamme azzurrine e la fa smettere. Inoltre le faccio notare il pericolo di creare un incendio. Allora mi fa spostare i sacchi e poi laviamo il pavimento con acqua e soda.

Riprendiamo le pulizie alla mattina successiva e per una settimana i guai sembrano essere finiti.

Una mattina caldissima apro la porta del laboratorio e sono accolto da un odore insopportabile. Sembra odore di carne in decomposizione. Meglio avvertire le proprietarie. Nel frattempo spalanco le finestre e porto su i ventilatori per scacciare la puzza.

Dopo un po’ salgono su le vecchie signorine: Alma ha uno sguardo desolato mentre Wilma pare la più battagliera.

Spostiamo i sacchi per individuare la causa. Tiriamo giù dagli scaffali tutti i barattoli dei pinoli, della vaniglia, le bottiglie dei liquori, per vedere cosa si nasconde dietro. Ma non scopriamo niente di grave. Solamente alcuni scarafaggi e una vecchia carogna di topo che da sola non poteva mandare tutto quell’odore.

La stessa sera, è quasi arrivata l’ora di andare a casa e mi trovo giù assieme ad Alma per servire l’ultimo cliente.

Sto confezionando il pacco dei pasticcini quando un grido stridulo proviene dal laboratorio. Restiamo per un istante a guardarci stupiti. Poi do il rotolo di spago ad Alma perché finisca di confezionare e corro su per le scale.

Una serie di grida acute e colpi soffocati. Dio mio, che cosa sta succedendo lassù!

Spalanco la porta e faccio per lanciarmi nello stanzone ma resto paralizzato per uno spettacolo orrendo. Milioni di piccoli ragni neri scendono dappertutto dal soffitto. Wilma con la scopa sta tentando di colpirne il più possibile ma è una impresa disperata. Il pavimento è una marea nera di ragni in movimento. Tutti gli oggetti grondano ragni tanto da perdere i loro contorni definiti. Wilma si accorge della gravità della situazione e mi urla di andare a chiamare i pompieri.

Tutto si svolge rapidamente. Quando sono di ritorno accompagnato da due uomini in divisa un pianto disperato echeggia nel negozio.

Alma mi indica qualcosa dietro alla porta. Corriamo a vedere: Wilma sta là, sdraiata in fondo alla scala in una posizione assurda. Ha gli occhi spalancati e una espressione esterrefatta sul viso.

Un uomo corre a chiamare un dottore, un altro sale con me su per la scala ed entriamo in laboratorio preparandoci al peggio.

Resto ammutolito dalla sorpresa. Neanche l’ombra dei ragni. Il laboratorio appare in perfetto ordine, c’è pulizia e buon profumo di vaniglia. Faccio un giro intorno per assicurarmene e poi torniamo a prestare il nostro aiuto dabbasso.

Intanto è arrivato il medico e i curiosi si affacciano alla porta. Ma non c’è più niente da fare, Wilma è morta cadendo giù per la scala.

I giorni successivi resto molto vicino ad Alma, perché è sempre stata buona con me e mi fa una gran pena. La pasticceria è messa in vendita e sono incaricato di sbrigare le pratiche.

Alcune settimane dopo saliamo in laboratorio aspettandoci le più brutte sorprese ma non c’è niente, tutto è come l’avevamo lasciato. Niente insetti o animali di nessun tipo. E non appaiono più neanche in seguito. Eppure io avevo visto lo spettacolo dei ragni che infestavano l’ambiente. O era stata solo un’allucinazione?

Un pomeriggio lo dico ad Alma e lei mi fa alcune confidenze:

“Da più di quaranta anni mia sorella Wilma aveva seguitato a sterminare insetti ed altri animaletti. Nei primi anni erano pochi. Ma poi gli insetti crescevano e più lei ne ammazzava e più ne comparivano. Chissà se anche gli insetti hanno un’anima? Chissà se è giusto ucciderli? Cosa ne pensa lei Carlo? Non potrebbero tutti quei ragni che ha visto, essere i fantasmi di quelli che mia sorella ha ucciso?”

Non dico niente. É tutto così strano. Non so che cosa pensare.

NOVEMBRE 1988

 

 

 

 

 

 

ANGELI

 

Un giorno il mio amico è andato a pescare e io mi incammino lungo il sentiero dei campi sperando di incontrarlo da qualche parte.

L’aria è dolce e triste. Dopo le piogge di aprile il cielo appare come un velo d’argento. La primavera è una bellezza inconsapevole, come la giovinezza.

Grossi carri sfilano lentamente lasciando il profumo del fieno. Passo vicino a una casa gialla con enormi portici scuri. Qui tanto tempo fa abitavano otto sorelle.

Attraverso un ponticello sopra un piccolo fiume increspato di ondine che paiono migliaia di specchietti. L’acqua a tratti sembra argento fuso.

Oltre il ponte il frutteto è una festa di fiori. Cammino, e mi sembra di entrare in un mondo irreale fra alberi innevati di fiori rosa e bianchi.

Su una radura sorge un faggio secolare. Ha la corteccia incisa con iscrizioni d’amore e date, nomi. Provo a leggerne qualcuna. Ci sono sogni, ansie, desideri dietro queste brevi parole. Ci sono speranze, aspettative, illusioni...

Due cuori intrecciati con la scritta: “Paolo e Diana 1950 per sempre”. Avranno mantenuto la loro promessa d’amore? O non avranno voluto mantenerla? O non avranno potuto mantenerla?

Le parole “Caterina ti amo” e una data. É tutto quello che rimane a testimoniare storie d’amore meravigliose, ormai finite. Chissà se si saranno realizzate, probabilmente no.

A intervalli mi sembra di sentire un sospiro agitato fra risatine soffocate. Forse è solo il rumore del vento fra i rami.

L’amore, nella giovinezza, ha dimensioni smisurate. Poi col passare del tempo, quando questo bisogno d’amore si affievolisce diventiamo ottusi e non riusciamo più a ricordarlo, non riusciamo più a comprenderlo.

Lampi di luce, come riflessi di vetri, appaiono laggiù in mezzo ai fiori. Mi inoltro nel frutteto per scoprire di cosa si tratta ma non c’è proprio niente. Il sentiero si perde ondulando fino alla prossima curva chiusa dallo spumeggiare di soffice biancore.

La luce nel frutteto sembra aumentare di intensità forse a causa delle nubi bianche che diffondono i raggi del sole. Ancora un riflesso laggiù, e un altro più debole e più lontano.

Un lampo di luce. Provo a muovermi e quello scompare. Allora mi fermo e aspetto con attenzione lo strano fenomeno ottico.

Non ci vuole molto. Là in fondo, in mezzo ai fiori, fluttua qualcosa di semitrasparente. Sembra un filo di fumo ora, o un raggio obliquo di luce, o un picchiettìo di puntini argentati...

La tentazione di muovermi fa scomparire tutto. Ma mi basta voltarmi per rivedere lontano, dietro di me lo stesso fenomeno, ancora più accentuato. Anche alla mia destra mi sembra di scorgere a volte questi misteriosi riflessi, galleggianti a mezz’aria, sempre in movimento. Sentendomi circondato provo un po’ di paura e guardo intensamente.

Riconosco fattezze umane bellissime, visi angelici si fanno e si disfano in un secondo, corpi piccoli, sinuosi, movimenti scomposti di braccia, di capelli, di seni... Nel frutteto fluttuano esseri bellissimi semitrasparenti.

La scoperta mi procura uno strano sentimento di eccitazione. La paura è svanita anche perché noto la loro inconsistenza e so che basta un movimento brusco o un nonnulla per farli scomparire.

Esseri bellissimi, diafani, vagano nelle profondità del frutteto. Sono ragazze semitrasparenti e giovinette che giocano, si rincorrono ignorando completamente la mia presenza. Se provo ad avvicinarmi si allontanano e spariscono dietro ai tronchi degli alberi.

Allora mi fermo e rimango ad osservarne una. É una ragazza vestita di bianco con corone di fiori intrecciate sui lunghi capelli. Assieme alle altre gioca e danza. A volte mi sembra di guardare una fotografia sbiadita, poi uno zampillo d’acqua, poi tutto scompare e la ritrovo più in là.

La luce nel frutteto va calando di intensità. Il sole si va abbassando dietro agli alberi con pennellate rosse, rosa, gialle, lilla. Per contrasto i riflessi appaiono più luminosi ma le loro fattezze non si riconoscono più.

In quest’ora serale le pozzanghere creano altrettanti riflettori e si intravedono i primi lumi alle finestre del villaggio vicino. Ancora un altro poco e non sono più sicuro di ciò che ho appena visto.

Lentamente mi avvio verso casa. Sul fiume luccicano manciate di diamanti.

La vita non è come ce la aspettiamo. Se non rimane niente delle azioni reali, cosa può restare dei sogni che sono solamente illusioni?

O forse nulla va perduto, e la vita è costruita di sogni oltre che di azioni reali. Di sogni brevi e sfuggenti ma che durano per l’eternità.

DICEMBRE 1988

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAGRA PAESANA

 

Una tenda viola piena di ripiegamenti e gonfiori tagliata da lame di luce d’oro. Il tramonto di giugno trasforma il cielo in un luna park di luci e di colori.

Per contrasto la piccola sagra sperduta nella pianura sembra una miniatura. Vi arrivo per caso e cammino sul prato in mezzo alla gente.

Stelle fatte di lustrini e strisce di carta pendono dall’alto. Sotto file di lumi colorati girano i cavalli di legno della giostra. I colori fantasmagorici del crepuscolo si sciolgono in pennellate dense, violacee su sfondi gialli.

Improvvisamente si fa silenzio nella festa e tutti diventano immobili, in attesa. Poco lontano si vede venire avanti una piccola processione composta di alcuni uomini che sorreggono un trono di legno dorato.

Sommersa da stoffe preziose, fiori e gioielli vi sta seduta sopra una bambina; è la reginetta della festa e rappresenta una Dea pagana. Uomini e donne si accodano dietro allungando la processione che gira intorno al prato.

Il trono viene deposto vicino a un pergolato di roselline selvatiche e tutti sfilano davanti. Mettono ai suoi piedi piccole offerte, spighe di grano, in cambio di pronostici per il futuro o l’esaudimento dei desideri.

La bambina, che simboleggia la Dea dell’abbondanza, ha una espressione annoiata o misteriosa.  Le altre bambine la guardano con occhi spalancati.

La festa riprende più rumorosa di prima e tutti mangiano, bevono o ballano in suo onore. Mi siedo alla tavola per mangiare un panino fra contadini baffuti, in un tintinnìo di piatti e bicchieri.

Un vecchio paralitico con la punta chiodata del suo bastone crea disegni complicati sulla polvere. Li guardo con attenzione adesso: sono spirali, cerchi concentrici, ellissi... Che cosa può significare?

Riprendo a camminare sul prato.

In un angolo la ruota della fortuna gira e i chiodi numerati vanno a distribuire premi ai partecipanti. L’uomo sorridente con la faccia cavallina mi chiama:

“Venga, venga da questa parte signore, questa è la sua sera fortunata...” le sue parole sono coperte dal rumore della folla.

Passo davanti alle bancarelle dei dolci, del vino e visito una mostra di farfalle.

Sul palco, piccolo e sbilenco, sono saliti adesso quattro musicanti molto originali che suonano una musica antiquata. Quello con uno strano berretto e con i capelli che gli sfuggono di lato suona il mandolino. Un grassone con occhiali e basettoni è alla chitarra. Il terzo soffia nel sassofono in maniera indiavolata diventando tutto rosso in faccia e l’ultimo, magro e sudato, è alla grancassa. Ogni tanto si interrompono per bere da un fiasco di vino.

Incontro una ragazza che mi piace e la invito a ballare. Poi ballo con un’altra e un’altra ancora...

Stasera la Vita mi dà alla testa come un vino, e la mia mente è tutto uno spumeggiare di pensieri.

I lumi sono diventati più brillanti, aumentano di intensità come per scacciare indietro la notte. Improvvisamente dalla folla si leva un grido di stupore e tutti si fermano per guardare il cielo. Ansimante e sudato mi fermo di ballare anch’io e guardo in alto.

Nel cielo a nord sono apparse strisce di celeste acquerello e in mezzo si vedono semicerchi di macchie rosse, come corone di rose su sfondo bianco! Tutti gridano al prodigio e un senso di venerazione per il supernaturale passa fra di noi come un brivido.

Lentamente il fenomeno celeste sbiadisce, diventa sfocato finché il cielo a poco a poco ritorna nero. Il profumo della paglia è così intenso da dare un senso di stordimento.

La festa continua colorata e rumorosa. I musicanti riprendono a suonare.

La bambina seduta sul trono ha un sorriso ambiguo.

 

 

DICEMBRE 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FILTRI NOTTURNI

 

Una luce celestognola ristagna nel vicolo deserto. Il sole di marzo si abbassa dietro alle case in strisce di luce gialla.

Il vento seguita a soffiare portando sbuffi di fumo dai comignoli. Cammino costeggiando le case basse e grigie dove sui tetti si arrampicano i gatti.

A metà il vicolo gira a gomito e c’è un paracarro piegato. Una lampada pendente oscilla sbattendo contro i tralci secchi dei glicini. Fra i ciottoli ci sono pozzanghere di liquido scuro.

Sta arrivando la sera. Una foschia violacea scende nel vicolo lasciando solo i colori lividi della luna. Con la sera arriva una nebbia grigia che si mescola al fumo creando effetti di magia.

Una ragazza esile sta appoggiata alla porta di casa. Ha un viso luminoso con le lunghe trecce che mi incanta e mi turba.

Mi fermo per chiedere un’informazione e restiamo lì insieme quasi tutta la notte.

Si chiama Lavinia e fa la cucitrice di tela.

La luna piena corre fra i comignoli, sale sul vicino campanile e attraverso i finestroni illumina la ferraglia dell’orologio. Un cagnolino piccolo e bianco abbaia. Avanza annusando il terreno e striscia lungo il muro come impaurito. Poi a un tratto corre di ritorno con guaiti di dolore.

***

Ormai Lavinia è entrata nella mia vita. Le sere successive per tante altre volte vado a trovarla.

Ma una sera arrivo in ritardo. Perdo il treno e sono costretto ad aspettare l’ultima corriera.

Sono terribilmente in ritardo. L’orologio del campanile batte mezzanotte mentre entro nel vicolo dalla estremità opposta.

Ad un tratto vedo Lavinia di spalle come non l’avevo mai veduta prima d’ora: è magra, con un vestito sbrindellato. Fa strani gesti e con una bottiglia sparge un liquido nero.

Mi fermo a guardarla mentre saltella di qua e di là emettendo parole roche.

Ma la ragazza accortasi di me si arresta subito dopo. Il suo viso ha una smorfia cattiva. Lancia grida stridule, che finiscono in un pianto acuto. Poi corre in casa sbattendo la porta.

Lentamente ritorno indietro camminando sui ciottoli neri. Sciarpe di nebbia ristagnano nel vicolo.

Dai tetti delle vecchie case spunta una luna calante arrabbiata, con la faccia da strega.   

GENNAIO 1990

 

 

 

 

 

 

 

GALLERIA DEGLI SPECCHI

 

Una sera che non riesco a dormire esco e faccio un giro per il paese.

Per le strade c’è profumo di acacia. Io cammino seguendo i pensieri e sentendomi scontento della mia vita miserabile di artista.

Attraverso un Luna Park semideserto. I baracconi stanno per chiudere e le giostre girano a vuoto.

Un’insegna composta di lustrini dondola al vento: Galleria degli specchi. Con gli spiccioli che mi restano compro il biglietto ed entro.

Subito dopo mi rivedo magro con il corpo filiforme. Poi grasso, tarchiato e sono diventato un nanerottolo. Allo specchio successivo appaio rovesciato con le gambe lunghe.

Incomincio a divertirmi. Passo davanti a uno specchio dove l’immagine del mio corpo viene ripetuta tre volte, con la testa sotto e sopra. Altri specchi rimandano la mia immagine ridicola dimagrita con smorfie da cavallo, da vampiro...

Il proprietario è un ometto calvo, simpatico, mezzo artista e mezzo matto. Se ne sta in un angolo, poi a un tratto mi viene vicino:

“Le è piaciuto vero? Li ho costruiti io, quegli specchi, lavorando le lastre con smeriglio e rossetto inglese.”

Gli faccio i complimenti e lui gesticolando continua a parlare:

“Ho costruito specchi che fanno brutti e specchi che fanno belli, specchi che invecchiano o ringiovaniscono... Potrei farle vedere il mondo attraverso uno di questi specchi. Le piacerebbe? Il mondo, con le sue follie, vale la pena di vederlo attraverso questi specchi, non crede?”

Sorrido alla sua proposta e lui riprende:

“Venga allora, venga da questa parte. Non abbia paura. Non c’è pericolo.”

Mi accompagna in fondo al baraccone, poi si inchina per lasciarmi passare.

Entro un po’ indeciso in uno stretto cassone verticale nel cui fondo vi è una superficie chiara e in leggero movimento come una cascata d’acqua. Avanzo cautamente tenendo le braccia in avanti. Oltrepasso un velo d’acqua che però non mi bagna. C’è chiaro, c’è scuro; poi ancora chiaro. Mi sembra che lo spazio si srotoli davanti a me.

Ecco, mi ritrovo all’aperto. Ho una lieve vertigine che mi costringe a fermarmi.

Tutto il vicolo si sposta, io scavalco qualcosa ed entro in un’altra dimensione. Per un attimo vedo le immagini dei due mondi sovrapposte, poi il vicolo sbiadisce e l’altro mondo prende consistenza.

Una luce ultraterrena rischiara la città. Il cielo è viola, con le montagne rosse sullo sfondo.

La città è diventata strana e assurda. Le case alte, vecchissime, decrepite sono tutte inclinate e sembra stiano per cadere.

La prospettiva è deformata, tutto è storto, obliquo e allungato. Dalle aperture dei vicoli entra la luce del sole al tramonto. Ma i raggi sono conici o spiralati. Lunghe ombre nere tagliano la strada seghettandola come abissi spalancati.

Camminando piano lungo gli edifici che paiono di gomma sbocco in una piccola piazza. Allora vedo la folla di persone che stanno là e mi sembra di perdere la ragione.

Uomini-verme, uomini-annodati. Esseri stranissimi a forma di campanula di fiore.

Le gambe non mi tengono più in piedi. Prima di cadere, con uno sforzo disperato mi giro e incomincio a correre. Vedo il marciapiede in discesa davanti a me, ma invece compio uno sforzo terribile come se stessi salendo. Più la discesa aumenta e più faccio fatica ad avanzare. Ad un tratto mentre sto correndo al massimo delle forze sento una voce vicinissima alle mie orecchie.

“ Pst. Pst.”

Giro la testa: due esseri stranissimi sono al mio fianco. Un uomo con il naso a trombetta e un altro con la faccia a prisma. Smetto di correre, visto l’inutilità dello sforzo e rimango davanti a loro a guardarli.

Il primo a rompere il silenzio è il vecchio con il naso a trombetta. Non sembra avere intenzione di aggredirmi, anzi sembra afflitto per non potermi aiutare.

“Sei un mago?” mi chiede. La sua domanda mi lascia sbigottito.

“No, sono solo un artista, povero e affamato.”

“Ne arrivano talvolta e sono benvenuti qui.”

Passato lo spavento dedico maggior attenzione alla strana coppia di personaggi. Quello con il naso a trombetta ha una espressione bonaria, è vestito come un buffone e in testa ha un imbuto rovesciato con sopra una candela accesa. Parla abbastanza bene la mia lingua. Il suo compagno invece ha la faccia a prisma così è impossibile vedere la sua espressione. Sembrano innocui, così mi azzardo a fare qualche domanda:

“Dove mi trovo, all’inferno?”

“No, sei in un mondo parallelo. Ma vieni che andiamo a mangiare.”

Mi metto a camminare al loro fianco, incuriosito. Non so fino a che punto posso fidarmi di questi strani ciceroni, ma mi conviene stare con loro. Posso ricavare delle informazioni che mi aiutano ad uscire di qui. Inoltre stando insieme a loro non devo fuggire e così recupero energia.

Una casa alta e stretta di colore giallo. Un edificio sbilenco pieno di protuberanze, con grate, inferriate, finestre cieche. Per entrarvi attraversiamo un ponticello di legno sopra un fiumiciattolo.

Entriamo in uno stanzone semibuio dove altri strani esseri stanno seduti attorno alle tavole. Mi guardo intorno. C’è molta oscurità e gli esseri sono lontani. Le pareti sono nere e storte, con diramazioni a gomito. Dopo un po’ arriva un tizio grasso e basso con il naso a proboscide e il ventre a forma di botte.

“Un bicchiere di tempo.”

“Un piatto di folletti arrosto” ordinano i miei compagni.

“Anche per me, anche per me” dico evitando di guardare in faccia l’oste.

Poco dopo mi trovo davanti un bicchiere pieno di fumo denso e un piatto di esserini che somigliano a gamberetti rossi. Assaggio i folletti che hanno un sapore troppo salato; ma non me la sento di toccare il bicchiere.

“Chi sono quegli esseri?” chiedo indicando gli altri commensali.

“Sono creature che provengono da un’altra linea evolutiva.”

“Ci sono molti esseri di altre provenienze?”

“Certo. Ci sono molte creazioni. Ci sono molti Dei.”

“Chi sono gli Dei?”

“Sono esseri provenienti da creature inferiori come un uomo, un ragno, un albero, un sasso. ”

“Com’è possibile che un Dio sia stato un sasso? (che il diavolo ti masturbi il cervello)” gli dico sottovoce.

Emette una risata sottile simile al fruscìo del vento su un albero con foglie di alluminio.

“Ah. Ah. Ah. Ogni essere, secondo la sua maturità e le sue azioni, può salire o scendere la scala dell’evoluzione. Chi scende rinasce animale, vegetale, minerale, demone… Chi sale rinasce uomo, genio, santo, Dio, Dio ancora più potente…”

“Cosa fanno gli Dei?”

“Creano universi ed esseri inferiori.”

“E Dio? Chi è allora Dio?”

“Questa è una parola relativa. Dio è solo l’essere che sta al di sopra di un altro essere. Per una formica il cane è Dio. Per il cane l’uomo è Dio…”

“Come si fa per vedere gli Dei?”

“Non tutti gli esseri della scala evolutiva sono visibili. Quelli troppo in basso e quelli troppo in alto non sono percepibili.”

“E gli artisti? A che gradino sono sulla scala dell’evoluzione?”

“Fra gli uomini gli artisti sono al livello più alto perché si allenano a creare universi fittizi. Poi nell’altra vita potranno creare nella realtà e saranno gli Dèi delle loro opere.”

I miei amici, trascurando il loro aspetto, mi sono diventati quasi simpatici. Sto per fare ancora domande quando quello con il naso a trombetta sembra diventato impaziente:

“Bevi, altrimenti noi ci allontaneremo da te.”

Prendo in mano il bicchiere. É denso, pieno di fumo lattiginoso e non oso berlo.

“Presto, fa presto” mi incitano i miei compagni.

Sono indeciso e nel tempo che passa mi pare di vedere la stanza oscurarsi ancora di più e i miei compagni rimpicciolire.

Tutta la folla di esseri mostruosi rimpicciolisce, rimpicciolisce fino a diventare minuscoli animaletti e poi ancora più piccoli, moscerini, granelli di polvere...

É l’alba. La polvere danza nei raggi di luce che entrano dalle imposte rotte. Resto disteso nel mio letto a guardarli.

Il sole si alza mettendo in fuga gli incubi e le fantasmagorie della notte.

MARZO 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTTE DI TEMPESTA

 

La sera di novembre è cupa e piovosa.

Il villaggio appare deserto poiché nessuno osa uscire di casa. Una pioggia torrenziale sta cadendo da ore e la bufera non accenna a diminuire. Le pozzanghere in certi punti arrivano fino al centro della strada e i fossi sono straripati.

Cammino, immerso nei miei pensieri. Non so se sono ancora in tempo per salutare Sarah prima che sia già partita. É stata la mia compagna di giochi per tanti anni ed ora anche lei se ne va; lascia per sempre il paese.

Cammino abbassando il parapioggia per proteggermi dagli scrosci di acqua spinta dal vento. Nel mio animo c’è una grande tristezza quasi un senso di impotenza e di annientamento.

La casa di Sara sta isolata fuori dal villaggio. Nella notte piovosa è solo un’ombra scura e priva di vita. Due finestre piccole al piano superiore risplendono fiocamente come lumi.

Busso alla porta bagnata cercando riparo sotto all’architrave. Poi provo a chiamare ma la mia voce si disperde nel vento.

In silenzio la porta si apre un poco, quanto basta per lasciarmi passare. Appena entro nella saletta la vedo: Sarah indossa un vestito bianco e ha i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle. In mano tiene una bugia di ottone con una candela accesa. Nei suoi occhi c’è smarrimento e paura.

Rinchiude mettendo i catenacci mentre io deposito in un angolo il parapioggia che forma subito una pozzanghera sulle mattonelle. Mi guardo intorno: la saletta vuota sembra più piccola. I mobili sono già stati portati via, è rimasto solo un baule e alcune valige.

Senza parlare Sara mi fa cenno di seguirla. Attraversiamo la cucina, dove abbiamo trascorso pomeriggi a giocare fra il borbottare dei nonni e l’abbaiare dei cuccioli. Ora che sono partiti tutti è solo una stanza priva di vita, fredda e vuota.

Con movimenti flessuosi la ragazza sale le scale ripide di legno tenendo alta la candela. La fiamma tremolante scava ombre paurose sulle pareti. La pioggia di novembre cade sui tetti con un rumore insistente, monotono.

Lei apre una porta del corridoio. Mi fa entrare in una cameretta semibuia rischiarata dalla luce rossastra del camino. É rimasto solo il letto, un tappeto e un telaietto da ricamo. Uno specchio ovale sta attaccato al muro.

Vado davanti al camino acceso per asciugarmi. Anche lei si curva sul fuoco senza parlare. Il suo corpo esile è scosso da brividi di freddo. Dalle finestre piccole vedo il buio oltre i vetri ruscellanti di pioggia.

Nella notte da tregenda restiamo ad ascoltare il fischio del vento e lo scroscio incessante della pioggia. Si odono scricchiolii, piccoli tonfi, gemiti... La casa pare animata e vibra sotto la spinta delle raffiche. Ci sentiamo completamente soli quasi fossimo gli unici esseri rimasti al mondo. Ci sentiamo sperduti, in balìa delle forze della natura.

Un topo corre in fondo alla stanza e va a rifugiarsi in una fessura. Fuori nella notte buia ci sono solo i démoni in ascolto e abbiamo paura di parlare.

Il corpo di Sara è curvo sul fuoco alla ricerca di calore. I capelli le ricadono sul viso come una pioggia di seta. Il vento ulula dentro alla cappa del camino, fa salire le faville, disperde la cenere.

Con il passare del tempo ci sediamo sul tappeto. Il freddo ci fa stare più vicini. Il suo volto stupendo ha una espressione seria, quasi implorante. Solo con gli sguardi comunichiamo la sofferenza delle nostre anime.

La notte sembra non dover finire mai. All’improvviso negli occhi di Sarah scorgo lampi di desiderio e paura. Riconosco tutto l’erotismo dell’adolescenza, solo sognato e intuito.

Le sue labbra con gli angoli piegati verso il basso sussurrano alcune parole, come una preghiera:

“Baciami, amore baciami, e non fermarti mai...”

Nel silenzio grave che segue, le sue parole lasciano un’eco di perle che cadono nel latte.

Timidamente ci prendiamo per mano. La guardo negli occhi ed è come se vedessi in fondo alla sua anima.

Il primo bacio è solo uno sfiorare di labbra. I capelli hanno riflessi d’oro. Le sue lunghe mani vellutate tremano.

Lentamente l’attiro sempre più vicino fino ad abbracciare il suo corpo soffice.

***

É molto tardi. É quasi l’alba.

Devo andarmene per non essere sorpreso dai parenti che verranno a prendere Sara e a caricare le cose rimaste.

Le prime luci del mattino illividiscono il cielo. Sulla porta le dico un ultimo ciao senza ricevere risposta. Dopo la notte d’amore vado a casa e rimango a letto fino a tardi.

Verso mezzogiorno un tiepido sole illumina la campagna. Dalla mia finestra guardo le gocce di pioggia scorrere sul vecchio muro della casa di fronte, come lacrime.

Mi vesto in fretta ed esco in strada di corsa. Forse sono ancora in tempo per vedere Sara per l’ultima volta. Il cielo è tutto un ribollire di nubi bianchissime, spumose in mezzo a torri di cristallo.

Raggiungo la sua casa ma le finestre sono tutte chiuse. Nel fango della strada sono impressi i segni delle ruote. I parenti sono venuti a prendere anche lei e adesso sono partiti tutti.

Camminando piano ritorno indietro. Tutto è finito. Una parte della mia vita se ne è andata per sempre.

A est nubi a raggiera dilatano il cielo. Anche se l’inverno è vicino c’è nell’aria come un senso di speranza.

Spero che il futuro sia sempre per me come una pagina bianca.

MARZO 1989

 

 

 

 

 

IL BOSCO INCANTATO

 

Ho accettato l’incarico di riordinare la biblioteca nella villa della marchesa Dionisi.

La marchesa è vecchia e non la vedo quasi mai. Una cameriera vecchissima mi prepara da mangiare e a volte resto qui anche a dormire. Nelle ore di libertà scendo giù nell’orto per fare una passeggiata.

I libri sono centinaia. Tutte rare edizioni in pergamena, alcuni con serratura in rame e punte di ferro. Gli autori: Eliphas Levi, Crowley, Kremmerz, Barret, Papus, Kardec, Gardner, Blackwood, Frank Graegorius, trattano spiritismo, magia e stregoneria.

Un pomeriggio di maggio, stanco di catalogare libri, esco per fare una passeggiata.

Il giardiniere, che è anche guardiano, è un vecchietto rustico con berretto e un paio di stivali pieni di pezze. Lo guardo mentre zappa le cipolle con incredibile lentezza fischiettando un motivo. Le aiole sono piene di erbacce e sulla ghiaia crescono le ortiche. Quell’uomo è troppo vecchio e non riesce a badare a tutto.

L’orto è chiuso sul fondo da un cancello altissimo che lo divide da un bosco di alberi secolari. Già da alcune settimane provo il desiderio di entrare nel bosco ma il giardiniere trova mille pretesti per rimandare. Oggi, per esempio, mi dice che non può aprirmi perché non trova più la chiave.

Così gironzolo un po’ a caso finché trovo una apertura nell’alta siepe di caprifoglio. Aspetto che l’uomo mi volti le spalle per entrare nel bosco.

Corro su una grande radura con al centro frassini secolari. Arrivo a un varco tra gli alberi, come una specie di porta. La attraverso e sono accolto da una pioggia di aghi di pino.

Ci sono alberi grotteschi che assomigliano a ragni velenosi. Seguo un sentiero che passa vicino a un canneto. Poi il sentiero discende fino a costeggiare un laghetto.

Mi siedo sulla riva e guardo le grandi ninfee bianche sull’acqua scura. Al centro c’è un’isola con i ruderi di un tempietto coperto di erba. Lancio alcune pietre nell’acqua e guardo i cerchi che si formano e si espandono. I cerchi d’acqua danno vita a ondine fluide ed effimere.

Con la coda dell’occhio mi pare di scorgere delle persone vicino a me. Mi giro, ma non c’è nessuno. Questo succede due o tre volte. Così mi impongo la immobilità più assoluta e mi sforzo di osservare senza girare la testa.

Dopo un po’ rimango allibito per la sorpresa. Vedo ragazze nude che ridono e si tengono per mano. Sono al limite del mio campo di visuale. Quando mi pare che stiano per allontanarsi mi muovo appena e tutto scompare.

Resto ancora immobile finché intravedo di fianco a me una ragazza nuda con i lunghi capelli verdi. Il volto bellissimo mi guarda con una espressione perfida. Mi giro e lei con uno scatto si ritira. Di sicuro sulla riva c’è solo il gioco di luce ed ombre delle fronde mosse dal vento.

Mi rimetto in cammino. Il sentiero prosegue in mezzo a gelsi vecchissimi con tronchi tozzi di dimensioni colossali. I raggi di sole entrano a fatica, obliquamente e creano bizzarri chiaroscuri.

Nell’ombra qualcosa si muove. Mi fermo restando a guardare. Non c’è nessuno.

All’improvviso da dietro un tronco sbuca qualcuno, un bambino mi pare, ma con la faccia da vecchio. Corre a nascondersi velocemente dietro un altro tronco. Dopo un po’ altri due strani esseri piccoli e rugosi corrono a nascondersi dietro ai tronchi. Sono vestiti di corteccia di albero così da confondersi alla vista e si muovono velocissimi.

Ancora mezzo incredulo resto stordito dalla sorpresa. La mia mente è come intorpidita e rifiuta di riflettere. Poi, un pensiero si impone di colpo: il bosco è popolato dagli gnomi!

Il crepuscolo ristagna sullo sfondo del cielo in strisce di luce arancione. Devo uscire al più presto da questo posto, devo ritrovare la strada per tornare indietro.

Olmi e faggi sono curvi e fortemente piegati. Dal fondo di una grotta escono fiammelle che si muovono galleggiando a mezz’aria.

Mi accuccio il più possibile dentro a un cespuglio di bosso e resto in attesa. Misteriosi personaggi vestiti di nero sfilano in processione dirigendosi nel folto. Sono avvolti in lunghi mantelli neri. Alcuni di loro recano in mano una torcia accesa, e dove la manica è scostata si intravede un braccio di scheletro. Passano davanti a me ed io aspetto che sia scesa l’oscurità per osare a muovermi.

É una notte quieta, bianca di luna. Il senso di solennità è accentuato dal coro lontano dei grilli.

Cautamente mi incammino fra le avene selvatiche della radura. Passo vicino a una fontana: una Venere si bagna dentro una conchiglia fra le gocce d’acqua che scintillano come gemme.

Oltre i pioppi mossi dal vento vedo l’ombra angolosa della villa. Sembra una cattedrale e crea fantomatici disegni sul prato. A quella vista provo una grande gioia e accelero il passo.

Sotto alcune magnolie ci sono vasche con ninfee e fior di loto che dondolano al vento. Un fiore è particolarmente grande e mi avvicino incuriosito. Quando il vento lo inclina verso di me mi pare che assomigli a una testa... I petali del fiore ripetono la mia faccia, ed io sto guardando un altro me stesso, ma con i lineamenti più vecchi e furbeschi.

Lancio un grido di orrore correndo via attraverso il prato. Nel delirio vedo passare uccellacci neri davanti al disco bianco della luna, o forse sono streghe che cavalcano manici di scopa. Entro nella siepe di caprifoglio lacerandomi la camicia e infine corro a rifugiarmi nella mia stanzetta.

Quando esco al mattino dopo vedo il giardiniere seduto sul bordo del letamaio che sta fumando la pipa. Vorrei raccontargli subito che cosa mi è successo e chiedergli delle spiegazioni, ma mi manca il coraggio di incominciare. Lui mi guarda in maniera strana, come se sapesse, poi sorride maliziosamente:

“Ha avuto fortuna ieri sera?... con il suo lavoro.”

Senza aspettare la mia risposta prende in mano la zappa e incomincia a zappare. Dalla sua espressione intuisco che anche lui conosce il segreto del bosco e mi invita a mantenere il silenzio.

APRILE 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DIO IN SCATOLA

 

“L’infimo e il sublime sono le due vie di uscita dalla normalità.”

Un tizio impegnato a costruire aeroplanini di carta sta parlando da solo vicino a me, ma non gli do ascolto. Seduto nella sala di aspetto della piccola stazione mi annoio ad aspettare il treno che non arriverà prima di due ore.

“Io ho scelto la seconda soluzione e ho costruito un Dio” prosegue la voce.

Mi volto verso l’uomo che ha parlato. É magro, vestito di grigio. Approfitta del mio sguardo per sorridermi e per allungarmi la mano:

“Mi chiamo Adalghisio e sono meccanico.”

Fa una pausa: “Come le dicevo, poiché sono un meccanico ho voluto fabbricare un Dio logico, un Dio razionale. Mi capisce?”

“Ha fatto questo, dice? Chissà che fatica!” commento.

“No. Alcuni costruiscono imperi, altri fanno bolle di sapone. Io mi sono divertito a costruire un Dio.”

“Un Dio? Non è nuova questa invenzione. Ce ne sono già tanti sulla terra” gli rispondo deluso.

“Ci sono tanti Dèi che sono i simboli delle aspirazioni, dei desideri e dei bisogni dell’umanità. Questi Dèi sono la materializzazione di un grido di dolore, sono solo surrogati. Il mio Dio invece, quello che ho costruito, serve a realizzare i desideri.”

Questo tipo è un pensatore. Per metterlo in imbarazzo gli faccio la domanda che ha fatto impazzire per secoli i filosofi:

“A cosa serve la sofferenza sulla terra?”

Lui non sembra scomporsi e risponde con tranquillità:

“La sofferenza è come il pepe, serve a rendere meno insipida e più interessante la vita.”

I discorsi dell’ometto incominciano a interessarmi.

“E come l’ha fatto il suo Dio? Come un uomo?”

“Un Dio antropomorfo sarebbe stato possibile, ma con debolezze e vizi umani. No! Ho preferito dargli un’altra forma.”

“E serve per esaudire i desideri, ha detto?”

“I desideri dell’uomo.”

“Sì, sì, certo ma... può provare quello che afferma?”

“Venga. Venga a vedere. Il mio laboratorio è qui vicino. Sa, io non devo partire” spiega l’ometto, “di solito vengo qui solo per studiare i treni.”

Dopo un attimo di perplessità afferro le valige e lo seguo fuori dalla stazione. Manca ancora molto tempo all’arrivo del treno.

Seguiamo una strada lungo un corso d’acqua. Dopo un edificio diroccato con la scritta Albergo Lux imbocchiamo un vicolo trasversale, semibuio, mettendo in fuga decine di gatti rognosi. Qui molti edifici sono ancora semidistrutti dai bombardamenti della guerra. Dalle finestre escono i pipistrelli e nel silenzio si ode il lamento del gufo.

Penso che ho fatto male a fidarmi di uno sconosciuto. Forse ha intenzione di portarmi dai suoi complici per assalirmi e derubarmi.

Il quarto di luna nel cielo scuro è un gingillo dorato che tramonta dietro nubi di gommapiuma. Questa visione, chissà perché, mi rassicura e mi tornano alla memoria dei ricordi belli e tristi.

“Ho amato soprattutto due cose in gioventù” sussurro piano.” Una donna che ho perduto e un cane randagio che mi hanno portato via...”

“C’è un Dio anche per i cani, signore, come c’è un Dio per gli artisti e per gli amanti” mi interrompe.

“Bene, lei pensa che sia possibile ritrovarli ora?”

“Sì. Anche se spostare un tassello della realtà spesso comporta spostamenti indesiderati di altri tasselli per riequilibrare il piano. Cosicché alla fine con la somma di tutti gli eventi modificati si ottiene un risultato equivalente alla situazione iniziale.”

“Mi sta dicendo che non conviene modificare gli eventi. Si  contraddice!”  

“No. Ogni filosofia molto complessa sembra contraddittoria. Anche in natura sembra che ci siano delle contraddizioni! Ma eccoci, siamo arrivati.”

Un edificio tetro. Mi fermo, lascio che entri per primo e quando vedo la luce tremolare attraverso i vetri sudici mi azzardo ad entrare. É una officina. Dappertutto c’è unto e fuliggine. Intravedo un tornio, mantice, pressa, alcune grosse pompe idrauliche. Pezzi di motore d’aereo sono smontati sui banchi. Seguo l’ometto facendo attenzione a non inciampare nella ferraglia.

Apre una porticina. Attraversiamo un sottopassaggio basso di mattoni che immette in un pollaio col gabinetto. In un cortiletto fangoso camminiamo fra uno scolo per l’acqua e lunghi edifici scuri con tele di sacco alle finestre. Sento l’uomo che tira dei catenacci e poi esclama:

“Eccola, la mia creatura!”

Non vedo niente. Poi accende una lampadina fioca e anch’io entro.

Lo stanzone è occupato dalla mole alta e massiccia di un congegno che sembra un incrocio fra un orologio da torre e una macchina per tipografia. Ruote dentate, leve, contrappesi, stantuffi, un lungo bilanciere di ottone.. Nel silenzio si sente il lontano rumore d’acqua di una cascata.

Il meccanico non mi lascia il tempo per ammirare la macchina perché sembra impaziente di darmi subito le sue istruzioni. Mi fa salire su una scaletta di ferro fino a un seggiolino sistemato là in alto. Davanti a me c’è un complesso sistema di lenti e prismi e più in sotto la tromba di un megafono.

Da lassù vedo Adalghisio indaffarato a far scattare delle cremagliere. Forse ha aperto delle chiuse perché il rumore della cascata è aumentato.

Poi vedo Adalghisio che compone alcune sigle su una tastiera: (una vecchia tastiera Remington modificata) N 10022 T. A A J W X 23 Y.

Si ode uno scricchiolìo come di una ruota sotto sforzo che gira. Tutto il castello di acciaio dell’apparecchiatura si mette a vibrare e la stanza si riempie immediatamente del ronzìo basso degli ingranaggi, intervallato a tratti da duri scatti metallici. A quanto pare la macchina è partita.

Ora vedo che il meccanico preme un tasto rosso con la scritta: RICHIAMA. Il rumore diviene più intenso e si sentono le ruote aumentare di velocità. Seguono rumori di caldaie in pressione, risucchi di stantuffi, gracidii di seghe... Un indice rosso si alza e le lancette di alcuni strumenti si mettono a vibrare.

Adesso l’ometto pare indemoniato. La sua testa calva è sudata, ha lo sguardo sbarrato e si muove fra i congegni con movimenti sempre più frenetici. Mi grida qualcosa che non riesco a comprendere bene fra il rumore:

“Si tenga pronto -- -- arrivare...”

Tira alcune leve, spinge dei pomelli. Preme un tasto nero con la scritta: REALIZZA.

Sullo schermo in fondo al tubo appare un filo di fumo nerissimo che rotea come un mulinello. Il filo di fumo attira tutta la mia attenzione e mi pare che assomigli a una donna nuda, esile, che rotea e si contorce a incredibile velocità. Contemporaneamente sono disturbato da un sibilo, da un fischio sempre più acuto e insopportabile.

Segnalo a Adalghisio che mi faccia scendere, ma lui pare fuori di sé ed è impegnato a spargere olio sui congegni con un grosso oliatore.

Semistordito dal rumore assordante e dalle vibrazioni della macchina grido più forte aiutandomi con i gesti. Il rumore diviene ancora più acuto.

Adesso voglio scendere di qui. Non mi importa più niente dell’esperimento. Provo a muovermi ma mi sento intrappolato sullo stretto sedile e non riesco a trovare i gradini.

“Adalghisio, Adalghisio. Aiuto!”

In un ultimo tentativo di difesa mi tappo le orecchie per non udire più il sibilo e socchiudo gli occhi. In quella confusione infernale vedo sciami di faville bianche incandescenti.

La macchina sembra impazzita. Le vibrazioni sono sempre più forti, le leve corrono sempre più rapide, gli ingranaggi girano sempre più veloci, sempre più veloci... Al colmo della disperazione grido:

“Aiuto! Fatemi scendere! Voglio tornare in stazioneee...”

Odo uno stridìo. Un suono lacerante poi la stanza si riempie di un’esplosione di luce seguita dal buio.

Quando riapro gli occhi mi ritrovo seduto nella sala d’aspetto. Cosa è successo?

Mi passo le mani sugli occhi per scacciare la stanchezza. É stato solo un sogno. Devo essermi addormentato.

Gli altoparlanti sotto il soffitto gracchiano che il mio treno sta per partire. Devo affrettarmi se non voglio rischiare di perderlo.

Salgo sul treno e sistemo le valige. Mi siedo sui sedili di legno ascoltando il fischio del capostazione e gli sbuffi di vapore del treno che si muove.

Guardo le mie scarpe. Sono tutte infangate. Sui miei pantaloni ci sono macchie scure di olio.

Che occasione mancata!

Resto sbalordito dalla sorpresa. Che occasione perduta!

Il treno aumenta di velocità ed io non riesco ancora a riprendermi dalla terribile avventura.

Ma un giorno tornerò dall’inventore, e al suo Dio artificiale chiederò denaro, donne, giovinezza, potere...     

APRILE 1989

 

 

 

 

 

 

 

BELLA DI NOTTE

 

É molto tardi stasera e non sarò a casa prima di mezzanotte. Sto pensando a questo mentre percorro in bicicletta la strada di campagna.

Attraverso il Borgo di notte a tarda ora. I pochi fanali rischiarano appena la via semideserta con le case basse.

Il paese appare accucciato. Porte e finestre sono tutte chiuse. Solamente in fondo al paese da una vecchia osteria escono voci smorzate e tintinnii di bicchieri.

Appena finisce la via rientro nella notte di agosto, afosa e immensa. La notte buia è piena del canto dei grilli e del gracidare delle rane.

Improvvisamente sento i sassi della strada sotto di me. Ho forato la ruota posteriore!

Il paese che mi sono lasciato alle spalle è a qualche chilometro perciò decido di proseguire ugualmente. Dopo un po’ sono tutto sudato per la fatica, e l’andatura è così lenta che mi conviene camminare a piedi. La campagna si stende tutto intorno e mi restano ancora due paesi da attraversare.

Una fattoria con i lumi rossastri è come sperduta nella notte. In cerca di aiuto devìo per la stradina erbosa e mentre mi avvicino chiamo per farmi sentire.

Passo sotto alcuni archi in muratura, entro in un portico profondo e buio ingombro di carri, rastrelli in legno e altri attrezzi. Una lanterna accesa sta attaccata a un chiodo.

C’è una ragazza ancheggiante vestita di bianco ad accogliermi. É magra con le labbra rosa. I capelli a chignon sono raccolti in un nastrino d’argento. Con movimenti flessuosi sta ammucchiando mazzi di saggina per le scope e tutte le volte che passa davanti alla lanterna il suo corpo si profila controluce come se fosse nuda.

In fondo al portico passa qualcuno nell’oscurità. É un vecchio che spinge una carriola la quale cigola orribilmente. Poi una voce rugginosa chiama:

“Diana. Diana.”

Alcuni giovani, probabilmente fratelli, vengono a darmi una mano per riparare la bici. Portano una cassetta di attrezzi e incominciano a smontare la ruota.

Intanto una vecchia mi fa cenno di seguirla in casa. Lascio i ragazzi al lavoro e la seguo con la speranza di rivedere la ragazza.

Attraversiamo un corridoio scuro con ai lati mensole e ciuffi di pannocchie appese ai muri. Entro in una grande cucina dove alcuni uomini e donne sono seduti a tavola.

Il camino acceso ha la cappa sostenuta da due grifoni di marmo. Una lucerna a fiori di vetro celeste e rosa con lunghi steli bianchi spande una luce quieta. Sulla tavola massiccia sono rimasti i resti della cena fra le bottiglie semivuote.

La vecchia mi indica il secchiaio dove posso lavarmi le mani. Poi mi siedo insieme a loro. Spiego cosa mi è successo e qualcuno vuole offrirmi del vino. Restiamo così, in silenzio.

Parlano poco in questa casa però sono molto ospitali. Per evitare tutti quegli sguardi su di me, fingo di interessarmi alle foto appese oblique al muro. Raffigurano vecchioni con folte barbe bianche; probabilmente sono gli antenati.

Il tempo passa ed aspetto di rivedere Diana, invece lei non viene mai in cucina.

Qualcuno entra, ma è solo un ragazzo: viene ad avvertirmi che la bici è riparata. Ritorno nel portico. Ringrazio tutti, do loro una piccola mancia e me ne vado pedalando forte per recuperare il tempo perduto.

Solo quando sono quasi arrivato a casa mi ricordo del mio cappello che ho lasciato laggiù, sulla sponda del carro. Non fa niente. Avrò il pretesto per tornare a riprenderlo un’altra volta e potrò così rivedere la ragazza.

***

Circa un mese dopo, un pomeriggio d’autunno mi capita di dover passare ancora da quei posti.

Attraverso un ponte piatto sostenuto da otto colonne. Nel piccolo fiume passano galleggiando strati di mele marce. Il tramonto rosso porpora ha strisce d’arancio, come macchie di sangue rappreso.

La fattoria appare sullo sfondo dei pioppi gialli e tremuli nel cielo azzurro. É un palazzetto color arancione con due alberi di kaki carichi di frutta ai lati. Gonne rosse e viola stanno appese alle finestre.

Il portone è spalancato, bloccato dai rampicanti. Su un pilastro leggo la scritta sbiadita: Località Stellapersa.

Quando sono arrivato più vicino vedo che non sono gonne ma le foglie di una vite. Foglie bruciate, di un rosso maligno con sfumature violette.

Chiamo forte per farmi sentire ma questa volta nessuno risponde. Ci sono tini neri e sfasciati, una meridiana sbrecciata. Tralci secchi della vite pendono dalla ringhiera di ferro arrugginita. I gatti corrono sui tetti bassi dei pollai e sulle ceppaie tarlate. Il vento ha portato alcune foglie sulla soglia dell’ingresso, disponendole casualmente tutte oblique.

Il portico è molto più malandato di come lo ricordavo. Alcune travi sono tarlate e ho paura che non reggeranno a lungo il tetto. Entro e ritrovo il mio cappello sopra uno strato di polvere, là dove lo avevo lasciato. Chiamando di nuovo apro la porta, percorro il corridoio ed entro in cucina.

Rimango sbalordito mentre sento un brivido freddo corrermi per tutto il corpo. La stanza sembra abbandonata da decenni. Ci sono ancora le sedie attorno alla tavola, come se le persone si fossero appena alzate dopo una partita a carte. Ma è tutto pieno di polvere e sporcizia. Polvere sulla tavola e sui mobili sfasciati che cadono in pezzi. C’è ancora un ceppo nel camino dove i ragni hanno tessuto tele enormi.

Allora salgo lo scalone che porta ai piani superiori. La luce arancione del tramonto ristagna nei saloni vuoti. Le imposte sbattono e il vento entra nelle stanze. Una camera da letto marcita è abbandonata ai tarli e all’umidità.

In un’altra stanza ci sono dei barattoli arrugginiti, una macchinetta per l’insetticida. Più in là c’è una bambola rotta.

Sconsolato mi avvicino a una finestra e rimango a pensare e guardare fuori. Il cielo è turchino con trasparenze tendenti al lilla. Le foglie secche delle viti stridono come vetro. Dal fiume si alza la nebbia. C’è tanta bellezza e solitudine.

Le prime ombre della sera si allungano nelle stanze. Mi sembra di percepire fantasmi silenziosi, forse gli spettri di coloro che sono vissuti tra queste mura.

La casa si anima di misteriosi fruscii, di scricchiolii. Sono i conciliaboli del silenzio che si sentono in tutte le case vuote.

Qualcosa di strano sul pavimento attira la mia attenzione. É una mattonella a forma di losanga di colore leggermente diverso dalle altre. Mi chino e vedo che è falsa perché è fatta di legno e si muove. É uno spioncino, come erano soliti metterli nelle case di campagna.

Sollevo la mattonella e riconosco la stanza sotto di me. É la cucina. Una vecchia sta impastando le lasagne. Una donna fa uno scialle seduta accanto alla finestra...

Mio Dio! Non è possibile questo! La fattoria era disabitata! Devo accertarmene subito se non voglio impazzire.

Corro verso le scale ma passando da una finestra vedo qualcosa di bianco che si muove laggiù fra le viti. Mi arresto di colpo con un tuffo al cuore:

“Diana!!!” grido.

Come un forsennato corro giù dai gradini, attraverso il salone ed esco dalla parte posteriore.

Nel cortile ci sono grossi alberi di fichi lungo il muro nord fra ombra e umidità. Una sella da cavallo è appesa sopra alla porta.

La sera è scesa sul vigneto. Una brezza fredda mi fa rabbrividire.

Nulla. Nessuno. Dalle distese di vigne rosse violacee arriva il crepitìo delle foglie secche. Sotto un cespuglio di lillà un vecchio dondolo sfasciato oscilla nel vento.

Avanzo alcuni passi nell’erba alta e la vedo di nuovo.

“Diana! Diana!” chiamo con voce roca dall’emozione.

Poi corro verso di lei ma le erbacce alte e le ortiche rallentano il mio slancio. Una bambina bionda appoggiata a un pagliaio mangia una mela e mi guarda.

Mi fermo smarrito tra i filari contorti delle viti.

Una forma bianca passa laggiù, sinuosa e veloce.

“Diana! Diana!”

La chiamo di nuovo e la mia voce ha una nota disperata mentre riprendo a correre affondando nelle erbe alte, rosse di siccità.

“Diana! Diana!” urlo agitando le braccia.

Corro come un pazzo, come un invasato. Le mie scarpe si riempiono di sementi. Cado più volte; ogni volta mi rialzo sempre più sporco, infangato e mi rimetto a correre.

Il mio inseguimento diventa una ossessione. Sento di essere al limite delle forze. Sento che tra pochi istanti cadrò per terra stremato ma non voglio pensarci e continuo a correre e a gridare.

Le foglie delle viti intorno a me sono rosse, arancione, gialle, marrone, violette, blu...

 

MAGGIO 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

IL MORTO CANDITO

 

Questa notte improvvisamente è mancato il Cavaliere Commendator Grand’Ufficiale Bartolomeo R. Ferrarese. Quattro medaglie d’oro al merito. Di anni 96.

Lo annunciano straziati dal dolore i cugini Ernesto, Gustavo, Berardo con le rispettive mogli.

 

Annientati dal dolore per l’incolmabile perdita di Bartolomeo R. Ferrarese di anni 96 Membro onorario della Società per i diritti civili. Munifico presidente del Comitato Pro Humanae Caritatae che si è distinto per le eccelse virtù e gli altissimi meriti.

I nipoti e i pronipoti.

 

Gli avvisi funebri attaccati al muro sudano gocce di colla sotto il sole rovente di luglio. Il funerale di seconda classe si svolge nella chiesetta di periferia. La campana fessa si è stancata di suonare i rintocchi perché il morto è in ritardo di quaranta minuti.

Sono le tre del pomeriggio e fa un caldo che mi sembra di scoppiare. Il giardinetto del sagrato è tutto spelacchiato e i fiori nelle aiole sono bruciati dalla siccità. Sul cornicione della chiesa i colombi tubano. Ogni tanto cade giù il loro sterco. Il termometro della banca segna quarantotto gradi all’ombra.

La gente sbuffa dal caldo. Non ne possiamo più di aspettare sotto il sole che scotta, con lo sterco dei colombi che ogni tanto ci cade in testa. Un ciccione vestito di nero vicino a me sembra scoppiare dentro al vestito. Cola da tutte le parti grosse gocce di sudore e continua ad asciugarsi la testa e la fronte con un fazzoletto ormai fradicio.

Mi sposto all’ombra di un pinnacolo ma sento un formicolìo nel corpo per il troppo caldo. Il termometro di là della strada segna quarantanove gradi.

Eccolo che arriva, pianissimo, in fondo alla via. Precedono le bandiere listate a lutto e gli stendardi funebri. Sul carretto la cassa color antracite luccica sotto il sole a perpendicolo. Con questo caldo il morto ci starà bollendo dentro.

Un tizio in nero incomincia l’elogio funebre:

“Signori...”

“La merda!” grida un ragazzino.

É passato uno stormo di colombi e il loro sterco ci è caduto in testa e sulle giacche come tanti coriandoli neri. Per sfuggire ad altri inconvenienti il discorso è sospeso ed entriamo in chiesa.

Caldo asfissiante anche lì e sole che ci investe entrando dai finestroni. I petali dei fiori sono appassiti e cadono sul pavimento. I facchini sollevano la cassa sopra al catafalco e ha inizio l’ufficio funebre.

L’uomo delle pulizie sale sull’altare a fare da chierichetto. É un tizio magro, maldestro che rovescia i vasi sacri durante il servizio religioso. Il prete vecchissimo, zoppo ed estremamente lento non sembra accorgersene. Intona un canto stonato e qualcuno lo accompagna cantando fuori fase.

Accanto a me i parenti pregano. Poi sottovoce si domandano in quale giorno verrà aperto il testamento. Quelli nel banco dietro di me invece stanno facendo il conto delle probabili suddivisioni dell’eredità e fanno la stima degli utili che si possono ricavare.

Le candele sono curve, sgocciolanti, rovesciate. A metà della funzione è necessario interrompere per arrestare un principio di incendio. La base in legno del portacandele sta prendendo fuoco e alcuni dei presenti corrono a portarla fuori. Nubi di fumo si diffondono nella navata facendomi tossire. Alla fine il prete prende il fornellino dell’incenso e con qualche nuvoletta di fumo licenzia il defunto.

Quando usciamo di nuovo fuori sono investito dallo schiaffo del caldo: sudore che cola giù per la schiena, gola secca, senso di soffocamento come per eccessiva pressione. Sento un pizzicore per tutto il corpo mentre mi incammino nel corteo che serpeggia sulla strada assolata.

In cimitero ci dirigiamo verso la parte vecchia. Per i vialetti le pietre scottano e rimandano un calore d’inferno. Molte lapidi hanno la scritta illeggibile. Passiamo accanto a una cappella che ha il soffitto sfondato. Con le scarpe affondo in una pozzanghera prosciugata dove ci sono centinaia di girini morti.

Siamo rimasti in pochi perché molti sono già andati a casa. Intanto gli operai là davanti hanno sollevato la pietra tombale e stanno spargendo giù del liquido. L’odore acre del disinfettante mi fa arretrare. Quando mi avvicino, dalla stretta botola aperta intravedo pile di bare nere ai lati del loculo.

I becchini sollevano la bara e la alzano in verticale. Sento il rumore del corpo che si raggrinza e si piega su se stesso all’interno della cassa, sbattendo contro le pareti. Imbrigliano la cassa con le corde e poi la calano giù dalla botola tenendola in verticale. Al colmo dello sforzo agli uomini sfuggono sbuffi di rabbia e di fatica:

“Dai! Tira! Oooh...”

Un tonfo avverte che la cassa ha toccato il fondo. Adesso tocca a un uomo magrolino scendere giù e sistemare la cassa. Ha il camice grigio, la barba ispida e grigia come la sua faccia.

In silenzio, aiutato dagli altri si cala giù. Spinge la bara mentre gli altri operai da sopra tirano le corde. Riesce ad adagiarla per un lato sopra alle altre casse. Adesso prova a sollevare anche l’altro lato ma la cassa gli scivola giù con un tonfo. Si sentono imprecazioni, rumori e tosse catarrale giù nella polvere.

Al secondo tentativo l’operazione riesce. Con sforzi e sbuffate la cassa va a finire in cima alle altre. Gli operai ritirano le corde. Quello sotto si appresta a risalire faticosamente fra un gran polverone. Mette i piedi sulle casse servendosi come gradini. É quasi arrivato. Vedo la sua testa con i capelli pieni di ragnatele.

Crak! Uno schianto e un grido disperato:

“Aaaaaaagh...”

Segue un boato tremendo di casse che precipitano le une sulle altre. Evidentemente una cassa ha ceduto facendo precipitare tutte le altre.

Gli operai sbraitano e si muovono con movimenti concitati. C’è confusione e baccano. La polvere sale dalla botola come fumo impedendo di vedere cosa è successo.

Un altro operaio si lega con le corde e si cala giù.

Dopo molti sforzi il compagno viene recuperato, malconcio, sporco e insanguinato ma ancora vivo.

 

MAGGIO 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE ERBE VAMPIRE

 

“... quelle dannate erbe devono essere carnivore...”

Mi volto verso il mio amico Roberto che ha appena parlato.

“Eh? Di che cosa parli?”

“Delle erbe che sono spuntate alla vecchia fornace abbandonata...”

Si riferisce a una fornace abbandonata oltre quaranta anni fa.

“Erbe carnivore qui da noi, con questo clima? Non è proprio possibile...” gli rispondo pescando con la memoria nei miei vecchi ricordi di botanica.

Stando sveglio nel mio letto di notte, ricordo i frammenti del mio ultimo dialogo con Roberto. Sono stato uno degli ultimi testimoni a vederlo, prima della sua scomparsa. Quella sera all’osteria ero stanco e ascoltavo distrattamente i discorsi dell’amico. C’era il temporale e aspettavo che smettesse di piovere per andare a casa a dormire.

Il giorno dopo Roberto scomparve di casa e la polizia lo sta cercando da oltre due settimane. Alcuni dicono di averlo visto insieme a una donna. Altri suggeriscono che è partito in cerca di libertà.

In realtà da quando l’ho conosciuto ha sempre dimostrato un carattere difficile, imprevedibile. Possedeva un grande senso per l’amicizia e un profondo amore per la libertà. Il suo problema forse nasceva da questo contrasto: amava le persone, ma non sopportava i vincoli che l’amore da sempre crea.

Ricordo che altre volte Roberto mi aveva chiesto di andare alla vecchia fornace per studiare le erbe... Come ho potuto dimenticare tutto questo! Forse sarà andato là da solo e si sarà fatto male. Forse è là che bisognerebbe cercarlo adesso.

Accendo la lampada e guardo l’orologio; le due e un quarto di notte. Chissà se invece non sia veramente partito in cerca di libertà.

Il mattino seguente sto per andare alla polizia ma all’ultimo momento cambio idea per non rischiare di apparire ridicolo.

Sul tardo pomeriggio mi tornano in mente le ansie della notte. Così per scrupolo mi incammino sul sentiero in discesa che conduce alla fornace. Sarà tutto cadente da quello che si può vedere da lontano. Tetti sfasciati. Due cinture in ferro del camino saltate...

La fornace sorge isolata nei campi. Lo stesso villaggio che ospitava a quel tempo gli operai è abbandonato perché le famiglie sono emigrate. Man mano che mi avvicino la mole dell’edificio diventa gigantesca, imponente e si notano maggiormente i danni dovuti all’abbandono.

Arrivo dietro, sul lato ovest dopo aver attraversato un tratto di terreno incolto. Sono tutto sudato. C’è un calore afoso in questa estate eccessivamente umida. Il lunghissimo muro di cinta è crollato in un punto così non dovrò fare la fatica di scalarlo. Salgo sulle macerie e da lì entro dentro.

Un cortile affollato di strane erbe spinose tipiche dei terreni aridi. Artemisie gigantesche dal fusto rossastro. Scopacci (Erigeron Canadensis) grandi come non ne avevo mai visto. Davanti a me le basse casematte di mattoni rossi investite dal sole. Più oltre si susseguono le lunghe campate dei tetti e sullo sfondo torreggia il camino rosso-bruno contro l’azzurro del cielo.

Resto all’ombra del muro di cinta provando una strana eccitazione. Anche Roberto è stato qui prima di me e ha visto tutto questo.

Poi scendo giù e guardo le erbe. A quale si riferiva il mio amico? C’è il cardo, poi un tipo di erba rossastra che ho visto ancora da qualche parte... No non si tratta di queste.

Cammino nel cortile deserto provando uno strano disagio. Compio giri, per evitare le erbe spinose, fino a un portone in ferro nero. Di fianco c’è una pianta di cardo gigantesco che arriva quasi ai tetti delle costruzioni. Per terra ci sono lunghi chiodi arrugginiti e teste di comignoli cadute.

Sul lato sud allignano steli alti e magri che attirano la mia attenzione. Non ho mai visto niente di simile. Mi avvicino per esaminarli. Sono erbe alte più di due metri color marrone bruciato. Provo a scuotere lo stelo duro e flessibile. Per tutta l’altezza spuntano peduncoli appuntiti e alla base ci sono foglie lunghe e sottili.

I mattoni rossi illuminati dal sole al tramonto immergono il cortile in una strana luce rossastra che sembra sangue. Allora entro negli edifici cupi e pieni di polvere. Sento rumore di uccelli in fuga sotto i tetti. Percorro i corridoi lungo le camere di cottura. Guardo dentro alle arcate scure e  profonde. Raggiungo la base enorme del camino. Del mio amico Roberto non c’è nessuna traccia.

Su una passerella sopraelevata trovo una scarpa che potrebbe appartenere a Roberto. Ma è vecchia, polverosa e chissà da quanto tempo è qui.

La luce dorata del sole che entra dai finestroni mi avverte che sta scendendo la sera. Sporco e sudato ritorno indietro e abbandono le ricerche.

La stessa notte penso alla mia escursione alla vecchia fabbrica. La scarpa che ho trovato laggiù sarà stata veramente di Roberto? Per togliermi ogni dubbio decido di tornare a prenderla il giorno dopo.

Ma al mattino gli impegni non mi consentono di allontanarmi dal lavoro. Al pomeriggio per sfortuna arriva un temporale con pioggia, vento, grandine e devo aspettare che finisca.

Sul tardo pomeriggio quando è tutto passato mi incammino sul sentiero fangoso che porta alla fornace. Dopo la tempesta l’aria è fredda e il cielo ha una luminescenza di cristallo. Il sole color rosso sangue sta tramontando in uno scenario di nubi viola e turchine.

Oltrepassata la breccia nel muro il cortile appare più piccolo e isolato. I mattoni riflettono il colore rosso cupo, le erbe bagnate sembrano vetrificate. Poiché desidero far presto mi metto a correre ma il terreno appiccicoso trattiene la mia scarpa facendomi cadere.

Rimango seduto, ansante, ad asciugarmi il sudore. La temperatura è molto elevata qui dentro. Forse a causa dei riverberi degli edifici intorno al cortile chiuso.

C’è una ragnatela rossastra, come una specie di muschio esteso sul terreno. La mia mano toccandolo si è arrossata. Gratto via il prurito e mi alzo in piedi. Odo uno strano fischio, sottile, lontano e intermittente. Mi fermo per ascoltare il fenomeno. Sarà il vento che fa fischiare le lamiere delle grondaie.

Mi chino di nuovo per osservare la ragnatela rossastra che qui è ancora più evidente. E lo strano sibilo sopra di me è aumentato diventando più acuto. Ma cosa sta succedendo qui dentro?

Il terreno ha strani rigonfiamenti simili a collinette e in quei punti sembra più molle e appiccicoso. Alzo la testa di scatto allarmato e impaurito. Le strane erbe filiformi adesso si piegano tutte verso di me come sotto l’effetto del vento. Ma non c’è vento!

Allora vedo il germoglio rosso vivo, mostruosamente aperto e pulsante come una bocca...

Senza perdere un istante mi lancio di corsa passando sotto alle erbe piegate. Raggiungo il muro di recinzione nel punto più vicino, evitando di attraversare il cortile per arrivare alla breccia dell’uscita.

Scalo freneticamente i mattoni senza badare alle cose che mi toccano e sembrano volermi trattenere. Quando sono sulla cima prima di saltare dall’altra parte guardo per l’ultima volta il cortile assassino.

Tutto vibra e si muove. Le erbe fischiano, si piegano, la ragnatela si è ingrossata come rivoli di sangue.

Il mio pensiero va al mio amico Roberto e da questo momento ho perduto la speranza di rivederlo.

 

AGOSTO 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL FRUTTO MIRACOLOSO

 

Questa mattina c’è una strana agitazione nella casa del mio vicino. Lui non è ancora uscito per andare a lavorare. Persone entrano ed escono, altre sono raggruppate davanti ai cancelli.

Il mio vicino è un manovale di 55 anni e abita in una casetta con piante di serenelle, assieme alla moglie, tre figli e il vecchio padre.

Sono arrivate ancora delle altre persone perciò, dopo colazione, scendo giù in strada. Chiedo a una grassona che sta in piedi in attesa se può dirmi cosa è successo. Così mi racconta la storia più incredibile che abbia mai sentito.

La sera prima, 15 luglio, il manovale nel tornare dal lavoro si era fermato da un ortolano per comprare un cocomero. Lo sceglie grosso nel campo, lo stacca e lo porta a casa. Taglia il cocomero davanti alla moglie e ai figli e vedono che all’interno c’è scritta una grande lettera M.

Restano allibiti e non osano toccarlo. Allora chiamano i vicini e restano a discutere tutta la notte. Concludono di conservarlo nella ghiacciaia per il giorno dopo.

Questa mattina molti paesani hanno saputo questa storia e sono venuti a vedere. In questo paese dove non succede mai nulla anche un fatto insignificante attira l’attenzione.

Così mi unisco al gruppo di curiosi e aspetto il mio turno per vedere di cosa si tratta. Arriva uno dei figli ad aprirci e ci fa entrare in casa. Aspettiamo ancora in piedi nella piccola cucina. Alcuni parlano a bassa voce facendo congetture, altri si informano sui particolari.

La cucina è piccola, afosa e malrischiarata. Il pavimento di mattoni sconnesso, i mobili scuri e sporchi. Da una porticina aperta vedo il retrocucina. Uno stanzino stretto e semibuio con uno stipo, una finestrella e una vecchia ghiacciaia.

Arriva il padrone di casa, alto, magro e sdentato. Con modi servizievoli ci guida dentro il retrocucina. Tira i catenacci per aprire lo sportello della ghiacciaia. Sembra un sacerdote che apre il reliquiario di un Dio. Trattengo l’impulso di ridere. Ma sono diventati tutti matti qui? Cosa si aspettano di vedere?

La porta in legno si apre e là nel biancore del ghiaccio spiccano le due metà rosse del cocomero. Come le vediamo rimaniamo scioccati. Perché c’è una grande M perfetta, simmetrica, incavata da entrambi i lati. La M è nitida, precisa da sembrare intagliata.

Rimaniamo alcuni minuti a guardare stupiti, nel silenzio e nella penombra della vecchia dispensa. Una donna si inginocchia. Un uomo butta del denaro per terra, subito imitato da un altro.

Ritorno a casa e durante il pomeriggio arrivano ancora nuove persone per vedere il fenomeno. Prima di sera si saranno stancati e saranno andati via tutti.

Invece il giorno successivo il pellegrinaggio è aumentato. Arriva gente da tutte le parti per vedere il cocomero. I cancelli del cortile rimangono adesso sempre aperti.

Scendo giù anch’io e mi mescolo tra la folla. Si sono formati piccoli gruppi che discutono a bassa voce ma in maniera concitata. Alcuni parlano di opere miracolose, altri di un segno divino.

Entro in casa e quando sono in cucina comprendo il perché di tanta agitazione. Il vecchio prete, calvo e grasso sta parlando con la sua vocetta:

“... secondo me è uno scherzo della natura e non è un simbolo divino né ultraterreno.”

Verso mezzogiorno arrivano uomini eleganti con riflettori e macchine fotografiche. Sono i cronisti di un giornale locale. Alcune persone vengono fatte uscire dalla cucina per far spazio. I figli spostano una credenza e vengono installati i riflettori. Poi il padrone di casa, aiutato dalla moglie, toglie il frutto dal ghiaccio e lo porta sulla tavola, davanti agli obiettivi.

Rivedo il cocomero con il suo disegno inquietante. É ancora più rosso, la M è ancora più evidente perché i solchi si sono allargati anche se un po’ slabbrati.

Davanti al frutto, sulla tavola, vengono depositate offerte, monete, braccialetti d’oro, orecchini.. Il manovale è sempre disponibile e servizievole. Accoglie tutti, offre da mangiare ai forestieri. Sembra svolgere una missione affidatagli da un destino superiore.

Poi arrivano i cronisti di una radio locale per l’intervista. Di pomeriggio quando vado di nuovo giù tra la folla, vengo a sapere che il prete ha dato la benedizione alla casa. Adesso stanno scrivendo una richiesta per far arrivare sua eccellenza il Vescovo.

All’alba del giorno dopo sono svegliato da rumore di clacson e rombare di motori. La strada è ingombra di veicoli che avanzano a passo d’uomo formando un lungo serpente.

C’è uno strano andirivieni di signori eleganti e barbuti. Saranno forestieri venuti da lontano. Approfitto della confusione per entrare anch’io in cucina a vedere gli sviluppi del caso.

Adesso è tutto cambiato qui. Hanno spostato i mobili e la cucina sembra un santuario: ci sono addobbi, libri, talismani, pentacoli...

Comprendo che i signori venuti sono occultisti e maghi. Discutono fra loro in un linguaggio ermetico. Fanno speculazioni, cercano analogie, studiano nelle profezie... Parla un tale con voce tonante:

“La M può significare Morte, Magia, Madre, Mondo, Mostro... Ma leggendola rovesciata si potrebbe interpretarla come una W e in questo caso Vittoria del bene sul male o Vittoria sulla morte...”

Interviene un altro:

“Ho trovato la quartina dove Nostradamus fa accenno a questo episodio, ascoltate...”

Ma viene interrotto da un cabalista:

“Il 15 luglio, sole nel cancro dopo il solstizio d’estate, significa ascesa. Il 15 rappresenta il diavolo dei tarocchi, l’energia. Adesso, signori, vi faccio notare che se sommiamo il 15 giorno al 7° mese che simboleggia il misticismo, otteniamo il 22, numero del destino...”

Il mattino seguente sono svegliato da un brusìo sotto alle mie finestre. La strada sotto è tutta piena di gente. Un poliziotto regola l’afflusso dei visitatori all’ingresso. Un altro è davanti ai cancelli. Ci saranno almeno 500 persone che aspettano di vedere il fenomeno. C’è un tizio con la cesta di frutta, il venditore di foto ricordo, il venditore dell’acqua di melissa... Sono arrivate le corriere con targhe di città lontane che scaricano intere comitive... Fin quando durerà?

Circa all’una del pomeriggio sento inni e clamori provenire dal cortile. Corro giù e mi faccio strada tra la marea di folla.

Grida isteriche provengono dall’interno della casa. La gente parla di una donna guarita dalla paralisi dopo quindici anni di immobilità. Do spintoni per avanzare e finalmente riesco a guardare da una finestra.

La cucina è rischiarata dalle candele e c’è fumo e odore di cera. Vedo una donna piccola e brutta che cammina in mezzo a un cerchio di persone che la incitano.

La donna cammina barcollando, emettendo grida isteriche. Dietro di lei una sedia a rotelle vuota. Per terra gli scialli che alzandosi ha lasciato cadere. Intorno la folla si inginocchia, prega, seguita a scandire e ripetere la parola: “Miracolo!”

All’alba del quinto giorno appena mi sveglio corro ad aprire la finestra per vedere la situazione. Sotto è tutto pieno di gente. Qualcuno grida facendo segnali con la paletta. La casa del mio vicino ha porte e finestre spalancate.

Però succede un fatto strano. La gente scende, gli automezzi fanno manovra di inversione e poi quelli che erano scesi risalgono sulle corriere.

Vado giù in cortile e mi avvicino ai gruppi di persone che discorrono animatamente. In breve tempo vengo a sapere la novità: questa mattina il frutto è marcito ed è stato buttato nelle immondizie!

La gente è dispiaciuta, delusa. Qualcuno commenta; qualcun altro non vuole rassegnarsi e parla di sacrilegio, di azione blasfema...

Adesso che non c’è più niente da vedere molti sono già partiti e gli altri sono assiepati sul ciglio della strada in attesa di andare via. Prima di sera non è rimasto più nessuno e il luogo appare deserto.

É arrivato l’autunno umido e nebbioso e la gente sembra aver dimenticato. Tutto è tornato come prima. La casa dei miei vicini è ancora una casa come tante altre. I cancelli sono chiusi e nessuno viene più qui.

Il padrone di casa esce tutte le mattine presto per andare a lavorare e ritorna alla sera. Si dice che abbia comprato altri cocomeri, senza trovare nulla di strano.

É tutto finito. La grigia quotidianità del piccolo paese di campagna ha cancellato la rossa ondata di follia.

Una mattina mi sveglio dopo una notte di pioggia. Guardo alla finestra il sole scialbo che sta spuntando dietro ai tetti. Il giardino del mio vicino è allagato di pioggia. Allora sposto lo sguardo sul muro est della casa e noto il fenomeno.

Durante la notte le lumache, con il loro percorso capriccioso, hanno disegnato delle grandi M che luccicano argentee ai raggi del sole.

SETTEMBRE 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DOSSO DELLE STREGHE

 

Durante la primavera e l’estate andavo a trovare Monia, la figlia minore del fattore.

Il padre è vecchio e lavora nella stalla. La madre è semiparalizzata e lei deve badare ai lavori di casa. Ha un fratello, un ragazzone simpatico con un nome originale: Aldighiero, sempre occupato a studiare occultismo e folklore campagnolo.

Monia abita insieme ad altre tre famiglie nell’ala più recente di una costruzione quattrocentesca. La parte più vecchia dell’edificio ha inferriate panciute e due torri con grondaie penzolanti e avvitate.

La sera del 30 giugno durante la seconda raccolta del fieno, poiché ho avuto molto da lavorare arrivo tardi all’appuntamento. Monia è già sulla soglia di casa e mi accoglie con un bacio leggero sulla bocca. Mi prende per mano e mi attira dentro.

Come le altre sere rimaniamo in un angolo della cucina a parlare dei nostri progetti futuri. Lei è una ragazza semplice e buona, forse un poco ingenua. Se le faccio involontariamente del male, come succede a tutti gli innamorati, provo una profonda sofferenza nel cuore.

Più tardi Monia si sente stanca e la lascio andare a letto. Quando viene a darmi la buona notte indossa una camicia bianca lunga fino ai piedini nudi. I capelli sono sciolti e in mano regge un portacandele. Si china un poco per darmi un bacino. Sento un profumo leggero e la carezza soffice dei capelli, poi fugge via di corsa su per lo scalone semibuio.

Così rimango nella grande cucina a chiacchierare con il fratello. Questo ragazzo di trentanove anni, robusto, scapolo, ha una conoscenza dell’occultismo davvero profonda. Va a prendere pile di documenti ingialliti e mi legge i resoconti di cronache locali, talvolta strane, talvolta incredibili.

Dalle finestre aperte sento il frinire dei grilli. Si è fatto tardi e domani devo alzarmi presto, così interrompo Aldighiero perché devo andare via.

Lui mi accompagna fuori sulla grande aia silenziosa, illuminata dal plenilunio. Le cataste di pali sembrano irte di corni e la fila di porticati sono immersi nell’ombra. Sto per andarmene quando Aldighiero mi suggerisce di passare dietro alla sua proprietà per arrivare a casa prima.

“Segui la scorciatoia fra i meli, attraversi il guado sul fiume e passi vicino al dosso delle streghe.”

Questo è un monticello di terra battuta alto cinque o sei metri, ricoperto di rovi. La leggenda afferma che è stato costruito dalle streghe in una sola notte. In realtà si tratta di una altura artificiale costruita a scopo di vedetta dalle truppe di Napoleone.

“Ma sei sicuro che in questa stagione sia praticabile?” gli chiedo.

“Certo. Vieni, ti accompagno io.”

Si mette gli stivali e ci incamminiamo dietro casa sull’erba alta bagnata di rugiada. La notte è calda, incantevole. La luna allaga la pianura di luce bianca.

“Guarda queste vene di siccità.”

Mi indica delle striature bruciate che attraversano il raccolto. Si china per raccogliere qualcosa:

“E qui ci sono delle penne di gallina. Segno che qualcuno ha lanciato la malìa” lo sento borbottare.

“Ma è ridicolo! Tutto questo è paganesimo, ignoranza, buie credenze del passato...”

“Cose del passato, dici? Non hai idea di come la stregoneria sia praticata oggigiorno da queste parti. Le vecchie megere raccolgono ancora la rugiada nella notte di Lammas e la notte del solstizio. E là abita la vecchia Vertha che bolle i pentolini e nei pleniluni è stata vista camminare sulle punte degli alberi...”

Il suo racconto è interrotto dal grido di una civetta. Aldighiero si volta alzando gli occhi e anch’io seguo il suo sguardo. La casa in lontananza sembra un animale in agguato, pronto a saltarci addosso. Le due torri si elevano nere e dentellate nella luce della luna. Dopo un attimo di silenzio il grido si ripete stridulo, lamentoso, prima di finire in una specie di risata da far rabbrividire. Aldighiero commenta sforzandosi di sorridere:

“La civetta canta alla nostra destra, uno di noi è in pericolo. Se fosse stata a sinistra invece...”

Costeggiando il fiume tra le erbacce incontriamo mucchi di sassi disposti a triangolo. Sembrano piccoli menhir, e Aldighiero compie giri larghi per evitarli. Il fiume fa un’ansa e si restringe. Salto in quel punto servendomi di una pertica. Poi rilancio indietro la pertica e proseguo da solo sul sentiero.

Cammino trasognato sforzandomi di dimenticare quelle truci superstizioni. Sento il canto dei grilli e a volte la brezza mi porta il profumo dolce del caprifoglio. La notte è tiepida nell’immensa quiete.

Una luce rossa si muove laggiù nei campi. Mi fermo a guardarla. É una fiammella tremolante che procede saltellando. Che cosa può essere? Forse è un fuoco fatuo.

La luce avanza saltellando sospesa sul terreno, sorvola il fiume passando davanti a me e prosegue in diagonale nei campi. Poi il chiarore rossastro scompare dietro ai gelsi. Riappare più lontano, la intravedo fra il fogliame finché la perdo definitivamente.

Mi fermo con il cuore che batte per l’emozione. Quando riprendo il cammino, dopo pochi passi vedo un’altra luce provenire dalla stessa direzione. Istintivamente rimango immobile e dopo un po’ la vedo passare, questa volta molto più da vicino. Sembra una sfera gassosa di luce rosso-giallognola sospesa nell’aria. Procede velocemente in direzione del monte artificiale. Incuriosito provo a seguirla ma poco dopo anche questa scompare.

Il dosso delle streghe si eleva nero di fianco a me, coperto di erbacce e rovi. Allora vedo altre luci piccole e grandi provenire da diverse direzioni. Si spostano tutte veloci e silenziose a diverse altezze e convergono verso il dosso delle streghe. Le seguo con lo sguardo e resto allibito.

Il monticciolo a tratti sembra avvolto da un alone di luce verdognola. Mi avvicino ancora di più camminando nella sterpaglia fin quasi alla base del monte. La luce lunare lo illumina e vedo le asperità, i rametti contorti, la sommità brulla dove si muovono alcune ombre...

Odo sussurri di donne e risatine portate dalla brezza. Lentamente le ombre si alzano e incominciano a spogliarsi. Si spogliano completamente finché restano tutte nude, immobili, tenendosi per mano.

Vedo ragazze giovani e vecchie megere. Nel grande silenzio i loro corpi biancheggiano sotto la luna.

Un canto lieve, monotono, proviene dall’altura. É appena percettibile tra il fruscìo delle foglie, e a volte scompare nel vento. Dopo un po’ si fa più forte e il suo ritmo diventa più veloce.

Adesso le donne incominciano a muoversi e formano un girotondo. Vedo corpi di adolescenti e corpi deformi di vecchie. A volte intravedo perfino qualche viso ghignante. Le carni sode hanno lampi bianchi, i seni ballonzolano.

Girano piano dapprima, ripetendo la nenia, poi aumentano il ritmo. La danza si fa sempre più frenetica, i movimenti sempre più rapidi, il canto sempre più ossessivo... Il girotondo diviene veloce, sgangherato...

Adesso girano invasate, sbraitando attorno a qualcosa che sta nel centro. Improvvisamente qualcuna grida un nome. Il canto cessa di colpo. Il girotondo finisce. Le streghe cadono a terra con una esclamazione di stupore.

Il silenzio diviene assoluto. Non vedo più nessuno. Lo stupore e il senso di attesa si vanno a poco a poco attenuando e posso pensare di aver sognato ogni cosa. Sono tutto sudato. Guardo la campagna che si stende sotto la luna e provo un grande senso di quiete.

Eppure qualcosa ancora si muove lassù sul dosso. Sembra un esile filo di fumo che lentamente sorge dalla sommità del monte. É una ragazza nuda. Una pallida Dea della notte con le braccia tese.

Quando alza la testa i capelli si scostano e riconosco il viso di Monia che mi guarda con i suoi grandi occhi tristi.

OTTOBRE 1989

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN MISTERO DI CAMPAGNA

 

Una notte d’autunno sono nella mia cameretta nella casa di campagna dello zio ma non riesco a dormire.

Sento il vento autunnale che sibila. Sento il lontano frusciare dei pioppi.

Ma a volte sento anche un altro rumore, più acuto e preoccupante. É una specie di fischio o grido e non riesco a capire da dove provenga.

Devo essermi addormentato. Mi sveglio all’improvviso nel cuore della notte sentendo dei tonfi giù in cucina. Aspetto un altro poco. Ancora i rumori inspiegabili; stridii acuti, tramestìo.

Questa volta non posso sbagliarmi. C’è qualcuno giù, forse un ladro. Negli ultimi tempi sono scomparsi dei vitelli nelle fattorie vicine.

Mi alzo piano, prendo il lumino e senza far rumore esco nel corridoio. Socchiudo la porta della camera dello zio e lo vedo disteso sul letto con gli occhi aperti. Mi fa cenno di entrare. Anche lui ha sentito i rumori perciò si alza, indossa gli stivali e mi precede in camicia da notte.

Entro nella stanza del nonno: poiché soffre di insonnia sta seduto vestito sul letto a fumare la pipa. Pure lui ha sentito i rumori così prende il suo bastone e mi segue.

Spengo il lumino e tutti insieme scendiamo la scala passo dopo passo sforzandoci di non fare rumore.

Arrivati giù ci fermiamo sulla soglia a guardare. La cucina è immersa nel buio. Strisce di luce lunare entrano dalle fessure alle imposte.

Allora avanziamo piano fino a raggiungere la saletta. Anche qui buio e la luce lunare che entra dalle fessure della porta. Mio zio accende un fiammifero, poi accende la lucerna.

La visita alle due stanzette inferiori è presto fatta. Le porte sono sbarrate con i catenacci, le finestre sono chiuse e munite di inferriate. Io guardo nel secchiaio e nel sottoscala.

Per scaricare la tensione ci mettiamo a chiacchierare prima di ritornare a letto. Il rumore, una specie di grido aspro e acuto, si fa sentire vicinissimo questa volta mettendoci in allarme. Nel silenzio che segue ci voltiamo tutti verso la porta chiusa che immette nella legnaia. É piccola e robusta, sbarrata con due ganci e due catenacci. Mio zio la indica parlando sottovoce:

“Qualcuno è entrato nella legnaia.”

Ci avviciniamo piano alla porta che abbiamo varcato tante volte, ma che adesso appare inaccessibile e pericolosa. Lentamente sfiliamo i catenacci. Mio zio dopo aver atteso un poco sferra un poderoso calcio con gli stivali mandandola a sbattere contro il muro. Poi mette il braccio in avanti illuminando con la candela la stanzetta piccola e squallida, riempita di cataste di legna per l’inverno.

Scendiamo i due gradini. Non c’è nessuno nemmeno qui. Ci fermiamo nel centro della stanzetta sotto le travi basse guardando tutto intorno.

Un sibilo sottile e rabbioso ci fa sobbalzare. In cima a una pila di legna c’è il nostro gatto che soffia con il pelo ritto e la schiena inarcata. Sembra irriconoscibile. Con un salto corre giù, infila la porta della cucina e scompare.

Ancora il silenzio. Poi un nuovo rumore, questa volta acuto e rabbioso. Mio zio che ha visto qualcosa, impugnando il rastrello corre verso il fondo della legnaia.

In un angolo è apparsa una biscia mostruosa con il corpo grosso e lungo e la testa da gallo! Mio zio l’affronta decisamente con il rastrello. La biscia si ritira poi con uno scatto volta la testa e si solleva.

Mio zio pentito della mossa avventata si gira per tornare indietro. La biscia con uno slancio gli si attacca alla caviglia. Nello stesso momento io alzo la mannaia che sta posata sul ceppo e con un colpo taglio in due il corpo della biscia.

Mio zio manda un grido, ma non si è fatto niente perché gli stivali di gomma lo hanno protetto. I due tronconi del serpente restano a dibattersi sul pavimento di terra, in una pozza di liquido scuro.

La stessa notte usciamo fuori sull’aia. Una luna piccola e fredda rischiara la campagna. Il vento d’autunno fa fischiare i comignoli.

Senza parlare scaviamo una buca profonda in mezzo al letamaio. Poi mio zio va a prendere la cosa con la forca, la butta dentro e la seppelliamo sotto mucchi di letame.

Quando abbiamo finito un fumo si leva dietro di noi. Corriamo a vedere: ma è solo la giacca del nonno sull’aia. Egli se la era tolta per aiutarci a scavare dimenticando nel taschino la sua pipa accesa.

MARZO 1990

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’UOMO CHE ERA STATO UN PAPAVERO

 

Ne ho incontrati molti di tipi strani. Ho conosciuto un tale il quale affermava che gli uomini e le creature sono lo sterco di Dio. Un altro credeva che la vita fosse un gioco creato per il divertimento degli Dèi.

Sono uomini che i casi della vita hanno reso filosofi, ma la loro visione del mondo non comparirà sui libri di filosofia.

Ma il più strano di tutti è stato l’incontro con un vagabondo il quale credeva di essere stato un fiore.

Era di giugno, la strada era dritta e deserta fiancheggiata da qualche pioppo. Avrei dovuto percorrerla tutta poiché la mia automobile si era arrestata con il motore che fumava.

Verso mezzogiorno cammino ancora. Il sole è alto nel cielo celeste. La brezza calda fa oscillare il frumento nei campi.

In fondo alla strada un’ombra scura si muove lentamente. Quando gli sono più vicino mi accorgo che si tratta di un hippy con un lungo pastrano nero dagli orli sbrindellati. Cammina a piedi scalzi, sotto il sole e poiché va nella mia stessa direzione dopo un po’ lo raggiungo.

Incuriosito dallo strano personaggio mi affianco con prudenza. L’uomo cammina come in trance, ignorando completamente la mia presenza. Allora provo a domandargli:

“Va lontano?”

Alla mia voce l’uomo pare risvegliarsi. Mi guarda con i suoi grandi occhi chiari. Ha i capelli lunghi e la barba incolta ricopre il suo viso scarno e bruno.

“Praha” risponde con accento straniero.

“E... da dove viene?”

Nessuna risposta. Gli ripeto la domanda ma l’uomo sembra ritornato nel suo stato di intensa concentrazione che gli fa dimenticare il mondo.

Tiro fuori una moneta e gliela offro. Ma lui scuote la testa e ha una espressione di sdegno. Sembra un veggente, un mago o un profeta. Prima di lasciarlo gli rivolgo un’ultima domanda:

“Ha incontrato Dio?”

L’uomo mi guarda con una espressione intensa, senza parlare. Poi si volta e riprende a camminare.

Gli alti campi di grano ondeggiano accarezzati dalla brezza accanto a noi. All’improvviso l’uomo pare svegliarsi dal suo sonnambulismo. Il suo volto assume una espressione radiosa, come se avesse riconosciuto qualcuno o qualcosa di invisibile.

Lo vedo mentre scende giù nel campo quasi di corsa. Adesso allarga le braccia, poi cade in ginocchio...

Mi fermo ad osservarlo a distanza. Che cosa c’è? Che cosa vede?

Il suo volto è percorso da brividi di felicità. Lacrime gli scendono dagli occhi, ma sono lacrime di gioia. Adesso si piega fino a sfiorare con le labbra un cespuglio di papaveri e rimane immobile, estasiato.

Anziché andarmene mi fermo per osservarlo. Passano alcuni minuti, finché l’uomo lentamente si alza. Sembra stanco, spossato, ma molto felice. Mi viene incontro sorridendo e sussurra qualcosa, come per rendermi partecipe della sua gioia:

“É sempre una emozione rivedere quello che sono stato prima.”

“Che cosa intende dire?” gli chiedo stupito.

“Forse ha anche lei un fiore che le piace particolarmente?”

“ Certo! mi piacciono le ninfee, i glicini, la camomilla, il gelsomino, la robinia...”

Mi interrompe:

“No. Non è questo. Io intendevo dire: prova una certa affinità con qualche specie vegetale? Io ad esempio –sento- i papaveri.”

“Le piacerà il colore rosso, suppongo.”

“Al contrario; odio tutte le cose rosse poiché io amo il nero. I papaveri costituiscono l’unica eccezione.”

“Non capisco...”

“Provi a pensare se c’è un vegetale o un animale per il quale prova una profonda attrazione. Ecco, in una vita precedente lei era quello. O anche una grande avversione se in quella forma vivente lei ha sofferto.”

Dopo aver detto questo sembra ritornare nel suo stato di trance. Non parla più adesso. Gli occhi si fissano su un punto lontano e cammina come un sonnambulo. Lo guardo mentre si allontana; io invece mi dirigo verso il paese.

Sono quasi le due. Devo trovare al più presto un meccanico, devo risolvere i soliti problemi materiali.

Il sole alto su di me illumina le prime case. Penso alla mia vita e al mio incontro con quello strano hippy.

 

NOVEMBRE 1990

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA BARA A FIORI

 

Arriva il lunedì mattina, triste come una donna incinta, come una sera di settembre, come un uomo a sessant’anni.

Di mattina presto arriva Vinicio, quasi di corsa. É sempre stato un eccentrico. In gioventù aveva collezionato chiocciole, poi spade, e questa mattina...

“Sono passato per dirti che ci vediamo oggi alle quattro davanti alle pompe funebri.”

“Eh? Perché mai?”

“É una sorpresa. Ti spiegherò là.”

“Ma, perché proprio davanti alle pompe funebri?”

“Alle quattro, ricordati, ci sarà anche l’ungherese e Marialuisa.”

Il deposito delle casse è una vecchia chiesetta sconsacrata.

Lo strano terzetto è già là. L’amico Vinicio sbuffa di impazienza. L’ungherese si sta pettinando i capelli lunghi e nerissimi.

Insieme a loro c’è Marialuisa, ancora bella, vestita di bianco e di rosa, con il viso incipriato dove si indovinano le prime rughe. É una pittrice un po’ viziata, che si concederebbe solo a un duca o a un fognaiolo.

Vinicio entra subito in argomento:

“Dunque, ho deciso di comprarmi una bara, da mettere in salotto per stupire gli ospiti, si capisce. Non trovi che sia un’idea originale?”

“Sì... Potresti metterci dentro le bottiglie dei liquori...”

“Ma no, che sciocchezza! La terrò vuota e chiusa, vicino al pianoforte.”

Arriva l’uomo delle pompe funebri. É curvo, vestito di grigio. Ha una personalità scialba e un volto smorto che sembra impolverato.

Entriamo da una porta laterale e percorriamo un corridoio lungo, sinuoso, con facce paffute di angioletti scolpite sul muro di destra. Il magazzino è ricavato nell’abside della chiesa. Il resto dell’edificio comprende la falegnameria.

Vinicio passa in rassegna le casse messe in fila, nella luce tetra dei finestroni. Sembra un bambino che ammira i giocattoli. Ogni tanto chiede con voce eccitata:

“Questa bara chiara di che legno è?”

“Faggio” risponde l’impresario con voce monotona.

“Questa più scura?”

“Di quercia.”

“E questa?”

“Di olmo...”

L’ungherese invece fa le sue riflessioni ispirate alla magia:

“La morte è la porta verso l’Oltremondo. E l’amore è la porta dall’Oltremondo verso questo mondo.”

Marialuisa commenta con la sua acuta sensibilità di artista:

“La vita è un nulla. É solo una collana con il filo rotto che lascia sfuggire le perle.”

Poi, nascondendosi un po’ fra le pile di bare incomincia a ridere e a spogliarsi.

L’impresario tossisce per l’imbarazzo.

Marialuisa improvvisa una specie di spogliarello macabro ed eccitante fra le bare. Il suo corpo si intravede seminudo, bianco nell’ombra. Poi esce dondolandosi, mostrandoci due occhi disegnati sulle natiche.

Sempre ridendo la pittrice si ritira per rivestirsi, ma ad un tratto arriva la sua voce stupita:

“Toh, come è graziosa questa!”

Andiamo a vedere anche noi. In un angolo c’è una bara scura polverosa, con sopra dipinti grandi fiori rossi e gialli.

“E quella? Che cos’è?” chiede Vinicio all’impresario.

“Ah sì! Quel cofano è stato commissionato dal milionario Ezio, quando era ancora in vita. Saprete anche voi la storia. No forse siete troppo giovani. Ezio era un eccentrico e voleva essere seppellito in quella, vestito da clown. Sennonché i familiari trovarono modo di eludere le disposizioni testamentarie adottando una bara ricoperta di fiori veri. Così entrarono ugualmente in possesso dell’eredità.”

Vinicio non si trattiene più, finché eccitatissimo esclama:

“Oh! Quanto costa? La compro!”

Sentito il prezzo il mio amico estrae un grosso portafoglio legato a una catenella. Paga in fretta l’acquisto poi, ignorando lo sbalordimento dell’impresario, si rivolge a noi:

“Allora, voi che siete in due prenderete la parte della testa, io invece dal fondo.”

Sudando e sbuffando usciamo fuori dal deposito e proseguiamo sul marciapiede.

Il paese è immerso nella luce sulfurea della sera, mentre in cielo brilla una luna d’argento e quarzo.

I rari passanti si stupiscono vedendoci trasportare a piedi una cassa da morto. Il legno scivola, il coperchio sbatte, Vinicio preoccupato grida ordini e ci sollecita a fare attenzione affinché gli spigoli non urtino contro i muri.

Camminiamo stentatamente sotto il peso. L’ungherese seguita a parlare di magia e Marialuisa si fa matte risate accanto a noi.

NOVEMBRE 1990

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CASA DI EMMA

 

Nel gelido crepuscolo di novembre la vecchia fiera di Stellara è composta di bancarelle dei dolciumi, spazzacamini, burattinai, ombrellai...

Io sono venuto per andare dalla vecchia Emma affinché provi a guarirmi il mio male al petto. Chiedo di lei a un contadino che sta spaccando la legna.

“Lei sa dove abita la vedova Emma?”

“Sicuro che lo so. Abita laggiù, dove cresce la saggina, insieme a quelle altre...”

“Perché? Che cosa fa?”

“Fa le stregonerie. Lei e le vecchie Diana, Viviana e Gelsomina hanno passato la vita a rovinare i raccolti, far ammalare uomini e bestiame e a scatenare temporali. Bisognerebbe bruciarle! Spero che ricevano tutta la sofferenza che si meritano!”

La nebbia cade sul villaggio. Sapevo che la vecchia Emma ha fama di essere una strega.

Percorro la via principale, talmente stretta che le streghe si potrebbero graffiare stando alle finestre. Poi la strada prosegue in campagna. Gelsi e salici vecchissimi, piegati e squarciati che sembrano piantati dal diavolo.

La sua casetta è vicino a cespugli di rosellina selvatica. Un cardo è piantato davanti alla porta di casa.

All’interno sono appese pentole e vecchie litografie di fiori e animali. Un pappagallo tetro mi guarda dall’alto.

Sul tavolo ci sono chiodi storti, spilli, uncini. La vecchia piccola e magra li innaffia con il liquido di una boccetta. Ha il viso bianco, labbra e occhiaie nero viola.

“Entra. Ti aspettavo.”

Le spiego brevemente dove mi fa male. Mi fa intingere un dito nell’olio e lasciare cadere alcune gocce in un pentolino d’acqua.

“Le gocce si disperdono...” borbotta.

Mi porge alcuni grani di frumento da buttare nell’acqua. I grani cadono a fondo e lei mormora:

“Sei stato affatturato.”

Allora mette un pentolino d’acqua a bollire sul fuoco. Vi butta dentro cenere, polveri scure e si mette a borbottare strane parole. Prende un fazzoletto rosso con una estremità annodata e lo striscia per terra disegnando un cerchio intorno a me.

Nel silenzio della cucina si ode solamente il ribollire sempre più forte dell’acqua. L’acqua borbotta rumorosamente come un vecchio gnomo.

Improvvisamente con le molle prende il pentolino e lo capovolge su un piatto.

Non credo ai miei occhi! L’acqua rimane dentro al pentolino! Solo alcune gocce schizzano via dai lati.

Adesso con uno scatto raddrizza il pentolino e me le mette davanti con l’acqua che bolle rumorosamente.

“Mettici un dito dentro” ordina.

“Ma... mi ustionerò” obietto.

“No. Non sentirai nulla.”

“Ma è bollente!”

“Presto. Metti un dito nell’acqua.”

Alla mia incertezza ha un sospiro di impazienza:

“Ah! Adesso è troppo tardi” e versa l’acqua sul fuoco.

Mi ordina di compiere un salto per uscire dal cerchio e conclude:

“Dovrai venire da me un altro giorno.”

Un po’ sconvolto esco dalla cucina. Alle mie spalle la risata stridula del pappagallo mi fa rabbrividire.

Nei giorni successivi a casa mia, il mio male va peggiorando.

Una mattina trovo strane impronte di capra sparse nel corridoio. Il cuscino del letto prende strane forme anche dopo che lo batto e lo spiano. E nel materasso ho trovato... una ghirlanda di piume!

Le cose si ingarbugliano e devo tornare dalla vecchia Emma.

Il tramonto: le fiamme dell’inferno. Il paese sembra bruciare di colori rossastri. Le case di mattoni, gli alberi, i gatti sull’aia, le botti, le foglie secche...

I gelsi sibilano nel vento come se esseri vegetali stessero imprigionati dentro. Passo davanti a un giardinetto e si rovesciano due vasi senza che io li abbia nemmeno sfiorati; prima uno, poi l’altro.

Rivedo la casa di Emma con i nidi di vespe sotto le grondaie penzolanti e avvitate. Entro dalla porta sempre aperta. Il pappagallo si mette a starnazzare.

La vecchia sta annodando le calze a un piolo dello sgabello e stringe, stringe borbottando qualcosa. Il piolo assomiglia a un collo maschile da strozzare. Sullo sgabello c’è una foto e nove sassolini neri.

“Vieni. Quando le ragazze pregano la luna gli uomini soffrono di più.”

Tutto si svolge come la volta precedente.

Ripete il rito del pentolino. Lo fa bollire, lo capovolge senza che l’acqua esca. Me lo porge ordinandomi di infilarci dentro il dito.

Rassegnato ad ustionarmi chiudo gli occhi ed eseguo. Non sento niente. Solo un formicolìo causato dall’acqua calda, ma niente di più.

Alla fine le do un po’ di denaro ed esco fuori. La nebbia è scesa sul villaggio.

Nei giorni successivi mi sento molto meglio e non succedono più cose strane nella mia casa.

Un sera d’inverno torno a Stellara per ringraziare la vecchia Emma, ma la sua casa è chiusa.

Tutto è squallido e deserto. A volte sento un coro di lamenti lontani seguito da un sibilo.

Da un crocicchio vedo quattro vecchie attorno a un fuoco. Sarà Emma con Viviana, Diana e Gelsomina. Un gatto, con il pelo ritto e la schiena inarcata scappa via.

 

NOVEMBRE 1990

 

 

 

 

 

 

 

 

IL FABBRO FANTASMA

 

Mi sveglio di soprassalto teso e sudato.

Il vento ulula, fa frusciare le foglie degli alberi e ogni tanto fa sbattere un’imposta della colombaia.

Fra l’urlo della bufera sento un tintinnìo nitido, irregolare. A volte si aggiunge anche l’abbaiare del cane in lontananza.

I colpi si fanno più forti. É come se un fabbro battesse sull’incudine con il suo martello. A quest’ora di notte, chi può essere? La fattoria più vicina dei Merlini dista almeno un km poi c’è quella dei Bertelesco aldilà del fiume.

Non riesco più a dormire così per scacciare il nervosismo vado alla finestra. Apro vetri e imposta e sono investito dal vento e dalla polvere.

La forza del temporale sembra aumentata adesso. Il vento arriva a onde fortissime che fanno tremare la fattoria.

Il temporale di aprile piega le chiome dei salici, porta polvere e foglie strappate dagli alberi. La banderuola impazzisce sulla colombaia.

Rinchiudo e torno a letto. Rimango per tanto tempo sveglio nel tentativo di ascoltare il rumore di prima. Adesso sento solo l’urlo attutito della bufera.

Il mattino seguente siamo occupati io e il vecchio Vanni a tagliare l’erba e a caricarla sui carri. Poi portiamo carriole piene di fieno alle mucche.

Al pomeriggio mentre abbeveriamo gli animali interrogo il mio compagno sugli strani rumori della notte.

Vanni è piccolo, vecchio e sordo, con la barba grigia. Come al solito non capisce cosa voglio dire e devo ripeterglielo alcune volte gridando forte nell’orecchio. Alla fine commenta:

“Ah, il temporale di stanotte sì, ha allagato la stalla, e ne avremo ancora in luna nuova.”

É una notte calda di maggio, bianca di luna. Dalla finestra sento il canto lontano dei grilli, con un’eco da cattedrale dentro l’immensità della notte. Dalle stalle buie proviene il muggito degli animali irrequieti.

Oltre questo arriva un altro rumore. É il solito rumore del martello battuto sull’incudine a intervalli irregolari. Cosa può essere mio Dio, sempre a quest’ora di notte?

Con il passare delle ore il tintinnìo si fa più duro e nervoso, finché i primi galli incominciano a cantare nelle fattorie dandosi risposta e tutto finisce.

Al pomeriggio scarico mucchi di paglia dal pagliaio e con la carriola la porto al vecchio Vanni per rifare le lettiere. Fra un giro e l’altro approfitto per parlare al vecchio dei rumori e come al solito lui mi fraintende:

“Sono i colombi che hanno fatto il nido lassù.”

E mi indica i secchi appesi sotto l’alto tetto del fienile.

“Quelle due vacche partoriscono fra una settimana. Ricordati che dobbiamo ancora macinare il mais.”

Durante la notte successiva i rumori cambiano e diventano più pesanti. Adesso sembra che un maniscalco indemoniato lavori nel cortile qui sotto alle mie finestre. Dannazione, sono stanco morto, ma nessuno potrebbe dormire con questo baccano. Possibile che il vecchio Vanni si sia messo a battere il ferro a quest’ora di notte? Mi alzo dal letto, apro l’imposta e resto a guardare stupito.

Il cortile della fattoria è bianco di luna. Le cose familiari e che credevo di conoscere non sembrano più le stesse. Le sagome degli edifici con le ombre storte e nere appaiono minacciose. Le tettoie per le mucche, gli abbeveratoi, le casette per le oche, gli attrezzi abbandonati sull’aia sembrano di un altro mondo.

Su tutto domina il rumore fortissimo, anche se non riesco a stabilirne la direzione. Mi sforzo di guardare dentro ai portici neri, sulla colombaia vicino al pino secco.

É tornata la quiete adesso. Il martellare è cessato di colpo. Dal fiume mi arriva il lontano gracidare delle rane.

La sera seguente mentre abbeveriamo le bestie sento che il mio compagno brontola e fa strane esclamazioni:

“Eh, il vecchio Giobbe si è fatto sentire questa notte!”

“Che cosa?” gli domando sbalordito.

“Ha fatto un bel chiasso! Eh, ne ha ferrati parecchi di cavalli” dice indicando alcuni ruderi.

In fondo alla fattoria ci sono file di casette basse e gialle semidiroccate, con la porta ad arco di tufo.

“Ma sì, il fabbro che abitava qui ottant’anni fa. Io ero ragazzo quando l’ho conosciuto e lo aiutavo a soffiare col mantice.”

Ci avviciniamo alle finestre delle casette per guardare dentro: c’è solo buio, sporcizia e odore di muffa.

“Qui una volta abitavano le famiglie dei salariati e lui stava proprio là, dentro la quarta porta. Ha battuto il ferro per tutta la vita e il suo spirito continua a lavorare anche adesso.”

Poi si allontana zoppicando e con la forca ammucchia il fieno sparso sull’aia. Dopo un po’, soprappensiero, anch’io lo seguo.   

MARZO 1991

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL VECCHIO SALICE

 

Durante quell’anno lavoravo nella fattoria di Caramori. Venendo dalla strada la fattoria appare con il lato nord grigio e pieno di inferriate aldilà di un fossato e un filare di salici.

Un pomeriggio mentre lavoro nei campi vedo che il cielo è diventato rosso dietro alla fattoria. Bagliori rossastri si levano dietro alle stalle là dove sicuramente i pagliai hanno preso fuoco.

Corro gridando assieme agli altri braccianti ma oltrepassata la fattoria ci fermiamo allibiti.

Non c’è nessun incendio. Una aureola rossa color brace sorge a nord, dietro alla fila di salici.

Mentre osserviamo intimoriti lo strano fenomeno vediamo che l’aureola va rapidamente rimpicciolendosi. Il suo colore si va smorzando, diventa sempre più cupo, fino a lasciar intravedere il cielo celeste.

Una mattina all’alba sono svegliato da grida e rumore. Alcuni contadini camminano sbraitando sotto i salici piantati lungo il fossato che divide la strada dai campi. Corro anch’io sul posto per vedere cosa è successo.

Ci sono strani anelli bianchi sull’erba intorno a un salice. Sembra muffa o cotone.

Quando provo a toccarli noto la loro inconsistenza e ritiro le dita bagnate.

La gente intorno commenta e fa domande. Parlano sottovoce chiamandoli Cerchi delle Fate.

La stessa sera l’uomo venuto a prendere il latte avverte i contadini che un albero ha preso fuoco.

Ancora una volta percorriamo la riva del fosso. Si intravede un chiarore là in mezzo agli alberi.

Quando sono vicino vedo un albero che irraggia una luce smorta, un chiarore pallido e sfumato. É un salice comune, mezzo secco, con un ciuffo di rami verdi rivolti a nord. Restiamo lì a guardare fino a mezzanotte e siamo affascinati e sbalorditi.

Il pomeriggio seguente al calar del sole arriva gente a piedi, in bicicletta o con il carro, per vedere l’albero luminoso. Oltre ai contadini dei dintorni ci sono persone che non ho mai visto prima. Sono arrivati anche alcuni signori ben vestiti venuti appositamente fin qui dalla città.

La sera scende a poco a poco nella campagna trasformando le cose in ombre scure. Nel cielo turchino appaiono le prime stelle. L’albero emette una luminescenza tenue, un alone di luce che diventa sempre più chiara con l’approssimarsi dell’oscurità.

A mezzanotte il posto è tutto pieno di gente. L’albero è al centro con la sua luce magica e irreale.

Fra il brusìo della folla si odono strani discorsi:

“Sotto c’è una miniera di zolfo.”

“Se scaviamo attorno alle radici troveremo l’oro.”

“Le sue radici arrivano fino all’inferno!”

Al mattino dopo il mais è abbattuto e calpestato per un largo tratto. Inoltre il terreno è stato smosso attorno all’albero. Qualcuno ha scavato forse credendo di trovare l’oro.

La notte successiva accadono cose ancora più inverosimili. Circa alle due quando quasi tutti sono andati a dormire, arriva un gruppetto di donne che non ho mai visto prima.

Una donna di circa trent’anni bruna e formosa, di colpo si sfila il vestito e rimane completamente nuda. Adesso abbraccia il tronco, vi struscia contro con il corpo, emette sospiri e gemiti.

Le altre donne fanno circolo intorno per proteggerla dagli sguardi. I pochi uomini presenti fischiano, gridano e corrono più vicino.

Una sera di agosto il cielo si è oscurato. Un pastore arriva di corsa come se avesse il diavolo alle spalle e grida spaventato:

“Ci sono gli spiriti, ci sono gli spiriti dentro il salice...”

Insieme ad altri vado a vedere.

Rivedo il salice. Sul tronco sono attaccati nastri rossi annodati e steli di frumento con il nodo, segni di richieste e desideri.

A intervalli le foglie si muovono frusciando, come scosse dal vento. Ma è una sera quieta e non c’è un filo di vento. Guardo gli altri salici che hanno le foglie tutte immobili. Poi torno a guardare questo e sembra scosso dalla furia di una bufera.

Sento le gocce di sudore cadermi dalla fronte. Un brivido freddo mi corre lungo il corpo. Cosa è questo nuovo fenomeno? Che cosa succede in questo posto?

Nei giorni successivi la gente smette di lavorare per andare a vedere l’albero. La macchia di mais calpestato si è notevolmente allargata.

Un mattino il padrone preoccupato per come vanno le cose e per evitare un maggior danno alle colture dà ordine di abbattere l’albero. Nessuno vuole eseguire, ma due operai venuti da fuori accettano l’incarico.

In poco tempo con vanghe e picconi sradicano l’albero. Il tronco viene trasportato sull’aia della fattoria e segato in pezzi per fare legna da ardere.

Le sere successive fino a tutto settembre la gente arriva e ci domanda che fine ha fatto il salice. Alcuni raccolgono pezzi di corteccia fosforescente e li portano con sé come amuleti. Due signore affondano nel fango fino alla caviglia per cercare pezzetti di corteccia, e bisogna aiutarle a tirarle fuori.

Nelle fredde sere di inverno mentre la nebbia sale dai fossi, le vecchie raccontano gli strani prodigi che avvenivano intorno al vecchio salice: una donna sterile era diventata feconda soffregando il proprio corpo contro il tronco e le ragazze che andavano là di notte vedevano il volto del loro futuro sposo.

LUGLIO 1991

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LUCIA LA STREGA

 

Conoscevo Lucia fin da bambina. Suo fratello era mio amico ed un giorno mi portò a casa sua per vedere un quaderno di francobolli.

In quella occasione conobbi Lucia. Era magra e pallida. Aveva un vestito bianco sporco e mi guardava seria senza parlare.

In seguito l’ho rivista altre volte. La madre morì alcolizzata. Suo fratello si sposò e andò via.

Lucia è rimasta a vivere da sola. In paese alcuni dicono che si prostituisce, altri dicono che possiede la seconda vista e fa gli scongiuri.

Mentre mi avvicino alla sua abitazione sento un brivido corrermi per il corpo. La casa di mattoni ha colori rossastri nel sole di ottobre. Un albero di giuggiole quasi spoglio sta alla sinistra. Sull’aia ci sono gatti, botti, foglie secche. Mi avvicino alla porta e chiamo:

“Lucia, sono io...”

“Vieni dentro. Ti aspettavo...”

In cucina mi offre un bicchiere di acqua zuccherata con la barbabietola. Le disgrazie che abbiamo avuto nelle nostre vite ci permettono di comprenderci subito. Le racconto cosa mi è capitato, le avversità di questi ultimi anni, le scelte sfortunate e parlandone mi sembra di cercare una spiegazione del male nella vita.

Lucia mi guarda con i suoi verdi occhi gelidi. Va a prendere uno specchio, lo posa sul tavolo e torna a sedersi accanto a me.

Nella stanza in penombra Lucia incomincia a guardare dentro allo specchio. Il volto è pallido e scavato. I suoi capelli le ricadono intorno come una pioggia viva.

“Vedo un fumo grigio... immagini... Tutta una vita... Una vecchia... Una casa...”

Fa un lungo sospiro e alza gli occhi verso di me:

“Per adesso ho finito. La prossima volta portami qualcosa che appartiene intimamente alla tua casa.”

La sera d’autunno è umida e fredda e la luna sembra di cristallo. Nella mia tasca, avvolto in un foglio di carta ho un pezzetto di intonaco che ho staccato dalla parete. Sto tornando da Lucia ma non so cosa pensare dei suoi discorsi. Forse è tutto irrealtà e follia. Un gruppo di ubriachi cantano una canzone senza senso nella nebbiolina.

Arrivo emozionato all’appuntamento e sento il cuore che batte. Spingo la porta aperta. So che lei ha già intuito la mia presenza mentre chiamo piano: “ Lucia...”

Lei indossa un vestito nero, attillato che lascia le spalle nude. Il volto è pallido e scavato.

Per disperdere la tensione nell’aria le mostro subito il pezzo di intonaco che ho portato. É grigio e friabile. Lei lo prende, lo tocca, lo posa sul tavolo.

Si siede ancora vicino a me davanti allo specchio. Mi appoggia una mano sulla spalla e socchiude gli occhi. Sento il tocco della sua manina soffice, sento il profumo tenue dei capelli.

I suoi occhi guardano lontano come se volesse perdersi dentro allo specchio. Il suo respiro si fa più lento, più profondo. Ora diventa breve e saltellante. Le sue parole sono un sussurro rauco e un singhiozzo:

“Vedo... una vecchia e una maledizione... Riguarda la casa e colpirà... solamente i maschi... Le femmine sono al sicuro...”

Più tardi quando ritorna in sé appare stanca e affaticata. La tensione nell’aria è calata e ci mettiamo a parlare.

“Da quanto tempo vivi in questa casa?” mi chiede.

“Da circa due anni.”

“E da quando sono incominciate le tue disgrazie?”

“Adesso che me lo fai notare, da quando sono andato ad abitare in quella casa.”

“Di chi era quella casa?”

“I proprietari erano morti, la casa era in vendita da tanto tempo. Io ho trattato con l’agenzia.”

“Come era la casa?”

“Era molto vecchia, per questo costava poco. Ma l’ho fatta rinnovare completamente...”

“Hai abbattuto anche i muri perimetrali?”

“No, quelli li ho lasciati per non perdere i diritti.”

Si è fatto tardi. In silenzio mi accompagna fuori ma davanti alla porta si ferma:

“Tu non puoi sapere cosa si svolge dietro i muri delle case... Non puoi capire i drammi segreti... Per questo dovrai tornare ancora da me un’altra volta...”

“Va bene... farò come vuoi.”

Le nostre voci, nella notte autunnale, hanno un suono diverso, più stridulo e quasi disperato.

Due sere dopo cammino sull’erba alta bagnata di umidità verso la casa di Lucia. I pensieri girano nella mia mente e mi sembra di vivere in un incubo. Entro nella saletta buia.

“Lucia, ci sei?”

Silenzio di tomba. A passi incerti proseguo e apro la porta della cucina. Lucia sta là seduta e mi volta le spalle. La sua voce bassa mi dà un sussulto:

“Stasera la luna è sorta con un alone rosso sangue. I cani ululano. Stasera la luna mi fa paura...”

Su un tavolino rotondo lì vicino c’è una candela, un lungo spillo, un mucchietto di sale, alcuni nastri neri, perline di vetro e il pezzo di intonaco che ho portato. Lucia sta cantilenando alcune parole in rima con voce bassa, gutturale e con le mani batte la superficie del tavolo come fosse un tamburo. Alza gli occhi verso di me:

“Mi ha insegnato mia mamma che era una medichessa e lei ha imparato da mia nonna.”

Poi ritorna nel suo stato di sonnambula.

A un certo punto Lucia prende qualcosa con le lunghe dita! É una bambolina di stoffa con seni e sesso femminile. Si avvicina al focolare e la butta dentro un pentolino di acqua bollente, poi intona la cantilena, ripetitiva, monotona, ossessionante.

Per un attimo la bambolina sembra viva e si contorce dal dolore. Lucia ha smesso di sussurrare e sta tremando. Dalla cappa del camino proviene un lamento acuto che finisce in un ruggito che mi fa rabbrividire. Mi volto impaurito. I piatti della bilancia oscillano da soli sulla vecchia credenza.

Allora afferro Lucia per le spalle e la ritraggo indietro spaventato. Restiamo così abbracciati. Si sente solo il borbottìo dell’acqua che bolle nel silenzio adesso.

Dopo un po’ Lucia mi respinge con un sorriso, ed io esco da solo nella notte.

OTTOBRE 1991

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CASA DEGLI SPIRITI

 

“Mio zio Ernesto è morto. Lo hanno seppellito la settimana scorsa.”

“Oh, mi dispiace. Lo stimavo molto...”

“Ho ereditato la sua casa. Vieni a vedere cosa te ne pare. Ho deciso di trasferirmi là appena mi scade il contratto dell’appartamento.”

É una sera di febbraio con vento e nevischio e dopo questo incontro camminiamo insieme verso l’abitazione che si trova qui vicino. Lasciata la piazza ci immettiamo in una via secondaria malrischiarata, fiancheggiata da alberi.

La casa è una delle ultime in fondo alla via. Si vede subito che è abbandonata. Dalle imposte chiuse non esce un filo di luce.

Il mio amico Gregorio tira fuori alcune chiavi e nell’oscurità lo sento armeggiare con la porta.

“Strano... La serratura deve essersi inceppata...” lo sento dire.

Io mi avvolgo di più nel soprabito in attesa di entrare.

Uno scatto e un cigolìo. Entriamo nel buio. Gregorio gira l’interruttore e due lampadine fioche si accendono ai lati. Siamo in una saletta gelida con sedie di vimini, un cappello appeso a un attaccapanni di legno, la tappezzeria a fiori che cade in pezzi. Una finestra sbatte al piano superiore.

Camminando sulle mattonelle che si muovono visitiamo per prima la cucina. C’è una vecchia credenza con la bottiglia di whisky mezza piena e le briciole secche di pane. Dal camino spento proviene l’odore della fuliggine.

“Quando si è ritirato dall’allevamento del bestiame, mio zio si è dedicato al giardinaggio. I suoi stivali, la sua pipa...”

C’è anche una piccola cantina con ceste di legna e un ceppo con la mannaia.

Lasciati quegli ambienti entriamo in uno studio impregnato da un forte odore di tabacco. Sugli scaffali e nelle vetrine ci sono molti libri con la copertina nera che trattano di spiritismo. Sul tavolo c’è un tabellone spiritico, una tavoletta ouija, pile di registri scarabocchiati, un candeliere, gli occhiali...

“Mio zio faceva una vita molto ritirata.”

Poi si avvia a salire i gradini per farmi vedere il piano superiore, ed io lentamente lo seguo. La casa è gelida. C’è silenzio di tomba, freddo e odore di umidità.

Di sopra c’è un corridoio con alcune porte, alcune aperte, altre chiuse. Si sente un rumore metallico provenire dietro una di esse. Gregorio si ferma di colpo. Poi apre la porta che immette nella latrina.

Il finestrino di ferro sbatte.

“Ero convinto di averlo chiuso bene la volta precedente” mormora mentre fa forza sulla maniglia. Poi richiude delicatamente un rasoio con la lama aperta.

“ Mio zio era contrario alle modernità.”

Io resto immobile sulla soglia. Guardo la vasca di ferro arrugginita con il fondo bagnato, il pettine con alcuni capelli attaccati. C’è freddo e odore di fogna lì dentro.

Nella stanza da letto domina la foto ovale di Ernesto Faggioni con volto scarno, la lunga barba nera e l’espressione dura. Sulla parete opposta ci sono alcune oleografie con scene campestri. I loro colori nella stanza tetra sembrano innaturali.

“Ultimamente mio zio faceva una vita da misantropo...”

La casa è impregnata della presenza del vecchio, come se egli fosse ancora qui fra di noi. Involontariamente il mio amico ha abbassato la voce come se avesse paura di disturbare. Le assi del pavimento scricchiolano e i nostri movimenti sono più cauti come per paura di farci sentire.

Il silenzio della casa è pesante.

Improvvisamente un cane abbaia forte fuori. Il mio amico ha un sussulto:

“É il cane di mio zio nel cortile qui dietro; avrà sentito qualcosa...”

Mi avvicino a una finestra e una ragnatela mi si attacca alla faccia. Mentre mi pulisco sento il mio amico che corre e grida: “Là! Là! Guarda!”

Una luce rossastra proviene dalle scale, un brutto riverbero color rosso mattone, come fiamme.

“Scendiamo, presto! La casa sta prendendo fuoco!” grida Gregorio.

Lo seguo saltando i gradini e corro a vedere in cucina mentre Gregorio si precipita nello studio.

Qui la luce è scomparsa. Dalla porta della cantina proviene buio e una vaga sensazione di pericolo. É tornato di nuovo il silenzio. Il freddo è intensissimo.

Allora sento un grido strozzato come se qualcuno avesse vomitato. Raggiungo di corsa il mio amico.

Gregorio è in piedi sulla soglia dello studio. Mi guarda con la faccia bianca e gli occhi stralunati. Sta tremando e sembra che voglia dirmi qualcosa ma non riesce a tirar fuori neanche una parola.

“Che cosa succede? Va tutto bene?”

Lo incoraggio mentre mi avvicino. Poi mi affaccio dentro allo studio e resto pietrificato per la sorpresa.

Il vecchio Ernesto con stivali e pipa sta seduto curvo davanti al suo tavolo.

Che mi venga un colpo! É proprio lui. Lui, o il suo spirito. Non è fatto di carne perché è semitrasparente...

Barcollando come un ubriaco il mio amico cammina verso l’ingresso ed esce fuori. Io lo seguo sforzandomi di non guardare più dentro allo studio. Spengo la luce e mi tiro dietro la porta.

Accompagno Gregorio camminando al suo fianco e per tutta la strada fino al suo appartamento non diciamo una parola.

Alcuni giorni dopo incontro nuovamente il mio amico che mi parla di tante cose senza accennare mai a quello che è successo.

Un giorno di marzo, passando davanti alla casa che ha ereditato, vedo un cartello appeso di traverso sulla porta. In esso c’è scritto:

Casa ammobiliata in vendita.

 

MARZO 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INCONTRI NOTTURNI

 

Arrivo a casa tardi, di notte. Appoggio la bicicletta sotto alla tettoia e cammino verso la fattoria.

É un’umida notte di agosto. La luna alta nel cielo illumina il cortile vuoto, disegna ombre storte e dentate sul terreno. Alla mia destra oltre il pollaio e i cespugli di serenelle, si stende il vigneto, ondulato sotto alla luna. Tutto è immobile e silenzioso.

Ma là in fondo qualcosa si muove di sfuggita. Mi fermo e ritorno indietro.

Vedo una forma vaga, biancastra, in lontananza. Che cosa può essere? Un riflesso delle foglie? Un ramo nudo?...

Sono stanco e devo andare a dormire. Apro la stretta porta di ferro ed entro nella saletta. Senza fare rumore salgo di sopra, mi spoglio e mi sistemo a letto.

I ricordi della sera passano nella mia mente. La musica delle chitarre, il ballo con la ragazza, i lunghi baci... E la macchia bianca nel vigneto, che cosa sarà stata?

Mi sento agitato. Mi giro nel letto senza riuscire a prendere sonno. Ho fatto male a non andare a controllare. Dopo un po’ mi alzo, mi rivesto e scendo giù.

Rivedo il cortile deserto, allagato di luna. La notte d’estate sembra diventata più fredda.

Come arrivo all’inizio del vigneto vedo che è ancora là. É una forma bianca e nera proprio all’incrocio di due filari di viti. Sembra un uomo con un mantello.

Innervosito mi incammino di buon passo. Il terreno è ondulato fatto di discese e salite. L’erba alta bagnata di rugiada mi rallenta l’andatura. Ho fatto male a non portare i cani con me. Dove saranno i due cani adesso? Perché questa notte non mi sono venuti incontro come le altre volte? Forse staranno dando la caccia a una talpa nei campi.

Quando arrivo a metà sento un suono strano provenire dal fondo del vigneto. Sembra un lamento, debole, intermittente.

Mi fermo per tentare di capire di cosa si tratta. Appoggiato al casotto dell’irrigazione c’è il manico di una vecchia zappa. Lo impugno forte e riprendo ad avanzare. Almeno adesso ho qualcosa per difendermi.

C’è una strana tensione intorno. La vita sembra sospesa. Tutto è statico, immobile. Nel silenzio assoluto sento solo i tonfi del cuore e un fastidioso fischio alle orecchie.

La forma bianca sembra un lenzuolo che galleggia nell’aria. Adesso è troppo tardi per tornare indietro. Devo sapere di cosa si tratta!

Man mano che mi avvicino la vedo sempre meglio e più grande. Una forma bianca, mobilissima, percorsa da ombre nere.

Il mio stupore aumenta e incomincio ad avere paura. Ogni passo che avanzo mi costa sempre maggior fatica. Finalmente mi fermo, come davanti a un abisso.

Non è una cosa di questo mondo. E adesso ne sono sicuro.

La cosa si sposta verso sinistra, ondeggia un poco verso di me, attraversa i fusti contorti delle viti... Resto a guardare con gli occhi spalancati. Percorre alcuni metri e all’improvviso... scompare.

Ho i nervi tesi, lo sguardo fisso verso il punto dove si trovava. Sto tremando e il sudore mi scorre giù lungo il corpo. Respiro come se mi mancasse l’aria.

Piano piano la natura torna ad animarsi. I grilli riprendono a cantare. Un uccello notturno stride. Poi sento i cani che abbaiano e arrivano di corsa.

Con uno sforzo riesco a muovere le gambe. Lascio cadere la zappa e scappo via correndo sempre più forte, accompagnato dai cani, finché con il respiro ansante rientro in casa.

Solamente molto tardi, stremato dalla stanchezza, riesco a prendere sonno.

Il mattino seguente ancora con la testa confusa scendo giù e incontro Gaspare che sta scopando il cortile.

“Ehi Gaspare, che tipo di letame hai sotterrato nel campo in fondo al vigneto?”

“Mah... Il solito preso dalla stalla, prima della semina.”

“Ho avuto una specie di allucinazione stanotte... Ho visto una forma bianca e quando mi sono avvicinato è scomparsa... Saranno i gas del letame, i fuochi fatui...”

L’uomo si ferma di colpo guardandomi con una faccia seria e rugosa:

“Lei ha visto lo spettro di famiglia. Quello che annuncia una disgrazia. Ecco cosa ha visto.”

“Ma cosa dici?”

“L’ultima volta che è apparso è morto il vecchio padrone. Forse adesso toccherà a questo.”

Due mesi dopo il padrone della fattoria morì di infarto, nel suo letto, all’età di 79 anni. Al suo posto adesso c’è il figlio non ancora quarantenne.

Per rivedere il fantasma di famiglia bisognerà aspettare presumibilmente altri quaranta anni. Chissà se a quel tempo io sarò ancora tra i vivi.

MAGGIO 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CASA DELLA STREGA

 

“La vecchia Carmela è morta. Era una strega e noi andremo a visitare la sua casa.”

Con queste parole il mio amico Giorgio mi accoglie nel suo studio in un pomeriggio di agosto.

“Ma non sarà rischioso? Se qualcuno ci scopre?” obietto io.

“I proprietari abitano lontano, gli eredi non ci sono. Non c’è pericolo. Nessuno può venirci a disturbare.”

Sono seduto con un bicchiere in mano ad ascoltare il mio amico, scapolo, studioso di occultismo.

“Da alcuni anni sto studiando la psicocinesi, cioè la capacità della mente umana di influenzare la materia. Scriverò una relazione per la Società delle Ricerche Psichiche.”

Sullo scaffale ci sono strani apparecchi: un gancio con un filo e una pallina di sughero in fondo. Una lamina orizzontale infilata al centro di uno spillo, per poter ruotare...

“Servono per studiare la psicocinesi. É una energia debole all’inizio” spiega il mio amico.

“E cosa c’entra questo con la nostra esplorazione in quella casa?”

“Là ha abitato la vecchia Carmela che ha praticato la stregoneria fino all’età di 96 anni. Ora la stregoneria fa uso della psicocinesi per i suoi scopi benevoli... o malefici...”

Mi mostra alcune foto infilzate di spilli, tagliuzzate con le lamette.

“Alcune ragazze fanno così quando sono state abbandonate dal fidanzato...”

Poi mette sul tavolo una bambolina formata da un pezzo di stoffa arrotolata come un sigaro. C’è disegnata una faccia stilizzata: due punti per gli occhi, una linea verticale per il naso e una V rovesciata per la bocca. C’è disegnato un cuore e un sesso maschile. La bambola è strangolata da un nastro nero e trafitta da uno spillone. Sulla schiena c’è un nome e cognome.

Vedo l’odio cristallizzato in questo pezzo di stoffa; l’odio reso visibile, reso materiale!

“Che cosa speri di scoprire dentro quella casa?”

“Tutto. E niente. La stregoneria ha radici profonde nelle nostre campagne. É una tradizione oscura tramandata dalle vecchie alle figlie, nel corso dei millenni. Una tradizione segreta sussurrata accanto al camino nelle nebbiose notti invernali...”

Fa una pausa prima di alzarsi:

“É ora di andare adesso.”

Mi infilo il giubbino e usciamo fuori. Camminiamo per una stradina di campagna costeggiando campi di mais secco. Dopo un po’ arriviamo in vista della nostra mèta.

Una casa tetra e isolata, di mattoni, con le finestre buie spalancate come occhiaie. Il sole al tramonto le dà un colore rossastro. Da un arco gotico escono pipistrelli.

“É quello il posto?”

“Sì, è un ex convento del 1500 adibito a case contadine. L’ultima famiglia è deceduta almeno sessant’anni fa. Da allora oltre la vecchia Carmela nessuno l’ha più abitata.”

Mentre ci avviciniamo la casa sembra ingigantirsi e si notano crepe, porte murate, imposte cadenti.

Attraversiamo un cortilaccio rovesciando cespugli di morella alti come noi. In fondo c’è una porticina di legno corroso dalle intemperie, con la parte inferiore marcita. Giorgio inserisce una levetta e con un colpo secco la porta si apre sbilenca da un lato.

Luce grigia, umidità e polvere al piano terreno. Rottami di mobili, una credenza decrepita, pile di sedie sfasciate, una tavola con le gambe tornite, casse di bottiglioni. Arriviamo a una scaletta ripida di legno.

Al primo piano ci sono tante stanzette con finestrelle piccole e quadrate. Un letto di ferro e altri mobili scartati. Nella grossa canna fumaria ci sono buchi rotondi dove evidentemente attaccavano le stufe. Saliamo ancora sulla scaletta di legno e arriviamo all’ultimo piano.

“Questa era la stanza della strega” sussurra il mio amico.

Una cameretta piccola e bassa che prende luce da una finestrella.  Attaccato al muro c’è un pentolino annerito e una scopa di saggina. Sul pavimento ci sono gocce di cera e schegge di vetro.

Sul muro nord, che ha una grossa crepa, sono disegnati strani segni con il carbone. Rappresentano spirali, cerchi ed ellissi concentriche. Il mio amico li ricopia su un taccuino e commenta:

“Probabilmente è qui che la vecchia Carmela si sedeva per recitare i suoi incantesimi ...”

Poi esamina gli oggetti impolverati sopra alle mensole o dentro alle casse: pentolini, la statuetta nuda di una Dea, una cordicella con nove nodi doppi, quattro cucchiai di ottone, un anello, uno specchietto rotondo...

Giorgio guarda dentro a una  scatole e lo sento mormorare:

“Penne di gallina... foglie di stramonio... giusquiamo... morella... cicuta... questo non so cos’è...”

Una luce rosso cupo è apparsa sul muro sotto le travi. Sembra una macchia di sangue forse del sole al tramonto. Sento una corrente di aria fredda passarmi vicino.

Giorgio prosegue nelle sue ricerche. Fra alcuni stracci ha trovato un vecchio quaderno e lo sta sfogliando. Sulle  pagine ingiallite  sono disegnate curve, angoli, mezzelune, ellissi verticali concentriche, file di otto orizzontali, file di gocce oblique, commentate con calligrafia grande e spigolosa.

Rumori provengono dal basso: scricchiolii, colpi sul legno, qualcosa che sgocciola. Abbasso la testa e resto sbalordito. Un grande cerchio di luce tremolante e rossastra è apparso sul pavimento al centro della stanza.

“Si sta materializzando! Ci prende energia. Via subito di qui!” grida allarmato Giorgio.

Con un balzo ci spostiamo ed entriamo  dentro una porticina.

Travi annerite e malsquadrate sorreggono il tetto sfondato in un punto. Sulla parete a destra c’è una porta murata. Siamo in una stanza senza uscite e istintivamente mi volto per tornare indietro. Mi affaccio alla porta e resto paralizzato dallo spavento.

Nella luce lunare che entra dalla finestra vedo quattro ombre accovacciate all’interno del cerchio di luce. Indossano  mantelli neri dai quali fuoriescono le braccia e le gambe nude..

 Silenzio di tomba nella stanza. Sento che il mio amico mi è venuto vicino, ha visto anche lui e trattiene il respiro.

Passano alcuni minuti lunghi come secoli.

Adesso, nel silenzio si sente una voce lenta, roca, bassissima...

“... Con il primo nodo inizia il potere...”

Segue il borbottìo di un coro appena percepibile.

La voce riprende bassissima e monotona:

“Con il secondo si unisce... Con il terzo figlia...”

Ancora il borbottìo di prima.

“Con il quarto si accumula... Con il quinto vive...”

Io e il mio amico stiamo rigidi accanto alla porta e non osiamo muovere un muscolo.

“Con il sesto germoglia... Con il settimo fermenta...”

Sento fruscii, rumori di cose spostate sul pavimento. Vedo guizzi di luce  viola nella stanza.

“Con l’ottavo si accresce... Con il nono colpisce!”

Il borbottio aumenta, diventa più forte, poi cala e ritorna il silenzio.

Adesso vedo un cono di luce viola che si solleva dal cerchio e poi subito scompare.

Le streghe incominciano adesso una filastrocca di parole insensate, continuamente ripetute: Andarùsco Foràme Snèider Primòschi Voltàrie et Arrivòschi Ultimàme et fecit traballare pilastro…

La filastrocca prosegue monotona, ripetitiva, ossessiva.

Giorgio mi prende per un braccio e mi parla nell’orecchio. La sua voce è così emozionata che stento a riconoscerla:

“Adesso noi usciremo di qui. Camminando lungo il muro scenderemo la scala. Senza guardare nella stanza...”

“Ma...”

“Adesso! Prima che sia troppo tardi!”

Senza lasciare il mio braccio mi tira oltre la porta..

Come metto piede nella stanza della strega sento una atmosfera pesante fatta di chiarori e di odori. Con la coda dell’occhio vedo vecchie contorte con facce rugose e mani scarne....

La scena diventa a ogni secondo sempre più vivida. Giorgio mi stringe il braccio fino a farmi male e mormora rabbioso:

“Non pensare a loro! Non pensare adesso...”

La scaletta ripida è un pozzo di buio. Io cammino meccanicamente tirato da Giorgio e mi sembra che passi un’eternità dentro quella casa.

Poi finalmente usciamo fuori nel cortile. Respiro profondamente l’aria umida della notte. Mi sento debole e molto stanco.

Passando sotto alla finestrella della stanza della strega alzo la testa per vedere come procede il sabba. C’è solo silenzio e solitudine di una vecchia casa abbandonata.

 

LUGLIO 1992

 

Revisione gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ZUCCHE

 

“Vieni a vedere, vieni a vedere che cosa ho trovato... Stamattina sono andato nel campo delle zucche e mi sono spaventato. Vieni, vieni a vedere anche tu...” insiste con voce ansante il contadino di nome Angelo.

É un umido pomeriggio di fine agosto. Il sole rosso sta per tramontare.

Avanzo nel terreno fangoso seguendo malvolentieri il grasso Angelo che cammina dondolandosi. In fondo al sentiero basso si stende la piantagione di zucche. Per terra ci sono enormi pozzanghere e l’aria è satura di umidità.

Camminiamo fra le foglie ruvide di zucche che fanno un rumore di cartaccia spiegazzata.

“Dove andiamo a finire?” chiedo senza interesse.

“Siamo quasi arrivati” sbuffa Angelo. “Dovrebbe essere qui, o più avanti... Ecco, là! Guarda.”

Due zucche color rosso fuoco, enormi e deformi stanno adagiate tra le foglie.

“Ma ti sembrano zucche queste? É roba da fotografare! É roba da mettere sul giornale...” grida Angelo.

“Beh, sì, forse...”

“É roba dell’altro mondo, questa!”

“Beh, adesso non esageriamo...”

Promettendogli di venire con la macchina fotografica ritorno a casa e dimentico l’accaduto.

Un paio di sere dopo, al ritorno dal lavoro, passo davanti alla casa di Angelo. Lui è ancora nell’orto e mi chiama agitando il braccio. Scendo dalla bicicletta e lo raggiungo vicino a una aiola di melanzane.

Gli edifici degli essiccatoi mandano un’ombra cupa e fredda. Le distese di meli di fronte sono immerse nella foschia. Ci sono mucchi di pali marciti. Un pagliaio è fradicio di acqua.

Angelo sembra fuori di sé stasera:

“Ne ho trovata un’altra, ed è ancora più grossa!”

“Beh, adesso non ho tempo...”

“É mostruosa ti dico! Seguimi!”

Ci incamminiamo ancora per il sentiero in discesa verso la piantagione di zucche. Il cielo è color grigio piombo, eccetto per una macchia rossastra laggiù a ovest. Gli stivali di Angelo affondano nel fango e io ho le scarpe tutte bagnate camminando sui ciuffi d’erba.

Quando arriviamo in vista della piantagione di zucche Angelo si ferma un attimo. Poi entra con decisione in mezzo alle foglie camminando verso ovest. Arriviamo vicino alle due zucche che abbiamo visto alcune sere fa. Adesso sembrano ancora più rosse e grosse. Angelo non bada a loro, prosegue oltre e borbotta:

“Stamattina mi sono spinto più avanti per cercare quelle mature e ho visto...”

Si ferma di colpo. C’è una zucca gigantesca là avanti color rosso infernale.

Ci avviciniamo con precauzione come davanti a una cosa pericolosa. La zucca ci arriva fino all’inguine. É grossa e deforme, semiaffondata nel terreno.

“Peserà almeno dieci quintali” afferma Angelo. “Chissà se è buona da mangiare.”

“Beh, no, non so...” Non so neanche io cosa rispondere. Non ho mai visto una cosa simile.

“É straordinario, è incredibile” mormora sottovoce Angelo, “chissà come saranno i Geni di questi vegetali...”

Là in quella solitudine, in mezzo a quel campo di zucche sento uno strano malessere e provo il bisogno di andare via.

***

Un’altra settimana di piogge, di giorni tetri.

Un tardo pomeriggio, con un sole giallo e pallido ritorno a casa stanco dal giornale. C’è ancora il vecchio Angelo nell’orto, e appena mi vede mi fa strani segni con tutte e due le braccia per chiamarmi. Ma sono troppo stanco e gli grido che ripasserò.

Anche la sera successiva Angelo mi chiama facendo dei segni che non capisco. Ma ho troppa fretta e gli grido di aspettare.

Nei primi giorni di ottobre Angelo non è più nell’orto, dove tutto è marcito e in disordine.

Circa a fine mese quando la campagna d’autunno è infangata sotto strati di foglie morte, una sera mi fermo a casa di Angelo per salutarlo.

Nella cucina bassa accanto al camino c’è solo la grassa madre novantenne paralitica a una gamba. Con voce spigolosa mi dice che Angelo è andato via:

“Una mattina è andato nel campo a prendere le zucche da portare al mercato... Da allora non è più tornato. Forse è andato a stare in città, lasciandomi sola... Cerchi mio figlio, la prego, e gli dica di tornare...”

Il mio respiro è accelerato e sento un brivido freddo.

Forse adesso è troppo tardi per cercare Angelo.

 

LUGLIO 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIA DELLE STREGHE

 

“Volevo andare da mia zia Sofia, a Guasti, ma la strada è allagata più avanti” mi rivolgo al contadino che sta zappando il terreno.

“Sì, il fiume ha tracimato due notti fa. Le toccherà passare per via Batorcolo, Arzarin, Cason... un lungo giro.”

“Ah! Il Batorcolo! C’è ancora quella scorciatoia dietro alla colombaia?”

Il contadino mi guarda storto e fa una smorfia:

“Non intenderà passare per quel sentiero? Non per la Strada delle Streghe!”

“Sciocchezze. Le streghe non esistono.”

“Ho vissuto sessanta anni in queste terre... e ho visto... ho visto...”

L’uomo rimane soprappensiero, incerto se continuare a parlare. Poi abbassa lo sguardo e riprende il suo lavoro.

Io lo saluto e discendo per la stradina bianca e bassa che affonda nella pianura fra le colture secche del mais. La stradina si restringe tra i filari di salici. Il sole crea macchie arancione nel fossato.

Per terra c’è un cerchio bruciato con sparse intorno penne di gallina. Due cuori rossi di carta dondolano appesi ai rami di un salice. Ci sono due nomi: “Cinzia e Paolo” scritti con il carbone sulla carta. Per terra mozziconi di candele e strisce di corteccia annodate.

Un poco più avanti c’è qualcuno che si muove come in una danza. Una ragazza sta mettendo dei fiori su un rozzo altarino di legno.

“Ciao. Che cosa fai?” le chiedo.

La ragazza sussulta di sorpresa e poi ha un sospiro di rassegnazione:

“Era un legamento d’amore... ma non era destinato a te... Beh. Non importa” prosegue come parlando a se stessa.

Il cielo è una festa di luci e le nubi sembrano veli da sposa. La ragazza ha un vestitino scollato bianco e rosa e lunghi capelli neri. Mentre si china per raccogliere i fiori scopre un po’ il seno. Allora mi guarda e sorride maliziosa. Al collo ha una collanina lunga fino all’ombelico con appeso in fondo uno strano disegno: due linee a forma di V intrecciate a un 8.

“Che cos’è?” le chiedo avvicinando la mano.

“É un amuleto della Wicca.”

Poi diventa impaurita, si ritrae e fa per andare via.

“Non ho mai conosciuto una ragazza come te. Resta ancora un poco.”

“No, adesso devo andare... dopo... forse, un’altra volta...” mormora e corre via.

Mentre riprendo il cammino seguo con lo sguardo la sua figuretta che corre e rimpicciolisce in fondo alla strada bianca. Da lontano vedo che la ragazza ha lasciato la strada provinciale ed è scomparsa per il sentiero dietro alla colombaia.

Quando arrivo al bivio poco dopo ho qualche incertezza. Poi di colpo decido di seguirla e mi inoltro per la Via delle Streghe.

Un sentiero erboso basso e stretto che serpeggia fra cespugli di robinie. Enormi ceppi tarlati e bitorzoluti torreggiano obliqui ai lati, sulle rive di un fosso. Fra le piante di gramigna e di stramonio cresce una delicata rete di convolvoli.

Sento che non dovrei passare di qui, ma l’amore dentro di me è come una malattia.

Non vedo più la ragazza adesso. Sta scendendo la nebbia. Una nebbia innaturale si stende come vapore sopra alla valle. Dopo alcuni passi mi ci trovo immerso. La nebbia di agosto? Come è possibile?

Cammino in quel vapore umido che fa appiccicare i vestiti sulla pelle e che attenua la visione. Nel cielo il disco del sole sbiadisce sempre più e diventa nero nella metà inferiore.

Adesso cammino nella oscurità che è scesa sulla campagna. Ad un tratto vedo una luce laggiù in fondo al sentiero.

C’è un fuoco di sterpi fra alcune pietre. Vicino al fuoco c’è una vecchia che sta facendo qualcosa. Tiene un bastone e disegna strani segni nell’aria.

Io le arrivo di spalle e non può vedermi ma lei si volta bruscamente come se avesse intuito la mia presenza.

É una vecchia magra, curva, spettinata, vestita di stracci neri. Ha la bocca sdentata, il naso adunco. Dalla scollatura intravedo i seni rugosi e un amuleto che brilla in fondo a una collanina: una V intrecciata a un 8.

Con disgusto distolgo lo sguardo da lei e allora vedo muoversi qualcosa nell’oscurità della campagna. Ci sono altre vecchie accucciate a terra che raccolgono erbe, radici, o fanno segni sul terreno.

Dopo un attimo mi volto e corro indietro sul sentiero, inciampando nelle buche.

Quando arrivo sulla provinciale poco dopo la nebbia si sta diradando e ritorna la luce. Mentre proseguo a piedi la nebbia si solleva completamente e tutto ritorna come prima.

Quando sono arrivato a casa della zia vedo il sole che tramonta rosso e infuocato dietro i campi di mais. Solo le nubi nel cielo serale hanno profili da vecchie megere.

OTTOBRE 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CASA CON L’EDERA

 

Un pomeriggio camminando sul marciapiede incontro una amica di famiglia, l’anziana signorina Luisa. É piccola, magra con gli zigomi sporgenti. Al collo porta grosse collane e sulla faccia ha molti strati di cipria per nascondere le rughe.

Luisa appare un po’ agitata questa volta e muove le mani con gesti nervosi. Dopo avermi salutato, dice che ha bisogno del mio aiuto e mi prega di accompagnarla subito a casa sua. C’è qualcosa che la sta preoccupando in questi ultimi tempi; anche se non riesco a capire bene di cosa si tratta.

Da un portone entriamo dentro un cortile interno acciottolato, con una pompa arrugginita per l’acqua laggiù in fondo. La casa è sulla destra con la facciata esposta ad est. Una scala esterna porta a un terrazzino con ringhiera, dove c’è la porta d’ingresso. Tutta la facciata è interamente coperta da una fitta rete di edera centenaria. L’edera arriva fino alla grondaia e avviluppa in parte anche le finestre del piano superiore.

Luisa con movimenti svelti mi guida attraverso una saletta fredda. C’è una stufa di ghisa spenta e una consolle sul pavimento di mattonelle bianche e nere.

In cucina c’è sua sorella Laura, alta e magra, con occhiali e scialle di lana. Lei non esce quasi mai e si dedica a svolgere i lavori di casa. Laura parla poco e sembra meno interessata al problema.

Seguo Luisa nel corridoio dove lei tira fuori una grossa chiave e apre una porta.

Entriamo in una stanza da letto stile liberty. La stanza è fredda e scarsamente illuminata da una lampadina a muro. Luisa spinge le imposte per aprirle e vedendo che incontra delle difficoltà mi avvicino per darle una mano. Spingo anch’io ma non riesco ad aprire tanto di più. L’edera all’esterno è cresciuta e impedisce l’apertura completa. L’altra finestra poi è completamente bloccata.

“Qui prima ci dormiva mia sorella” spiega Luisa, “ma lei diceva che la stanza era sfavorevole per la sua salute così è andata a dormire sul retro. Mi sono sistemata io qui ma non ci sono restata a lungo... Adesso questa stanza la teniamo chiusa, insieme al ripostiglio qui accanto, anch’esso a est.”

Fa una pausa, poi riprende parlando più piano:

“Con l’oscurità si sentono rumori in questa stanza; stridii acuti e improvvisi. In certe notti si sente un sibilo, come una bestia rabbiosa. Una notte di luna sono entrata qui e ho aperto la finestra. C’era un serpente là fuori... Era nero, spaventoso... aveva le corna...”

Ascolto il racconto di Luisa in silenzio, senza interromperla. Poi le prometto che tornerò la sera stessa per sentire i rumori e capire di cosa si tratta.

Quando sono giù in cortile mi fermo per osservare l’edera. Mi avvicino e con la mano sposto le foglie. Sotto c’è un intrico di rami, alcuni grossi come pali. Possibile che durante tutto questo tempo qualche animale si sia annidato lì sotto?

Quella sera all’ora fissata arrivo a casa delle due sorelle. Luisa in cucina mi prepara una tazza di tè e mi parla di vicende della sua famiglia. Poi mi accompagna nella stanza a est e mi lascia solo.

Io mi siedo sulla poltrona e resto in attesa. Guardo l’orologio sulla mensola di marmo. Segna le nove e dieci. Spero di non dover aspettare tanto. Alla mia destra c’è il letto e un pianoforte con due candelabri. La poltrona dove sono seduto ha il bordo di pizzo bianco. Nella stanza c’è un silenzio profondo e io chiudo gli occhi e a poco a poco mi addormento...

Mi sveglio tormentato da una sensazione di freddo e di malessere. Sembra che manchi l’ossigeno qui dentro. Mi sento molto debole e odo un sibilo sottile in lontananza.

Mi sforzo per sollevarmi un poco ma quello che vedo mi toglie il respiro!

Il pavimento è ricoperto da una nebbia densa e nera che arriva fin sotto il letto alla mia destra.

Con uno scatto tiro su le gambe sulla poltrona e resto paralizzato a guardare il fenomeno.

La nebbia si muove, striscia, diviene più fluida. I sibili all’esterno diventano più acuti mentre la nebbia si ritira verso la finestra, rifluisce verso la parete e sembra venire risucchiata dal muro.

Finalmente salto su dalla poltrona, afferro un candelabro e corro verso la finestra. Fuori, nella luce lunare la nera parete di edera vibra e sibila come se fosse viva. Poi a poco a poco l’ondulazione si calma e resta solo il movimento delle foglie per il vento notturno.

Aspetto qualche minuto per riprendere fiato poi esco, chiudo a chiave la porta e percorro il corridoio. Quando entro in cucina la pendola segna mezzanotte e trenta. Luisa è ancora alzata e sta lavorando a maglia. Devo avere una faccia stralunata perché lei mi guarda preoccupata senza chiedermi niente.

“Forse è meglio non entrare là per adesso. Ecco qui la chiave... Se sei d’accordo domani tireremo giù l’edera per scoprire cosa c’è dietro...”

Senza parlare la donna fa cenno di sì con la testa e allora io vado via.

Il mattino seguente arrivo accompagnato da due contadini, amici miei. Luisa e Laura sono impaurite da quello che possiamo trovare sotto il rampicante e si chiudono in casa prima che incomincino i lavori.

Portiamo una scala a pioli e altri attrezzi. Con falcetti e roncole fissate in cima ai bastoni tagliamo un po’ alla volta l’edera e la tiriamo giù. É un lavoro lento poiché i rampicanti sono duri e intricati. Tiriamo giù festoni di edera con foglie, rami e pezzi di calcinacci. Lavoriamo con attenzione fino a mezzogiorno. Ci fermiamo per mangiare pane e salame che ci ha preparato Luisa e poi riprendiamo il lavoro.

Nel pomeriggio abbiamo ammassato mucchi di rami e foglie nel cortile. Adesso abbiamo messo allo scoperto l’intonaco corroso e i mattoni della facciata e restano solo alcuni tralci sparsi qua e là. Per precauzione tagliamo anche quelli e li tiriamo giù.

Le ombre della sera calano nel cortile e non abbiamo ancora trovato niente. Luisa esce e guarda la facciata messa a nudo. Apprezza il lavoro che abbiamo fatto ma non è ancora soddisfatta. Ha paura che ci sia rimasto qualcosa nascosto, annidato dentro ai mucchi di edera.

Prima che faccia buio portiamo una bottiglia di petrolio, innaffiamo la sterpaglia e diamo fuoco. Fiamme azzurre e rosse guizzano, poi i mucchi si mettono a bruciare emettendo crepitii e colonne di fumo.

Nei giorni successivi ritorno a far visita alle due sorelle. Apprendo con piacere che il lavoro che abbiamo fatto non è stato inutile, poiché i disturbi nella casa sono completamente cessati.

Anche dopo mesi, quando lungo il marciapiede incontro Luisa, mi conferma che la casa è sempre tranquilla.

Poiché non abbiamo trovato nessun animale, e in pratica non abbiamo risolto il mistero, posso fare tre ipotesi: o è stata una serie di coincidenze e suggestioni. O abbiamo distrutto l’animale bruciando i mucchi di edera. Oppure si è trattato di un raro caso di vampirismo vegetale. Cioè il rampicante assorbiva l’energia psichica degli abitanti.

 

NOVEMBRE 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VECCHIE CANTINE

 

In un pomeriggio grigio di autunno, passo in bicicletta vicino alla fattoria del mio amico Ambrogio. Il muro di cinta della fattoria è basso e inclinato. Alcuni mattoni a mezzaluna sono caduti dalla cima. Poiché ho tempo, decido di fermarmi un poco per salutare il proprietario. Entro dal portone.

La casa è quattrocentesca, grande e tetra. Ha la porta ad arco di pietra, le inferriate panciute e un piccolo campanile lassù sul tetto.

Come entro in cucina incontro il signor Ambrogio, massiccio come una quercia e altrettanto legnoso.

“Ehi signor Ambrogio, passavo da queste parti e sono entrato per salutarla. Come sta?”

“Ah, i miei reumatismi. Non sono più quello di una volta! Adesso faccio fatica a salire le scale. A proposito, ho un favore da chiederti. Ecco. Prendi una candela e va giù in cantina a prendere quattro fiaschi di vino.”

Per arrivare alla cantina bisogna attraversare alcune stanze magazzino rischiarate dalla luce grigia di alte finestre a nord. Ci sono sacchetti rotti di zolfo e un soffietto là per terra. Scansie con file di cipolle e aglio. Mucchi di spine tarlate, di tappi di sughero. Una ghiacciaia, un torchio per la pasta, macinino per caffè... Tutto sotto strati di polvere e ragnatele.

Arrivo a una scala con gradini di pietra e scendo fino a una pesante porta di legno con due catenacci. Tiro i catenacci e spingo mezza porta. Poi accendo la candela ed entro in cantina.

La cantina è oscura e tetra con il soffitto a volta di mattoni ammuffiti. Un po’ di luce pallida cade giù da due finestrini a livello del suolo, oscurati da inferriate, grate e ragnatele.

Tenendo alta la candela accesa metto i piedi sul pavimento di terra, allagato al centro. Su bassi piedistalli lungo la parete c’è una fila di enormi tini. Per terra ammassate in disordine ci sono decine di botti, alcune sfasciate, e damigiane.

Mi avvicino a una scansia di legno con file di bottiglie e fiaschi. Tiro giù i fiaschi, due alla volta e li poso sul pavimento. Nel voltarmi vedo una forma bianca, immobile laggiù in fondo. Prima di risalire, per curiosità, vado a dare un’occhiata.

Il fondo della cantina è ancora più buio e avanzo piano tenendo la candela. Quando sono arrivato vedo di cosa si tratta.

I mattoni corrosi dall’umidità sono coperti da grandi macchie bianche di salnitro. Le macchie formano disegni e figure strane. Mi avvicino di più per vederle meglio.

Ci sono figure diaboliche. Vecchi scheletrici e bruttissimi. Corpi nudi e gonfi con teste di scorpione, di talpa, di mulo, impegnati in orrende attività.

Che razza di fenomeno è mai questo?

Tutta una folla di esseri feroci di profonda malvagità. Esseri deformi. Esseri mostruosi che corrompono con la bruttezza e il male. É una scena terribile di Demoni che sembra tratta dall’Inferno di Bosch.

Volto le spalle a tutto questo e porto su i fiaschi, due alla volta. Quando richiudo la porta della cantina, penso ancora alle visioni soprannaturali che si sono formate là sotto...

***

É un pomeriggio di marzo, chiaro e ventoso. Il sole sgela le terre, illumina i vecchi muri delle fattorie dove si scaldano le lucertole. Le ultime macchie di neve resistono nei fossi e lungo i muri esposti a nord.

Passando vicino alla fattoria del signor Ambrogio decido di fermarmi per sentire come ha passato l’inverno.

Ambrogio mi riceve in cucina dove c’è odore di fuliggine e il sole che entra dalle finestre aperte. Restiamo a parlare del tempo, dell’inverno, dell’annata. Dopo un poco non resisto più e gli domando:

“Ha bisogno che le porti su del vino, per evitarle di fare la scala?”

Lui mi guarda un po’ sorpreso, ma acconsente:

“Sei gentile. Grazie, alcuni fiaschi mi andrebbero bene.”

Desideravo e temevo questo momento. Finalmente ho la possibilità di tornare giù, in cantina.

Mi alzo, prendo la candela, attraverso gli stanzoni freddi a nord e scendo la scala. Tiro i catenacci e mentre apro la porta ho un po’ di apprensione. Spinto dalla curiosità mi dirigo subito verso il fondo della cantina mettendo in fuga le ombre.

Le macchie di salnitro ci sono ancora ma... è tutto più confuso. Le figure sono irriconoscibili. Forse la volta scorsa ho visto solo delle illusioni.

Quello che resta dei Demoni è solo una confusione di forme scomposte e ribollenti. Una colata di corpi in disfacimento. Una massa informe di teste. I Demoni hanno perso le sembianze orribili, sono sprofondati in un marasma caotico...

Però sopra a tutto questo il salnitro ha creato altre e differenti figure. Uomini possenti e barbuti e donne affascinanti come Dee. Esseri di straordinaria bellezza e potenza che esprimono gesti di divina autorità. I Demoni sottostanti sembrano annullati, sconfitti da queste nuove presenze superiori.

Quando risalgo dalla cantina portando il vino con me, strani pensieri mi passano per la testa. Non posso dire a nessuno quello che ho visto.

Forse sono stato l’unico testimone di una delle tante battaglie fra Demoni e Dèi che si svolgono in punti lontani dell’universo. Forse, questa volta, il campo di battaglia è stato una vecchia cantina.

DICEMBRE 1992

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PORTASFORTUNA

 

Un pomeriggio d’estate passando per la piazza ritrovo il solito gruppo di amici all’osteria.

La vita non è facile per nessuno e noi quattro sembravamo avere affrontato situazioni più difficili del normale. Ma il più colpito dalla malasorte sembrava Massimo. Grosso, il volto tirato, stava sdraiato sulla sedia con un giornale davanti e come al solito polemizzava sulla vita, sull’amore, sulle ingiustizie...

“Clara è andata via. Così, per sempre. É una storia finita ormai.”

Fa un lungo sospiro, poi riprende:

“Sì ci sono tante donne al mondo... troverò da consolarmi... Ma bisogna ricominciare tutto da capo e io incomincio a invecchiare... Non ho più tanta voglia di fare il pagliaccio e mettermi a correre dietro alle ragazzine...”

Bruscamente si ferma di parlare. Sulla sua fronte alta che preannuncia la calvizie, si disegnano molte rughe. Diventa nervoso, si dimena sulla sedia mentre cerca qualcosa nelle tasche. Tira fuori un mazzetto di amuleti rossi attaccati a uno spago e con questi fa dei segni in direzione della strada.

“É uno jettatore, un portadisgrazie” dice Massimo sottovoce.

Mi volto e vedo che dal fondo del marciapiede avanza un tizio magro con la barba e il passo stanco. Indossa pantaloni scuri, camicia con cravatta e tiene la giacca buttata su una spalla poiché fa molto caldo.

Anche l’amico Sandro si volta ma poi sorride:

“Ma no. Sono tutte sciocchezze. Quello lo conosco ed è solo un povero diavolo come noi. Era un uomo importante, una volta. Ah! Sì! Era direttore di non ricordo più quale Ente... in poco tempo perse il lavoro, la salute, la casa... Sua moglie fuggì con un altro... É un uomo completamente rovinato adesso. Va a spasso per il paese alla ricerca di qualcuno che gli offra una sigaretta o un bicchiere di vino. A volte mangia in un Istituto di Carità.”

Dopo una settimana ritrovo Massimo tetro e depresso. É un pomeriggio piovoso e lui sta al riparo della tettoia di un deposito di carbone.

“E così ho perso anche il lavoro...” dice sconsolato.

“Oh, mi dispiace...”

“Era prevedibile! Le cose in questi ultimi tempi non andavano più bene, c’era poco lavoro. E poi il socio era disonesto... La falegnameria è chiusa adesso...”

Nelle pause di silenzio si sente la pioggia insistente che batte sulle lamiere. Poi da un vicolo sbuca il solito tizio magro con addosso un impermeabile nero e cammina sul marciapiede opposto.

Appena lo vede Massimo fa una faccia sbigottita e ricade nella sua ossessione:

“Eccolo. Con qualsiasi tempo... Guarda la faccia... Guarda la barba. É una maschera. Non è vero ti dico! Non è uomo di carne quello. Dimmi che è finto. Dimmi che è fatto di rotelle...”

Una sera tardi sto per rincasare. Davanti al Caffè della Pace ritrovo Massimo sempre più polemico, sempre più nichilista, sempre più negativo...

“É accaduta una cosa diabolica, una cosa vampirica, una cosa catastrofica...”

Al mio sguardo di interrogazione Massimo riprende:

“Oggi mi ha salutato! Per la prima volta, quello, mi ha salutato!!!”

“Bene. Non capisco cosa ci trovi di strano. É stato gentile e...”

Mi fermo di parlare vedendo che sta per diventare furioso. Il collo di Massimo si gonfia, la sua faccia diventa color rosso vinaccia:

“... Ma non capisci? Ma non capisci un accidente, stradannazione!!! Non lo conosco neanche! Non so neanche il suo nome e... e quello mi ha salutato!...”

Una mattina presto siamo radunati noi quattro nella saletta dell’amico Sandro. Massimo appare cupo più del solito. Le sue parole sono gravi inframmezzate da lunghi sospiri:

“Mi hanno buttato fuori casa... Speravo di riuscire a recuperare quei crediti invece...”

“Beh, adesso non abbatterti. Potrai dormire qui da me stanotte” lo consola Sandro.

La bocca di Massimo ha una smorfia di dolore mentre prosegue monotono:

“É colpa sua! Lo ho sempre saputo! Ogni volta che incontravo il Barba le cose andavano sempre peggio. É uno jettatore e vuole la mia rovina. Finirò come lui, su una strada a mendicare una sigaretta e un bicchiere di vino...”

In quel preciso momento la porta si spalanca. Massimo salta su dalla sedia e prorompe in una esclamazione disperata:

“ECCOLO!!!”

La faccia sorridente del Barba si inquadra sulla soglia della porta:

“Salute a tutti. Buona giornata Sandro.”

Poi l’uomo si ritira, rinchiude la porta e ritorna sul marciapiede per riprendere le sue passeggiate quotidiane.

La faccia di Massimo è color terreo con una espressione di tensione e terrore. Nessuno apre più bocca dopo questo incidente.

Passato lo shock Massimo si rilassa, sprofonda di più nella poltrona, ma appare svuotato come dopo uno sforzo tremendo. Nel silenzio le sue parole hanno un tono basso, lento, inesorabile:

“Era solo un avvertimento... Ma un giorno verrà a prendermi per fare la sua stessa fine. Lo sento. Lui ha pazienza. Lui ha tempo. Lui non si stanca mai. Continua a girarmi intorno, ogni volta un po’ più vicino, finché un giorno mi metterà la mano sulla spalla e mi chiederà di andare via, insieme a lui...”

 

GIUGNO 1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COMIGNOLI

 

Circa alle due di notte la festa a casa dell’amico Rino sta per finire e Barbara mi chiede di accompagnarla a casa. Mi infilo il cappotto e prendo la ragazza per mano.

Quando usciamo fuori rimango stupito. É una notte di febbraio. Una luna piccola e bianchissima rischiara la campagna irrigidita dal gelo. La festa calda e rumorosa che abbiamo lasciato dietro di noi sembra un evento lontano.

La campagna sotto la luna è statica, inanimata, come vetrificata nella morsa dell’inverno. Cautamente muoviamo i primi passi sulla strada bianca.

“Ti sei divertito alla festa? Anche mia nonna fa festa la notte del plenilunio...” sussurra Barbara sottovoce e il suo respiro si condensa in vapore davanti alla bocca.

Restando uniti camminiamo piano nella campagna lucente e silenziosa dove anche il tempo è rallentato. A questa ora della notte sembra di trovarsi in un mondo irreale. Le pozzanghere sono specchi di ghiaccio. Sento il corpo di Barbara appoggiato al mio e mi sembra di muovermi dentro un sogno. Forse è l’alcool che ho bevuto a farmi questo effetto.

Dopo un ponticello sul fiume la stradina costeggia una distesa di meli appena potati.

Sotto la luna i tronchi bassi dei meli sono neri e contorti. I rami sono scheletrici, minacciosi, con punte, gomiti, corna...

Sento Barbara che si stringe di più a me. Ha il corpo soffice e caldo e mormora:

“Tienimi vicino. Ho paura... Di notte, mia nonna vede persone che si rincorrono tra i meli...”

Procediamo ancora. Nel silenzio si sente solo il rumore cadenzato dei nostri passi.

Finalmente arriviamo in vista delle prime case del villaggio. Sagome di ombre nere e inclinate sormontate dai comignoli. I comignoli sono immobili e sembrano in agguato. Hanno forme bizzarre, coniche, storte, appuntite...

Ancora la voce emozionata di Barbara che sussurra vicino a me:

“Sento freddo. Nelle notti come questa mia nonna vede persone che escono dai camini...”

Arrivati sotto l’ombra di una casa, ci fermiamo davanti a una porta. Barbara infila la chiave. Gli scatti della serratura sono come colpi di martello. Quando la porta è aperta lei si volta verso di me:

“Beh. Ciao” dice. Mi dà un bacino sulla guancia e si ritira dentro.

Io mi incammino verso casa mia ma dopo pochi passi sento la porta che si riapre e la voce di Barbara che chiama piano:

“Aspetta. Volevo chiederti...”

Mi volto e resto in attesa. La voce di lei riprende ancora più bassa e impaurita:

“... No. Nulla. Un’altra volta... forse...”

E richiude definitivamente la porta.

 

SETTEMBRE 1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL SIGNORE DEL TEMPO

 

Seduto sotto il pergolato di una osteria di campagna mangio pane e noci mentre osservo la morte dell’estate.

É una sera di settembre. Il sole arancione tramonta dietro i campi di stoppie e davanti a questo spettacolo provo una profonda tristezza e malinconia. Ogni anno nella stagione autunnale io provo questa intensa sofferenza esistenziale.

Ci sono solo tre o quattro contadini silenziosi sotto il pergolato di glicini perché fra poco sarà buio e freddo. Qualcuno, forse un ubriaco, sta parlando da solo:

“Fin da giovane ho sempre avuto una grande passione... ma la vita, le circostanze...”

Mi verso dell’altra birra per scacciare i pensieri tetri e la solitudine. Molto tempo dopo la voce riprende roca e monotona:

“... Mi sono svegliato una mattina, e ho sentito che qualcosa era cambiato. Fino a venti anni il tempo non passava mai. La vita era lenta, le stagioni sembravano eterne e i giorni erano interminabili. Dopo i venti anni il tempo ha cominciato a correre sempre più veloce...”

A questo punto alzo la testa verso i miei compagni. Ci sono solo due o tre ombre adesso sotto il pergolato, nella luce fioca del crepuscolo. Quello che ha parlato deve essere l’uomo grasso con il cappello seduto vicino allo steccato del campo di bocce. Dopo una pausa l’uomo riprende a borbottare:

“... A volte rivedo le scene della mia vita come fossero dei flash... Il lavoro di bottega, il fidanzamento, il matrimonio... Pensavo che gli eventi si sarebbero calmati, che forse avrei avuto maggior tempo... Sbagliavo. I cambiamenti di lavoro, la casa nuova, il primo figlio... Allora la vita è diventata un incendio, un turbine che gira, una mietitrebbia che macina avvenimenti e anni...”

Gli altri contadini sono andati via tutti. Siamo rimasti solo io e lui adesso, sotto il pergolato semibuio. La sera è diventata umida e pesante. La luna sorge a est, rossa, sfocata e la voce riprende a raccontare:

“... Avevo passato i quaranta anni quando arrivarono i disaccordi in famiglia, la separazione... Gli anni saltavano come le cavallette... Ora gli anni passavano a cinque alla volta, i mesi erano settimane e i giorni erano ore. Quarantacinque, cinquanta, cinquantacinque anni... Con questa corsa sarei volato verso la morte e il pensiero della morte mi faceva paura...”

Adesso giro la testa e guardo l’uomo che ormai è diventato una ombra nera. Dalle finestre illuminate provengono brusii misti a tintinnii di bicchieri e provo forte l’impulso di entrare dentro all’osteria. Ma resto seduto al mio posto ad ascoltare:

“Dovevo fare qualcosa. Capivo che il mio nemico era il tempo. Dovevo trovare un mezzo per rallentare il tempo... Allora incominciai a studiarlo. Lessi Dunne, Hinton, Zollner, Roberts... Scoprii che il tempo non è costante né uniforme. Ci sono luoghi e momenti di tempo ritardato o anticipato. Scoprii che il tempo ha anse, scatti, salti, pause... Arrivato a questo punto ho trovato: la vecchia che balla...”

“Che cosa ha trovato?” gli chiedo.

L’uomo si alza barcollando e viene a sedersi al mio tavolo.

“Oh. É solo un nome che io ho dato a questo fenomeno.”

Intanto è scesa la notte e incomincia a fare freddo. La luna si alza nel cielo e diventa piccola e bianca. L’uomo è seduto vicino a me adesso. Riprende a parlare e sento il suo alito che puzza di vino:

“Bisogna entrare nello stato di coscienza della quarta dimensione per spostarsi nel tempo. Oppure entrare nella quinta dimensione per uscire dal tempo. O nella sesta per attuare le varianti probabili... Io ho quasi risolto questi problemi...”

Ancora una pausa. Nel buio sento il rumore di carta spiegazzata. L’uomo sta estraendo dalla giacca un pacco di carte che dispiega davanti a me.

“Guardi questo mandala. É lo psicogramma delle percezioni temporali...”

Alla luce gialliccia che proviene dalle finestre vedo tanti diagrammi che somigliano a una rete o a una gabbia curva. Ci sono tante ellissi dentro linee a otto allungate e messe una nell’altra...

“Provi a scorrere le linee con lo sguardo aiutandosi con un dito.”

Poiché esito, l’uomo prende la mia mano per posarmela sulla carta. La sua è una mano grossa, rugosa e calda.

Con il dito percorro spirali, arabeschi, matasse di ellissi... Il mio sguardo si immerge dentro vortici ellittici e gira, gira...

Talvolta mi sembra di intuire che il complesso disegno è formato da schemi differenti e paralleli. Però tutte le volte che arrivo alle intersezioni ritorno sempre sullo stesso percorso. Nell’ombra la voce dell’uomo mi suggerisce:

“Lo so che cosa le sta succedendo. Resti calmo, senza pensare. Per superarlo deve desiderare l’opposto di quello che vuole ottenere.”

Pazientemente ripeto ancora il percorso senza successo e sto quasi per smettere.

All’improvviso succede qualcosa.

Il disegno si confonde. Mi sembra di percorrere velocemente un corridoio all’indietro, con le immagini che rimpiccioliscono davanti a me.

Poi davanti a me si fa buio. Ma lateralmente vedo scorrere le immagini dei giorni passati. Quando mi sforzo di fissarle, queste immagini rallentano. Contemporaneamente però l’alone di buio davanti si allarga, fino a oscurare la visione. Non so quante volte si ripete questo fenomeno...

Quando sollevo la testa mi trovo semisdraiato sul piano del tavolo. Mi sento stordito con la testa che mi fa male.

Con grande fatica mi alzo e mi guardo intorno. Non c’è più nessuno. L’osteria è chiusa, la luna è scomparsa. Sta per arrivare il temporale e faccio ritorno a casa.

I giorni passano e io penso sempre ai discorsi di quell’uomo.

Il tempo passa, la morte si avvicina. Devo affrettarmi a ritrovare l’uomo grasso col cappello.

Forse a quest’ora lui avrà risolto completamente il problema del tempo. Forse anche io potrò beneficiare della sua scoperta.

SETTEMBRE 1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LAMMAS

 

Una sera d’estate mentre vado a passeggio dopo cena. Costeggio lo scolo d’acqua del villaggio prima di inoltrarmi in campagna. Dietro la finestra di una fattoria una vecchia con il naso grosso lavora con l’ago. Una gallina gira davanti. Una bambina in mutandine bianche gioca da sola in un cortile.

Agosto è scolpito nella campagna. Anche le case che ho lasciato dietro di me sembrano diverse, più piccole e colorate. A tratti arrivano aromi forti e strani che si sentono solo nelle sere di agosto. L’aroma secco del mais, quello unto dei girasoli. L’odore umido del fiume...

É una sera divina con un tramonto da fiaba. Il sole rosso diventa enorme, smisurato. Sulle stoppie vola uno stormo di cornacchie.

In uno spiazzo dei campi c’è una ragazza sola con i capelli lunghi. Sta accendendo alcune candele poste in un cerchio di fiori. Il suo volto serio e prezioso sembra quello di una Dea.

L’amore per lei mi prende all’improvviso come una malattia. L’amore è una piccola morte, penso. Allora mi fermo a guardarla, da lontano, stando nascosto dietro il tronco di un albero.

Fiori e candele accese sono poste davanti al sole. Il cielo al tramonto è un lago di luce rosa con isole di nubi celesti.

Sotto un gruppo di tigli lì vicino ci sono alcune buffe sagome di cartone. Raffigurano personaggi grotteschi... Il cielo è un lago di sangue che diventa sempre più cupo e coagulato.

Adesso la ragazza intona un suono basso, vibrante, risonante, gutturale... Una “Mmm...” ripetuta all’infinito, su varie tonalità... Nubi a forma di drago si allungano nel cielo.

La ragazza continua a cantare e mentre canta non sembra più sola... Questa specie di ronzìo cala di timbro, poi si alza, vibra più forte, si avvicina a qualcosa, una rivelazione, una soluzione, che però non arriva mai... Lame di nebbia salgono su dai fossi e strisciano sul terreno. C’è una atmosfera umida e calda. A ovest la nebbia diventa rossa e invade metà cielo.

Il canto continua, come una invocazione, e al ritmo di quel suono la nebbia sembra ribollire, assume forme mostruose e fantastiche.

Vorrei allontanarmi da quel posto ma resto affascinato, a guardare. Vedo un turbine di forme irrequiete. Le forme salgono dalla terra, assumono contorni e fisionomie grottesche. Con grande velocità le figure si fondono, cambiano, scompaiono, tornano a rifarsi...

Provo una debolezza estrema mentre osservo per la prima volta questo fenomeno. Desidero intensamente fuggire ma nello stesso tempo ho paura di muovermi, ho paura di venire scoperto...

Finalmente con uno sforzo mi volto e corro via, il più lontano possibile.

Mentre corro penso dove andare a rifugiarmi. Allora mi ricordo che qui vicino abita il mio amico Martino, e così devìo verso quella direzione.

Martino è uno studioso di folklore e tradizioni locali. Quando arrivo alla sua casetta io sono tutto tremante e sudato mentre lui sta seduto calmo nella saletta zeppa di libri e fuma la pipa.

“Ciao. Sei arrivato fin qui a piedi?” chiede Martino alzando la testa.

“Sì.”

“Mi sembri sconvolto. Siediti. Come mai?”

“É una sera strana....” mi azzardo a dire.

Martino si alza e va a spalancare la finestra. Nella sera d’estate vedo il crepuscolo che colora le nubi di luci magiche trasformando il cielo a ovest in una festa degli Dèi.

“É la sera dove qui festeggiano il Lammas...”

“Il Lammas?” chiedo.

“Il festival della luce, la festa dei raccolti, il grande sabba...”

Poi Martino prosegue a voce più bassa:

“Questa è la sera nella quale gli Spiriti della Natura si rendono visibili...”

Fa una pausa prima di proseguire:

“Già. Ma tu sei scettico e non credi a queste cose.”

 

SETTEMBRE 1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL VISIONARIO

 

Le notti di fine anno le trascorriamo in stalla, io e il mio cane Whisky. In questo periodo c’è una vacca gravida e il padrone non vuole che si ripeta l’incidente dell’anno scorso quando il vitello morì per mancanza di assistenza.

La notte del 30 dicembre sono in stalla come al solito, disteso su una brandina e vengo svegliato di soprassalto. Le vacche si muovono e muggiscono. Il cane abbaia. Deve essere mezzanotte passata poiché la temperatura si abbassa sempre a quest’ora. Dalle finestre a nord entra il vento gelido di tramontana, così prendo stracci e paglia e incomincio a tappare le fessure.

Mentre sto facendo questo lavoro sento alcuni colpi battuti sulla porta della stalla e mi sembra di udire una voce che chiama. Chi può essere a quest’ora di notte?

La fattoria è isolata. Fuori la campagna è murata di buio e nebbia. Il cane abbaia forte. Le vacche sono diventate irrequiete. I colpi si ripetono e io mi avvicino alla porta per controllare.

Quando apro vedo un vecchio intabarrato con una lunga barba bianca. L’uomo tiene una sporta e si appoggia a un bastone.

“Sono un mendicante... Ho visto la luce accesa... cerco un posto dove passare la notte...”

Dopo un attimo di esitazione mi tiro da parte per lasciarlo entrare. L’uomo camminando stancamente va a sedersi su un mucchio di paglia. Si appoggia con la schiena a un palo, tira fuori del pane dalla sporta e incomincia a mangiare. Quando ha finito resta immobile con lo sguardo perduto nel vuoto.

Vorrei chiedergli da dove viene e perché si trova per strada a quest’ora di notte, ma mi trattengo. Suppongo che il vecchio si sia addormentato e non oso disturbarlo.

Invece dopo alcuni minuti egli volta la testa verso di me e parla a bassa voce:

“Esistono mondi bellissimi... coloratissimi... con piaceri mille volte superiori a quelli terrestri... In questi mondi gli uomini realizzano tutti i loro sogni, tutte le fantasie, tutti i miracoli e i desideri...”

I discorsi del vecchio suonano strani nell’ambiente povero della stalla; i muri gocciano umidità, la lucerna attaccata alla carrucola del palo centrale è annerita di fuliggine e ragnatele. Ma il vecchio sconosciuto non sembra badare a queste cose e riprende a parlare:

“Sono mondi luminosi fatti di materia sottile che vibra più velocemente. Sono mondi popolati da esseri con una coscienza più profonda, più estesa, più intensa. Una coscienza tanto diversa dalla nostra; una coscienza talmente diversa dal nostro povero insieme di percezioni e ricordi...”

“Che belle favole sai raccontare nonno” sorrido.

“Non sono favole. Io ho visto questi luoghi! Tutte le volte che mi trovo fra i mondi io posso vederli.”

Adesso si alza in piedi fra i mucchi di paglia. É alto, barbuto, e sembra un Dio antico:

“... Ma sopra questi mondi incomincio a intravedere altri mondi ancora più superiori di inconcepibile, stupefacente bellezza. Io ho solo intravisto questi nuovi mondi superiori dove la luce è ancora mille volte più luminosa e la materia ancora più sottile e vibra ancora più veloce. In questi nuovi mondi il pensiero crea forme, luci, suoni e comunica direttamente con le menti degli Dèi...”

Con il trascorrere della notte anche io sono preso dalla magia di questi strani mondi. Piano piano mi immergo nelle atmosfere dei racconti di questo singolare viaggiatore dello spirito.

É quasi l’alba. Il vecchio ha smesso di parlare adesso. Egli si è allontanato per guardare la luce pallida che entra dai finestrini. Dopo qualche minuto va verso la porta ed esce fuori.

Anche io mi alzo. Corro al finestrino per guardarlo mentre si allontana.

Il vecchio cammina piano appoggiandosi al suo bastone, e va verso la luce del nuovo giorno.

DICEMBRE 1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ALBERO DELLA VITA

 

All’una del pomeriggio di un giorno nuvoloso mi trovo davanti al piccolo cimitero di Bonifacio. Sto aspettando due giornalisti anche loro curiosi come me di vedere il mistero della tomba. Si tratta di un fenomeno apparso all’interno di una tomba di famiglia e scoperto per caso, giorni prima, durante l’apertura per seppellire un nuovo feretro.

Poco dopo arriva un uomo con un elegante vestito blu accompagnato da una donna:

“Mi chiamo Adolfo. Il mio collega non ha potuto venire. Ho portato la madre del ragazzo morto...”

É una donna magra, con gli occhi cerchiati e lo sguardo penetrante. Stringo la mano a tutti e intanto Adolfo prosegue:

“Ho l’autorizzazione del Municipio. Ho già avvisato il guardiano che ci sta aspettando. Ma dobbiamo fare presto poiché alle due ci sarà un funerale.”

Entriamo dal cancello dove incontriamo un uomo basso vicino ad alcuni secchi. É il becchino. Dopo un breve saluto ci guida lungo un vialetto invaso dalla gramigna.

Il cimitero è maltenuto e molto antico. Grosse lapidi tombali sono inclinate ad angoli differenti. Nuvole nere oscurano il cielo. Forse tra poco pioverà.

Oltre cespugli di tasso raggiungiamo una tomba gotica a forma di tempietto. É in pietra grigia coperta di licheni, irta di guglie, angoli, sporgenze. Sulla cima c’è una scritta:

Famiglia De Veselza.

Mentre ci avviciniamo sentiamo un rumore forte, come un mobile pesante che viene spostato dentro alla tomba. Ci fermiamo allibiti. Dopo un po’, con precauzione saliamo i gradini ed entriamo dal cancelletto.

Una camera a cupola stretta e fredda con la luce color ghiaccio che entra dalle bifore. I marmi alle pareti sono riempiti con file di nomi, molti sbiaditi e illeggibili.

Il becchino estrae alcuni arnesi da un sacco. Egli infila una leva nell’anello di una botola sul pavimento e ci fa cenno di aiutarlo. Tiriamo, provocando rumori di pietra che si smuove. Finalmente la pesante lastra si alza e allora la spingiamo da una parte sui rulli di legno.

Adesso, davanti ai nostri piedi c’è una nera apertura quadrata. Il becchino vi infila dentro una scala, accende la lampada ad acetilene e scende. Segue il giornalista e infine io.

Buio e umidità intorno a me. Lo sgocciolìo dell’acqua. Rumore di passi. Poi la voce di Adolfo:

“La lampada. Puntate qui la lampada per favore.”

Vedo il fascio di luce e dopo un po’ raggiungo i due uomini.

C’è acqua sul pavimento. A sinistra una pila di casse nere e marcite con le maniglie corrose dal verderame. A piccoli passi avanziamo in fondo alla cripta.

Qui alla cruda luce della lampada vediamo il fenomeno: è una grande ramificazione color bronzo estesa su tutta la parete. Sembra un albero frondoso.

Mi avvicino di più e provo a toccarlo ma non ha spessore. Tocco la pietra nell’angolo dove fuoriesce la pianta, ma non c’è nessun foro.

“E allora? Che ve ne pare?” chiede Adolfo.

Io non so cosa dire. Sento la voce roca del becchino che seguita a borbottare:

“Mai visto una cosa simile. Mai visto una cosa simile...”

“Che c’è dietro a quel muro?” chiedo.

“Lì dietro c’è la bara di Enrico, il ragazzo morto di leucemia l’anno scorso, all’età di 23 anni” risponde il giornalista.

Improvvisamente sento qualcuno alle mie spalle. Mi volto e vedo la donna che è scesa senza che io me ne accorgessi. Ha il vestito sporco di ragnatele e una espressione allucinata sul volto. Corre in avanti gridando con voce isterica:

“É vivo! É vivo! Mio figlio Enrico è vivo!”

Arrivata davanti al muro la donna lo abbraccia, lo bacia, lo accarezza freneticamente mentre grida:

“Sta tentando di comunicare con noi! Questo è il suo messaggio dall’Oltremondo!”

I due uomini si avvicinano alla donna e la tirano indietro per evitare che si faccia male. Le prendono le braccia, le dicono di calmarsi, la costringono a risalire...

A poco a poco la donna si lascia accompagnare di sopra ma mentre sta salendo la scala seguita a piangere e a gridare:

“É l’albero della vita! Questo è l’albero della vita!”

Usciamo all’aperto e attraversiamo di corsa il cimitero, sotto una pioggia sferzante che ci bagna i vestiti.

Sono passati alcuni mesi ormai. Io non ho più rivisto il giornalista. Di conseguenza non ho più avuto notizie di quella cosa che cresce là sotto, nel buio di una tomba.

MARZO 1994

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL GUARDIANO NOTTURNO

 

Ho ottenuto il posto di guardiano notturno a motivo della mia malformazione alla gamba. Un altro tizio aveva raggiunto un punteggio più alto del mio, ma all’ultimo momento ha rinunciato all’incarico.

Così eccomi qui, completamente solo, in questa fabbrica di verdure conservate. Sono le 1 e 45 di una notte di novembre. Stando dentro alla guardiola sento dei rumori in lontananza. Sono colpi ripetuti a volte forti a volte appena percettibili.

Decido di fare un giro di ispezione nel magazzino.

Il magazzino è un locale sopraelevato pieno di scatole, pile di lattine, una basculla e un montacarichi... Fuori dalle finestre il vento fa oscillare la lampadina sul cortile affossato, pieno di botti. Le lance in ferro del cancello creano ombre dentate. La fabbrica è vecchia e avrebbe bisogno di riparazioni.

Intanto il rumore è cessato. Dopo un po’ riprende di nuovo.

Entro nella sala del lavaggio e cammino sul pavimento allagato. Alla cruda luce delle lampade vedo tutto in ordine. I lunghi tavoli di smistamento, la caldaia nera. Il nastro forato per calibrare le cipolle, la trancia per le carote, rape, cetrioli... Tutto è immobile e sembra abbandonato per l’eternità. C’è freddo e silenzio qui dentro. Il rumore sembra provenire da più lontano.

Apro un’altra porta e scendo giù per ispezionare le cantine. La fila di lampadine sotto il soffitto rischiara l’ambiente basso e umido, pieno di botti. Silenzio opprimente. Forte odore di salamoia.

Quando apro la porta della cantina successiva sento rumore di passi e un respiro profondo. Tiro fuori la pistola e faccio scattare l’interruttore delle luci gridando: “Chi va là?”

Con precauzione cammino fra le botti. Non c’è nessuno qui. Penso che forse ho sentito male o forse saranno stati i topi.

Improvvisamente sento una corrente di aria fredda sulla schiena. Mi volto di scatto. Nulla. La porta dietro è chiusa.

Apro la porta successiva ed entro nel deposito dei tini per l’aceto. I tini alti sui piedistalli torreggiano scuri e imponenti. C’è freddo e odore aspro.

Risalgo una scala ed entro nell’altro locale: la falegnameria. Odore secco di legno e strati di polvere sui banchi dove riposano seghe e pialle. Dopo aver verificato che anche qui tutto è in ordine metto via la pistola per asciugarmi il sudore dalle mani.

Dopo un po’ faccio attenzione ai rumori lontani che adesso sembrano provenire dagli uffici. Sono dei tonfi inframmezzati da lamenti: “Oooh... Oooh...”

Non riesco a capire di cosa si tratta. In ogni modo ora devo tornare indietro.

Lascio la falegnameria e ridiscendo giù.

Mentre sto attraversando una cantina succede un imprevisto. Le lampadine diventano rossastre. Poi la luce cala finché si spegne completamente. Deve esserci un contatto nell’impianto, così sono costretto ad accendere la mia pila.

Là, nel buio, dietro alle botti si muove qualcosa. Sono lunghi filamenti bianchi, luminosi. Mi fermo per osservare il fenomeno.

I filamenti si spostano in silenzio, si riuniscono in un angolo della cantina e formano una smorta luminescenza.

Nell’angolo buio posso vederla benissimo adesso: ha la forma di un uovo, alta forse un metro, di colore bianco-grigio. La forma sembra fatta di nebbia o fumo ed è in perpetuo movimento. Adesso sembra prendere una vaga forma umana con abbozzi di arti.

Sono paralizzato dallo stupore. Continuo a domandarmi che cosa può essere finché ho una intuizione: la fabbrica è infestata dagli spiriti!

Allora faccio un balzo indietro. Istintivamente corro attraverso le cantine, urtando contro le botti, alla luce della pila.

Raggiungo i magazzini dove è ritornata l’elettricità, ed entro nella guardiola. Sono tutto sudato, tremante, con il cuore che batte.

Ore 2 e 30 di notte. Non sento più i rumori ed è tornata la calma. Dalla porta a vetri vedo i piccoli uffici deserti alla mia destra, con gli armadi e gli schedari. La stufetta a legna si è spenta e fa freddo. Continuo a domandarmi chi era l’entità che infesta la cantina.

Ore 3 e 20 di notte. Mi sento molto agitato. Per rilassarmi un poco prendo il giornale di enigmistica per risolvere rebus e sciarade. Strano. La pagina è tutta scarabocchiata. Ci sono anche alcune parole scritte con calligrafia incerta: “Sono nella seconda cantina sotto il muro est”.

Ho i nervi tesi e mi tremano le mani. Chi può aver scritto queste parole? É forse questa una comunicazione spiritica?

Alle ore 6 il mio turno finisce. Ho deciso di non rivelare il motivo per cui do le dimissioni al lavoro di guardiano.

Sarebbe stato interessante sapere chi c’era sepolto nella seconda cantina sotto il muro est.

Forse, un giorno qualcuno lo scoprirà.

 

GIUGNO 1994

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ENTITÀ AZZURRA

 

Siamo radunati attorno a un tavolino per la seduta spiritica mensile. Ci troviamo nella saletta liberty di una villetta circondata da olmi alla periferia di Bonavigo.

Accanto a me c’è Gisella la medium, una donna esile con il volto dai lineamenti scavati. Il professor Lorenzo, un uomo corpulento in camicia a quadri celesti e bretelle; ha il faccione barbuto e porta grossi occhiali. Una giovane coppia che ha perduto da poco un figlio. E Erminia una vecchia zitella alta e magra vestita di grigio; sulle mani ossute porta tanti anelli e bracciali d’oro.

C’è semioscurità, silenzio e senso di attesa.

Mentre fa le domande la voce di Lorenzo è lenta e profonda. La medium ha la testa inclinata con i capelli neri che le nascondono il viso. Ella emette sospiri e risponde con voce sussurrata. Fra i due viene registrato il seguente dialogo:

“Spirito Guida, qual è il tuo nome?”

“Chiamatemi Entità Azzurra.”

“Possiamo comunicare?”

“Sì, nei limiti imposti dal linguaggio umano.”

“La personalità, cioè l’io, sopravvive alla morte?”

“Sì.”

“Che cosa fanno gli spiriti?”

“Qui tutti lavoriamo per completare le nostre missioni nel piano universale.”

“Che tipo di lavori fanno gli spiriti?”

“Lavorano per il progresso degli spiriti, degli incarnati e dell’universo.”

“Come è fatto l’Oltremondo?”

“É simile al vostro mondo con vecchie case, libri e panorami naturali poiché qui lo spirito ha la capacità di creare queste cose. A livelli più elevati ci sono mondi di indescrivibile ricchezza, saggezza, armonia e bellezza.”

“Esiste la reincarnazione?”

“Sì.”

“Anche su altri pianeti?”

“Sì.”

“Quale è lo scopo di tutto questo?”

“Lo spirito, a intervalli lascia il mondo spirituale e viaggia nella materia alla ricerca di nuove esperienze e nuove conoscenze. E in questo modo lo spirito si evolve.”

“É vera la legge del Karma?”

“Sì essa è vera, terribile e non dimentica mai. Ogni azione è un seme.”

“Esiste Dio o gli Dèi?”

“Esistono gli Dèi. Esiste cioè una gerarchia e al posto più alto c’è Dio sommo.”

“Cosa è Dio?”

“Una energia intelligente e creativa.”

“Cosa fa Dio?”

“Crea universi fisici. Crea universi spirituali. Crea spiriti ignoranti che si evolvono attraverso innumerevoli incarnazioni...”

“Perché Dio fa questo?”

“La creatività è la caratteristica degli spiriti evoluti.”

“Chi ha creato Dio?”

Nessuna risposta.

Adesso la seduta è terminata. Le candele si sono consumate, l’orologio segna le due di notte e io percorro il corridoio ed esco fuori.

Guardo la luna alta e bianca nel cielo mentre cammino sul vialetto di ghiaia fra le ombre dei cespugli.

Sento di essere una piccola-grande cosa in un gioco infinito che non riesco a comprendere.

 

AGOSTO 1994

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CASA INQUIETA

 

Hanno suscitato chiacchiere e congetture gli strani avvenimenti del meccanico Francesco di Coriano. Il suo caso è apparso anche su un giornale locale.

Così un pomeriggio di settembre vado a trovare quest’uomo.

Il signor Francesco ha sessant’anni, è grassoccio, con i capelli grigi e l’aria stanca e un po’ abbattuta. Gli dico che sono uno studioso di poltergeist e che mi interessa sapere esattamente cosa è successo. Lui emette un sospiro poi incomincia a raccontare:

“Sono già venuti in tanti. Dirò anche a lei quello che ho detto ai giornalisti. Prima di andare in pensione abitavo in una casetta alla periferia di Coriano. Una mattina mia moglie, malata di cuore da anni, ha avuto un attacco e non c’è stato niente da fare... Dopo la morte della mia cara Gianna sono rimasto solo e in casa sono incominciati i fenomeni. Le luci si accendevano, le porte si aprivano da sole... Ho chiesto aiuto ai vicini, al prete, a una maga ma non è servito. Non avevo paura, ma non potevo più restare. Dopo due settimane mi sono trasferito qui in casa di mia figlia sposata, e ho ripreso la mia vita.”

Mi fermo di scrivere appunti poi faccio la mia richiesta:

“Vorrei vedere la casa.”

L’uomo ha un sussulto e sembra pensarci un po’. Poi esclama:

“Venga.”

Prende un mazzo di chiavi, si infila la giacca e usciamo. Dopo mezz’ora di automobile arriviamo a un sobborgo nuovo alla periferia di Coriano. A piedi ci avviamo verso il N°54, una casetta seminuova color giallo, con giardinetto incolto anteriore. Mentre il proprietario fa scattare la serratura noto i vicini che ci guardano sospettosamente.

Finalmente entriamo dentro.

Una saletta in penombra con il pavimento a losanghe bianche e nere. Alcuni mobiletti, un vaso di fiori in plastica, una vetrinetta con i bicchieri. Nell’angolo c’è una macchina da cucire. Sulla destra c’è un sottoscala tetro con mensole piene di scarpe e vestiti femminili attaccati ai chiodi. Fa molto freddo qui dentro.

Muoviamo alcuni passi ed entriamo in cucina. Dalla lunetta sopra alla porta del retro entra un po’ di luce. La cucina è piccola e sporca. Alcune mattonelle bianche si sono staccate e l’acqua ristagna nel secchiaio. Una scopa sta appoggiata al muro.

Dalla cucina, salendo una scala ripida di legno, arriviamo al piano superiore. Entriamo in una stanza che odora di chiuso, con letto matrimoniale, un armadio, un comò. Ci sono boccette colorate, rossetti, scatole di cipria...

Il silenzio è rotto da piccoli rumori misteriosi. Si sente adesso il ticchettìo di una macchina da cucire provenire dal basso.

Faccio finta di non aver udito per non spaventare il signor Francesco che mi pare già molto nervoso. Per coprire i rumori inspiegabili che provengono dal basso cammino sul pavimento di legno lucidato e propongo a voce alta:

“Visitiamo anche l’altra stanza.”

La stanza successiva è un ripostiglio con un letto da bambino e alcuni bauli.

I rumori al piano inferiore sono aumentati. Si sente uno sgocciolìo d’acqua provenire dalla cucina e il tintinnìo di piatti che si urtano fra di loro.

Vedo la faccia di Francesco diventare ancora più pallida, e l’uomo ha un tremito al braccio sinistro. Per paura che gli venga un collasso devo intervenire con energia:

“Signor Francesco, stia calmo! Adesso noi dobbiamo scendere. Ha mai provato a parlare a sua moglie dopo la sua morte?”

“ No--oo.”

“Lo faccia adesso.”

“E... cosa devo dirle?”

“Le dica che ha sentito la sua presenza ma non intende comunicare. Le dica di smetterla. Le dica di lasciarci in pace.”

L’uomo incomincia a parlare con voce emozionata e piagnucolosa:

“Gianna cara... lasciami in pace... Ti prego, Giannina... vai via... vai via... non restare più qui...”

Intanto ho incominciato a scendere la stretta scala seguito da Francesco. Il primo gradino, il secondo, il terzo...

Sotto di noi i rumori continuano, inquietanti e ossessivi. Allora scandisco a voce forte:

“Spirito Guida convinci lo spirito di Gianna a smettere. Spirito Guida convinci lo spirito di Gianna a smettere...”

Il quarto gradino, il quinto...

“Spirito Guida convinci lo spirito di Gianna a smettere. I suoi tentativi per comunicare disturbano e spaventano suo marito.”

I rumori continuano ma vanno calando di intensità.

Sono arrivato sul pianerottolo in fondo alla scala adesso.

Quando entro nella stanza per un attimo vedo la scopa muoversi da sola nella cucina e poi cadere per terra.

Anche Francesco arriva ma ormai nella cucina è tornata la quiete. Attraversiamo in fretta la saletta ed usciamo fuori.

Nei mesi successivi i fenomeni si sono verificati con minor frequenza, fino ad estinguersi completamente. Adesso lo spirito di Gianna si sarà ambientato nell’Oltremondo, e la casa è diventata nuovamente quieta.

 

SETTEMBRE 1994

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CRISTALLI MALEDETTI

 

La vedova Mirella vive con la figlia dodicenne Nadia e una vecchia governante. Mirella è una signora di quarant’anni vedova da tre e in questi giorni mi ha chiesto con insistenza di aiutarla.

Quando mi viene incontro, mentre mi accompagna in casa, indossa un vestito nero con colletto e polsini di pizzo bianchi. La cameriera anziana posa il vassoio con le tazze di té sopra un tavolino e poi scompare.

Mirella appare incerta e confusa. Il viso è pallido e scavato, i capelli nerissimi sono raccolti a chignon, le sue lunghe mani tremano. Parla con voce bassa quasi avesse paura di espormi i suoi problemi:

“Succedono cose strane in questa casa, da qualche tempo. Sono piccoli incidenti, fatti inspiegabili, coincidenze, stranezze...”

Si interrompe e allora io la invito a proseguire:

“La prego signora, mi dica esattamente che cosa è successo.”

“Da alcuni mesi le lampadine si spengono, le porte si chiudono da sole... Passando davanti agli specchi sento delle voci.”

“Voci? E che cosa dicono?”

“Sento il rumore di una folla. Come molte persone che parlano in lontananza... Ieri pomeriggio abbiamo sentito distintamente la porta del salotto che si apriva. Mia figlia è saltata in piedi gridando -Mamma, mamma, c’è qualcuno in salotto!- Sono corsa a vedere ma non c’era nessuno. Mia figlia era spaventata perché aveva visto l’ombra di una persona passare davanti al lucernario della scala.”

Il racconto a questo punto viene interrotto da trambusto e grida isteriche al piano superiore:

“Aiuto! Al fuoco! Al fuoco! La casa brucia!”

Io e Mirella corriamo su per la scala di marmo. Lungo il corridoio si apre la porta del bagno e dall’interno provengono grida e rumori.

Con uno slancio entro dentro.

La cameriera sta buttando asciugamani bagnati sul fuoco, mentre la bambina piange.

Il bagno ha i muri di mattonelle bianche ad altezza d’uomo, ma il fuoco proviene da due specchi posti sopra i lavandini. Fiamme bianche fuoriescono dagli specchi. Gli specchi di cristallo stanno bruciando!

Anche Mirella vi butta sopra asciugamani bagnati che ostacolano le fiamme ma appena toglie gli asciugamani le fiamme ricompaiono.

Osservo il fenomeno delle fiamme luminose, innaturali e silenziose che però non bruciano.

A poco a poco si accorciano finché spariscono completamente e gli specchi sono tornati normali. Le superfici riflettenti appaiono appannate e bagnate. Mirella abbraccia la figlia che piange e trema e la porta giù in cucina.

Io resto da solo nel bagno ad osservare gli specchi. Sembrano pregevoli e antichi. Uno ha la forma di mezzaluna, circondato da una sottile cornice in argento. L’altro specchio è ovale con sottile cornice metallica incisa con foglie d’edera. Provo a sollevarli ma il muro dietro è completamente normale.

Quando scendo trovo Mirella in salotto e le chiedo da dove provengono gli specchi.

“Ah quelli... Ma io non lo so... Erano nella casa di mio suocero. Mio marito quando era in vita ha voluto portarli qui...”

Il mattino seguente, su mio suggerimento, stacchiamo gli specchi dal muro e li portiamo via con noi.

Alla luce dell’alba camminiamo per le strade deserte, fino al lungofiume. Qui appoggio gli specchi sul parapetto e guardo il panorama intorno. Una foschia grigia si vede in lontananza oltre il brillìo dei raggi del sole. Il vento sibila, l’acqua là in basso appare turbolenta, increspata di ondine, sporca di fango e di rami spezzati.

Allora, con un colpo, lancio gli specchi dentro la corrente.

La bambina, che era rimasta silenziosa fino a questo momento, adesso grida:

“Mamma guarda... guarda...”

Quando le lastre di cristallo raggiungono l’acqua vediamo due ombre scure che escono dagli specchi. Ombre di donne in costumi ottocenteschi con cappelli, scialli, stivaletti e gonne lunghe. Per un attimo sentiamo anche delle grida.

Poi il fiume travolge, sommerge e porta via ogni cosa.

GENNAIO 1995

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AVATAR

 

L’universo spirituale vibra di scintille e di colori. L’Oltremondo è percorso da correnti di luci variegate, fluttuanti, pulsanti, apportatrici di conoscenza e di bellezza.

Qui la pace è dinamismo, gioia, creatività, potenzialità. Qui hanno origine molte cause in un armonioso susseguirsi di onde attraverso le dimensioni.

E dimensioni misteriose e sublimi si profilano ancora più in alto, ancora più aldilà della mia capacità di comprensione e intuizione.

Sopra tutto e dentro tutto si riflette l’Energia Primordiale vivificatrice e tessitrice di questo multiforme schema.

I pensieri degli altri interlocutori fluiscono attraverso me apportando scambi di informazioni e di esperienze. Uno fra gli altri, che mi ha accompagnato e guidato durante il percorso dell’evoluzione, adesso mi parla:

“Tu hai completato il lungo e doloroso ciclo delle incarnazioni. Un cammino di luce si stende ora davanti a te in dimensioni spirituali sempre più sottili e perfezionate. Questa è l’ultima possibilità che hai di ridiscendere nella materia, non più come uomo ma come avatar, oppure di abbandonare la materia per sempre. Che cosa scegli?”

Una parola si irraggia vibrante dal mio essere:

“Avatar. Sarà un piacere diventarlo, poiché ora sceglierò di nascere nella ricchezza”.

“Sarebbe una incarnazione sprecata! Per poter vivere intensamente la tua incarnazione, per avere più sensazioni, più esperienze, ti conviene rinascere nella povertà. Perché vuoi discendere ancora una volta fra la miseria, l’ignoranza, le malattie?”

“La compassione per gli incarnati, per tutti gli incarnati, mi spinge a farlo”.

“Gli incarnati non ti riconosceranno. Se insegni a loro, essi non ti crederanno. Se acceleri la loro evoluzione essi ti ostacoleranno. Se li guarisci essi ti odieranno. Solo dopo la tua morte, solo molto tempo dopo, alcuni incarnati godranno dei tuoi doni e ti riconosceranno. Vuoi tu dunque?...”

“Avatar. Poiché adesso ho la certezza che tutta la materia è solamente illusione”.

“Ma per poter vivere intensamente l’incarnazione nella materia tu dovrai credere ciecamente nella materia. Così durante l’incarnazione tu perderai la conoscenza dell’Oltremondo, ti sarà oscurata la memoria delle tue vite passate e di tutte le tue esperienze. Vuoi tu ancora?...”

“Perderò momentaneamente queste consapevolezze, ma la vita è così breve, è solo un lampo e poi tornerò di nuovo qui”.

“60 anni di vita ti sembreranno lunghi e insopportabili. Sarai tormentato dai dubbi, dall’angoscia e da una inguaribile nostalgia che è l’eco del ricordo di questo Oltremondo. Vuoi tu ancora?...”

“Sì. Ci sarai sempre tu, Spirito Guida, insieme a me”.

“Io ti seguirò nella discesa nella materia. Ti proteggerò, ti ispirerò se me lo chiederai. Ma tu non mi vedrai e dunque non crederai in me. Vuoi tu?...”

“Avatar”.

“Allora programma la tua incarnazione e poniti delle tendenze per raggiungere i tuoi scopi e dei limiti che ti impediscano di allontanarti da questi scopi. Attento adesso a non sopravvalutare le tue forze. Sei pronto?”

“Sono pronto”.

Un turbine; un vortice che mi trascina giù, giù, sempre più in giù, dentro l’oscurità, dentro la pesantezza, giù dentro l’incoscienza di una nuova incarnazione.

AGOSTO 1996

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VEGLIA FUNEBRE

 

Un fine pomeriggio nuvoloso e triste raggiungo a piedi il palazzo dove abitava lo zio Bruno. È un edificio con l’intonaco scrostato e l’erba che cresce sui tetti.

Entro dall’androne.

“Sono venuto per il funerale.... Vorrei vedere lo zio...” dico al portiere deforme con la faccia grossa piena di foruncoli seduto dietro il banco.

Lui prende una chiave dalla casella e me la porge:

“Ultimo piano. Penultima porta in fondo al corridoio”.

Le scale sono malrischiarate dai finestroni sporchi. Salgo appoggiandomi alla ringhiera in ferro e arrivato in cima percorro un corridoio oscuro con le piastrelle che traballano.

Attaccato alla penultima porta qualcuno ha appeso un cartello con la scritta: Lutto di famiglia.

Apro. La porta di legno stride orribilmente raschiando sul pavimento. Odore di cera e di fiori appassiti.

Una stanzetta semibuia con gli attaccapanni. Un’altra porta aperta che conduce in cucina.

La bara sta al centro su due cavalletti. Intorno ci sono alcune sedie scompagnate, qualche mazzo di fiori....

Lo zio è dentro alla cassa aperta, col coperchio posato per terra. Due candele ardono quietamente in silenzio. Mi avvicino di più e guardo dentro alla cassa.

Lui sta disteso, come in attesa.... Attorno alla testa ha un tovagliolo annodato per tenere chiuse le mascelle. Il viso è rasato e sembra di cera. È vestito con giacca blu notte, pantaloni nuovi dello stesso colore; camicia bianca e cravatta azzurra. In vita non lo ho mai visto vestito così elegante. Forse questo abito non lo ha mai messo conservandolo per il futuro....

Le fiamme delle candele si sono mosse. C’è una corrente d’aria da qualche parte.

Il volto è bianchissimo, gli occhi chiusi. Sembra che dorma. È così forte l’impressione che sia addormentato che a volte mi pare che il torace si sollevi nel respiro. Ma no. È solo suggestione. A forza di fissarlo non sono più sicuro di niente. Provo a toccargli una mano. È fredda e dura come il marmo.

Il tempo passa, gocciola lentamente nella pozza dell’eternità. In effetti si sente una goccia cadere da qualche parte. Alzo la testa. Il soffitto è scrostato e si vede l’intelaiatura. Una goccia cade da un angolo e sul pavimento sotto si è formata una macchia di umidità.

Passa ancora del tempo. Per colpa di questa penombra la vista mi si sta offuscando. Infatti la credenza lungo il muro appare più confusa, nebbiosa quasi.... Aumento l’attenzione e mi concentro sul fenomeno.

Un fumo celeste sale lento dalla testa del morto. È una formazione leggerissima, come un vapore.

Sento dei passi dietro di me e mi volto per guardare. É arrivata una vecchia magra, zoppicante. Si siede su una seggiola e tira fuori il fazzoletto dalla borsetta. La vecchia sta rannicchiata immobile sulla sedia e pare morta pure lei.

Dopo questa distrazione riprendo a fissare l’aria sopra la testa del morto. Adesso il fumo si è espanso, è salito ed è diventato più trasparente. E dentro il fumo appare qualcosa altro. È di forma piatta, biancastra, ma vagamente iridescente a volte. Sembra una specie di uovo.

Continuo a fissarlo domandandomi cosa può essere, finché la forma gassosa e la macchia bianca diventano sempre più sottili, leggere e indistinguibili.

Quando sembra che sia tutto finito mi muovo e guardo di nuovo intorno alla stanza. La vecchia, che probabilmente era una parente, è andata via. Andrò via anche io adesso.

Ora so che lo zio Bruno non è più qui. Il suo spirito, la sua individualità è libera. La cosa distesa qui, vicino a me, è solo un mucchio di carne ricoperto di stracci.

AGOSTO 1996

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TOMBE

 

Una volta al mese, per ordine di una vecchia zia, vado a pulire la tomba di famiglia nel piccolo cimitero di Roveredo.

È una giornata di settembre mentre percorro la stradina di campagna che porta al cimitero. Due vecchi intabarrati procedono lentamente. I gatti si scaldano al sole ormai basso. Lungo i fossi oscillano grandi fiori gialli.

Arrivato sulla tomba butto via i fiori secchi, cambio l’acqua e con uno strofinaccio incomincio a pulire le lastre di marmo.

Un tizio con la penna in mano sta davanti alla tomba vicina. È vestito di scuro e porta grossi occhiali da miope.

Spinto dalla curiosità, prima di andare via gli chiedo:

“ Ha i suoi morti sepolti lì?”

“No, non ho nessuno. Io vengo qui solo per imparare...”

“Imparare che cosa? La brevità della vita?”

“Sì, ma non solo questo. Qui siamo vicini al mistero della morte...”

Fa una pausa prima di continuare: “Lei non si è mai chiesto dove va a finire la personalità dell’individuo: tutte le sue esperienze, le conoscenze, le emozioni, le sensazioni...”

“Finiscono tutte con la morte del corpo.”

“In natura nulla si distrugge e tutto si trasforma. Il corpo fisico durante la vita si trasforma in corpo psichico. Quando il corpo fisico muore il corpo psichico sopravvive...”

Poi l’uomo si sposta davanti a un’altra tomba e io vado via.

Il mese dopo, in ottobre, percorro la stradina tortuosa del cimitero. Una nebbia grigia ristagna sotto i pioppeti ingialliti.

Il cimitero ispira desolazione. Ci sono vasi rovesciati, fosse allagate da cui proviene l’odore della terra marcita. Davanti al casotto del becchino c’è una vanga interrata e uno scopino per il cesso; alla sinistra un cartello pubblicitario della luce votiva.

L’uomo con gli occhiali sta guardando la foto ovale di una ragazza col viso triste e gli occhi grandi. Mi fermo per salutarlo e lui commenta:

“Guardi questa ragazza. Sembra troppo fragile per affrontare le durezze della vita.”

“È vero. Chissà che storia dolorosa c’è dietro!”

“Nessuno ha mai spiegato il mistero delle morti giovani. Qual è lo scopo di questa breve vita? Qual è la funzione di una vita iniziata e non vissuta?”

Una lunga pausa:

“Solo la reincarnazione può dare una risposta. Cioè tante vite a disposizione nelle quali evolvere e maturare. Io cerco anche questo nei cimiteri. Cerco il mio corpo precedente, per far riaffiorare i ricordi, o qualche antica emozione...”

È arrivato novembre. Nei campi ci sono cespugli rovesciati dalla brina e fossi ghiacciati. Una macchia di luce cadaverica indugia nel cielo a sud.

Il cimitero sembra ancora più squallido e decrepito. C’è ancora il solito tizio, infreddolito, davanti a una tomba di famiglia.

Quando gli passo vicino gli chiedo:

“Lei segue qualche metodo nella sua ricerca?”

“Seguo l’ispirazione. Sono colpito da un viso, uno sguardo, un vestito.... Intuisco una vita in un volto, tutte le aspirazioni, le speranze irrealizzate...”

“E cosa ha scoperto in questa tomba?”

“Provo a prevedere chi occuperà i loculi ancora vuoti. C’è stata una entrata nel 1958, poi nel 1970 e poi nel 1979. Con intervalli di 12 e 9 anni. Questo è nato nel 1948 ed è morto nel 1979; noti come l’8 diventa 9. Questo è nato nel 1911 ed è morto nel 1958. Riesce a vedere lo schema che sta dietro? Nessuna cosa avviene per caso...”

Arriva dicembre nuvoloso, piovoso e sono costretto a rimandare le mie visite al cimitero.

Durante l’inverno mia zia si ammalò di polmonite e morì in due settimane. I cugini vendettero la sua casa. Io mi sono trasferito in un altro paese dove ho incominciato un nuovo lavoro.

Alcuni anni più tardi, in luglio, ritorno a Roveredo e faccio una visita al vecchio cimitero. È un po’ cambiato durante questo tempo. Il mio strano amico con gli occhiali non c’è. Peccato. Avrei molte domande da fargli adesso.

Anche negli anni successivi ritorno là, senza mai più incontrarlo.

 

MARZO 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA COSA SOTTO IL CORTILE

 

Ho preso in affitto una casetta a Cadelago, situata in un cortile interno. Il prezzo è basso ed è un posto tranquillo.

La sera del mio arrivo, al tramonto, il cielo è livido, percorso da striature gialle che fanno rabbrividire. Da un portone entro in un cortile incassato fra vecchi magazzini, con finestre buie, piene di inferriate.

Le casette sono situate a sinistra. Nella prima abita una famiglia di ortolani con il padre centenario. Nella seconda c’è l’osteria; la terza è la mia e nell’ultima c’è una vecchia sguattera con un figlio deficiente dalla nascita. La vecchia rientra dal lavoro alla sera e suo figlio sta tutto il giorno a un finestrino a guardare fuori e fare smorfie con la bocca.

Nelle giornate senza sole dell’autunno, dalla mia finestra guardo il muro di fronte, sormontato da cocci di bottiglie. È una mattina fredda e grigia. Dal lato opposto c’è la grata della fogna. A sinistra c’è una cantina e dei rottami di ferro: un treppiede arrugginito, catene.... C’è anche una porticina che va nel pollaio.

Nei pomeriggi asciutti c’è un po’ di animazione. Il cortile viene utilizzato dai clienti dell’osteria per giocare a bocce. Quando il tempo è grigio e umido o quando piove il cortile diventa un pantano.

Alla sera qui chiudono presto, sbarrano porte e finestre come se avessero paura degli spiriti. Meglio così, dormirò più tranquillo.

Invece mi sono sbagliato. Una notte mi sveglio di soprassalto. Qualcuno sta urlando come se lo stessero scannando in qualche stanza.

Sono le due di notte. Si sentono urla bestiali, inframmezzate da parole rabbiose. Mi alzo dal letto e corro a spiare alla finestra. Il vento freddo e pungente mi schiaffeggia il viso. La luna di settembre imbianca il cortile deserto percorso dalle ombre seghettate delle grondaie. Non si vede anima viva. Le urla all’esterno sono attutite. Le foglie accartocciate della vite sotto la finestra frusciano contro il muro.

Il mattino presto, come al solito il vecchio centenario va a spasso nel cortile, aiutandosi con due bastoni. Appena mi vede uscire commenta:

“Oggi il terreno è bello asciutto e potremo giocare a bocce...”

Poi prosegue indicando il finestrino con la punta del bastone:

“Lui ha fatto del chiasso questa notte. Si è sfogato un po’. Capita ogni tanto...”

Comprendo che si riferisce al figlio della serva, l’uomo nato deficiente che passa tutto il giorno davanti al finestrino.

Nelle notti successive il deficiente è rimasto calmo, e tutti abbiamo potuto dormire. Passiamo delle notti tranquille, anche se un pochino fredde. Si sta avvicinando ottobre.

Poi un mattino presto sento uno strano odore nel cortile. Proviene da una macchia sul terreno grande circa un metro quadro, nell’angolo sud est. Ho già notato questa macchia che va e viene, a secondo del tempo. La grata della fogna è dall’altro lato e forse lì sotto ci sono le tubature.

La mattina seguente, stanco di quel cattivo odore, dò la mancia a due manovali dell’osteria perché mi aiutino a scavare in quel posto. L’oste ci ha messo a disposizione gli attrezzi.

Incominciamo a riempire secchi di quella melma e buttarla da una parte. Il vecchio poco distante brontola:

“Non troverete niente. Altri hanno già scavato prima di voi, senza trovare niente. Così rovinerete il terreno per le bocce....”

Continuiamo a scavare. Gli stivali scivolano nel terreno viscido e appiccicoso. Man mano che si scende il terreno diventa più secco.

Dopo aver scavato tutta la mattina arriviamo a uno strato di terreno giallo, argilloso. È inutile scavare ancora. Non abbiamo trovato niente e decidiamo di riempire la buca con carriole di terra sana portata dal pollaio.

Nelle notti successive il deficiente sta calmo e possiamo dormire tutti tranquilli. Anche il terreno nel cortile non ci dà più problemi.

Invece, un mattino quando esco, mi attende una brutta sorpresa. Dal lato est del cortile sta salendo un vapore. Odore di uova marce nell’aria. Premendomi un fazzoletto al naso mi avvicino per vedere meglio.

Il terreno in quel punto appare viscido, nero, come pece fusa.

Il vecchio centenario mi accompagna puntellandosi con due bastoni:

“Il deficiente è stato calmo stanotte, e adesso noi non potremo giocare a bocce...”

Io guardo senza capire che cosa è successo. Forse adesso dovremo scavare di nuovo per portare via la terra marcia.... Avvilito rientro in casa e tengo chiuse le finestre tutto il giorno.

La stessa notte mi rigiro nel letto mentre continuo a pensare. Forse devo affrontare il problema in un altro modo....

Dopo un mese di permanenza nella casa, credo di aver risolto il mistero del cortile. Ho segnato su un quaderno gli avvenimenti di questi giorni. Il deficiente ha le crisi in media ogni tre-quattro giorni. Se passa una settimana senza sentirlo urlare si verifica il fenomeno nel cortile: la terra si guasta e diventa putrida.

C’è una relazione tra le crisi del pazzo e il fenomeno del cortile. Quando il pazzo trascorre una notte alla settimana urlando, sfoga in questo modo la sua energia psichica. Quando il pazzo rimane calmo per oltre una settimana egli scaglia fuori inconsciamente la sua energia psichica che produce il fenomeno del cortile.

Sarebbe interessante esaminare più a fondo questo caso, ma sta arrivando l’inverno e ho trovato una abitazione più confortevole in un altro paese.

Il giorno del trasloco splende il sole, ma l’aria è gelida e pungente. Il nuovo fittavolo scarica dal carro i suoi mobili. Poi egli nota il pantano nell’angolo del cortile e sento che dice al proprietario:

“Ci deve essere un tubo rotto in quel punto. Provvederò a scavare per saldarlo....”

Il deficiente fa smorfie dietro il finestrino. Il vecchio centenario scuote il capo.

Bisognerebbe scavare dentro la testa del pazzo per porre fine al problema.

APRILE 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NELLE PIEGHE DEL TEMPO

 

Nel tramonto di agosto le nubi blu sono pesanti drappeggi sullo sfondo pallido del cielo.

Raggiungo a piedi la bottega di Sereno, dove vengo spesso a fare la spesa.

La bottega è piena zeppa e si può trovare di tutto. Dai ganci avvitati al soffitto pendono scope, setacci, pentole…. I banchi sono stracolmi di mercanzia. Il pavimento è ingombro con scaldaletti, ferri da camino, trappole per topi, sacchi di fagioli….

Il proprietario è un uomo grasso e sorridente che gestisce da molti anni questo bazar. Dopo che ho comprato alcuni articoli, lo saluto ed esco fuori.

Il tramonto è uno spumeggiare di nubi rosate e vaporose. È una sera divina, fatta per i poeti e per gli amanti.

Lentamente cammino lungo i porticati in penombra, sfiorando porte chiuse. Una ragazza magra cuce seduta sulla porta. É bella e triste. Ha i capelli lisci, lunghissimi e indossa un vestito nero con guarnizioni di pizzo bianco.

Sotto i portici c’è silenzio, ombra, muffa e umidità. Io provo sofferenza poiché qui sento lo scorrere del tempo. Quando si avvicina l’autunno i ricordi diventano coltelli con le lunghe lame. Penso all’inverno, alla vecchiaia, alla morte…. E mi chiedo che cosa ho sbagliato nel gioco della Vita….

La ragazza si chiama Mara e tutte le volte che passo di lì rimango un po’ a parlare con lei. È una ragazza solitaria, introversa, senza nessuna amica. È un mondo chiuso, fatto di sofferenza e dolcezza.

Quando le sono vicino, la guardo mentre cuce con l’ago. È bella come il primo e perduto amore. Una scopa di saggina sta appoggiata al muro. Nel cielo del tramonto ci sono nubi viola orlate di fiamme con dietro focolai incandescenti.

Provo ansia mentre incomincio a parlare:

“Finalmente ti ho ritrovata, anche se solo per poco…. La strada che porta a te è lunga, tortuosa e sembra non finire mai”.

Mi fermo di parlare con un senso di vuoto e di soffocamento. La ragazza si ferma di cucire e resta ad ascoltarmi.

“Perdonami….” le dico sottovoce.

Passa un vecchio curvo come una biscia. Il cielo adesso ha squarci, fessure, fori da cui piovono sciabolate di luce.

“Perdonami, per tutte le cose che non ti ho dato, per tutte le promesse che non ho mantenuto…. Per tutto il tempo passato, per le vite sprecate…”.

Faccio ancora una pausa prima di riprendere a parlare:

“Per questo dovrò amarti senza averti, dovrò adorarti senza possederti… finché si ripresenterà l’occasione e allora non mi ritirerò e manterrò il mio impegno…”.

Nel cielo ormai celeste pallido indugiano nubi lunghe, sottili come aghi.

Per la prima volta la ragazza alza gli occhi dal lavoro. Guardare in fondo ai suoi occhi è come guardare in fondo a un abisso. Vedo tante cose dentro al suo sguardo: la promessa di portarmi dentro ai labirinti e ai misteri dell’amore; ma anche malinconia e un vago senso si disperazione….

Per sfuggire a tutto questo io abbasso gli occhi e così vedo la stoffa su cui sta lavorando. C’è sopra un disegno profondo e strano, fatto di complicati arabeschi che si allargano, si ripetono, si intersecano…si intrecciano….

*    *    *

 

“Si  sente bene? Vuole che chiamiamo un dottore?”

Vedo persone in apprensione intorno a me, che mettono delle bende in un catino d’acqua.

Mi trovo seduto nella bottega di Sereno. Qualcuno mi dice che un gancio si è staccato dal soffitto e una pentola mi è caduta sulla testa, così sono svenuto per alcuni minuti.

Rassicuro che tutto va bene, poi raccolgo la mia spesa, pago ed esco fuori. È sceso il buio. Tenendomi un fazzoletto bagnato sopra alla testa dove mi fa male, faccio ritorno a casa.

Nei giorni successivi compio alcune ricerche. Una ragazza di nome Mara abitava realmente in una casa sotto i portici, 50 anni fa. Una vecchia cartomante che la ha conosciuta, mi ha raccontato che era orfana, bella e di carattere chiuso.

Mara aveva un fidanzato che la abbandonò. Dopo di allora la ragazza si trasferì in un altro paese, e di lei non si seppe più nulla.

È strano. Forse, seduta da qualche parte nel tempo, Mara aspetta veramente che il destino ritorni a compiere il suo disegno.

 

MAGGIO 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PICCOLI PARADISI

 

Nelle mia passeggiate serali per favorire la digestione mi piace percorrere una strada di campagna nel paese di Minerbe.

Anche questa sera cammino lungo questa strada solitaria, dove raramente incontro qualche contadino. Oltrepasso un ponte sul fiume ascoltando le rane che gracidano al tramonto. Più in là c’è una pompa arrugginita attaccata a un pilastro. Ancora più avanti, dopo una curva, passo davanti a una vecchia casa abbandonata.

È una casa grigia, lunga e stretta, con il fumaiolo smozzicato. L’intonaco scrostato lascia vedere i mattoni. Erbacce crescono tutto intorno e c’è un bidone appoggiato al muro. Una delle finestre è aperta e viene fuori odore di muffa e umidità.

Calpestando ortiche e calcinacci mi avvicino di più, per vedere l’interno semibuio. C’è un camino fuligginoso, una credenza marcita e uno specchio rotto. Forse una di queste sere entrerò dalla finestra per visitare anche le stanze al piano superiore.

La sera seguente percorro ancora quella strada e rimango più tempo davanti alla casa abbandonata. In quella solitudine mi imbevo del suo passato, assorbo momenti della sua storia.

Sono convinto che nelle vecchie case sono registrati e conservati gli avvenimenti che si sono svolti. Tutti i gesti della commedia della vita; i gesti tipici dell’amore, che sono stati ripetuti per decine di anni. Sicuramente le scene di vita familiare sono ancora impregnate in questi ambienti. Con un poca di sensibilità è possibile percepire le memorie dei muri, cioè i piccoli paradisi che sono racchiusi dentro queste stanze.

La sera seguente sto ancora camminando lungo la strada che porta alla vecchia casa. I giorni si accorciano e la luce del crepuscolo è più grigia e più smorta.

Quando arrivo davanti all’edificio in rovina la luce è ancora più scarsa.

Dalla finestra adesso vedo la stanza all’interno come se fosse piena di fumo. Ma non sento odore di bruciato. C’è una strana luce polverosa dentro alla stanza e in quella nebulosità si muovono alcune persone…

Vedo una donna magra e giovane. È molto bella ma l’espressione del suo viso è seria e triste. La donna indossa un vestito a fiori e tiene fra le braccia un bambino. Una vecchia seduta in un angolo lavora a maglia. Nel camino una pentola bolle.

Rimango stupefatto con gli occhi fissi dentro alla stanza. Percepisco le gocce di sudore come tanti spilli sulla pelle.

Quelle persone non sembrano vere, eppure non sono irreali, sono solo un po’ sbiadite e quando vanno nelle zone di luce più forte scompaiono completamente.

A ogni secondo che passa la stanza diventa sempre più oscura, finché vedo solamente il buio.

Con il respiro accelerato dall’emozione riprendo la passeggiata. Sono certo che quello che ho appena veduto sono scene del passato. Sono piccoli paradisi, o piccoli inferni, che si ripetono nel tempo.

LUGLIO 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ENTITÁ AZZURRA (Parte Seconda)

 

“Spirito Guida dacci un segnale della tua presenza” mormora il professor Lorenzo.

Silenzio. La fiamma della candela rischiara la saletta dove siamo riuniti per la seduta mensile.

“Spirito Guida dacci un segnale della tua presenza”.

Il ticchettio della pendola, un mobile che scricchiola. Un sospiro profondo della medium.

“Spirito Guida dacci…”.

Il tavolino si solleva da un lato restando inclinato. Il piano lucido su cui appoggiamo le mani è percorso da vibrazioni. Poi il tavolo cade bruscamente con un colpo tornando in posizione orizzontale.

Adesso il professor Lorenzo incomincia le domande:

“Riprendiamo dalla mia ultima domanda: chi ha creato Dio?”

“Dio deriva da un altro primordiale. Dio è il risultato di una lunghissima evoluzione”.

“Come è possibile? Dio è eterno e immutabile?”

“No. Dio è un essere in evoluzione e l’eternità è ciclica”.

“In questo mondo esistono malattie sofferenze, parassiti… Perché?”

“Alcune imperfezioni sono volute, altre sono stadi intermedi, altre sono errori del piano della creazione”.

“Un uomo nasce paralizzato e trascorre tutta la vita su una sedia a rotelle. Perché?”

“Egli può aver rotto degli equilibri e sente il bisogno di ristabilirli. Oppure può aver scelto una vita-pausa per accumulare l’energia necessaria per lanciarsi nella prossima incarnazione. O può essere un errore dell’opera divina. In ogni caso prima di nascere lui ha progettato e scelto proprio quella vita”.

“Cosa accade a un uomo che ha commesso dei crimini?”

“In questa vita ognuno raccoglie i frutti della precedente incarnazione e semina per quella futura. Ogni spirito sente il prepotente bisogno di pagare i debiti e sceglie una o più vite di sofferenza! Oppure scende la scala dell’evoluzione e rinasce animale”.

“Come diventa la personalità (cioè l’io) dopo la morte?”

“La personalità rimane identica dentro il corpo spirituale”:

“Puoi descrivermi l’esperienza della morte?”

“Alla morte lo spirito si solleva e vede il corpo fisico sotto di lui. Poi attraversa un tunnel. In fondo lo attendono alcuni spiriti familiari”.

“Dove va lo spirito dopo la morte?”

“Va su un piano spirituale dove si trovano altri spiriti che sono al suo stesso livello evolutivo”.

“L’evoluzione continua anche nell’Oltremondo?”

“Sì”.

“Perché i bambini morti?”

“Morte non vuol dire fine. I bambini crescono nell’Oltremondo oppure si reincarnano”.

“Dove vanno gli animali dopo la morte?”

“Nell’Oltremondo e proseguono l’evoluzione”.

“Gli animali hanno dunque uno spirito?”

“Sì. Gli animali superiori hanno spiriti sviluppati simili all’uomo. Animali inferiori e batteri possiedono spiriti molto primitivi che si reincarnano con un ritmo veloce”.

“I vegetali hanno uno spirito?”

“Sì. E possiedono inoltre la capacità di svilupparlo. Ricordatevi che il vostro spirito è passato attraverso forme minerali, vegetali e animali prima di incarnarsi in uomo”.

“Qual è lo scopo ultimo delle vite?”

“Lo scopo finale delle vite è imparare a diventare Dei, cioè co-creatori”.

A partire da questo momento i partecipanti chiedono informazioni sui loro cari defunti e parlano con loro. Non riporto qui questi dialoghi che trattano questioni personali.

La seduta viene interrotta quando la stanchezza ci impedisce di proseguire. Allora io mi infilo il cappotto ed esco fuori.

La notte è immensa e fredda intorno a me e le stelle luccicano nel cielo nero. Cammino mentre penso alla mia vita e a quello che sono diventato. Penso a questa lunga strada che tutte le creature devono percorrere per raggiungere l’individualità, la conoscenza e la consapevolezza. Penso al destino misterioso e grandioso che ancora mi attende.

 

LUGLIO 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MUSICA DI MEZZANOTTE

 

Silenzio di tomba. La sala è gelida come una ghiacciaia. La luce lunare che entra dalle finestre rischiara i mobili e disegna rettangoli luminosi sul pavimento.

Il signor Bernardo, proprietario di questa vecchia villa, sta accanto a me teso e agitato. Egli è un uomo alto e magro. Cammina avanti e indietro per scacciare il nervosismo e fuma in continuazione. Non so bene cosa aspettiamo né perché mi ha proposto di venire qui questa notte.

Questa attesa snervante dura da oltre un’ora. Poi, all’improvviso il signor Bernardo mi afferra un braccio e sento la sua voce roca ed emozionata:

“Zitto. Ascolti. Sta per arrivare…”.

Nel silenzio si odono deboli suoni acuti, distanziati…. Dopo un po’ comprendo che qualcuno sta battendo i tasti di un pianoforte. A volte suona a casaccio, a volte incomincia una melodia, poi si interrompe e riprendono le note a casaccio. Poi ancora una melodia sommessa, implicita, segreta….

“Chi sta suonando a quest’ora?” chiedo.

“Nessuno. L’appartamento superiore è disabitato”.

“Vuole dire che…”.

“Sì! Quel pianoforte di notte suona da solo…. Venga”.

Bernardo accende una candela e mi precede su per una scala con ringhiera in ferro lavorato. I suoni si sentono a volte forti, a volte deboli fino a scomparire.

Al piano superiore percorriamo un corridoio. Bernardo si ferma davanti a una porta di legno lucido, estrae una chiave e apre. Entriamo.

La luce della candela rischiara una saletta polverosa con poltrone di velluto e un tavolino rotto.

Il pianoforte sta in un angolo e a intervalli emette suoni di corde che vibrano. È uno strumento vecchio con due candelabri ai lati. Quando mi avvicino vedo che i tasti sono ingialliti e pieni di polvere.

Perplessi e impauriti torniamo indietro e scendiamo giù.

Al mattino seguente io e Bernardo siamo seduti in uno studio severo con alte librerie e quadri anneriti appesi alle pareti. Incomincio a fare domande nel tentativo di spiegare il mistero.

“Ci sono adolescenti che frequentano la casa?”

“No. Io vivo solo”.

“Ha fatto sedute spiritiche negli ultimi tempi?”

“No”.

“A chi apparteneva quel piano?”

“A mia zia Isabella prima che morisse. Lo aveva fatto arrivare quando era giovane dal Massachusetts”.

“Da quanto tempo è morta sua zia?”

“Da oltre due anni”.

“É da allora che si è verificato questo fenomeno?”

“Non lo so. Abito qui da poco. Prima abitavo da mio fratello”.

“Che tipo era sua zia?”

“Oh! Era una donna eccentrica. Amava la musica e non si è mai sposata. Durante gli ultimi anni della sua vita non usciva quasi più. Era alcolizzata, si chiudeva nella sua stanza e beveva e suonava…”.

Dopo questo dialogo torniamo di sopra per rivedere il pianoforte. Con la luce del sole che entra dalla finestra la stanza sembra diversa. Più vecchia e decrepita, piena di scricchiolii e odore di muffa.

Apro il piano, esamino i meccanismi, poi col permesso del proprietario sigillo con ceralacca lo sportello della tastiera. Sigillo anche la porta della scala e infine scendiamo giù.

La stessa sera ci accomodiamo in salotto in attesa. Con l’arrivo della notte il signor Bernardo diventa sempre più inquieto e agitato. Fuma nervosamente, cammina avanti e indietro….

Finché, nel silenzio, si ode una musica che proviene dall’appartamento disabitato. È una cascata di suoni deboli da principio. Segue il silenzio. Poi alcuni colpetti. I suoni riprendono a volte caotici, a volte melodici….

A questo punto prego il signor Bernardo di uscire dalla villa e lasciarmi per qualche tempo da solo. Lui è felice di acconsentire. Prende un cappotto dall’attaccapanni e esce dalla stanza. Sento i suoi passi che percorrono il corridoio. Adesso sento il rumore della porta di ingresso che si apre. Sento i passi di Bernardo che calpestano la ghiaia del giardino e poi vedo l’uomo che passa sotto alle finestre e si allontana.

Mentre il proprietario si allontana dalla villa i suoni del pianoforte si fanno più attutiti. Calano di forza, diventano vibrazioni sonore appena percettibili.

Allora sulla villa scende il silenzio della notte. Il fenomeno è completamente finito.

Al mattino dopo verifico i sigilli di ceralacca e, trovandoli intatti, sono costretto ad ammettere il fatto soprannaturale. Come soluzione propongo di vendere il pianoforte o comunque di disfarsene o trasferirlo.

Il signor Bernardo fa venire gli operai e mette in pratica con grande entusiasmo il mio consiglio.

Alcuni mesi più tardi Bernardo mi informa che ha regalato il piano a suo fratello dove, nella nuova casa, non dà più fastidio a nessuno.

Come tutte le cose di questo mondo il pianoforte era impregnato della energia psichica del suo proprietario. Questa energia, nel nostro caso era particolarmente forte, ma da sola non bastava a produrre i fenomeni.

Il signor Bernardo, inconsapevolmente, è un sensitivo. Egli costituiva il mezzo per attivare l’energia che così si rendeva udibile. È bastato separare le due cose e l’inquietante fenomeno non si riproduce più.

 

LUGLIO 1997

 

 

 

 

 

 

 

IL ROSETO

 

Sono da poco tempo venuto ad abitare in questo villaggio.

È una località tranquilla, senza niente di interessante nei dintorni. Non ci sono bellezze naturali, né storiche, né paesaggistiche. La campagna si stende piatta intorno a noi e il villaggio è formato da casette più o meno uguali.

Forse l’unica cosa bella qui è il roseto che appartiene alla casa dei miei vicini.

La casetta è color bianco ed è abitata da tre vecchietti, due fratelli e una sorella. Davanti alla facciata ci sono tre cespugli di rose, vecchi e rigogliosissimi. Non sono un esperto di fiori, ma non avevo mai visto prima rose così belle e grandi.

Una mattina noto che il cespuglio al centro appare ammalato; fiori e foglie sono appassite ed è evidente che la pianta sta soffrendo. Dopo alcuni giorni i petali cadono per terra e in circa una settimana l’arbusto diventa secco, con i rami gialli.

La vecchia Ida, che tutti i giorni innaffia le rose, si mostra molto dispiaciuta.

Ma un’altra disgrazia, molto più grave, colpisce la casa. Le finestre sono chiuse questa mattina e vedo arrivare gli uomini delle pompe funebri. Poco dopo vengo a sapere che Giuseppe, il fratello più anziano, è morto di infarto questa notte.

Conosco poco i miei vicini ma, per cortesia, alcuni giorni dopo partecipo al funerale.

Durante i mesi estivi quando apro le finestre al mattino resto ad ammirare le rose che spiccano come arabeschi colorati sullo sfondo bianco del muro. La vista del roseto in fiore mi dà un piacere vivo come la visione di un quadro o l’ascolto di una musica.

Poi col passare del tempo, il cespuglio di destra diventa raggrinzito; i petali cadono, i rami si piegano…. Forse qualche parassita sta divorando le radici della pianta.

Quando il cespuglio si secca e muore, il signor Arturo lavora sotto il sole tutto il giorno per sradicare la pianta, portare via i rami e livellare il terreno.

Quella fatica è stata eccessiva per il vecchio Arturo, poiché adesso egli si trova a letto ammalato di polmonite. Pochi giorni dopo vengo a sapere che l’uomo è morto.

Adesso è rimasto un solo cespuglio di rose e mi consolo a guardarlo. Ho perfino trasferito la mia scrivania vicino alla finestra.

Una mattina Ida mi chiama per chiedermi un favore, così restiamo a parlare un po’. Le faccio i complimenti per le rose stupende e per l’amore con cui le cura.

Allora lei depone l’annaffiatoio e mi fa questa confidenza:

“Quei cespugli li piantò nostra mamma, che aveva la seconda vista. Piantò un cespuglio di rose per ogni figlio nato e li dedicò a noi. Quando il primo cespuglio si seccò, mio fratello Giuseppe morì. Quando si seccò il secondo, morì mio fratello Arturo. Adesso anche l’ultimo cespuglio rimasto incomincia a deperire…. E anch’io non mi sento bene…”.

In realtà il roseto non è più tanto rigoglioso.

Nei giorni seguenti la pianta lentamente diventa floscia, ingiallisce, finché si secca.

La vecchia Ida muore di aneurisma pochi giorni dopo.

 

 

AGOSTO 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA TOMBA VIAGGIANTE

 

Quando era in vita la vecchia Adele è sempre stata una donna irrequieta, e lo è anche adesso, da morta. Cioè, voglio dire, la sua tomba è irrequieta.

Da un anno ormai sono abituato a vederla mentre percorro il cimitero nelle mie consuete visite. Sono abituato a vedere la sua foto con la faccia spigolosa, incavata da vecchia strega; proprio come la ricordo da viva. La gente in paese diceva che era una strega, ma non ho mai voluto dare ascolto alle chiacchiere dei buontemponi.

E questo pomeriggio, mentre percorro il vialetto del cimitero, vedo che manca la sua tomba. No! Non ho bevuto e possiedo una mente logica e razionale.

Quando arrivo in fondo al cimitero senza vedere la tomba sono costretto ad ammettere che l’ho oltrepassata senza notarla. Allora mi intestardisco e ritorno indietro, nonostante sia fastidioso camminare sotto il sole.

Pazientemente ripercorro il vialetto all’indietro guardando con attenzione. C’è la tomba in marmo nero, poi quella con l’anfora, quella con l’angelo, quella con la balaustra a semicerchio…. Poi ci sono quattro tombe grigie; poi quella con la lampada in ferro, quella con la botola e l’anello; la tomba a forma di sarcofago, a forma di libro….

No, la tomba  della vecchia Adele non c’è, non c’è più!

A questo punto l’edificio logico della mia mente crolla come un castello di carte. Tutte le certezze adesso se ne vanno. Il mondo non mi appare più né solido, né materiale. Il mondo è solamente un riflesso colorato sopra una bolla di sapone….

Perché non solo manca la tomba, ma manca anche il posto vuoto!

Voglio dire che le lapidi sono allineate una vicina all’altra, con continuità, senza interruzioni. Tutto sarebbe normale e come al solito, se non mancasse quella dannata tomba.

Vedendo questo io comincio a sudare e imprecare sottovoce. Là in fondo alcune signore inginocchiate si voltano per guardarmi.

Scosso e avvilito esco fuori dal cimitero quasi di corsa.

Per la strada incontro il mio vecchio amico Dino. Egli è un studioso di occultismo e altre materie eccentriche. A lui racconto quello che mi è appena accaduto, anche se mi aspetto la sua incredulità.

E Dino risponde:

“Sì, io ti credo. Una notte mi è capitato di vedere che la vecchia Torre dell’Orologio era scomparsa”.

“Ma cosa dici?…”

“È la verità. In certi casi gli oggetti materiali si spostano nel tempo e allora non li vediamo più. Quando essi ritornano dentro nel nostro tempo ridiventano visibili per noi”.

Non avevo mai sentito una teoria così bizzarra, ma è sempre meglio di niente.

L’amico estrae un notes, fa alcuni calcoli e poi:

“Possiamo provare a richiamarla indietro. Stanotte nel cimitero arriverà il momento giusto…”.

“Per me può benissimo rimanere dove sta adesso”.

“Non sei curioso di assistere all’esperimento?”

“Sì, ma…di notte il cancello del cimitero è chiuso e …”.

“Entreremo da dietro, passando attraverso il campo di cipolle. Trovati davanti alla Pesa prima di mezzanotte…”.

Lo lascio parlare e intanto me ne vado. Non ho nessuna intenzione di assecondare queste assurdità. Inoltre stasera mi aspetta una buona cena, una partita a carte….

Alle 11 e 30 mi trovo davanti alla Pesa inquieto ed eccitato. È una sera di primavera con spruzzi di pioggia e vento.

Poco dopo arriva Dino avvolto nell’impermeabile:

“Sapevo che saresti venuto”.

“Dino, è finito il tempo delle ragazzate…” lo rimprovero.

“Il tempo finisce e ricomincia, caro mio”.

“Che cosa hai intenzione di fare?”

“Vieni”.

Lasciamo la periferia del paese e seguiamo una strada di campagna. Per fortuna non piove più ed è spuntata la luna. Senza parlare attraversiamo un campo infangato e scaliamo il muro del cimitero.

Il camposanto appare bianco e quieto, sotto la luna, punteggiato dal luccichio dei lumi. Il rumore dei nostri passi in quel posto silenzioso ci fa rallentare.

Arrivati al centro Dino tira fuori un grande fazzoletto nero con sopra un disegno bianco. Lo stende per terra e ci mette quattro sassi ai lati. Poi si siede su una tomba lì vicino e guarda il disegno. A poca distanza guardo anch’io: il disegno raffigura un cerchio attraversato da tanti J.

Il tempo passa. Il mio amico è sempre lì, come ipnotizzato, davanti al disegno. Io sto lì in piedi, infreddolito, la luna corre nel cielo….

Finalmente il mio amico si muove, come risvegliato, si alza e mette via il fazzoletto.

“Ecco. Ho finito”.

“È tutto qui? Ma non è successo niente!”

“Sembra che non sia successo niente. In realtà io ho seminato un pensiero oltre quel sigillo. In futuro ne vedrai i frutti”.

Usciamo da dietro e io mi rompo i pantaloni scavalcando il muro del cimitero. Allora ne ho abbastanza e vado dritto a casa.

Lascio passare alcune settimane prima di tornare in quel posto. In casi come questi  è meglio non rischiare di farsi venire l’esaurimento.

Quando un pomeriggio vado al cimitero, davanti al cancello il mio polso accelera i battiti; lungo il vialetto incomincio a sudare….

Poi vedo al tomba della vecchia Adele, con la foto da brutta strega che sembra lanciarmi la malia.

Sì, è tutto a posto adesso. Posso fidarmi di Dino che sa risolvere queste situazioni.

O forse è tutta ciarlataneria e suggestione.

 

OTTOBRE 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE TRE VECCHIE

 

Tre vecchie stanno sedute sotto il portico a chiacchierare. Una grassa, una alta e magra e una di media corporatura.

Quando passo con la carriola, nella fattoria dove lavoro, le guardo e le compiango. Poveri esseri inutili e impotenti senza più alcun rapporto con la vita.

Mentre vado avanti e indietro trasportando letame dalla stalla alla concimaia, guardo queste vecchie nell’ombra del portico e ascolto i loro discorsi. Sono tutte mezze sorde e gridano forte per farsi capire:

“Le nostre anitre soffrono perché il fosso è quasi asciutto”.

“Già”.

“Versiamo il brodo nella terrina per far salire il livello dell’acqua”.

“Sì, facciamo così”.

“Ah, ah”

“Eh, eh”.

“Ih, ih”.

Io compiango questi discorsi insensati e penso con terrore alla vecchiaia. Com’è triste la fine della vita.

Poco tempo dopo grosse gocce di pioggia incominciano a cadere. Eppure laggiù a ovest splende il sole. Ma qui è arrivata una nube estiva tanto veloce quanto carica di pioggia. I lavori nel cortile sono sospesi a causa del forte acquazzone. Intanto altre nubi sono arrivate a oscurare il sole e la pioggia dura tutto il pomeriggio.

Alcuni giorni dopo, mentre zappo l’orto e cavo le erbacce, sento i discorsi delle vecchie, sempre sedute all’ombra del portico. Immagino la noia che provano a stare sedute là tutto il giorno senza più la possibilità di modellare la realtà.

“Tuo nipote ci ha insultato stamattina”.

“Già”.

“Deve imparare la lezione quel brutto prepotente. Mettiamogli il secchio in testa. Facciamolo stare zitto per un giorno intero”.

“Già, facciamo proprio così”.

“Ah, ah”.

“Eh, eh”.

“Ih, ih”.

Il mattino dopo Goffredo, il figlio del padrone, non viene a lavorare perché ha la gola infiammata. Adesso è a letto con gli impacchi di acqua fredda. Mi dispiace poiché questa sera il ballo sull’aia non si farà.

I giorni passano alla fattoria, i lavori proseguono, le verdure crescono… e le vecchie sono sempre al loro posto.

Ho ripreso i lavori nell’orto con nuove semine e risento le loro chiacchiere. Mi ero quasi dimenticato di quelle vecchie e dei loro discorsi stupidi. Adesso ripensandoci mi sembra di intravedere un rapporto fra le loro parole e quello che è accaduto. No. Sarebbe assurdo, sarebbe illogico. Sarebbe… stregoneria.

Questa idea improvvisa cambia la direzione dei miei pensieri. Ma certo. Quelle vecchie conoscono l’Arte Saggia, come veniva chiamata una volta. Esse si sono tramandate gli insegnamenti delle loro nonne, i piccoli segreti delle erbe, dei campi, della mente…. Inoltre posseggono l’esperienza, la sensibilità per percepire, il tempo per meditare….

E adesso cosa stanno dicendo? Ascolto con attenzione le loro voci gracchianti:

“…il mondo non funziona più bene, non è più quello di una volta, diamogli una regolata…”.

“Ma sì, mettiamo quel noce capovolto”.

“No, capovolgiamo quel monte laggiù”.

“Ma cosa state dicendo? Vi è marcito il cervello?” le rimprovera la vecchia magra.

“Perché no? Perché non vuoi che ci divertiamo un po’?”

“Allora facciamo così; per stare più fresche stanotte spostiamo il sole!”

“Sì. Sì. Allontaniamo dal fuoco la pignatta. Tiriamola più indietro. Sì. Facciamo così, facciamo proprio così”.

“Ah, ah”.

 “Ih, ih”.

“Eh, eh”.

Ascoltando le loro parole capisco quello che vogliono fare e rabbrividisco.

Allora alzo la testa per guardarle. Non sembrano più tre vecchie deboli e impotenti. Adesso sono tre Dee antiche, ieratiche, solenni, che guidano i destini del mondo stando all’ombra di quel portico.

Quando viene la sera paure primitive si affacciano nella mia anima; paura del buio, della notte, della morte…. Con l’oscurità mi sento debole e indifeso, mi sento schiavo di forze immense e sconosciute….

Al mattino dopo. Al risveglio, rido delle preoccupazioni della sera prima. È facile cadere nelle superstizioni quando si dimenticano le conoscenze scientifiche.

Non credo che le vecchie siano riuscite nel loro progetto. Solo per caso questa notte è stata più fresca delle precedenti.

Però questa mattina, passando davanti al portico, saluto con rispetto le tre vecchie:

“Buongiorno nonne. Divertitevi pure… senza provocare grossi danni, per favore”.

 

OTTOBRE 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


ZIA MARIA

 

Infilo la chiave nella serratura e apro la porta.

Mi accoglie la sala lunga e fredda, con odore di chiuso. Macchie di muffa bianca sono sparse sulle mattonelle. La pianta in vaso è secca forse per la mancanza di luce e acqua.

Sono passate alcune settimane dopo i funerali di zia Maria e durante questo tempo nessuno è venuto nella sua casa.

Qui era sistemata la cassa con il catafalco, i ceri….

Cammino verso la cucina. Nel secchiaio sono rimaste ancora le tazze capovolte.

Ritorno indietro e passo davanti allo studio. In questa stanza strapiena di carte, libri e documenti, lei ha tenuto per 40 anni la contabilità del gasometro di suo padre.

Proseguo e salgo le scale di pietra che per 80 anni ha salito lei. Tocco la ringhiera di legno consumato, alla quale lei si è appoggiata durante tutto questo tempo.

Nel corridoio superiore ci sono quadri con foto ingiallite. Un arcolaio che usava quando era giovinetta. È rimasto perfino il cavallo a dondolo di quando era bambina.

Apro una porta ed entro nella sua stanza da letto. Penombra, silenzio, odore di biancheria.

Apro una finestra per far entrare la luce metallica di questa sera di Marzo.

L’armadio severo con sopra la foto di suo padre. Il letto liberty dove lei è morta, da sola, la notte del 2 febbraio….

Resto in piedi, immobile, in silenzio, in attesa.

Mi aspetto di rivedere di nuovo mia zia, anche se ho visto quando la chiudevano dentro la cassa e quando la sotterravano in cimitero. Mi aspetto di udire nuovamente la sua voce gracchiante; mi aspetto un segnale, qualcosa che mi faccia capire che lei vive ancora….

I minuti passano e non succede niente. Allora, ad alta voce faccio la domanda:

“Zia Maria, se ci sei batti un colpo”.

Silenzio totale.

Ripeto la domanda e resto in attesa:

“Zia Maria, se ci sei batti un colpo”.

Nessuna risposta.

Mi sento un po’ stupido a parlare da solo, nella stanza vuota. I muri imbiancati davanti a me non possono rispondermi.

Lascio passare dell’altro tempo e poi ripeto ancora la domanda un paio di volte. Niente da fare. Questo sistema non funziona.

Cammino pensieroso sul pavimento di legno lucido e scricchiolante. Come trovare un modo per comunicare? Come posso fare per avere le risposte dal suo spirito?

Mentre cammino ripeto la domanda:

“Zia Maria, se puoi batti un colpo”.

Il pavimento dietro di me ha uno schianto.

Mi fermo e penso. Le tavole sono secche e scricchiolano continuamente camminandoci sopra. Dunque questa risposta non è attendibile ed è dovuta al caso.

Riprendo a camminare producendo un’ondata di leggeri scricchiolii. Intanto faccio un’altra domanda:

“Zia Maria, se puoi batti un colpo”.

Un altro schianto più forte su una tavola davanti a me. Mi arresto sbalordito.

Poi riprendo a camminare e a interrogare:

“Zia Maria, possiamo comunicare con questo sistema?

Un altro schianto.

“Zia Maria, sono affidabili le risposte ottenute in questo modo?”

Ancora uno schianto laggiù nell’angolo.

Forse ho capito… Ma certo. Lo spirito ha bisogno di una offerta libera di energia. Energia indifferenziata da modulare, da utilizzare….

Il pavimento cigola e scricchiola sotto di me ma io prendo in considerazione solamente i colpi forti.

“Zia Maria, desideri parlare con me?”

Tre colpi duri. Tre volte sì.

“Zia Maria, vuoi che vada via?”

Silenzio. Adesso si sente solamente lo scricchiolio leggero.

Da questo momento faccio domande riguardanti il mio futuro, i miei affari e annoto su un taccuino le risposte.

Arriva il buio e mi preparo ad andare via. Chiudo la finestra e la porta della camera da letto.

Mentre sto per scendere una tavola sul pianerottolo della scala scricchiola in modo speciale mentre la calpesto e sembra che dica: CIA-O.

Sono trascorsi 3 mesi e adesso siamo in estate.

Alcune previsioni si sono rivelate esatte, altre devono ancora avverarsi.

Avrei tante altre cose da chiedere, ma purtroppo non posso più utilizzare questo singolare sistema di consultazione. Nel frattempo i parenti hanno venduto la casa e i nuovi proprietari la stanno demolendo per costruirne una nuova.

 

MAGGIO 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AMORI   OSCURI

 

Mentre cammino per le strade semideserte di questo piccolo paese, il cielo si scurisce sempre di più e incomincia a cadere la pioggia.

Dopo una breve corsa mi rifugio sotto l’architrave di una vecchia casa, evidentemente abbandonata. Ma poiché mi bagno anche lì, spingo la porta marcita ed entro dentro.

Mi trovo in una camera con il pavimento sporco e le pareti annerite. C’è un armadio e uno specchio verdognolo. Dentro all’armadio sta appeso un vestito da sposa. E’ ingiallito, impolverato… rosicchiato dalle tarme.

Queste sono le uniche cose rimaste, muti testimoni degli avvenimenti che si sono svolti dentro alla stanza. Ma l’armadio non aprirà i suoi segreti e riguardo allo specchio … chi mai vorrà fidarsi delle immagini degli specchi…

… Da uno squarcio fra le nubi piovono giù raggi dorati come da un gigantesco setaccio. Le campane suonano, le candele ardono dentro alla chiesetta dove la gente con i vestiti nuovi chiacchiera e attende.

La sposa arriva vestita di bianco e una coroncina fra i capelli. E’ pallida e seria. I suoi pensieri vagano a un amore passato, a un amore finito… Adesso però è troppo tardi, adesso lei sta per sposarsi… Le nubi in cielo formano un altare di luce bianca.

Una festa di nozze con le lanternine e i cuori di carta appesi ai rami degli alberi. Una festa paesana dolce e un po’ triste. Tutti mangiano, bevono, ridono e parlano. Ma il passato non è morto come lei credeva. I fili del passato le arrivano fino al cuore, germinano dolorosi ricordi, velenosi rimpianti…

Verso sera con l’oscurità arriva il fresco, l’umidità; gli ospiti si alzano e vanno via… Non c’è niente di più triste di una festa finita. Gli invitati si disperdono. Per terra restano immondizie, cartacce che il vento fa roteare.  Gli sposi, rimasti quasi soli, si incamminano per rientrare. Una luna marcia sorge dietro i tetti delle vecchie case.

E’ arrivata la notte, la prima notte da passare insieme. Le scale scricchiolano, le mani della sposa sono bagnate di sudore mentre entra dentro alla stanza da letto...

A tarda notte la sposa si affaccia alla finestra. Che cosa starà pensando? Pensieri caotici, il passato, il futuro; il mistero della vita, dell’amore, del dolore, dell’esistenza… Una luna ubriaca, rossa, paonazza sta tramontando oltre il pioppeto.

Sono trascorsi 20 anni, e la casa, i figli, il lavoro hanno invecchiato la sposina che ora appare imbruttita. Un pavone canta sulle vecchie mura sbreccate, coperte di edera. E’ arrivata la festa dell’anniversario. La vita scorre. Nubi viola appaiono all’orizzonte.

Adesso la casa è deserta e abbandonata. La vecchia signora è morta. E’ morto anche il suo cane. Davanti al casotto arrugginito ci sono ancora piccoli ossi, gli avanzi dei pasti.

 

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Il temporale è passato. Io lascio il mio rifugio e mi avvio lungo la strada, nella luce metallica della sera.

 

 

Veronella Luglio 2000      

 

 

 

 

 

 

 

 

TRAMONTO DI NOVEMBRE

Sono quasi le 5 pomeridiane e mi trovo ancora in casa con mille impegni che mi aspettano fuori. Devo avvisare  Gino che ci sono le patate da caricare; comprare il formaggio dal pastore; pagare la magliaia... Infilo il cappotto per andare al telefono pubblico, all’osteria.

Esco nel cortile squallido e attraverso il villaggio. Case grigie, diroccate con muri di mattoni corrosi; dalle fessure alle finestre si vede un filo di luce e il fumo esce dai comignoli. Ma altre case sono abbandonate e sono fredde e buie.   Più oltre si stende la campagna desolata con stoppie.

Un vecchio intabarrato spinge una carriola di legna da ardere. Un fosso d’acqua corre lungo gelsi e salici squarciati. Svolto bruscamente l’angolo dell’ultima casa e mi fermo allibito.

Il tramonto di Novembre irrompe nella mia anima, sconvolgendola. Pensieri, impegni, preoccupazioni sono subito dimenticati.

Una ferita di luce attraversa il cielo  versando oro e rame nel piombo della sera. Carri di nuvole spandono inchiostri turchini, rosetta, porpora, azzurognolo. Torrioni obliqui rosseggiano fra muraglie violacee. Da  un ribollire di nubi spumeggianti si elevano cappelli stregoneschi, draghi e una raggiera di madreperla.

Il tramonto di Novembre atterrisce l’anima con colori imputriditi che squarciano il cielo in macchie di disperazione. Tutto il mistero dell’esistenza è riproposto qui. Il sole rosso marcio è una sfera delle visioni dove vedo tutto il mio passato, i giorni sprecati, gli anni finiti, gli amori e le illusioni.

E il futuro è anch’esso davanti a me. Un futuro di tedio, di sofferenze, di lunghi momenti di solitudine e di spegnimento.

C’è un grande silenzio intorno. Il tramonto di Novembre è come un sipario alzato sulla precarietà della vita, sull’inutilità degli sforzi, su giovinezza e amori fuggiti. Sulla soglia del tempo percepisco un senso di vuoto, di disfatta. Le bellezze sono sfiorite, le gioie estinte e dalle loro ceneri è formato lo spettro del mio futuro, quello che mi aspetta e nel quale sto per inabissarmi...

Poi la nebbia sale, tutto sbiadisce e si offusca. Io riprendo il cammino sulla strada sassosa. In fondo alla via dopo il pioppeto spoglio, c’è l’osteria col pergolato secco dei glicini.

L’evocazione è finita, la visione è passata e rientro negli stretti corridoi dello spazio e del tempo.

Cammino ascoltando il rumore delle scarpe sui sassi. Oltrepasso i ceppi marciti dei platani, la pompa sbilenca, il vespasiano grigio e sudicio. Questa camminata è inutile; la destinazione ha perso importanza; eppure continuo a camminare per raggiungere la meta. Forse ho oltrepassato una soglia e sono entrato nella maturità della vita. Guardo il passato, rimpiango i pochi momenti piacevoli fra i macigni del caso e delle avversità.

Non più tramonto adesso. Un crepuscolo livido e velenoso porta rimpianti e ricordi taglienti come coltelli.

Finalmente arrivo davanti all’osteria. Spingo la porta ed entro dentro. Fumo, caldo, gente che beve. È l’oblio momentaneo per i terrori spietati dell’Esistenza.

Aprile 2010

 

 

 

 

 

 

 

GIOSTRA DEI MORTI

Una sera d'inverno, per una coincidenza fortunata, mi trovo in compagnia di tre vecchi amici. Parliamo di libri, di donne, di giovinezza, di amori...

La vecchia cucina è riscaldata dal fuoco scoppiettante del camino. Sulla tovaglia a scacchi bianchi e rossi ci sono lasagne fatte col torchio, anatra arrosto, patate fritte, funghi, peperoni  e bottiglie di clinto e greco bianco. Il risultato è una serata trascorsa in allegria e una cena forse un po' troppo pesante.

Finito di mangiare, dopo sigari e caffè, ci è passata la voglia di andare a dormire. Da un cassetto della credenza, qualcuno tira fuori un mazzo di carte unto, e due amici incominciano una partita a scopa. Io preferisco fare una passeggiata insieme a Tommaso, per favorire la digestione.

E' una notte di gennaio, gelida e stellata. Per le strade del paese non si vede anima viva. I lampioni sono accesi uno ogni tre, le vetrine hanno le saracinesche abbassate, le finestre degli edifici sono tutte buie. Il campanile della vecchia abbazia sta battendo la mezzanotte e i paesani sono già andati a dormire.

Camminiamo sulle pietre sconnesse del marciapiede e i nostri passi disturbano il silenzio profondo della notte. Abbiamo continuato la nostra chiacchierata, ma più sottovoce, quasi intimiditi dalla maestà della notte. Il vento fa volare fogli di giornali lungo il marciapiede e anche un fazzoletto bianco con impronte di rossetto.

La via sbocca in una piazza debolmente rischiarata dove al centro sta una fontana ghiacciata che rappresenta Nettuno. Gli zampilli d'acqua sono tutti congelati in un intrico di stalattiti, sopra lo specchio ghiacciato.

Lentamente attraversiamo la piazza e imbocchiamo una via all'opposto che si ingolfa nel buio. Porticati scuri, edifici chiusi, giardini rinsecchiti dalla morsa dell'inverno e panchine solitarie luccicanti di brina.

La strada costeggia adesso i ruderi della vecchia abbazia. Solamente il campanile è rimasto in piedi. Il tetto dell'edificio è crollato e le arcate gotiche ritagliano curve nere nel cielo  stellato. Una luna calante, marcia e deforme, si è levata intanto dietro l'abbazia e rischiara i ruderi di luce giallastra.

Noi ci fermiamo per ammirare lo spettacolo degli archi  acuti, dei contorni dentellati sui muraglioni in rovina. Tutto appare immobile, statico, congelato. O forse no. Qualcosa si muove lassù in alto. Sono i tralci di edera che pendono dai muri, ma non è solo questo... Qualcuno sta ballando sui tetti delle case vicine, al chiar di luna.

Ma no, si tratta solo di figure di carta che si agitano nella brezza notturna. C'è un  filo teso fra una finestra e il ramo di un olmo e vi sono appese delle sagome bianche di carta.

Senonché le sagome non rappresentano figure allegre, tutt'altro... Scheletrini, pipistrelli, fantasmi, omini gobbi e panciuti ritagliati di sbieco, a zig zag...

Mentre siamo assorti a guardare, all'angolo della via spunta un vecchio con cappello nero e mantello nero. La sua barba bianca luccica per l'umidità, mentre parla con voce roca:

"Che diavolo fate qui? A quest'ora? Guardate le marionette?"

Tom conosce lo strano personaggio e ricambia il saluto:

"Oh, Vittorio, anche voi qui..."

Il vecchio si avvicina ancora di più e sento il suo alito che puzza di vino:

"Già, adesso ci siamo tutti. Aspettiamo che arrivi il Conte Dracula per farci un salasso di buon sangue..."

Gennaio 2011

 

 

 

L’UOMO NERO

 

Le sere d’inverno vado alla fattoria dello zio Ugo, per fargli compagnia, dopo che è rimasto vedovo.

Appoggiandosi al bastone lo zio apre la porta e mi accompagna nella sua cucina accogliente. Sulla tavola sono preparate tazze di vino caldo e dentro alla fruttiera di vetro ci sono cachi e nespole.

Vicino al camino stanno appese pentole e padelle di rame lucidato. Più in là c’è una finestra e oltre i vetri si vede la campagna ammantata di nebbia. Non si riesce più a distinguere neanche gli alberi di mele cotogne piantati in fondo all’orto.

Zio Ugo si avvicina, guarda fuori e commenta:

“E’ scesa una nebbia fitta. Nelle sere come questa arrivava qui il Capitano...”

Io non lo ho mai conosciuto e allora lo zio incomincia a raccontare:

Nelle sere di dicembre, una nebbia umida, pesante, impediva di vedere anche le case più vicine del villaggio. La campagna era sommersa sotto lenzuoli grigi di nebbia. Era un mondo lattiginoso, silenzioso, che isolava le persone e attutiva i rumori.

Io e altri ragazzi stavamo fuori nel cortile, ad aspettare. Mani e piedi erano gelati e gli occhi lacrimavano per il freddo. Poi, quando scendeva l’oscurità, noi ragazzi perdevamo la speranza di vedere arrivare il Capitano.

Ma proprio allora, appariva, lontano nei campi, un lume biancastro. Il lume serpeggiava, seguendo le curve del sentiero, e noi gridavamo di gioia, impazienti di vederlo arrivare.

Dopo una lunga attesa, finalmente appariva la sagoma scura di un uomo su una antiquata bicicletta nera, con fanale ad acetilene. Era il Capitano: indossava berretto, guanti di lana e un lungo cappotto nero con le code abbottonate ai lati delle tasche.  A passi lenti, dovuti all’età, l’uomo si dirigeva verso un edificio scuro dove, dai finestrini, filtravano fessure di luce.

Venendo dal cortile squallido e desolato, la stalla appariva come un rifugio caldo e accogliente. C’era la luce delle candele, il calore prodotto dalle mucche, l’odore secco della paglia...

La stalla di sera era come un’oasi di vita nel buio e nella nebbia delle lunghe notti di dicembre. Gli uomini si radunavano lì, dopo cena, per parlare di sementi o di cacciagione. Altri col coltello ricurvo pelavano i rami dei salici e davano la corteccia alle mucche. Le donne sferruzzavano per fare calze o rammendare maglioni.

Ma appena entrava l’uomo alto e magro, si faceva silenzio nella stalla. Tutti smettevano di lavorare e nella quiete improvvisa si udiva solo tintinnare le catene delle mucche o qualche muggito.

L’uomo appena arrivato si dirigeva verso una sedia bassa, mezza spagliata, in fondo alla stalla. Nelle facce dei presenti si disegnava una espressione di stupore e di attesa, e solo allora, egli lentamente incominciava a parlare, incominciava a raccontare...

Le sue storie narravano eventi prodigiosi, fatti straordinari, incantesimi e magie di un’epoca tramontata.

E noi tutti ascoltavamo le sue storie, romantiche o feroci, bizzarre o meravigliose. Era come un rito che si ripeteva nella profondità delle notti invernali e al quale tutti noi eravamo abituati.

Ma un inverno più brutto del solito, con neve e ghiaccio oltre la nebbia, il Capitano tardava a venire. Noi ragazzi lo aspettavamo nel cortile dalle prime ombre della sera, fino all’arrivo del buio, quando il gelo ci faceva rientrare in stalla, infreddoliti e delusi. Eppure continuavamo ancora a sperare, per un suo arrivo in ritardo.

Non lo vedemmo più, né quell’inverno, né quelli successivi; non arrivò più; nessuno sapeva chi era, né da dove veniva.

Sono passati molti anni da allora; i vecchi sono morti, i ragazzi sono diventati uomini e molte cose sono cambiate qui.

Ma, nelle sere invernali come questa, a volte, nella nebbia appare un fanale ad acetilene che avanza, avanza e non arriva mai...

Gennaio 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

LA SANTA DI RALDON

Raldon: un piccolo paese sperduto fra le campagne e le paludi della pianura. Meno di mille abitanti, quasi tutti contadini. Nessuno si sarebbe mai interessato a questo paese e nessuno sarebbe andato a visitarlo se non fosse che...

Da alcuni mesi si va diffondendo la notizia che a Raldon abita una Santa. Una giovane ragazza che fa profezie e predice il futuro. Un vecchietto che è stato là, afferma di essere tornato guarito dai suoi malanni.

Ho deciso di andare anch’io dalla Santa, in estate; ma la curiosità mi spinge a partire in anticipo.

In una fredda mattina di sole, di febbraio, parto in bici verso Raldon. La strada attraversa campi di radicchi luccicanti di brina. Lungo i fossi e nelle paludi ristagna una nebbia bassa.

Quando entro in paese, in meno di un’ora, mi stupisco di vedere tante persone che arrivano qui da tutte le direzioni. Il paese, con le casette vecchie e decrepite dei contadini, appare insolitamente animato. A quest’ora del mattino, le vie sono affollate di persone, ed è una cosa insolita per una località priva di attrazioni.

Non ho neanche bisogno di chiedere informazioni. Per trovare la casa della Santa mi basta seguire la fila delle persone a piedi, in bici o sui carri che vanno verso una casetta di mattoni alla periferia nord del paese. Sul prato antistante c’è una piccola folla di poveracci, creduloni e affamati di miracoli. Dalle loro chiacchiere vengo a sapere che la Santa non mangia da mesi; ha visioni sovrannaturali; ha il dono di guarire e predire il futuro.

La porta della casetta si apre e appare un ometto magro e malvestito che fa entrare un gruppo di visitatori. Mi unisco anch’io ed entro in una cucina fuligginosa col focolare spento e pieno di cenere. Il padrone di casa ci guida su per una scaletta buia, incassata fra i muri. Di sopra percorriamo un corridoio col pavimento di legno pieno di buchi. Poi entriamo in una cameretta fredda e misera con una piccola finestra.

E allora, finalmente, vedo la Santa. È una ragazza ventenne magra e pallida sdraiata sul letto. Indossa una camicia da notte bianca, lunga fino ai piedi scalzi. Ha i capelli neri, lunghi e pochissimo seno. La Santa pare assorta e ha lo sguardo fisso nel vuoto.

I visitatori parlano sottovoce. Un uomo magro tocca il pomello arrugginito del letto. Una donna grassa si inginocchia e tocca la camicia della Santa.

Il padre della ragazza interviene. Con gesti rabbiosi manda indietro i visitatori gridando che non bisogna disturbare Annalisa.

Quando esco sul prato vedo che la folla è aumentata. Ci sono straccioni, malati, donne incinte; ragazze che hanno perso il fidanzato; contadini che hanno perduto il raccolto. C’è anche il venditore di lamette per barba, di pomate per i calli, di dolciumi...

Un uomo esce di casa e ci fa cenno di seguirlo. Dai discorsi della gente apprendo che è lo zio della Santa. Egli ci guida dietro alla casa, in un orto dove c’è una grossa buca. Qui preleva manciate di terra dalla buca e le mette in sacchetti di tela. Un vecchietto con un banchetto improvvisato, vende ai fedeli i sacchetti di terra miracolosa. Ne compro uno anch’io, poi verso mezzogiorno faccio ritorno a casa.

************

È arrivata l’estate e le chiacchiere riguardo la Santa sono cambiate, qui al mio paese. Ora ascolto, non più lodi, ma critiche e calunnie.

La fruttivendola dice che la Santa non vive a digiuno; il fabbro l’ha vista mentre mangiava pane e salame. Il barbiere del paese, che è sempre bene informato, racconta che la Santa aveva predetto data e ora di morte di una vecchia, ma si è sbagliata. Il vinaio spiega che i parenti della Santa hanno inventato questo imbroglio per sfruttare la credulità della gente e guadagnare denaro.

In settembre decido di tornare a Raldon per vedere cosa succede laggiù. Quando arrivo in tarda mattinata, vedo che è tutto cambiato qui. Le strade sono deserte, i turisti sono scomparsi. Raggiungo la casa di Annalisa, ma non c’è più nessuno sul prato. Vado a vedere l’orto sul retro. La buca c’è ancora, più grande e profonda, ma non c’è nessuno nemmeno qui.

Annalisa è stata una santa sfortunata. Ragazza illusa e in buonafede, è stata sfruttata dai parenti e solamente per caso è stata smascherata. Altri santi più fortunati non sono ancora stati smascherati, o non lo saranno mai.

Dicembre 2011

 

 

 

 

 

 

SECONDA VISTA

 

L’arrivo del Circo Pivetta nel piccolo paese di Oppeano, fu salutato come un evento grande e importante.

Gli acrobati, i clown, le belle ragazze con le gambe scoperte... Tutti ne parlavano e tutti volevano andare a vedere.

Anche mio cugino Luigi fu preso dall’entusiasmo e aspettava con impazienza quel momento. Aveva progettato di andare al circo mercoledì, ma il prolungarsi del lavoro in stalla non lo consentì.

La sera successiva anticipò i tempi: rifece le lettiere di paglia per le mucche, finì la mungitura e diede il latte ai vitelli. Poi corse in casa e guardò l’orologio. Quasi le dieci; era in ritardo. Neanche il tempo di togliersi la tuta e gli stivali, perchè un’occasione come quella non si sarebbe più  ripetuta.

La fattoria è fuori paese e la strada è lunga. Ma Luigi prende la scorciatoia attraverso i campi di miglio per arrivare prima. La notte di Giugno chiara e profumata, facilita il cammino. Luigi salta un fosso, arriva alle prime case e finalmente la piazza appare illuminata fiocamente. Al centro sorge il circo: un tendone piccolo ancorato alle funi e contornato di lampadine colorate.

Quando Luigi può entrare, lo spettacolo è già incominciato e lui siede sulle panche dell’ultima fila. Proprio in quel momento il Direttore del circo, un uomo anziano, alto con un cappello a cilindro, annuncia un difficile e pericoloso   esercizio di equilibrismo.

La ragazza, non più giovanissima, entra a passo di danza con gonnella corta e braccia nude. Sale una scaletta; arrivata su una piattaforma apre un ombrellino e cammina attraverso il percorso: una tavola di legno stesa fino alla piattaforma del lato opposto.

La ragazza si muove con grazia e ancheggiando cammina sulla tavola fino lato opposto. Il pubblico applaude con ammirazione; Luigi invece, un po’ deluso, protesta ad alta voce:

“Tutto qui? Ma è facilissimo. Chiunque ci riuscirebbe...”

Gli spettatori davanti si voltano e gli impongono di fare silenzio. Il Direttore si fa avanti e annuncia un nuovo numero: due pagliacci che litigano per dividersi una sigaretta. Segue il giocoliere che lancia in aria palle e birilli; infine i cavalli...

A mezzanotte lo spettacolo è terminato e gli spettatori si alzano per uscire. Sul basso palco di legno il Direttore fa dei gesti e chiama qualcuno. È un uomo alto, con gilè nero, pantaloni attillati, tuba in testa e fa cenno a Luigi di avvicinarsi.

Mio cugino è stupito e intimidito, ma il Direttore insiste:

“Sì, proprio lei. Venga, venga avanti. Non le è piaciuto lo spettacolo?”

Luigi è imbarazzato. Evidentemente prima ha parlato troppo forte e il Direttore lo ha sentito. Prova a giustificarsi:

“Sì! Bello... i costumi... i cavalli... ma non mi pare giusto imbrogliare il pubblico. Si vedeva bene il trucco dell’acrobata che camminava su una tavola di legno...”

Il Direttore pare sorpreso:
“Ma lei, scusi, che lavoro fa? E da dove viene?”

“Faccio il bovaro e vengo dalla fattoria fuori paese. Appena finito il lavoro sono partito senza cambiarmi  e ho attraversato i campi per arrivare in orario.”
“Campi? Scusi, quali campi?”

“I campi di miglio.”

Il Direttore ha un leggero sorriso:

“Ah, capisco... Si tolga gli stivali, per favore...”

Dopo un attimo di imbarazzo Luigi si sfila gli stivali e li capovolge facendo uscire i granelli di miglio che lo infastidivano. Mentre li indossa così ripuliti, il Direttore gli suggerisce:
“Guardi lassù. Guardi là in alto. Che cosa vede?”

Luigi è confuso e risponde con voce emozionata:
“... un... filo... teso...”

Il Direttore ha un sorriso enigmatico e spiega a bassa voce:
“Il miglio negli stivali le ha fatto vedere la realtà delle cose... che stanno dietro alle apparenze.”

 

Febbraio 2013

 

 

 

SERA DI SETTEMBRE

 

Nella sera di Settembre si annodano i destini; i fili dell’uomo sbocciati in primavera e irrobustiti dall’estate, adesso si aggrovigliano.

La frenesia dell’estate è passata. Il bisogno di agire, provocato dal caldo, sta per acquietarsi. Adesso è autunno e la campagna sfuma nella luce serale.

Ritornando a casa incontro l’amico Vittorio che non vedevo da mesi, e insieme deviamo verso una piccola osteria. Arriviamo sotto il pergolato, dove una donna snella sta servendo i pochi clienti.

Vittorio la saluta: “Oh, buonasera Gianna; come stai? E tua figlia come va?”

Io mi guardo intorno e commento: “E’ molto bello e romantico qui.”

Ma Vittorio mi contraddice: “Oh! È tutto cambiato, è tutto cambiato... Io mi ricordo quando venivo qui 40 anni fa...”

Dal bar è uscita la figlia: una ragazza con le trecce, maglietta rossa e gonnellina bianca. Lava le tele incerate dei tavolini e spesso si china per vuotare i posacenere nel cestino. In quei momenti, dalla scollatura vedo i seni bianchi, appuntiti, che sono come richiami alla felicità.

L’amico Vittorio seguita a parlare di agricoltura e bere vino rosso. Io ascolto distrattamente guardando i movimenti sinuosi della ragazza.

La sera sta per arrivare. Dentro il pioppeto di fronte a noi c’è già buio e sopra brilla la mezzaluna bianca.

Dei passi pesanti si odono sulla ghiaia per l’avvicinarsi di qualcuno dietro di me.

Vittorio alza il bicchiere e saluta: “Oh! Don Ruggero, quale sorpresa! Sedete e bevete un bicchiere di vino in compagnia.”

Un prete corpulento, deformato nella tonaca nera, zoppica verso il nostro tavolo. Si siede pesantemente contorcendosi un poco, forse a causa dei reumatismi.

Vittorio seguita a parlare. “Bevete qualcosa don Ruggero? Un bicchiere di clinto o di vino bianco?”

Il prete ha la bocca storta e parla con la esse strascicata: “Uhm, noo... no... faccio già troppi peccati... Solo una  gassosa... solo una gassosa... forse...”

La sera si fa più profonda, più cupa. L’aria ha frescure segrete che si insinuano fin dentro di noi portando ricordi e rimpianti. A occidente il cielo del tramonto è allagato di luce rossa.

La ragazza si avvicina in silenzio portando il vassoio, ma inaspettatamente grida: “Là! Là! Guardate...”

Tutti noi ci voltiamo per guardare. Il cielo rosso a ovest è intersecato di nubi lunghe, di striature violette.

Con voce più bassa la ragazza mormora: “Sembrano zampe di gallina...”

Il prete interviene con tono autoritario: “No! Sembrano artigli del diavolo!”

Un senso di pesantezza è calato improvvisamente sopra di noi. Vittorio tenta di scherzare per riportaci all’allegria: “Oh, voi preti avete sempre in mente il diavolo.”

“Eh, non bisogna mai sottovalutare il diavolo” ammonisce il prete. Poi si volta verso la ragazza: “E’ vero Silvia?”

Negli occhi di don Ruggero passa una luce torbida, da buon seguace dei Padri Inquisitori.

 

Settembre 2013

 

 

 

 

LO SCONOSCIUTO

 

Sera di Novembre, con pioggia e vento. La fattoria in campagna ha la porta chiusa e solo dalle fessure alle finestre si intravede il chiarore della lucerna. La famiglia si trova in cucina, dopo cena. Il marito accudisce il fuoco, la moglie lava i piatti, i bambini giocano in un angolo.

Improvvisamente si sente battere dei colpi alla porta. Chi può essere a quest’ora e con questo tempo. La moglie suggerisce di non aprire. Dopo qualche esitazione, il marito tira il catenaccio e socchiude la porta per vedere chi c’è.

C’è qualcuno là fuori, intabarrato, col cappello fradicio di pioggia.

Lo sconosciuto è immobile. Le chiome dei salici dietro di lui sono piegate dal vento freddo.

“Buonasera.” Dice lo sconosciuto. “Sto cercando qualcuno. Abita qui la famiglia Porre?

“No. Una volta, ma adesso non abita più qui.”

“Allora voi siete forse un parente?”

“No. Io sono il nuovo inquilino. Abito qui con la famiglia da quasi un anno.”

“Ah! Scusate, ma da tanto tempo non vengo in questa località. Sapete forse dove sono i Porre adesso?”

“Si sono trasferiti lontano, non so di preciso dove.”

“Io venivo qui, tanti anni fa...”

“Ma prego, accomodatevi. Siete tutto bagnato. Entrate a scaldarvi un poco...”

“No, grazie... Beh, forse solo un minuto...”

Lo sconosciuto sale i gradini dell’ingresso e si ferma davanti alla porta della cucina, dove il fuoco arde nel camino e rischiara la stanza.

“E’ rimasto tutto come allora qui... Non è cambiato molto da quando venivo io... ma sono passati tanti anni ormai...”

La donna viene incontro al nuovo venuto: “Prego signore, datemi il vostro tabarro e anche il cappello. Li metterò qui ad asciugare vicino al fuoco.”

“Sedetevi” aggiunge il padrone di casa mettendo una sedia davanti al camino. “Volete bere un bicchiere di vino?”

“Oh. No, grazie...io...”

Una lunga pausa di silenzio. Nella stanza si ode solo lo scoppiettio del fuoco e i sibili del vento di Novembre, fuori. Le imposte a volte sbattono e il camino ulula per la bufera.

Lo sconosciuto riprende a raccontare: “Venivo spesso qui dai Porre. Ero amico di famiglia. C’erano anche le due figlie, Marilena e Liliana. Una era la mia fidanzatina... Sapete se si sono sposate adesso?”

“No, mi spiace, non so nulla. Quando sono arrivato io con la mia famiglia i precedenti inquilini si erano già trasferiti.”

“Ah! Dovevo immaginarlo che le cose sono cambiate... ma io manco da tanto tempo...”

Ancora una lunga pausa di silenzio.

La bufera fuori non accenna a diminuire, anzi aumenta di intensità. Lo sconosciuto riprende a parlare seguendo il filo dei suoi ricordi: “Quando venivo qui, nelle sere di primavera, ero solito sedermi in quell’angolo, vicino alla mia fidanzatina, mentre lei ricamava gli asciugamani... Ma sono passati tanti anni...”

Poi rivolgendosi ai figli del proprietario: “Che bei bambini. Sono suoi?”

“Sì, Michele 4 anni e Luciano 7 anni”

“Luciano. Vai a scuola?”

“Sì signore.”

“Sei bravo?”

“Sì, ho preso dieci anche ieri mattina.”

“Bene. Bene. E la storia? Ti piace la storia?”

“Sì signore, mi piace molto.”

“Bravo. Ho letto anche io libri di storia, mentre ero lontano da qui...”

Altro lungo silenzio.

“Devo andare ora. Grazie per l’ospitalità,” dice l’uomo alzandosi.

“Restate ancora un poco; siete ancora bagnato...”

“No, no... adesso devo proprio andare...” e si incammina verso la porta. “Buonasera a tutti.”

Rimasti soli, i familiari passano la serata fra commenti e interrogativi. Chi era quell’uomo? Non abbiamo neanche chiesto il suo nome. Uno che abitava qui, forse, e che adesso era di passaggio. Chissà!

Al mattino seguente, la bufera è passata e in cielo splende un pallido sole.

Il salumaio, nella sua bottega, racconta ai clienti le ultime novità: “Un compaesano è da poco uscito di prigione. Venti anni prima aveva ammazzato il padre, perchè tornava di notte ubriaco e picchiava sua moglie.”

 

Marzo 2015

 

 

 

 

 

 

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Rcconti brevi di Occultismo, Spiritismo, Stregoneria, Paganesimo, Animismo, Insolito, Mistero, ispirati a casi autentici, frutto di una appassionata ricerca.

 

 

 

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