mercoledì 14 agosto 2013

SERGIO BISSOLI GLI AMORI MALEDETTI ANTOLOGIA DI BRANI SCELTI Amori proibiti, folli, irrealizzati. Amori divini o diabolici, oscuri o immorali. Amori karmici, amori mortali. Gli scrittori maledetti amano in maniera differente dal normale. I loro romanzi descrivono esperienze acute, i loro fantasmi sono più dolorosi, le analisi delle anime ultrasensibili sono più profonde. Una guida alla letteratura amorosa, erotica, sexy presentata da punti di vista originali. Gli Autori, le Opere, le Edizioni. Questa è opera di studio e divulgazione. Non si intende infrangere nessun copyright. I Copyright dei libri qui presentati, appartengono ai legittimi detentori. Copyright dell’introduzione di Bissoli Sergio. A Franca e Pia INDICE L’amore sessuale L’amore acerbo L’amore sadico L’amore bizzarro L’amore filosofico L’amore poetico L’amore proibito L’amore mortale L’amore masochista L’amore romantico L’amore psicologico L’amore umano L’amore ribelle L’amore deludente L’amore necrofilo L’amore senile INTRODUZIONE Amori proibiti, folli, irrealizzati. Amori divini o diabolici, oscuri o immorali. Amori karmici, amori mortali. Gli scrittori maledetti amano in maniera differente dal normale. I loro romanzi descrivono esperienze acute, i loro fantasmi sono più dolorosi, le analisi delle anime ultrasensibili sono più profonde. Ogni donna ispira nell’uomo che la ama un fantasma differente dalla donna reale. Il poeta vede nella donna che ama un fantasma più profondo, strano e conturbante, poiché il poeta ha un modo più profondo di osservare la vita Probabilmente se queste donne fossero state amate da persone normali non avrebbero alimentato queste storie d’amore terribili e meravigliose. C’è ricchezza psicologica in questi amori maledetti, c’è profondità di emozioni, c’è spessore di introspezione, che manca negli amori normali. Qui l’amore si rivela in tutta la sua grandiosa complessità, in un possente mistero che confina con la morte. Durante la mia vita io ho vissuto gli amori maledetti. Successivamente ho scoperto che altri uomini li hanno vissuti e li hanno descritti. Qui ho riassunto le loro esperienze. Gli amori infelici, gli amori irrealizzati consentono di amare la ragazza dei nostri sogni, la donna che non esiste nella realtà. Questi amori (quasi sempre sterili) fanno immensamente soffrire, ma, chi li ha vissuti, ne conserva per sempre il ricordo più bello e sublime. Gli amori maledetti fanno parte della letteratura d’amore, galante, romantica, amorosa, sentimentale, erotica, sexy, pornografica. Tanti aggettivi per definire un tipo di letteratura che racconta e descrive i complicati rapporti fra uomo e donna: emozioni, sogni, fantasie, carezze, nudità, toccamenti, sessualità, varianti… I labirinti, i cunicoli, i trabocchetti, i sotterranei dell’anima vengono percorsi in maniera dolorosa durante la stagione dell’amore. Tutto il mondo interiore rivela la sua vertiginosa complessità; e nello stesso tempo anche l’ambiente esteriore si arricchisce, si carica di simboli, di misteriose associazioni mentali. Le donne appena conosciute ispirano alcuni uomini, che diventano poeti. Ma quando si sposano, le stesse donne uccidono negli uomini ogni aspirazione poetica. E’ triste, ma è la realtà. La letteratura erotica (romanzi, racconti, poesie) è quella più amata da poeti, bibliofili e collezionisti. La letteratura erotica è quella più odiata e avversata da censori, preti e bigotti. Questa libro elenca alcuni libri amorosi, erotici, sexy particolarmente profondi. Naturalmente non esistono distinzioni nette fra questi aggettivi. Sono solamente stadi che formano un unico processo. L’amore inizia come amore platonico, idealizzazione, adorazione, supervalutazione. Poi inevitabilmente sfocia nell’erotismo, nella fisicità, nella scoperta del corpo, nei rapporti sessuali. I rapporti diventano sempre più anticonvenzionali, si scoprono le varianti. Poi sopraggiunge la nausea, la stasi. L’erotismo è esaurito e a questo punto rinasce l’amore platonico, l’attrazione, l’idealizzazione verso un altro partner. I moralisti condannano tutto questo, ma non importa; la Natura ha voluto l’uomo e la donna poligami perciò è stato, è, e sarà sempre così. I criteri che ho seguito per scrivere questo libro sono stati i seguenti: molti romanzi e racconti contengono vicende d’amore o di erotismo. Ho elencato qui solamente le opere dove l’amore o l’erotismo sono predominanti. Molti autori hanno scritto opere di erotismo e anche di altri generi. Qui ho preso in considerazione solo le opere erotiche di questi autori, trascurando le opere di altri generi. Molti grandi autori famosi hanno scritto opere erotiche; ho escluso qui gli autori antichi, medievali e ho preso in esame quelle moderne, dal 1700 fino ai giorni nostri. Ho escluso tutte le opere greche, latine, indiane, arabe, cinesi e ho elencato solo quelle europee e americane. Gli autori famosi del genere erotico che sono reperibili in tutte le enciclopedie sono inseriti brevemente qui. Ho dato spazio agli Scrittori maledetti, quelli esclusi dalle enciclopedie, quelli trascurati da critici e recensori, quelli maltrattati o liquidati con poche parole. Eppure fra questi autori e queste opere ci sono degli autentici tesori che la critica ufficiale scoprirà forse fra 50 o 100 anni. La storia insegna che quasi tutti i grandi autori sono stati sottovalutati in vita e riabilitati, osannati e glorificati con un secolo di ritardo. Dopo anni i giudizi cambiano grandemente. Ciò che in passato era giudicato osceno, poi in futuro è stato giudicato un capolavoro. Anche se ho rispettato questi criteri, molte opere e molti autori mancano qui. Non sono riuscito a scoprire tutti gli autori e nemmeno a leggere tutte le loro opere. Mi dispiace, ma sicuramente mancheranno grandi autori e opere meritevoli. Ho dato la preferenza alle opere e agli autori con i quali ho affinità, cosicché posso trattarli con competenza senza pericolo di fraintendimenti. Ogni opera presente qui è brevemente commentata e viene riportato anche una breve e significativa parte del testo; così il lettore può apprezzare lo stile dell’opera ed entrare nell’anima dl suo autore. I libri presentati qui sono stati pubblicati in Italia quasi tutti negli anni 50 e 60, cioè durante il periodo migliore per l’editoria. Per ogni libro viene indicato: autore, titolo, editore, anno di pubblicazione, numero di pagine, titolo originale, nome del traduttore. Il nome del traduttore è importante perché cambiando traduttore il testo cambia leggermente ma inevitabilmente. Voglio ricordare qui che la letteratura amorosa, erotica è sempre stata grandemente avversata, censurata, soppressa, ostacolata, denigrata, distrutta, bruciata da censori, insegnanti e religiosi. In Italia esisteva l’Indice dei Libri Proibiti (Index Librorum Prohibitorum) affisso sulle porte di tutte le chiese e abolito da papa Giovanni XXIII nel 1966. L’Indice dei Libri Proibiti era stato istituito da Paolo IV nel 1557 e indicava i libri pericolosi o proibiti secondo la dottrina cattolica. Tutte le opere di Alberto Moravia erano nell’Indice. Oscar Wilde scrive: “Non esistono libri morali o immorali. Esistono libri scritti bene e libri scritti male”. Io sono contro i giudizi insensati delle morali convenzionali, delle fedi politiche o religiose. Io giudico i libri e gli autori in questo modo: definisco un buon libro, un’opera d’arte, un capolavoro quello che non lascia indifferente il lettore. Se leggendo un romanzo il lettore esulta di piacere oppure inorridisce di ribrezzo, ebbene quel romanzo ha un grande merito: è superiore alla media, è un’opera d’arte! Sulla Terra, l’unico archivio sicuro di questa letteratura è quello fondato dal dottor Alfred Kinsey: il Kinsey Institute alla Indiana University Bloomington Indiana USA. Con questa guida spero di aver contribuito a divulgare e diffondere il meraviglioso genere letterario amoroso ed erotico: soprattutto auspico che qualche editore decida di ristampare qualcuna di queste opere. Raramente, solo quando è necessario, ho apportato qualche minima variazione al testo, per rendere comprensibile una frase qui riportata al di fuori del suo contesto. Oppure ho sostituito una parola arcaica. I romanzi selezionati qui sono i più significativi dell’Autore, anche se a volte sono giudicati minori dai critici. I brani selezionati posseggono una continuità, in modo da dare al lettore la sensazione di leggere tutto il romanzo. Il finale è spesso omesso per non rovinare l’opera. L’AMORE SESSUALE Non esiste l’amore puramente sessuale. In ogni amore esiste una componente sessuale, psicologica, feticista, sadica, masochista, eccetera. Per amore sessuale intendiamo qull’amore dove questa componente è predominante. Questo vale anche per le suddivisioni successive. ANONIMO LE CONFESSIONI DI UNO SCRITTORE EROTICO. Nella prefazione al libro sta scritto che l’Autore è l’austriaco FELIX DORMANN e questo libro è uscito anonimo a Vienna nel 1920. L’Autore, continua la prefazione, è morto 8 anni dopo. Da LE CONFESSIONI DI UNO SCRITTORE EROTICO Appartenevo a quel genere di ragazzi che non riescono a perdere il desiderio della donna neanche durante i periodi delle più folli masturbazioni, poiché era sempre l’immagine di una donna nuda ad eccitare i miei sensi. Uno dei miei passatempi favoriti di quel tempo (avevo pressappoco 16 anni), era quello di camminare in strada fra le sette e le otto di sera, proprio prima di cena. Le strade a quell’ora erano affollate di gente che faceva ritorno a casa dal lavoro e io conoscevo tutte le strade che di solito percorrevano le giovani lavoranti delle officine. Molte di loro lasciavano che camminassi accanto a loro e che mi prendessi anche qualche confidenza. E ogni volta mi divertivo a sentire le loro espressioni colorite e non finivo mai di sorprendermi per il modo in cui i giovanotti, anche nelle vie più affollate, esprimevano a gesti e a parole la loro ammirazione per la ragazza. Spesso mi azzardavo, passando vicino a qualcuna delle ragazze, a sfiorarle e a toccarle come per caso. Ma a parlare con una di loro o anche solo camminarle affiancato era già più di quel che potessi osare. ****** Baciai il suo desiderabile corpo ovunque mentre lei cominciava a torcersi vigorosamente con rinnovata passione. Si lasciò andare all’indietro sul tappeto, con le braccia al di sopra della testa e ricominciammo daccapo con furia selvaggia, che ben presto raggiunse la sua punta massima. Quando uscii dolorosamente da questo stato di pura follia, provai d’un tratto un senso di delusione che non avevo mai sentito prima. Mi rifiutai decisamente di andare con lei nella stanza da bagno, scansandola quando cercò di prendermi le mani. Si comportava come se fosse molto sorpresa, ma poi si mise a ridere e disse: “Non dovresti venire per un paio di giorni, piccolo; penso che ti sto dando troppo”. Sollevò i seni con le mani e me li tese: “Oh, mi sarebbe piaciuto poterti dare ancora così tanto!” ***** Vedo ancora il corpo malnutrito di quella piccola, i suoi seni appassiti. Ancor oggi non riesco a capire come abbia potuto, dopo che mi ero assuefatto ai voluttuosi fascini di Rita, eccitarmi alla vista di quella povera e miserabile creatura. E tuttavia accadde! Vagando senza mèta per la città, vidi quella ragazza entrare nella cattedrale. Si muoveva su quei gradini come un'ombra, poi sparì attraverso il portale semiaperto. È probabile che si de¬stasse nuovamente in me in quel momento il desiderio di una compagnia femminile e quella mezza creatura dallo sguardo intristito dalla miseria mi avesse eccitato. Non saprei dire come, a ogni modo la seguii. Stava inginocchiata davanti alla statua di un santo di cui non mi riesce di ricordare il nome. Una piccola luce le illuminava il volto con un barbaglio rosseggiante e in quel mo¬mento mi sembrò particolarmente bella. Guar¬dava quel santo con le mani in atteggiamento di preghiera e il suo respiro era rapido e udibilissimo a distanza. Mi inginocchiai accanto a lei, urtandola leggermente come per caso. “ Come si chiama quel santo? ” le bisbigliai all'orecchio. “Non lo so” mi rispose. Guardò verso di me, nel rispondere e mi sorrise. Mi accostai un altro po' e la mia mano andò a posarsi sulla sua gamba. Nessuna rea¬zione. Mi appressai ancora di più. Allora sta¬volta fu lei a bisbigliarmi all'orecchio: “Per¬ché non ci sediamo in un banco?” Si alzò e si diresse verso uno di quei banchi bassi quasi interamente sepolti nel buio. Ce ne stemmo un po’ seduti tranquilli, poi la mia mano si mosse verso di lei tastando e accarezzando. Si alzò un poco, sollevò la gonna poi tornò a sedersi. Nell'infilarsi sotto la sua gon¬na, la mia mano tastò la sua pelle umida. Mi sentii sconvolgere, ma continuai a muovere la mano con circospezione, come su di un terreno minato, facendola avanzare. Le toccai il ventre. Poi mi diressi verso il basso. La ragazza allargò un poco le gambe afferrandomi la mano e tirandola verso di sé. Poi cominciò a mordicchiarmi le dita, mormorando qualco¬sa e intanto sentii la sua mano toccare la sporgenza che si era formata sul davanti dei miei pantaloni. Rimasi seduto senza muovermi rendendomi conto che neanche con Rita ero riuscito a pro¬vare quel godimento. Cercò di sbottonarmi i calzoni, ma improvvisamente disse: “ Andia¬mo?”. E lo disse con tanta gentilezza, eppure in tono così appassionato, quasi con bramo¬sia. Sulla porta intinse le dita nell'acquasan¬tiera e si fece il segno della croce. Camminam¬mo un po' per le vie vicine alla chiesa. Non si scorgeva gente in giro. Eravamo entrambi incapaci di parlare perché lo stato di eccitazio¬ne in cui ci trovavamo ci inaridiva la gola. Alla fine la ragazza mi spinse in un androne e lì mi abbracciò, baciandomi con dolcezza e quasi con rispetto... Rita non mi aveva mai baciato a quel modo!' “ Mi desideri? ” chiese con aria vergognosa. La strinsi forte. Allora mi disse che conosceva un piccolo alberghetto nelle vicinanze della stazione ferroviaria, dove avremmo potuto stare tranquilli senza nessuno che ci distur¬basse. Dopo aver camminato per una decina di minuti, all’improvviso si fermò. “Oh, aspetta un momento” disse. “Devo prima vedere se ho abbastanza denaro”. E tirò fuori un piccolo portamonete. Mi misi a ridere. “Non essere sciocca. Ne ho abbastanza io.” Mi fermai per guardarla. Essa se ne accorse e un lieve rossore le si diffuse sulle guance. Istantaneamente si ridestò quel desiderio che solo un certo tipo di donna riesce a provocare in me. E’ come una specie di leggera ipnosi. ANONIMO RUSSO CONFESSIONI SESSUALI La nota iniziale avverte che l’Autore è nato nel 1870 e ha scritto queste confessioni in francese nel 1912. DA CONFESSIONI SESSUALI Dunque, ricordo che una volta, giocando in giardino con le tre bambine, ebbi l’idea (ne ignoro il motivo, ma certamente le sensazioni sessuali non c’entravano affatto) di fare pipì in una scatola di fiammiferi vuota (a quell’epoca in Russia, queste scatole erano cilindriche e avevano esattamente la forma di un bicchierino) e di fare bere l’orina alle mie sorelle. Le tre bimbette obbedirono docilmente e ingoiarono coscienziosamente il contenuto del bicchierino che nuovamente riempivo quando era stato vuotato. ***** Non ricordo di cosa stessimo parlando. Serioja mi disse all’improvviso: “Tu fotti le tue sorelle?” (Usò un termine russo equivalente, altrettanto o forse maggiormente volgare). “Non capisco” gli risposi “non so di cosa stai parlando”. “Ma come, non sai cosa significa fottere? Lo sanno tutti i ragazzi!” Allora gli chiesi la spiegazione di quel mistero. “Fottere” mi disse “è quando il ragazzo conficca il pipì nella spruzzetta della ragazza”. ******* Olga, il giorno stesso del suo arrivo, esibì davanti a me, in giardino, le sue parti sessuali, sollevando il vestito e dicendo: “Come fa caldo oggi! Vedi, non mi sono nemmeno messa le mutande!” Le voltai le spalle, senza sentirmi turbato. Ma qualche giorno dopo tutto il mio equilibrio psichico fu compromesso. ******** Avevo un intenso desiderio di vedere le vulve delle due ragazzine. Il giorno successivo alla memorabile lettura, di mattina presto, prima del sorgere del sole lasciai il divano e mi avvicinai in punta di piedi, scalzo, ai materassi su cui stavano stesi gli altri tre. Erano tutti completamente nudi, essendosi tolte le camicie da notte, e dormivano profondamente, raggomitolati sul fianco “en chien de fusil” come dicono i francesi, ossia in posizione fetale, a forma di S (o piuttosto di Z). Glacha era coricata in mezzo agli altri due. Kostia le stava di fronte, e lei voltava la schiena a Olga. Olga si teneva una mano fra le gambe e così le sue parti sessuali erano completamente nascoste. Glacha si stringeva fra le cosce una mano del piccolo Kostia, la quale, essendo appoggiata sulla vulva, la nascondeva. Infine, una mano di Glacha addormentata serrava le parti sessuali del bambino. Ero davvero irritato di non riuscire a scorgere gli organi sessuali delle ragazzine, ma l’atteggiamento di Glacha e Kostia addormentati mi eccitò molto ed ebbi una forte erezione. ******** Mentre Olga stava accovacciata su di me, tenendo il pene nella vagina, Minna cominciò a solleticarle il clitoride, il che provocò l’orgasmo: era la prima volta che vedevo un orgasmo femminile e quasi mi spaventai vedendo le labbra della ragazzina impallidire di colpo, gli occhi stralunarsi, mentre il respiro si faceva ansimante, le membra si contraevano convulsamente e il viso cambiava colore. E avvicinava inoltre la bocca alla mia spalla come se volesse mordermi. Il muco che secerne la donna che sta godendo (qui jute, che ha sugo, come dicono i francesi) è ugualmente molto gradevole al palato, malgrado il sapore acre e salino, benché Aristofane nei “Cavalieri” lo chiami: l’immondo umore. Una volta raccolsi questo liquido dalla fessura genitale di Sarah con un cucchiaino da tè, dopo averla masturbata, e ingoiai con estrema delizia questo nettare salato. Invece l’odore dell’orina, che sentivo passando la lingua nelle vicinanze del meato urinario, mi era sgradevole, ma quell’odore si faceva sentire solo all’inizio dell’operazione e scompariva subito dopo, senza dubbio a causa dell’abbondanza delle secrezioni voluttuose che venivano a ricoprire le tracce di orina. Niente mi eccita quanto il contatto, la vista o anche la sola idea del muco vulvo- vaginale, forse perché è il segno visibile e tangibile della sensualità e della voluttà della donna. L’erezione degli organi sessuali femminili è appena visibile: in compenso, grazie al liquido secreto, c’è una prova evidente e materiale che la donna è eroticamente eccitata, e “ha dei sensi”, come dicono i francesi, ed è un essere terrestre come noi o, se è un angelo, è un angelo che qualche volta decade… **** Contrariamente a quanto avevo letto nei libri, ho verificato, per esperienza personale, che l’istinto sessuale si sovreccita quanto più lo si soddisfa, e si raffredda quando si presta una minor attenzione ai suoi appelli. La cosa mi sembra strana, ma è proprio così che accade. Più spesso si pratica il coito e più si desidera ripeterlo: ho avuto modo di constatarlo durante i miei rapporti con Nadia; dopo molteplici coiti consecutivi e spossanti, il desiderio si faceva più aspro, più acuto. ******* “Vi condurrò da una famiglia molto onesta, una famiglia onestissima, gente perbene, gente dabbene veramente; hanno due figliolette che potrete vedere nude e anche toccare, ma senza andarci a letto, a meno che non si arrivi a un accordo particolare con i genitori. Sono due ragazzine di quindici e di undici anni, carine come un cuoricino, e il prezzo è assai modico, solo 40 franchi. E’ troppo? Vediamo, allora facciamo 35 franchi; 30 franchi e una mancia per me!” Quelle ragazzine sapevano fare variare questo piacere in una infinità di modi. Fra l’altro mi insegnarono una raffinatezza che non avevo conosciuto nei libri: mi provocavano l’orgasmo e l’eiaculazione con giochi di lingua sui capezzoli. Una volta, una ragazza sui quattordici anni passò davanti all’orinatoio dove mi trovavo, quasi sfiorandomi, ma senza riuscire a vedermi il membro per avverse prospettiva; avendomi superato di qualche passo, si girò, ritornò indietro e allora poté vedere la mia virilità che le produsse una tale impressione da non riuscire a soffocare un grido; gli occhi stravolti, si portò la mano sinistra all’altezza del cuore, come per comprimersi il petto. ANONYMOUS MY SECRET LIFE LA MIA VITA SEGRETA Undici volumi, 4600 pagine, stampato in circa 20 copie ad Amsterdam, nel 1890. Un documento unico e straordinario. L’Autore è sir Henry Spencer Ashbee, Londra 1834 1900. La storia di questa grande Opera è raccontata dal dott. Marcus nel suo libro: Steven Marcus GLI ALTRI VITTORIANI, Da Anonimo LA MIA VITA SEGRETA Se ho commesso una mancanza stampando il libro, non ho fatto del male all’amico; ho semplicemente realizzato quella che era una sua chiara intenzione ed ho permesso a più di una persona di accedere ad una storia segreta che porta impresso il segno della verità in ogni pagina e reca un suo contributo alla psicologia. Così, decisi di descrivere la mia vita privata in modo assolutamente libero riguardo ai fatti e in quello spirito che quegli erotici avvenimenti eccitavano in me, quando li compivo o ne ero testimone; il racconto è scritto perciò con assoluta sincerità, senza nessun riguardo al mondo per quello che la gente chiama decenza. ******** Dopo un certo tempo, mi rimisi al lavoro per descrivere gli avvenimenti della mia giovinezza e della prima maturità, inclusi molti intrighi galanti e delle avventure più piccanti ma senza menzionare gli episodi più lascivi degli ultimi anni. Poi, una malattia mi fece riflettere seriamente sull’opportunità di bruciare tutto. Ma, poiché non mi andava a genio di distruggere tutto il mio lavoro, lo misi a riposo per un paio di anni. Poi, un’altra malattia mi concesse un lungo, ininterrotto periodo di ozio; lessi il manoscritto, vi aggiunsi diversi dettagli che avevo dimenticato ma che, grazie al diario, potevo piazzare nel giusto ordine. Avevo una memoria perfetta della mia giovinezza, e uno splendido ricordo in materia sessuale. Le donne sono il piacere della mia vita. Amavo il sesso di una donna ma anche la donna che lo possedeva e, in questo, c’è una grande differenza. Si può dire che anche oggi io ricordo, con una precisione che mi stupisce, il viso, il colorito, la statura, i fianchi, il sedere, il sesso, di quasi tutte le donne che ho avuto e che non fossero incontri casuali; ma ricordo tutto anche di alcuni di questi. Ricordavo perfettamente gli abiti che portavano, le case e le stanze nelle quali le avevo possedute. Nella mente sfilavano, assolutamente nitidi, i letti e i mobili, come erano sistemati allora, gli angoli, dove stavano le finestre; e tutti gli avvenimenti importanti posso definirli nel tempo con sufficiente precisione grazie al diario nel quale registravo gli episodi della mia vita. Ho timore della pubblicità, per aver fatto alcune cose spinto dalla curiosità e dall’impulso: cose per le quali anche i libertini di professione gridano alla scandalo. Sono passati molti anni da quando ho scritto la prefazione e ancora il manoscritto non è stato stampato. Da allora, sono passato attraverso fasi anormali della mia vita amorosa, ho fatto e visto cose, acquistato gusti e vizi che anni fa pensavo fossero sogni di una mente malata; li ho descritti tutti, il manoscritto si è ingrossato e io mi chiedo ancora, devo stamparlo? Che cosa diranno o penseranno di me, che cosa ne sarà del manoscritto se verrà scoperto dopo la mia morte? Meglio distruggerlo; e’ servito a divertirmi, adesso vada pure alle fiamme! Ho riletto il manoscritto: ci sono dettagli che mi colpiscono ancora, soprattutto alcuni riguardanti le mie esperienze giovanili. Se non li avessi scritti allora, nessuno all’infuori di me avrebbe potuto registrarli altrettanto fedelmente. Sarebbe un peccato bruciare tutto. Bruciare o dare alle stampe? Quanti anni ho trascorsi, dubbioso e pieno di paure; è per il bene degli altri, non per il mio, che ho esitato fino ad ora. ******** Stava seduta lì, immagine della salute, con le vesti fino al ginocchio; prima l’avevo vista solo con brutte calze di lana. Le sollevai i vestiti, vidi le grasse cosce, le ficcai un dito nella fessura. La ragazza chiuse le imposte e la porta, e con uno sguardo invitante si sdraiò sul letto. La vagina mi colpì come se fosse una novità per me, e mi sentii pronto a penetrarla. “Mia sorella vi piace più di me” disse. Negai, perché a un uomo piace sempre di più la donna che sta per fottere. “Perché allora non fate con me quello che fate con lei?” “Che cosa?” “Lo sapete bene.” “No.” “Sì invece.” “La tocco così.” “No, di più.” “Ma come? Non lo so, dimmelo”. “Sì che lo sapete, signore”. Ci fu una pausa. Capii che sapeva che avevo leccato Martha, e l’effetto fu tale che mi si afflosciò il membro e quasi mi vergognavo di guardarla. Come ho già detto, lo avevo fatto solo con Martha, e pensando di essere una bestiaccia avrei detto la stessa cosa di chiunque avesse fatto qualcosa di simile. Dopo quella volta che eiaculai nella sua bocca mi sentii così disgustato che smisi di leccarla del tutto e le feci promettere che non lo avrebbe mai detto a sua sorella, e neppure ne avrebbe mai fatto allusione con me. Così rimasi in silenzio, con la mano sopra alla fessura, completamente sconcertato. Ruppe lei il silenzio: “Fate come con lei”. “Non capisco cosa vuoi dire”. “Sì che lo sapete”. “Che ti ha detto Martha?” “Niente, ma lo so io” e vedendo che stavo per mettermi sul letto continuò: “Su, su, baciatemi lì. Fatemi come fate a lei, io sono anche più bella; ma che ci trovate in lei per farle quello? Lo so che gliela leccate”. Ero scoperto. Volevo montarla e lei continuava a ripetermi le sue richieste insistentemente. Così la feci stendere sul bordo del letto, le spalancai le cosce in modo che le gambe penzolassero in giù, per accontentarla. La ragazza si strofinò la vulva con la camicia. Cominciai con riluttanza, ma c’era qualcosa che mi scaldò. Che differenza tra lei e la sorella! Potevo leccare comodamente tutto l’orifizio della sorella minore, che rimaneva sempre ferma; ma dovetti allargare con le dita le labbra a salsiccia di questa qui e scansare gli oscuri peli, che mi entravano negli occhi e mi solleticavano il naso. Non appena le toccai la clitoride con la lingua le sue grosse labbra mi serrarono la bocca e mi bagnai naso e faccia con la saliva che aveva impregnato i peli, perché sollevava e abbassava il sedere. ********* La portai in salotto, sul divano, e mi misi a parlare, poi mi eccitai: “ Fammi solo toccare le cosce... che male può fare quando ci sono già stato in mezzo?” “No.” “ Solo un tocco... ecco, non spingerò più oltre il dito… oh! Jenny, ma a te piace il mio dito... stai ferma cara, fammi solo toccare”. Dopo solo mezz'ora che aveva finito di dire: “Ora non lo farete”, ero dentro di lei. Nessuna donna può rifiutare il membro che le ha steso la vagina una volta: è in sua mercé. Passammo il pomeriggio parlando e facendo l’amore, lei in gran parte piangendo e lamentandosi delle sue cattive azioni. Non solo le avevo aperto il sesso, ma il cuore e la bocca allo stesso tempo. Era la più franca e buffa donnetta che io abbia mai conosciuto. Mi raccontò tutta la vita passata, le sue aspettative per il futuro, mi chiese consigli e deplorò la sua cattiveria verso il suo fidanzato, tutto questo in un'ora sola. Anche in seguito parlò incessantemente: in capo a due settimane sapevo tutto di lei, dalla sua nascita in poi, e della sua famiglia; era come se avesse trovato un confidente per la prima volta in vita sua. “ Cosa farò col vostro denaro? “ “ Mettilo insieme al resto”. “ Ma lui sa quanto ho... ce lo diciamo sempre”. “Tienilo per comprarti un bel guardaroba prima di sposarti”. “ Ma sa tutto dei miei abiti ”. “ Diglielo un pò per volta, o non glielo dire affatto finché non siete sposati: raccontagli allora che lo hai tenuto all'oscuro di una bella sorpresa; oppure non gli dire nulla... ne avrai ancora da me ”. “ Non voglio il vostro denaro, ho paura che possa portami sfortuna ”. “ Allora ridammelo, Jenny ”. Ma Jenny non sembrava trovare grandi vantaggi in questa proposta e così se lo tenne, e ne ebbe dell'altro col tempo. “ Che cosa ne sarà di me e del mio fidanzato John?… morirebbe se sapesse come mi comporto male verso di lui… ora non lo fate... come riuscite bene a sconvolgere un corpo con questo vostro parlare e ficcare le dita qua e là!… oh, lasciatemi stare... basta, basta così”. “Ancora una volta, cara. Com'è calda la tua piccola vagina... sta deside¬rando un membro”. “ Oh, state attento alla mia cuffietta, la strapperete… me la tolgo ”. “ Che sedere grosso hai, Jen¬ny... come sei bagnata (spingi, spingi, alla fine ero entrato) dov'è il mio pene adesso, Jenny?” Ma dopo tre spinte Jenny cominciava a bagnare il corpo estraneo con tutte le forze sue. Dopo stette ferma per un certo tempo; lo sperma sembrava calmarla, ma poi cominciò a tremare di paura: “Oh Dio, cosa mi avete fatto fare! Oh Dio, se fossi incin¬ta! Oh, se venisse a scoprirlo, non mi sposerebbe più! Ed è un giovane così buono, così innamorato di me! Oh... oh ... ooh... mi sono comportata così male con lui, non volevo... oh... è tutta colpa vostra... oh... oh... oh... non sapevo cosa stavo facendo, non lo so mai quando c’è il temporale... oh!... Pensate che le scoprirà quando saremo sposati?” Così mi chiedeva nei suoi momenti più calmi dopo aver consumato tutte le lacrime, e la scena si ripeteva tutti i giorni quando la montavo; col passare del tempo però, meno frequentemente. Cercai di consolarla, le raccontai fatti e storie, spesso di mia invenzione, di come avevo avuto donne che poi si erano sposate senza che i mariti si fossero mai accorti che non erano vergini. “ E' vero? Ditemi la verità... se lo scoprisse mi affo¬gherei... sono sicura che lo farei... è colpa vostra, dovete essere un uomo ben cattivo ad approfittate di una povera ragazza sola in casa”. “Ma se non sei incinta, lui non può scoprirlo finché non si sposerà e allora sarà troppo tardi. Tu non glielo dirai e la vagina non parla.” “Oh, signore, che cose buffe dite!” ***** Una mattina mi misi ad aspettare Loo nella speranza di afferrarla, e vidi la cameriera che portava un secchio per riporlo in un armadio che si trovava vicino alla stanza da letto, sopra la cucina. Quando uscì la invitai nella stanza in cui non ero mai entrato prima. “Vieni qui, ti devo dire una cosa importante, vieni.” A malincuore lei entrò, allora la baciai e gradatamente passando alle oscenità, le misi la mano nella vagina. “Fermatevi, non dovete, oh, no! Mrs. Jones si alzerà per vedere se tutto va bene.” “No, è uscita, oh, che cosce deliziose, che bei peli, non far rumore.” Mi resisteva energicamente e si tirava giù le vesti, dapprima parlando in tono basso poi ad alta voce: “No, non dovete, oh, disgraziato! No, non potete, oh, oh, lasciatemi, lo dirò a Mrs. Jones”. Desistetti per un momento ma solo per tirar fuori la verga. La ragazza piena di collera, aveva ripreso il secchio. Io con l’asta di fuori, mi lanciai su di lei che fece cadere il secchio, la spinsi verso il letto, ancora una volta le misi le dita nella vulva.”Ti voglio”. “Oh! No! Non mi avrete, chiamerò aiuto”. “Dirò che mi hai invitato tu”. “Bugiardo, mostro, no, non voglio, oh! Ih!” e strillò così forte che fui costretto a rinunciare. “Non resterò qui un minuto di più e dirò tutto a Mrs. Jones”. Imbestialita, uscì dalla stanza piangendo e scotendola testa. Scoppierà uno scandalo, pensai. In seguito le offrii due sterline: “Non dire niente, se parli, non farai altro che perdere la reputazione, non ti ho mica fatto del male”. In realtà ero un po’ preoccupato per la situazione. La ragazza prese il denaro senza fiatare, e mi respinse quando tentai di baciarla ancora; non riuscii più a prenderla. ******** Non ho riletto né corretto il precedente manoscritto. Le abbreviazioni possono danneggiare il racconto ma non si può fare altrimenti se deve essere pubblicato. Tuttavia sono stati cancellati solo pochi episodi nuovi, e le conversazioni con le mie donne sono, a parte qualche taglio, tali e quali come le scrissi originariamente. Come mi sembrano meravigliose ora quelle avventure di allora mentre leggo il manoscritto. Episodi ormai dimenticati mi tornano alla mente e quasi mi sembra di rivivere quegli anni giovani e felici. Magari potessi tornare a quel tempo! Non sono sicuro del periodo in uno o due casi. Non ricordo l’ordine esatto degli amori più fugaci. Forse potrei risolvere queste imprecisioni consultando libri polverosi ormai introvabili, ma non ne vale la pena. Non c’è nessuna avventura di grande importanza. Scrivo solo per diletto e se pubblicherò queste memorie, lo farò per mio gusto personale. Quindi lascio il manoscritto così com’è. Ora che lo leggo, noto che le mie avventure più piccanti sono sempre state quelle non cercate e quelle che mi sono capitate per caso. Nonostante siano state di breve durata, sono state anche le più voluttuose e mi sono sempre capitate mentre mi trovavo coinvolto in altre relazioni più stabili. Questa lettura accurata del manoscritto evidentemente mi fa tornare alla mente tutto quello che feci e pensai per oltre venti anni e mi rendo conto perfettamente che benché allora avessi provato tutti i piaceri sessuali possibili quasi per curiosità, le mie abitudini con le donne erano per la maggior parte semplici, non intellettuali e quasi banali. Non ricercavo pose lascive fuori del comune o piaceri complicati nel far l’amore o nei preliminari, cose che invece la mia immaginazione fervida, voluttuosa e poetica ha, in seguito, suggerito per il mio piacere. Questo desiderio di cambiare sembra che sia cominciato dopo aver conosciuto Camille. Ancora una volta domandai a Betsy una vergine. Scosse la testa, non sapeva dove la poteva trovare: le ragazze fanno l’amore ancora adolescenti. A ***, dove aveva vissuto, non c’era una ragazza sopra i 14 anni che fosse ancora vergine. Avevo già sentito storie simili da altre donne. “Ve ne posso procurare quante volete senza peli, ma di esperienza ne hanno quanto me”. Non accettai la sua offerta perché sapevo che le strade erano piene di prostitute e potevo benissimo trovarla da solo, senza il suo aiuto. “Una vergine, voglio una vergine senza peli, o niente!” Avrebbe cercato di trovarmene una, ma scosse la testa. Le sue ultime parole furono: “Se ha qualche peletto va bene lo stesso?” “Bè, fosse qualche peletto che si vede appena… Ma stai attenta, che prima di possederla, la guarderò con cura a cosce aperte. Niente vergine, niente soldi. Non voglio essere imbrogliato”. “D’accordo, caro, ma dovrete aspettare un po’ di tempo”. ******** La mattina seguente a colazione pensai: “Non rifarò mai più un’orgia simile”. Dopo pranzo invece: “Che male c’è, dopotutto”. ****** Una sera a Oxford Street osservando il battaglione delle puttane che camminava, incontrai una grossa donna che mi piacque. Mi sentivo in forma eppure non avevo intenzione di andare con una donna. Stavo semplicemente guardandole compiaciuto e triste come spesso mi fanno sentire quando sto in uno stato d’animo poco filosofico. “Buona sera” mi disse. “Buona sera mia cara.” “Non mi dite niente altro?” “No, buona notte” e mi voltai per attraversare la strada per… “Venite a casa con me.” “No”. “Oh, lo vorrei tanto”. C’era qualcosa di lamentoso nella sua voce e le sue maniere non erano quelle della sua categoria. Mi aveva camminato accanto per un po’ di tempo guardandomi senza parlare. C’era una gentilezza nei suoi modi che mi piaceva. “Vivete molto lontano?” “No, appena più avanti”. “Vi posso dare solamente…” “Va bene”. “Andate avanti che vi seguo”. Andò avanti così tanto che fermai. “Dov’è?” Lei disse il nome della strada. “Oh, ma è lontano, prendiamo una carrozza.” La prendemmo ed andammo a G. R***. “Toglietevi i vestiti!” La donna smise di toccarmi il membro che avevo tirato fuori e che carezzava, e cominciò a spogliarsi. Toglieva una sottana dietro l’altra eppure faceva caldo ed io stavo seduto a guardarla. Aveva le braccia molto magre e vidi un seno piccolissimo. “Continua” dissi io perché si era fermata. “Sono piuttosto magra, vi piacciono le magre?” “Non faccio obiezioni se sono carine”. Non era vero, ma lo dissi per non offenderla. Si tolse ancora degli indumenti fermandosi ogni tanto perché le dicessi basta. Ma la feci spogliare fino alla camicia. “Sono secca” disse lei ”ma a letto sono brava come ogni altra donna”. Sedette sul sofà accanto a me. Le tirai su la camicia, la toccai qua e là, non avevo mai visto una prostituta così magra. Aveva appena un po’ di petto e di sedere, le cosce erano la metà di quelle che dovevano essere, e sotto le ginocchia c’erano manici di scopa. Il membro mi si afflosciò e tutto il desiderio se ne andò; dopo averla toccata e aver chiacchierato un pochino, le dissi: “Basta così, mia cara, ora vado” e misi il denaro sopra la mensola. “Oh, non andatevene senza prendermi, vedrete che sono molto brava, avanti, non me la avete ancora vista”. E stendendosi sul divano mi mostrò la vulva, giovane e scura di peli; mi avvicinai e la guardai. Prima non avevo neanche desiderato vederla. Era una vulva pulita ma il mio membro non dette alcun segno di vitalità come avrebbe dovuto davanti a una vagina giovane. “Chiacchieriamo un po’” disse, e sedetti accanto a lei. Mi afferrò il fallo e le mie dita andarono sulla sua clitoride. Era una donna graziosa e pulita ma non provai alcuna sensazione. Continuammo a parlare, lei mi raccontava la sua storia, ogni tanto mi baciava, mi toccava sempre il sesso. Ero del tutto freddo con lei. “Non posso” le dissi “spesso vado a casa con le donne solo per vederle, toccarle e chiacchierare un po’” dissi per evitare di offenderla. “Non vi piaccio perché sono troppo magra?” ribatté. “Non troppo” ammisi. “Non mi piace farlo, ma lo desidero tanto, perché non l’ho fatto da una settimana”. Si buttò in ginocchio e con la bocca mi afferrò il membro. Non glielo avevo chiesto neanche lontanamente. La frizione delle labbra e della lingua fece effetto. Si indurì, mi venne il desiderio e lei si alzò con un sorriso trionfante. “Sono così felice!” Allora andammo sul letto e la sua vagina lo ricevette. Nell’amplesso sembrava come quella delle altre donne ma riprendendomi un attimo dal piacere, mi chiesi che cosa fosse ciò che le mie mani toccavano, mentre si muovevano sulle sue scheletriche natiche. Godé quasi immediatamente appena entrai in lei. “Oh, è meraviglioso!” disse “tenetelo dentro” aggiunse, e attorcigliando le sue gambe da ragno attorno alle mie, mi strinse a sé, me lo serrò bene nella vagina, scostandosi un poco e pregandomi di tenerlo sempre dentro, mise la mano destra fra i nostri ventri e si masturbò. Chiuse gli occhi. “Che verga deliziosa! Deliziosa!” continuava a ripetere a se stessa quasi per eccitarsi, finche godette di nuovo. Allora spalancò le gambe e rimase tranquilla. Parlammo per un po’, lei veniva dalla campagna, da una famiglia ricca, era stata sedotta, aveva avuto un figlio ed ora era morto. Scacciata dai parenti era diventata una prostituta. Il padrone di casa sapeva tutto di lei e se glielo avessi chiesto, me lo avrebbe detto, ma non il suo vero nome, né dove stava la sua casa. Mi raccontò spontaneamente tutto questo, e allora la montai di nuovo, perché sembrava che ne godesse veramente. Dopo che mi ebbe fatto orinare, lavare e avermi succhiato fino a farlo irrigidire, disse: ”Credo che non vorrete più vedermi, è vero?” “Raramente incontro donne sconosciute” risposi. “Mi incontro sempre con una signora che ha tutto quello che voglio”. “Ditemi com’è”. La descrissi mentendo eloquentemente. ”Non vi piacciono le donne magre, agli uomini non piacciono. Vado avanti a stento, spendo quasi tutto quello che guadagno per pagare l’affitto e la lavanderia. Posso comprare appena qualcosa da mangiare, mi affogherò. Penso di farlo, la sera”. “Sciocchezze, andate a casa”. “Mai! Non mi farò mai più vedere là, i vecchi ne morirebbero; se non andrà presto meglio, mi annegherò. Quando torno a casa talvolta vado a vedere il canale”. Raddoppiai il suo compenso provando pietà, e la lasciai seduta sul sofà a piangere amaramente. Non aveva bevuto, era vera disperazione, ne sono certo. ******** Feci delle domande alla ragazza e mi rispose che era la sorella, aveva 21 anni e sua sorella invece 26. Aveva nei lineamenti una certa somiglianza. “Hai la vulva come tua sorella?” “Non lo so.” “Fammela vedere, togliti la camicia”. Se la tolse e si stese sul letto senza dire una parola. Vidi quel potente quasi onnipotente fascino della donna, quel solco rosso centrale bordato di peli, quella profumata separazione del ventre, quell’orifizio che sottomette il maschio, sia esso straccione o imperatore. Nel frattempo la più piccola stava nuda vicino al fuoco e improvvisamente mandò un peto breve e rumoroso. “Maria, bestia!” disse la sorella voltandosi a guardarla. Mentre lei parlava quella mandò un altro peto altrettanto sonoro. “Sporca bestia, che fai?” “Meglio fuori che dentro, lo facciamo tutti!” disse ridendo. “Vattene in salotto!” Ci andò subito. Ero disgustato, odio sentire queste cose, ma tornai dalla mia compagna, la montai, e ben presto godemmo tutti e due con grande piacere. Mi vestii e detti alla maggiore più di quanto le avevo promesso. “Datemi quanto avete dato a lei” disse la sorella minore. “Ma non ti ho montato, ed è quanto ti avevo promesso”. “Montatemi, se volete”. E si stese sul letto spalancando le cosce, mostrando la sua piccola fessura in modo invitante. “Sei solo un demonietto che fa peti”. “Sì, proprio”, annuì la sorella. ******** La ragazza era molto carina e aveva forse 14 anni, ma non l’avevo proprio notata. Volevo comprare la scatola per fare un regalo e pensai solo a questo. Per l’ora in cui le dissi di venire mi trovavo solo in albergo, ma non me lo aspettavo, infatti quando presi appuntamento con lei sapevo che non mi sarei certo trovato solo. “Una ragazza che ha portato una scatola di conchiglie per voi, signore” disse il cameriere. Entrò, vidi che la scatola era solida, pagai e mi accorsi che la portatrice era molto bella. Le dissi: “Ti darò sei soldi di mancia se mi dai un bacetto”. “Va bene, signore” e diventò rossa. Si avvicinò, la feci sedere sulle mie ginocchia, la baciai e la ribaciai e il desiderio mi sconvolse. Le bisbigliai: ”Uno scellino se ti fai toccare le natiche e la cosetta”. “Va bene”, e prima che avesse finito di dirlo le mie dita stavano sul suo sesso quasi completamente glabro. La toccai sul ventre, sull’ombelico e poi infilai un dito un po’ dentro la vagina; lei mi facilitò l’operazione anche se disse: “No, non fate così, signore”. Agitato dal desiderio per quella piccola vulva (mi sembrava meravigliosa): “Toccami il membro” le dissi tirandolo un po’ fuori dai pantaloni e dimenticando il terribile rischio che correvo perché la porta della mia stanza poteva essere aperta in qualsiasi momento. Lo afferrò dicendo: “Datemi altri sei soldi!” “Te li darò, carina, ti darò mezza corona per montarti”. “Sì, signore, ma qui non posso, lo farete stasera a ***, stasera vicino alla spiaggia, se volete”. Era una piccola puttana. ***** H*** aveva una servetta, una ragazzina spettinata, ma non brutta, un po’ bassa per la sua età. Aveva i capelli di un castano chiaro ed una espressione ardente negli occhi. All’inizio non l’avevo notata, talmente era sciatta, sporca e spettinata, questa specie di animaletto; impudente e disobbediente, rideva di qualunque cosa le si dicesse come fosse una barzelletta. H*** aveva grandi difficoltà per tenerla pulita, le faceva il bagno lei stessa e doveva prenderla a schiaffi perché se lo lasciasse fare. “Non ha neanche un pelo sul sesso, ma è ugualmente un diavoletto in calore e spesso va al gabinetto a masturbarsi, lo so”, diceva H***. “Ne ha tutto l’aspetto, quando ne esce”. Avevo visto la ragazzina 2 o 3 volte e mi venne il desiderio di titillarle la piccola natura. Lo dissi ad H*** e mi rispose che potevo farlo. La volta successiva bacia la bambina, le diedi uno scellino, un pizzicotto, e palpandola tra le gambe le chiesi se aveva della peluria lì. Lei sghignazzò ma non rispose. “Perché non dici di no, piccola scema?” disse H*** che era lì. “Non lo dico” disse la ragazzina scoppiando a ridere. Allora presi a parlarle in modo osceno e finii per tastarle i l didietro e la pancia mettendole un dito nella piccola nicchia. In quel posto era senza peli e liscia come l’avorio, con un odore caldo e umido. E’ meraviglioso per me l’odore di una vulva e mi sono sempre portato le dita al naso dopo averne toccato una. Ho penetrato, tastato, visto le vulve di una bimba in culla o quelle di donne di ogni età, tra i 6 e i 50 anni. Ne ho visto di ogni forma e grandezza, colorate di rosa, di rosso lampone. Ne ho visto senza peli e con peli corti e duri. Alcune avevano boschetti di peluria lunghi sei pollici dall’ombelico all’osso sacro. Forse crederete che a questo punto ogni mia curiosità sia stata appagata e che io abbia perso ogni interesse a questo attributo femminile. Eppure la vista di queste cose mi rallegra oggi come non mai. Amo vedere la vulva di una donna anche se dal punto di vista artistico non aggiunge gran che alla bellezza del bacino. Anche una vulva brutta ha sempre un suo fascino che mi fa desiderare la contemplazione. ******** La ragazza mi lasciava fare; ero immemore del dolore alle tempie, non mi dispiaceva di rischiare la morte, pur di poter penetrare nuovamente quel corpo bellissimo e raggiungere l’orgasmo in quel grembo prezioso. Gli occhi della ragazza quando è in calore hanno un’espressione rapita che elude ogni descrizione. Mi attrae irresistibilmente. E’ l’immagine stessa del desiderio, pure non è volgare, anzi è al tempo stesso dolce e innocente e mi ricorda l’espressione di una vergine innamorata che cerca ingenuamente l’aiuto dell’uomo, senza sapere precisamente che cosa vuole, che cosa farà lui, e che non c’è vergogna né danno nel procurarsi quel bene a lei sconosciuto. Anche la voce della mia amica è melodiosa, rauca, dolce. Mi accorsi che era in preda a una frenesia irresistibile. ******** “C’è una ragazza nuova e ha due vagine”, mi annunciò Alexandrine, una sera. “Impossibile” feci io meravigliato. “Ma è vero, viene da Marsiglia, si è fermata al F*** e ora è qui”. Feci venire Kate e le feci qualche domanda. “E’ tutto vero. La ragazza ora frequenta la società”, confermò. Mi affrettai a farla sdraiare. La ragazza aveva saputo del mio desiderio e aprì le gambe. Era coperta di sperma denso e sembrava una vulva normale. Pensai che il fatto delle due vagine fosse uno scherzo. Ma Katie mi venne in aiuto e le aprì le piccole labbra. Nel fondo della vulva si poteva vedere una membrana (come un diaframma) che sembrava un terzo labbro e si estendeva dalla clitoride fino al fondo della fessura. Ma le altre due labbra erano al loro posto. Inserii un dito. Da quanto mi disse in quella occasione capii che non si era accorta dello strano fenomeno fino allo sviluppo. Le due vagine avevano due cicli mestruali diversi che non coincidevano mai. Ciascun periodo durava circa tre giorni. Aveva anche due piccoli, ma ben distinti canali urinari e lei ne vuotava prima uno e poi l’altro. Non erano al solito posto proprio sopra la vagina ma un po’ più in su, e il diaframma li copriva quasi. Disse di provare diletto nell’amore, ma non poteva dirmi se una vagina fosse più sensibile dell’altra. Dalla sua descrizione mi sembrò di capire che nel fare all’amore provava un vago e diffuso senso di piacere. Era rimasta incinta dal lato destro e dopo 4 mesi i dottori le avevano consigliato l’aborto, dicendo che un parto l’avrebbe uccisa quasi sicuramente. La membrana centrale nell’unirsi alla clitoride sporgeva formando quasi una seconda clitoride; era appaiata dai forellini dei canali urinari. ******** Pochi giorni dopo ci accorgemmo che il sedere di R*** era livido. Ci spiegò che si era procurata quella ecchimosi durante l’ultima flagellazione. Così venimmo a sapere ( e prima o poi questo era inevitabile) che la badessa era una esperta di frustate e ne riempiva i vecchi e i giovani che si sottoponevano alle sue cure esperte. Messa alle strette, la badessa confessò volentieri, anzi ci mostrò con orgoglio il suo apparato per solleticare o far sanguinare il sedere dell’uomo e anche quello della donna. Spesso lei aveva funzioni direttive mentre i clienti frustavano le ragazze. Per lo più questi preferivano natiche larghe e panciute come quelle di R***. Alcuni portavano con sé una compagna per gli esercizi con la verga e per l’amore, tutti pagavano profumatamente per la gioia di far sanguinare un bel paio di natiche. La volta seguente la flagellazione ebbe luogo. H*** entrò nella stanza indossando solo una camicetta ed io mi presentai con il volto mascherato. C’era un uomo inginocchiato e chino su una grossa sedia. Sotto di lui era steso un asciugamano per raccogliere lo sperma. Era vestito da donna e si era sollevato le vesti fino alla vita mostrando le natiche e le cosce nude. Calzava stivali da uomo. Sulla testa aveva un berretto ben calzato per nascondere le basette e una maschera sugli occhi e sul naso. Dietro di lui era in piedi una ragazzetta vestita da ballerina con un corto tutù. Aveva in mano un bastone. I seni erano nudi e le ascelle pelose. Un’altra ragazza bella ma un po’ magra partecipava alla cerimonia. Era tutta nuda (salvo i piedi) e mentre i capelli erano decolorati, le ascelle e il monte di Venere erano coperti di pelo scuro. ******** Il sedere dell’uomo era diventato molto rosso e la frusta si abbatteva sempre. “Lasciate che la lecchi” chiese indicando H***, ma questa rifiutò. “Le darò 5 sterline”. H*** esitava, ma poi, a corto di denaro come sempre, acconsentì. Inoltre era eccitatissima. “Mi farà godere”, mi sussurrò nel salire sul letto e disse forte: “Mi raccomando che siano 5 sterline!” “Pagherà certamente, è un gentiluomo” l’assicurò la badessa. ******** Ero senza ombrello e cercai riparo nella capanna. Vidi subito un ragazzo di 16 anni tutto bianco come un fornaio che seduto contro una pila di stracci si stava masturbando. Ero impietrito dalla meraviglia. Appena si accorse del mio sguardo cominciò a riabbottonarsi. I miei desideri si riaccesero in un batter d’occhio. E’ un fatto singolare ma immancabilmente mi si drizza il pene a vederne uno altrui. Senza pensare alle conseguenze gli dissi: “Continua e ti darò 5 scellini”. “Cosa avete detto signore?” arrischiò timidamente alzandosi in piedi. “Non essere sciocco. Ti pagherò” e gli mostrai due monete d’argento. Le guardò avidamente. Io pazzo di desiderio continuai a parlare, incoraggiandolo, pregandolo di masturbarsi. Il denaro era per lui una forte tentazione. Rispondeva a monosillabi: “Sì”. “No”. “Cosa fate qui? Conoscete il padrone del mulino?” Poi dopo essersi assicurato che ero un estraneo mi chiese di pagare in anticipo. “No, prima devo vederti”. “Non lo direte in giro, nevvero?” “No”. “Assicuratevi che non venga nessuno. E mi pagherete dopo?” Non c’era pericolo che qualcuno ci sorprendesse perché stava piovendo a torrenti e il cielo lampeggiava. Comunque guardai fuori. Mentre gli volgevo le spalle estrasse il membro e cominciò a massaggiarsi. Mi venne il desiderio di prenderlo in mano. “Suvvia, lascia fare a me e ti darò mezza corona”. “Prendilo”. Lo presi. Temevo che mi imbrogliasse ma sbagliavo. Mi lasciò afferrare e massaggiare il suo pene. Nel frattempo discutevamo di fiche, sì, ne aveva avute due o tre ma erano una merce rara. Poi: “Oh, oh, sto per venire”, e un getto molto forte sprizzò fuori. Io continuavo a massaggiare a lungo meravigliandomi delle sue giovani forze. ********* Spinsi la donna contro il letto e mossi un deciso attacco alle sue parti segrete. Era stata così pronta a ricambiare le mie parole salaci che mi ero convinto di poterla prendere facilmente. Ma appena sentì la mia mano cominciò a respingermi e ricomponendosi le vesti ridendo mi disse: “Non mi avrai, è uno scherzo, sono sposata”: “E dov’è la tua fede?” “Al Monte di Pietà”. “Sono deciso ad averti”. “Non mi avrai”, e lottò con tutta la convinzione che avevo trovato in tutte le cameriere virtuose da me assalite. Ero così indispettito ed arrabbiato che la lasciai bruscamente e le dissi: “Non è vero che sei sposata, hai la biancheria sporca, ecco perché non ti lasci toccare”. Non dicevo sul serio, ma volevo provocarla, offenderla e l’idea mi venne improvvisamente. Ne ho dette tante di battute simili all’occasione. “Sporca, io sporca? Sono più pulita di te, scommetto. Sporca! Consumo la biancheria con il sapone pur di non portarla sporca. Che sfacciato. Fammi vedere la tua camicia. Guarda qui”. E nel dire ciò si sollevò le gonne fino alle giarrettiere e le vidi le calze e mutandoni bianchi come la neve. “La tua fica è sporca allora”. “Bugia, non lo è”. “Infiliamoci questo”, ed estrassi il membro. “No”. Ma guardava con interesse il mio magnifico arnese. Rideva, sempre più eccitata. La strinsi nuovamente, con poche difficoltà le misi le dita nella fessura e cominciai a massaggiare. “No, no, stai buono”. ******** Sensazioni di voluttà stavano vincendo la mia battaglia. Le frange di miss D* erano morbide ma non era molto ricciuta. Verso la metà della vulva i peli si facevano quasi dritti e molto lunghi e continuavano così fino in fondo. Quando si accucciava per orinare la sua vulva sembrava la chioma di una scopa. Le dissi che questo era un grave difetto. H* era d’accordo con me, miss D* disse che anche a lei non piaceva; ammirando invece la peluria corta e aggraziata di H* mi venne l’idea di tagliare le frange di D*. A mio gusto almeno questa operazione l’avrebbe abbellita. Finii con l’acconciare artisticamente con le forbici la peluria di D*. La volta dopo venne da noi raggiante. Le frange tagliate da me si erano addirittura arricciate e si esaminò con entusiasmo con uno specchietto. La bellezza della sua vulva era stata davvero accresciuta dalla mia prestazione. Questo si notava specialmente quando la ragazza si inginocchiava sul letto e si lasciava ammirare da dietro. L’AMORE ACERBO L’amore non ha età. Può nascere perfino sui banchi di scuola. Luigi BARTOLINI Cupromonte (Ancona) 1892 Roma 1963 Scrittore, pittore, poeta, acquafortista, critico. Scrisse romanzi, racconti, saggi, poesie. Da Luigi Bartolini RACCONTI SCABROSI Ho anche da dire che un tale amore infantile, tra bambino e bambina, ormai lo considero avvolto da un alone di misteriosa grazia. Noi bambini (oh Quirina) non sapevamo cosa volesse dire interesse, all’infuori di quello di baciarci; principio e fine del nostro volerci bene. La fanciullina era una bella mocciosetta, nera di capelli. Rammento del suo bustino di seta celeste, cucito a mano, con fiocchettini rossi e con tirelle alle quali si allacciavano, con due cappi, le calze. Quirina era la mia compagna dell’asilo infantile. Asilo infantile che era già stato convento di monache clarisse e che giaceva in un angolo del paese, il più solitario, vicino a un ex convento di frati e a una chiesa. Le bambine erano belle e con esse desideravo familiarizzare al più presto; i bambini non li guardavo nemmeno. Quando, nella fontana della melma, mancava l’acqua, un bambino, un certo Francesco (morto poi giovane a Milano) eludeva la sorveglianza delle custodi e vi orinava, mentre le bambine si voltavano dall’altra parte per non guardare Francesco o per fingere di non guardare. Ma Francesco che era il figlio di un cavallerizzo, lo faceva apposta. Francesco era il più bravo con le bambine. Slacciava loro le mutande e ne discioglieva i nodi mettendosi in ginocchio; li discioglieva sorridendo, senza romperne uno. Francesco faceva all’amore con una bambina. **** Quando nell’ora della ricreazione in cortile, domandavo a Francesco se avesse parlato, per noi, alla sua bambina, il cuore ci sussultava. Un giorno egli disse di sì e che dopo la ricreazione ci fossimo ritrovati insieme nella sala dei camiciotti, dove le bambine sarebbero state ad attenderci. E fu così che a me toccò, per desiderata scelta, la Quirina del fornaio. La prima volta, che stavamo uno di fronte all’altra, non ebbi neppure il coraggio di guardarla. Ci toccammo la mano come i due piccoli cavaliere d’una favola. Nei giorni seguenti, alla stessa ora di ricreazione sgattaiolavamo dal cortile per venire a ritrovarci, tre bambini e tre bambine, nella sala dei camiciotti, per accarezzarci e baciare. Nella sala dei camiciotti entravamo, e ne uscivamo, tremando più d’amore che di paura. Io toccavo la fanciullona al naso, alla fronte, alle gote. L’abbracciavo. E sapevo (ma chi me lo aveva detto?) che Quirina avrebbe detto di no, se l’avessi baciata a lungo. Ci baciammo una volta sola: fu un bacio di sfuggita, rapido come un barlume di cielo al crepuscolo; un bacio dello stesso sapore di quello che avevamo già dato ai nonni e alle immagini di carta dei Santi. Più tardi mi prese il desiderio (un ardore di fuoco, una smania, quasi un dolore, che tanto mi recava d’orgasmo) di sapere, di vedere, come Quirina fosse fatta; e intanto a casa o nelle botteghe, guardavo le bambole che erano fatte di crine e di tarlatana dalle gambe in su. Le sfilacciature delle cuciture lasciavano vedere i trucioli che erano dentro. Ma le gambe erano di pasta di gesso e pesavano troppo. Invitai Quirina a calarsi le brachette e disse di No. Soltanto che avessi, stando a occhi chiusi, posta una mano sotto le sue vesticciole. E fu Francesco che mi indicò che bisognava provare con le moine, e portare in dono delle chicche, per ottenere che la bambina si lasciasse vedere. Egli, disse, otteneva quel che desiderava usando sia le moine che le chicche. Io dissi allora a Quirina: ti do mezza caramella se tu ti lasci toccare sopra le vesti. Quirina a testa bassa non rispose, ma si scansava se andavo a toccarla. Silenziosa, prendeva la chicca ed io l’abbracciavo e pregavo che mi abbracciasse. ***** Si era fatta alta, vestiva di rosa, era scarmigliata, aveva la riga al collo, e il cerume alle orecchie, portava due buccole grandi, il ciuffettino se lo legava con un laccio da scarpe, e a me sembrava più bella di una bambola dell’Epifania. O rimanevamo, in altre ore, immobili appoggiati uno al collo dell’altra. Io non provavo più quel confuso, quel torbido desiderio di vedere come l’adolescente fosse fatta. Le volevo il bene dell’anima, ormai. Il desiderio non era più nella sfera della vagolante alba dei sensi: aureola che poi da rossa nel nero si rischiara, si colora d’un tenue e chiaro e finalmente innalza gli occhi al cielo celeste. Avevo, un giorno veduto una donna, che si trovava in una deserta fonte di campagna, avevo veduto come era fatta nuda e ciò aveva appagato i miei ignari occhi. Da Luigi Bartolini PASSEGGIATA CON LA RAGAZZA Bartolini è attratto moltissimo dalle donne e racconta le sue avventure amorose capitate nei suoi vagabondaggi, gli incontri segreti in posti folkloristici, nella campagna meravigliosa di primavera e d’estate. Vado, di domenica, tranquillamente a spasso per i campi, a cercare le ombre tenere, insieme con la ragazza. Per il viottolo, ecco assaltarci, come improvviso brigante, il desiderio della carne. Leggere trafitture alle vertebre dorsali. Vedo la figura del peccato: alzare la vesticciola di Sara e scoprirle le gambe. ******* Inoltre, quando una donna si è decisa a prendere marito non fa che le considerazioni pratiche: bada, passando oltre a qualche capello bianco nei neri e a qualche dente cariato, bada allo stipendio dello sposo; a quanto il maschio ha di gruzzolo e di possibilità pratiche per un avvenire di lusso. *********** La ragazza non è più quella di quando veniva a farsi dipingere. Nel suo ventre matura il figlio del beccaio. Si è fatta robusta, grassa, minchiona. Porta un dente d’oro. Il grasso le ballonzola ai fianchi quando cammina. Le braccia le ha ora come salsicce fresche. Da Luigi Bartolini IL MOLINO DELLA CARNE Con stile confidenziale l’autore descrive le meraviglie della campagna, la sua filosofia di poeta, gli incontri con belle donne e ragazze. Starei tutto il giorno insieme con lei, per le rive dei fiumi? A parte che ci sono i guardaboschi, non sono lunghe 24 ore di compagnia su 24, con un essere, sia pure perfetto, ma di sesso diverso? Il sesso ha i suoi bisogni; ma lo spirito ha i suoi altri di riposo, di osservazione, riflessione, meditazione, difesa. Quindi è che codesta specie di ninfa, per essere a me completamente grata, dovrebbe apparire e poter sparire dalla mia presenza, più leggera di una nuvola che acquista, e si disfà, di forma umana. Dovrebbe essere come in un gioco di prestigio; io batto le mani e la ninfa appare; e le ribatto quando la ninfa debba fuggire via. Juan Manuel DE PRADA CONOS 1970 vivente a Salamanca. Da CONOS (fiche) Sappiamo benissimo che è contrario alle norme della buona educazione e della correttezza etica: ma che tentazione, guardare le bambine che fanno pipì dietro un muretto! Una canzone intramontabile ri¬suona in quel getto giallo che sgorga da loro come un filo di canapa, come uno stame d'oro in perpetuo colloquio con la terra. La fica delle bambine è piccolina, vispa, troppo rosea per albergar peccato, una fica liscia che per un momento ci riporta al paradiso dell'in¬fanzia. La fica glabra delle bambine che pisciano dietro i muretti in solidale celebrazione (pisciano quasi sempre in gruppo) è un monumento gaudioso alla loro innocenza e malizia; perché le bambine che ci mo¬strano la passerina gettando sotto al muretto le mo¬netine spicciole della loro pipì, sono al tempo stesso innocenti e maliziose: sanno benissimo infatti di po¬terla mostrare impunemente, senza pericolo, perché tutti i tabù dell'etica e della religione impediscono a chiunque di avvicinarsi alla loro feritoia rosa, fosse an¬che solo per tergerla con i fili d'erba che crescono ac¬canto al muretto. La fica delle bambine, sfacciata e pi¬sciona, ci inonda a distanza di anni col sapore primiti¬vo della loro pipì, col grato tepore delle ultime gocce che ancora ne cadono quando si tirano su le mutande e si allontano in rumoroso conciliabolo, sussurrando fra loro: “Avete visto quel signore, come ci spiava la passerina?” ******* Entriamo in un negozio di giocattoli per sollevare la gonna alle bambole e scoprire se hanno, sotto le mutande, una piccola fica che riproduca in scala quella delle donne. Il commesso del negozio di giocattoli, un ragazzo dall'acne strepitosa, ci mostra una Barbie con motocicletta e giubba di cuoio che sembra la put¬tanella di un telefilm americano, una di quelle che va¬gano per Falcon Crest al seguito di Angela Channing. Le togliamo i pantaloni e scopriamo le sue gambe di gomma allungate dall'aerobica, le cosce prive di cel¬lulite (che si sia fatta fare la liposuzione, la Barbie?) e la fica senza fessura né orifizio, come murata. “Dica un po', ma la fica dove ce l'ha, la Barbie?” chiedo al commesso. “Perquisitemi pure” dice lui con una voce da car¬dellino spaventato, “le mandano così dalla fabbrica. Sembra che non convenga produrre bambole troppo naturalistiche”. Alfonso GATTO Salerno 1908 Capalbio Grosseto 1976 LA SPOSA BAMBINA Da: LA SPOSA BAMBINA Strada da innamorati, ora lo sapevamo, dove la sera lunga non lasciava mai tramontare la luce. Come una languida vergogna, l’amore in queste ore lunghe di scuola ci faceva tremare alla vista delle compagne alleggerite nel respiro e ridenti di freno, acerbe in tutto il corpo. Lietta partiva, se ne andava dietro l’ultimo odore della primavera che aveva spalancato tutte le porte e le finestre del liceo, tornava alla sua terra che allora ci parve così lontana e felice. Quella sera ci ritrovammo tutti di nuovo innamorati di Lietta che passava per l’ultima volta davanti al golfo. Eppure Lietta non era più che un ricordo nelle lunghe giornate di primavera che intiepidivano il liceo. La dimenticavamo in segreto come la stessa immagine dell’amore, come la prima tristezza, chiusa, seria, della nostra vita. Dino BUZZATI Belluno 1906 Milano 1972 Buzzati scrisse molte opere di genere misterioso, fantastico e una sola opera erotica: UN AMORE. Un capolavoro. Un amore disperato, tormentoso, dolorosamente ossessivo. E’ il racconto di una esperienza amorosa, erotica, psicologica. Una storia bellissima che stimo autentica fin nei dettagli. Da Dino Buzzati UN AMORE Che cosa meravigliosa la prostituzione, pensava Dorigo. Crudele spietata, quante ne restavano distrutte. Però che meravigliosa. Si stentava a credere che possibilità del genere potessero esistere nel mondo d’oggi, così regolamentato e squallido. Il sogno realizzato, a un colpo di bacchetta magica, per ventimila lire. Per ventimila lire, anche per meno spesso, avere subito, senza la minima difficoltà e pericolo, delle figliole stupende che nella vita solita, fuori del gioco, sarebbero costate una quantità di tempo, di fatiche, di soldi e poi magari al momento buono capaci di bruciare il paglione. Mentre qui! Una telefonata. Un breve percorso in macchina, sei piani di ascensore, ed ecco già la ninfetta stava togliendosi il reggipetto, sorridendo. ******** Ecco, lui, Dorigo, era seduto sul divano, aveva acceso una sigaretta e intimidito come al solito per la presenza nuova, osservava la ragazzina che stava per essergli venduta. Fra pochi minuti quella creatura fresca e graziosa, di cui aveva sempre ignorato l’esistenza, che aveva dietro di sé una famiglia, un’infanzia, una giovinezza, un mondo intero popolato di una infinità di personaggi, fatto di un tessuto complicatissimo di ricordi, di abitudini, di conoscenze, di speranze, di particolarità fisiche, di giorni lieti e di ore tristi, a lui completamente ignoti, quella creatura tanto più giovane di lui, fra pochi minuti egli la avrebbe avuta nuda fra le sue braccia, distesa sul letto, e anche lui nudo. E tutto sarebbe stato come se loro due fossero marito e moglie, o si fossero prima lungamente amati, frequentati, o per lo meno ci fosse stata una preparazione logica di conoscenza, di inviti, di promesse, di lusinghe, di inganni, forse. E invece non si erano mai visti, lui non sapeva niente di lei e viceversa, eppure fra pochi minuti lei avrebbe accolto in sé la sua carne. Erano forse il momento migliore quei cinque minuti d’attesa in letto, mentre la ragazza, di là, preparava convenientemente il suo corpo. L’immaginazione, con la certezza di un prossimo incontrastato godimento, sviluppava le più eccitanti e lussuriose ipotesi che naturalmente sarebbero state poi deluse per almeno l’ottanta per cento. ********** Per di più in letto la Laida perdeva quell’aplomb disdegnoso a cui teneva tanto quando per esempio camminava per la strada; nuda risultava più bambina soprattutto per la piccolezza delle tettine e per il bacino molto stretto, e lei stessa probabilmente se ne rende conto e ne gode e allora finalmente si sente lei la padrona della situazione e vittoriosa, fingerà di non accorgersi che nella lotta le si è sciolto il chignon e i capelli neri si spanderanno intorno come l’inchiostro da un bottiglione infranto e allora si abbandonerà con lui, sorridendo, a vanitose confidenze così candide da renderla ancora una bambina. “Sai che cosa ho io?” gli dirà ”Che sono ancora una bambina ma sono terribilmente femmina”. ******** Ora si accorge che, per quanto egli cerchi ribellarsi, il pensiero di lei lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata, ogni cosa persona situazione lettura ricordo lo riconduce fulmineamente a lei attraverso tortuosi e maligni riferimenti. Una specie di arsura interna in corrispondenza della bocca dello stomaco, su su verso lo sterno, una tensione im¬mobile e dolorosa di tutto l'essere, come quando da un momento all'altro può accadere una cosa spaventosa e si resta inarcati allo spasimo, l'angoscia, l'ansia, l'umiliazione, il disperato bisogno, la debolezza, il desiderio, la malattia mescolati tutti insieme a formare un blocco, un patimento totale e compatto. E capire che la faccenda è ridicola, stolta e rovinosa, che è la classica trappola in cui cadono i cafoni di provincia, che chiunque gli avrebbe dato dell'imbecille e che perciò da nessuno può attendersi consolazione, aiuto, o pietà; consolazione e aiuto possono venire unicamente da lei, ma lei di lui se ne frega, non per cattiveria o gusto di far soffrire solo che per lei egli non è che un cliente qualsiasi, del resto cosa ne sa Laide che Antonio è innamorato? Non le può passare neppure per la mente, un uomo di ambiente così diverso, un uomo di quasi cinquant'anni. E gli altri? la mamma, gli amici? Guai se sapessero. Eppure anche a cinquant'anni si può essere bambini, esattamente deboli smarriti e spaventati come il bambino che si è perso nel buio della selva. L'inquietudine, la sete, la paura, lo sbigottimento, la gelosia, l'impazienza, la disperazione. L'amore! ******** Le donne, anche le meno scaltre, hanno una sensibilità tremenda per avvertire ciò che avviene nell’uomo in certi casi; il misterioso scatto per cui l’uomo si accende e brucia e può darsi che l’uomo sul momento non se ne accorga neanche e non sospetti, ma lei sì e in quel momento sale invincibile sul trono, incominciando il delizioso gioco di farlo impazzire. ********* Un segreto molto semplice: l’amore. Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, le città, i palazzi, le pietre, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più la neve, di più, la notte, le stelle, il vento, tutte queste cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore. E il fatto universale della poesia? Come mai tanti paesaggi, selve, giardini, spiagge, fiumi, alberi, crepuscoli nei versi della donna amata? Perché nella natura, i poeti, più ancora degli altri riconoscono il riferimento fatale. Le torri antiche, le nuvole, le cateratte, le enigmatiche tombe, il singhiozzo della risacca sullo scoglio, il piegarsi dei rami alla tempesta, la solitudine dei greti nel pomeriggio, tutto è un’indicazione precisa a lei, la donna nostra, che ci incenerirà. ********** La sensazione insomma di essere in balia di una forza selvaggia infinitamente più forte di lui per cui egli tornava bambino fragile e indifeso. Ebbene la medesima sensazione gliela faceva provare 1'avven¬tura con Laide solo che stavolta non era un gigante invisibile scaturito dalla montagna, questa volta era una ragazzina di carne che trascinandoselo dietro lo faceva sbattere di qua e di là contro i muri e lei correva con la ansiosa frenesia dei vent'anni e magari non se ne accorgeva neanche non si curava se l'uomo aggrappato alla coda dei suoi lunghi capelli neri si lordasse tutto quanto strascicando il muso a bocca spalancata per l'affanno sui sassi sulla polvere o nella merda, era forse colpa sua se lui si teneva aggrappato con tanto accani¬mento? ************ La vita in persona ha portato il grande pacco dei suoi doni e non resta che da tagliare gli spaghi colorati e aprire l'involto per sapere. Certo per una bambina così graziosa e innocente devono essere dei regali stupendi, chissà, una giovinezza spensierata, eleganze divertimenti e amori, la celebrità forse, la ricchezza e una casa tra il verde piena di sole, un marito bello bravo e innamorato, una serie interminabile di felici stagioni, giú giú, fino all'orizzonte lontanissimo, invisibile da tanto lontano. I doni della vita. Eccoli, i doni della vita, nella camera da letto al terzo piano di via Scchiasseri, quei banali mobili, quall'affannamento del giorno per giorno in cerca di chissà cosa, quelle lettere mi¬serabili, quelle boccette di creme e profumi, quegli abiti e scarpe nell'armadio, quei ricordi di cento uomini sconosciuti, quello sbandato dibattersi, quelle corse in taxi da un capo all'altro di Milano, quelle telefonate quei trucchi bugie ap¬puntamenti spogliarsi rivestirsi spogliarsi, quella breve giovi¬nezza che tra poco tempo sfiorirà, quella discesa inavvertibile di gradino in gradino, quel non accorgersi di essere sola. ********* Dopo tanto tempo ah. La tregua. Anche se è sconfitto. Per la seconda e ultima volta sconfitto. Ma anche l'esercito sbaragliato respira quando è finita la battaglia. Silenzio, il cuo¬re non rimbomba piú, solo sfilacciamenti di fumo qua e là. La guarda. Si domanda: potrebbe ancora farmi impazzire? Gli sembra di no. Se per due tre giorni non si facesse più trovare impazzirei? Gli sembra di no. Se sapessi che è stata a letto con un altro, impazzirei? Gli sembra di no. Ahimè, guarito. E non c'è piú l'inferno. Lei è qui accanto addormentata. Ma allora dovrei essere felice. Sono felice? No. Stanchezza, vuoto, malinconia, una di quelle malinconie gigantesche che lo prendevano da ragazzo in sul far della sera; solo che allora nella malinconia era nascosto il pensiero del tempo che verrà, anni innumerevoli che si perdono lontano, mentre adesso non c’è pensiero degli anni che verranno, adesso già la porta si può intravedere laggiù in fondo, altro che futuro, la porta chiusa che si aprirà nel buio. Sì, sì, lo sapeva, la grande maggioranza dei suoi coetanei era ormai al di là, non ci pensava più e se continuava a fare l’amore non ne faceva un problema. Mentre lui non l’aveva mai preso troppo sul serio, come uno che passa dinanzi a una meravigliosa vetrina senza badarci e solo quando è già lontano capisce quante belle cose c’erano e torna indietro di corsa, ma quando arriva spengono le luci e tirano giù le saracinesche. Sì, l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola, proprio lui che ne aveva sempre avuto l’ossessione nel sangue. Tanta era la forza dell’amore. Vladimir NABOKOV LOLITA Pietroburgo 1899 Montreux (Svizzera) 1977 Da Vladimir Nabokov LOLITA Di colpo fummo innamorati l’uno dell’altro, follemente, goffamente, spudoratamente, dolorosamente. ******** Nell’oscurità, attraverso il ricamo dei teneri alberi, scorgevamo gli arabeschi delle finestre illuminate che, toccate dagli inchiostri colorati d’una memoria sensitiva, mi appaiono ora simili a carte da gioco… presumibilmente perché una partita di bridge stava tenendo impegnato il nemico. Annabelle tremava e si contorceva mentre io le baciavo, agli angoli della bocca, le labbra dischiuse e il lobo dell’orecchio. Un grappolo di stelle baluginava pallido su di noi, tra i profili delle esili, lunghe foglie; quel cielo vibrante sembrava nudo quanto lo era lei sotto il vestitino leggero. Vedevo il suo viso contro il cielo, stranamente chiaro, come se avesse emesso una sua debole luminosità. Ella teneva le gambe, le adorabili, vive gambe, non troppo unite, e quando la mia mano trovò quel che cercava, una espressione misteriosa e sognante, una via di mezzo tra il piacere e la sofferenza, affiorò su quelle fattezze infantili. ********* Trovai un posto... come insegnante di inglese in un corso per adulti, ad Auteuil. Poi fui assunto da un collegio ma¬schile per un paio di inverni. Di quando in quando appro¬fittavo delle conoscenze che avevo fatto tra i lavoratori so¬ciali e gli psicoanalisti e in compagnia di queste persone visitavo vari istituti, come orfanotrofi e riformatori, dove mi era possibile guatare con cupidigia e con una impunità assoluta, simile a quella dei sogni, fanciulle adolescenti dal¬le ciglia appiccicate. Vorrei, a questo punto, accennare a una mia constatazione. Tra i limiti d'età di nove e quattordici anni non mancano le vergini che a certi ammaliati viaggiatori (i quali hanno due volte o parecchie volte il loro numero di anni) rivela¬no la propria reale natura; una natura non già umana, ma di ninfa (vale a dire, demoniaca). Orbene, io mi propongo di chiamare "`ninfette" queste creature eccezionali. *********** La bellezza non è affatto un valido criterio di scelta; e la volgarità, o almeno ciò che determinate persone così definiscono, non compro¬mette necessariamente certe caratteristiche misteriose, la gra¬zia torbida, il fascino elusivo, mutevole, struggitore e insi¬dioso che distingue le ninfette dalle loro coetanee, incom¬parabilmente più legate al mondo spaziale dei fenomeni sincroni che a quell'isola immateriale immersa in un tempo incantato in cui Lolita si trastulla con le sue simili. Nel¬l'ambito degli stessi limiti d'età, il numero delle autentiche ninfette è inferiore in misura impressionante a quello delle ragazzette essenzialmente umane, siano esse momentanea¬mente bruttine, o soltanto graziose, o "simpatiche" o anche "care" e "attraenti", oppure comuni, rotondette, piatte, fred¬de di pelle, con la pancia e le trecce, che possono o meno tramutarsi in adulte di grande bellezza (si pensi ai piccoli scarafaggi in calze nere e cappellino bianco che una meta¬morfosi tramuta in abbacinanti stelle del cinema). L'uomo normale al quale si mostri un gruppo fotografico di colle¬giali o di giovani esploratrici e si chieda di indicare la piú avvenente, non sceglierà necessariamente la ninfetta. Biso¬gna essere artisti e pazzi, creature colme di infinita malin¬conia, con una polla di bruciante veleno nei lombi e una fiamma ipervoluttuosa accesa in permanenza nel midollo spi¬nale (oh, quanto ci si deve frenare e come si deve finge¬re!) per distinguere subito, grazie a indizi ineffabili - il profilo lievemente felino di uno zigomo, la linea affusolata delle gambe ed altri segni che la disperazione, la vergogna, le lacrime di tenerezza mi impediscono di precisare - il pic¬colo demone micidiale tra le bambine integre; la ninfetta, non riconosciuta dalle altre, è ella stessa ignara del proprio fantastico potere. ********* Aveva il massimo rispetto per le ragazzette comuni, con la loro purezza e la loro vulnerabilità, e per nulla al mondo avrebbe attentato all’innocenza di una bambinetta, qualora vi fosse stato il minimo rischio d’uno scandalo. Eppure, come gli batteva il cuore quando tra la folla innocente, individuava una bimba-demone, una “enfant charmante et furbe” , sguardo velato, labbra umide, dieci anni di carcere se solo le dai a vedere di guardarla. ***** La ragazzina si divertono a saltare con la corda, giocano al piè zoppo. La vecchia vestita di nero che mi siede accanto sulla panchina, sul mio supplizio di gioia (una ninfetta cerca a tastoni sotto di me la pallina di vetro che ha perduto), mi domanda se ho il mal di stomaco, strega insolente. Ah, lasciatemi in pace nel parco della pubertà, nel mio muschioso giardino. Lasciate che giochino intorno a me per sempre. Che non crescano mai. *** A proposito, più volte mi sono domandato: che cosa fu, in seguito, di quelle ninfette? E’ mai possibile che in questo ferreo mondo, chiuso nella rete delle cause e degli effetti, il fremito segreto da me rubato non abbia influito sul loro avvenire? La possedetti… e non ne seppi mai nulla. ******* Ma lei non è neppure la fragile fanciulla di un romanzo rosa. A farmi impazzire è proprio la duplice natura di questa ninfetta, di tutte le ninfette, forse; questa miscuglio, nella mia Lolita, di tenera, sognante puerilità e di una sorta di misteriosa volgarità che ha le radici nella bellezza vistosa e comune, tipo naso all'insù, degli annunci pubblicitari e delle riviste illustrate, nell'opacità rosea delle servotte ado¬lescenti d'Europa (che sanno di margherite schiacciate e di sudore); e nelle giovanissime prostitute camuffate da ra¬gazzine nei bordelli di provincia; e poi, ancora, tutto ciò torna a mescolarsi con la squisita, immacolata tenerezza che serpeggia attraverso il muschio e il fango, attraverso la bruttura e la morte, oh Dio, oh Dio. E la cosa più singolare è che lei, questa Lolita, la mia Lolita, ha riconosciuto la concupiscenza antica di chi scrive, per cui al di sopra e più in alto d'ogni cosa v'è... Lolita. Dapprima ella mi tentava... poi mi deludeva, la¬sciandomi in preda a un dolore sordo nelle radici stesse del mio essere. Sapevo benissimo quel che volevo fare, e il modo di farlo senza violare la castità di una ragazzina; in fin dei conti, v'erano alcune esperienze di "pederosi" nella mia vita; avevo posseduto visivamente, nei giardini pubblici, ninfette variegate d'ombra e di luce; mi ero in¬cuneato, aprendomi una circospetta e bestiale strada, ne¬gli angoli più ardenti e più gremiti di autobus cittadini pieni zeppi di scolarette che si reggevano ai sostegni. **** Un misto di ingenuità e di inganno, di incanto e di volgarità, di malinconici bronci e di rosee ilarità, Lolita, quando voleva, riusciva ad essere una marmocchia più che esasperante. Non era facile, tuttavia, venire a patti con Lolita. Solo con molta svogliatezza ella si guadagnava i tre pennies (o i tre nichelini) quotidiani; e dimostrava di essere una negoziatrice spietata ogni volta che era in suo potere negarmi certi insoliti, lenti filtri paradisiaci, capaci di distruggere una vita, senza dei quali non potevo vivere per più di alcuni giorni di seguito, e che, a causa della natura stessa del languore amoroso, non potevo ottenere con la forza. Gianni SEGRE L’INIZIAZIONE Ottimo romanzo, forse migliore di Lolita Da Gianni Segre L’INIZIAZIONE “Non dire a tua madre che sei venuta da me. Potrebbe farti delle domande.” “Lo so.” “Quando torni non passare più dalla strada; costeggia la spiaggia, e arrivata all'altezza della casa entra svelta nel giardino dalla parte che dà sul mare. La porta sarà aperta.” “D'accordo.” “Se qualcuno ti vede uscire di qui e ti doman¬da che cosa sei venuta a fare da me, dì che passavi per caso e che volevi vedere i miei fiori o salutarmi… Insomma inventa qualcosa. Quello che facciamo ¬deve rimanere un segreto.” “Lo so.” ***** Lo Straniero rientrò nella casa e trovò Maria Modesta addormentata, con un braccio dietro alla testa e l'altro che pendeva dal letto sfiorando quasi il pavimento. Il suo corpo disteso di traverso occu¬pava tutta la larghezza del materasso; le gambe di¬varicate formavano una specie di A impudica e in¬nocente sotto il lenzuolo che a malapena le copriva il pube. Lo Straniero le riadagió il braccio sul letto, attento a non svegliarla, e le copri le spalle affin¬ché non prendesse freddo. In piedi, immobile, ap¬poggiato al bordo della finestra, si mise a contemplare Maria Modesta, che per la prima volta vede¬va dormire e che gli appariva diversa. Le treccine nervose che saltellavano sul suo collo quando si muoveva, riposavano ora lungo le guance. I suoi grandi occhi azzurri, troppo luminosi, che da soli attiravano tutta l'attenzione distogliendola dal re¬sto del volto, erano chiusi; ecco, ora appariva tutta la dolcezza dei suoi lineamenti, la delicatezza della pelle, la purezza della fronte intelligente, un po' troppo alta per una ragazzina della sua età. E la bocca. E le labbra. Le sue labbra carnose, sporgen¬ti, generose, mai completamente chiuse, lasciavano intravedere la curva interna, fragile e umida, e una piccola parte degli incisivi il cui candore dava alla bocca una luce e una vita particolari. Il contorno delle labbra era marcato da un'intensa pigmen¬tazione impressa dal sole e come ridisegnata con la matita marrone. La sua bocca sembrava non appar¬tenere al volto, ne usciva protendendosi in avanti, come nei bambini quando tengono il broncio o quando danno un bacio. ***** “Sei pronta?” “Sì” “Come sì? Sei tutta nuda!” “Mi piace gironzolare tutta nuda davanti a te, perché so che mi guardi.” “E perché sai di essere bella.” “Sono bella?” “Non lo sai?” “No.” “Sei una bugiarda.” “Sì, sono una bugiarda.” **** Nella bettola entrò zoppicando una ragazzina: la cinghietta di un sandalo era rotta. Per non bagnarsi la gonna, l’aveva sollevata fino all’attacco delle cosce, e per evitare che ricadesse, ne aveva infilato un lembo sotto l’elastico delle mutandine. ***** “Mi piacciono molto le tue lenzuola rosa” disse Maria Modesta allo Straniero. “Con le imposte quasi chiuse, uno non si vede più la pelle. Se fossi abbronzata dappertutto, anche qui, tu non mi vedresti più.” “Ma ti sentirei parlare. Quanto sei chiacchierona!” “Sì, sono chiacchierona. Se fossi tutta abbronzata, sentiresti soltanto la mia voce e mi crederesti un fantasma. Così sono quasi un fantasma.” “Sì, un piccolo fantasma triangolare.” “Perché triangolare?” “Per via di questo piccolo triangolo che non ha preso il sole.” “Non mi toccare! Ho voglia di fare pipì.” “Vai a farla.” “No. Se mi alzo è solo per andare con te a braccetto al villaggio, come fanno i grandi quando escono di chiesa alla domenica.” ***** Il vento sollevava ogni tanto la sua gonna pieghettata, e lei inconsciamente la tratteneva con una mano. Ogni volta che ripeteva il gesto, lo Straniero le sorrideva ma con una punta di ironia. Alla quinta o sesta volta, la fanciulla gli disse: “So perché ridete.” “Perché?” “Non so dirlo, ma lo so:” “Vuoi che ti aiuti a dirlo?” “No.” “Beh, lo dico io per te: ridi perché penso che ormai è inutile che tu mi nasconda le cosce, dato che poco fa ti ho vista ben più in su. Non è vero?” “Sì” rispose Rosalia. “E allora lascia svolazzare la tua gonna.” “Ma c’è molto vento e sono senza mutandine.” “E’ proprio per questo!” **** Si era accorto che la piccola aveva una certa disinvoltura nel gesto e nella parola quando si lavava la parte posteriore del corpo, ma che per lavarsi davanti, a parte i piedi e il collo, distoglieva gli occhi dai suoi, guardava ostensibilmente altrove, la sua voce cambiava tono, rideva nervosamente, canticchiava, voltava la schiena, mostrava le natiche, o perfino se le schiaffeggiava. Per lei, il didietro era una cosa normale, da sempre, come era normale fare i propri bisogni sia in presenza dei familiari sia fra le lattughe dell’orto. Ma il davanti era una cosa nuova, recente, strana, alla quale lei non si era ancora abituata. Lì il sapone faceva una schiuma più abbondante da qualche settimana soltanto, forse qualche mese. **** Non ho mai avuto un giocattolo, salvo una piccola palla gettata sulla spiaggia dal mare. Ricordo che l’avevo tagliata in due e, sola in casa, mi infilavo le due metà sotto il pullover per vedere in uno specchio come sarei stata quando mi fossero spuntati i seni. Un giorno avevo preso anche la barba delle spighe di granturco, e col miele l’avevo appiccicata sul mio pube, per vedere come sarei stata quando avessi avuto l’età di mia sorella. Rosalia lanciava sguardi furtivi al petto di Helene. Le sue belle mammelle, puntate ferma¬mente verso il soffitto, erano dominate da piccole aureole dai lunghi capezzoli. La giovane teneva le braccia incrociate, come nello stendardo del terzo ordine francescano. La mano sinistra nascondeva in parte il seno destro, la mano destra quello sinistro. La sua posa poteva sembrare ispirata dal pudore, se non avesse giocato con la punta dei seni facendoli ruotare sotto le dita. Voltò il capo verso la piccola Rosalia, che non cessava di guardarla, e le sorrise. La ragazzina non rispose al suo sorriso, e abbasso gli occhi sul suo petto, dove già da qualche tempo si intravedevano timide rotondità. Daisy ASHFORD (Margareth Mary) Petersham, 1881 Inghilterra 1972 I GIOVANI INVITATI E’ una storia d’amore scritta da una bambina di 9 anni. Questo romanzo è contenuto su un quaderno color lavanda, tozzo e grosso ed è stato pubblicato nel 1919 quando l’autrice era diventata signora e ha incontrato un editore interessato a stamparlo. Daisy Ashford era una bambina di 9 anni di una piccola famiglia che viveva in campagna. Ricordando quel periodo della sua infanzia Daisy ormai donna dice: “Mi piaceva moltissimo scrivere e pregavo sempre che facesse brutto tempo per non dover uscire e poter rimanere in casa a scrivere”. Da adulta Daisy di dedicò al giardinaggio e non scrisse più nulla. Questo è il suo unico romanzo. Il libro contiene la foto dell’autrice a 9 anni e la foto della prima pagina del quaderno con il suo romanzo. E’ una storia semplice che finisce col matrimonio, ma è una vicenda interessante che rappresenta la psicologia e i desideri di una bambina. Da Ashford I GIOVANI INVITATI Bernardo sospirò e i suoi occhi lampeggiarono quando scorse Ethel. Lei pensò: che magnifico tipo di uomo con le sue belle gambe sottili nei pantaloni color caffè e le ghette ben aggiustate e una rosa rossa all’occhiello e un berretto sportivo che gli dava un’aria aristocratica coi suoi quadrettini curiosi e piccole alette da tirar giù all’occorrenza. E via andarono fra l’invidia di tutti i camerieri. L’AMORE SADICO Donatine Alphonse Francois Marchese De SADE PARIGI 1740 Charenton 1814 Opere JUSTINE O LE SVENTURE DELLA VIRTU’. JUSTINE O LE DISGRAZIE DELLA VIRTU’. LA NUOVA JUSTINE. JULIETTE O LA PROSPERITA’ DEL VIZIO. LE 120 GIORNATE DI SODOMA. I CRIMINI DELL’AMORE. LA FILOSOFIA NEL BOUDOIR. ALINE E VALCOUR O IL ROMANZO FILOSOFICO. DIALOGO TRA UN PRETE E UN MORIBONDO. LA MARCHESA DI GANGE. ISABELLA DI BAVIERA. ADELAIDE DI BRUNSWICK. De Sade ebbe vita una vita avventurosa e tragica, descritta nelle belle biografie: Gilbert Lely SADE PROFETA DELL’EROTISMO: Il 2 giugno 1740 nasce Donatine Alphonse Francois marchese de Sade, famoso per le sue disgrazie e per il suo genio, che avrà l’onore di illustrare l’antica casata col più nobile dei titoli, quello delle lettere e del pensiero e che lascerà ai suoi discendenti un nome veramente insigne. James Cleugh IL MARCHESE E IL CAVALIRE (Studio sulla vita e le opere del Marchese de Sade e del Cavaliere Sacher Masoch): Sade è condannato da moralisti, religiosi e bigotto. Ammirato e apprezzato dagli scrittori: Lamartine, Stendhal, Flaubert, Baudelaire, Wilde, Swiburne, Barbey d’Auurevilly, Lautremont, Nietzsche, Dostojevski, Kafka. A questo scrittore vanno bene tutti gli aggettivi estremi: divino, diabolico, sublime, maledetto, filosofo, carnefice. Da Justine è stato tratto un bel film nel 1969 con Romina Power e Klaus Kinsky. Da Sade JUSTINE Credo che si ci fosse un dio, ci sarebbero meno avversità sulla terra; credo che se esiste il male sulla terra è, o perché questi disordini sono resi necessari da quel dio, o perché l’impedirli è superiore alle sue forze. Ora, io non posso temere un dio che è debole o malvagio, lo sfido senza paura e mi faccio beffe della sua folgore. Da De Sade DIALOGO TRA UN PRETE E UN MORIBONDO “Predicatore, abbandona i tuoi pregiudizi, sii uomo, sii umano, senza timore e senza speranza; lascia perdere i tuoi dei e le tue religioni; non servono ad altro che a mettere la spada nella mano degli uomini, e il solo nome di tutti questi orrori ha fatto versare più sangue sulla terra di tutte le altre guerre e gli altri flagelli messi insieme. Rinuncia all’idea di un altro mondo, non c’è affatto, ma non rinunciare al piacere di essere felice e di fare felici gli altri quaggiù. Ecco l’unico modo che la natura ti offre di raddoppiare la tua esistenza o di estenderla. Da Sade JULIETTE Enormi paraventi attorniavano l’isolato altare di San Pietro, formando un ambiente di circa cento piedi qua¬drati, di cui esso era il centro, separato quindi comple¬tamente dal resto della chiesa. Venti giovanette o gio¬vinetti, sui gradini, lo adornavano ai quattro lati mera¬vigliosamente. Negli angoli dell'altare c'erano altarini destinati alle vittime. Accanto al primo si trovava una ragazza di quindici anni; al secondo una donna incinta, di circa venti anni; al terzo, un ragazzo di quattordici; al quarto un giovanotto di diciotto, bello come il sole. Tre sacerdoti fronteggiavano l'altare, pronti a compiere il sacrificio; sei fanciulli coristi completamente nudi era¬no in attesa per servirlo; due stavano distesi sull'altare, e le loro natiche dovevano avere la funzione di pietre sacre. Il Papa Braschi ed io stavamo coricati in un'ottomana, posta su una pedana alta dieci piedi cui si giungeva sa¬lendo dei gradini coperti da bellissimi tappeti turchi; essa formava una specie di palcoscenico sul quale venti persone potevano stare comodamente. Sei piccoli gani¬medi di sette o otto anni, completamente nudi, seduti sulle scale, ad un segnale convenuto avrebbero fatto ese¬guire gli ordini del Santo Padre. L’AMORE BIZZARRO Jean CLAQUERET GLI STRANI VIZI DI CESARINE DA Jean Cloqueret GLI STRANI VIZI DI CESARINE All’inizio, tutto andò a gonfie vele… Si ballò, Paulette cominciò senz’altro a pensare che i timori che aveva potuto provare erano del tutto ingiustificati. Ma, ad un tratto, la signora Le Tellau, al pianoforte, annunciò la famosa “polka dei bebè”. La meravigliosa Susanna, mia cognata, avvertita un attimo prima da sua madre, aveva preso Paulette per partner. “Che buffo” diceva la ragazzina ridendo. “La polka dei bebè. Mi ricorda la mia infanzia…” “Ma tesoro mio,” rispondeva Susanna, siamo tutti qui per ricordare la nostra lontana infanzia, e tutto quello che essa racchiude di gioie… e di castighi…!” “Castighi?” “Ora vedrà…” La danza incominciò. Immediatamente, i vestiti delle ballerine furono sollevati in alto, le loro mutandine abbassate e le loro camiciole tolte. Tutti gli occhi si diressero sulla coppia Susanne-Paulette. La piccola aveva visto apparire una decina di paia di glutei, spalancava gli occhi strabiliata. Ma ecco che improvvisamente sentì che Susanna cominciava ad alzare pure il suo vestito. Ebbe un movimento brusco e cacciò un grido. “Vuole restare un po’ tranquilla”, fece Susanna. “Ma… non voglio… che…” Tutti avevano smesso di ballare e facevano circolo attorno alle due ballerine. “Come? Non vuole?… ma non le domando affatto il suo parere! E ora mi lascerà subito fare ciò che voglio io!…” “No, no! Mai! Mi lasci andare!…” “Troppo tardi, bambina mia… non bisognava venire…” “Ma… non sapevo…” “Ebbene, adesso saprà…” “No, no!…No!…” “Ah! Davvero… Mio Dio!” continuò lei con voce dolciastra. “Non domanderei di meglio che lasciarla partire, ma temo che la nobile assemblea qui presente non sia dello stesso parere. Signore…Signori… devo lasciare libera questa bambina imprudente?…” “Noooo!” gridammo tutti insieme! “Bene! Ma visto che si trova tra di noi, e che rifiuta di conformarsi al regolamento, cosa merita?” Grido unanime: “Una sculacciata!…” “Oh!” fa Paulette… “Una sculacciata come? Sul vestito?” ”No!” “Sulle mutandine?” “No! No!…” “Allora… senza mutandine…” “Sì! Sì! Sì!” La ragazza, disperata, cercava di fuggire, ma il nostro cerchio si rinchiuse su di lei, ed essa girava spaventata, rabbiosa, come un leone in gabbia!” “Senza mutandine!” continuava Susanna. “Sulle natiche?…” “Sì, sì”. “Tutta nuda?…” “Sì! Sì! Sì!” “Davanti a tutti?” “Sì! Sì! Sì!” “Bene! Ecco, mio tesoro”, riprese mia cognata, rivolgendosi a Paulette, “l’assemblea all’unanimità ha decretato che si merita una sculacciata a sedere nudo, sulle natiche scoperte, davanti a tutti…” “Ma… io… aiuto!” “Andiamo, andiamo, bambina! Calma. Devo ancora domandare all’assemblea chi di noi è designato ad assegnarle la sua brava sculacciata.” “Susanna! Susanna!” gridammo in coro. “Perfetto, dunque, bellezza mia, ha sentito! Sono io, io stessa, che la spoglierò, le metterò le natiche a nudo e la frusterò davanti a tutti…” Pierre LOTI Pseudonimo di Louis Marie Julien Viaud Rochefort 1850 Hendaye 1923 La signorina Crisantemo è un meraviglioso romanzo d’amore ambientato in Giappone. DA Pierre Loti LA SIGNORINA CRISANTEMO La donna è una piccola fata deliziosa, che ha forse appena dodici o quindici anni, snella, già civetta, già donna, con una veste lunga di crespo turchino cupo, ombrato, su cui sono ricamati pipistrelli grigi, pipistrelli neri, pipistrelli d’oro… ****** Entra ad un tratto come una farfalla notturna svegliata dalla luce viva del giorno, come una falena rara, sorprendente, la danzatrice della stanza attigua, la bimba che aveva la maschera sinistra. Certo viene per vedermi. Volge intorno occhi di gattina timida; poi, subito addomesticata, viene ad appoggiarsi a me, con una grazia carezzevole, puerile, che stona adorabilmente. E’ carina, fine, elegante, profumata. Se sposassi questa, senza cercar più lontano? La rispetterei come una bimba che mi fosse affidata; la prenderei per quello che è: per un giocattolo bizzarro e grazioso. Che coppia divertente, sarebbe la nostra! Davvero, trattandosi di sposare un ninnolo, non potrei trovare di meglio… ***** Ah! Mio Dio! Ma la conoscevo già! Molto prima di venire in Giappone, l’avevo vista su tutti i ventagli, in fondo a tutte le tazze da tè; col suo fare sciocchino, col suo musetto paffuto, coi suoi occhietti forati col trivello al di sopra di quelle due solitudini, bianche e rosee fino alla più estrema inverosimiglianza, che sono le guance. Crisantemo ed io ci diamo la mano. Anche Ivo si avvicina, per toccare quella zampina. Del resto, se mi sposo, la colpa è sua. Non avrei notato Crisantemo, se egli non mi avesse detto che era graziosa. Chi sa come andrà, questo connubio! E’ una donna, quella, o una bambola?… Fra qualche giorno, forse, lo saprò. ******** Sono tanto ridenti, tanto gaie, tutte quelle bombolette giapponesi! La loro gioia è un po’ voluta, veramente un po’ studiata, e qualche volta dà un suono falso; ma, comunque, illude. Crisantemo è diversa, perché è triste. Che mai può passare per quella testolina? Ciò che so del suo linguaggio non mi basta ancora per farmene un’idea. D’altronde, c’è da scommettere che non vi passa assolutamente nulla. E, comunque, che me ne importa? L’ho presa per svagarmi, e preferirei vederle uno di quegli insignificanti visetti senza pensiero, che hanno le altre. Musmè è una parola che significa fanciulla o donna giovanissima. E’ una delle più graziose della lingua nipponica e sembra che evochi, sinteticamente, il musetto gentile e le smorfiette bizzarre della giapponesina. L’impiegherò spesso, non conoscendone alcuna, in francese, che equivalga. ***** Pareva una fata morta. Oppure, somigliava a una grande libellula turchina, piombata lì, dall’alto, e che qualcuno avesse inchiodata. Peccato che la mia piccola Crisantemo non possa dormire sempre! E’ molto decorativa, stesa a terra così; e almeno, quando dorme, non mi annoia. Forse, chi sa? Se avessi modo di capire ciò che avviene nella sua testa e nel suo cuore. **** Dietro di me, una musichetta triste, tanto triste da dare un brivido; e acuta, acuta quanto il canto delle cicale; è cominciata in sordina, poi è cresciuta, gemente, come il lamento lezioso di un’anima giapponese in pena e in angoscia nell’aria silente di mezzogiorno… Crisantemo e la sua chitarra, che si svegliano insieme! **** Oh! Le ore lente, le ore snervanti e grigie, passate a dire cose scipite, confuse, mangiando in vasetti minuscoli delle conserve di frutta pepate, sotto la veranda che riceve da quel giardinetto una luce attenuata! Si inseguono e si divertono, agitando le loro larghe maniche a pagoda, le piccole musmè, di dieci, di cinque anni, o ancor più bambine, che hanno già delle acconciature alte e di rigonfi di capelli imponenti, come le signore. Oh! Quegli amori di bambolette, che nell’ora crepuscolare saltellano da tutte le parti, nelle loro vesti lunghissime, soffiando in trombette di cristallo, o correndo veloci per lanciare dei cervi volanti straordinari!… Sul leggiadro ombrello rosso e azzurro, grandi lettere bianche formavano questa iscrizione, che è in uso fra le musmè e che ho imparato a conoscere: “Nuvole, fermatevi, per guardarla passare”. E valeva la pena, infatti, di fermarsi per quella preziosa creaturina, piena di grazia ideale… Non sarebbe stato prudente, tuttavia, fermarsi troppo a lungo… Si sarebbe avuta, forse, una delusione di più. Bambola come le altre, evidentemente, quella musmè; pupattola da vetrina, e nulla di meglio! Davvero, stasera Crisantemo e Giunchiglia sembrano due piccole fate. Le giapponesi più insignificanti assumono in certi momenti, aspetti simili, a forza di bizzarria elegante e di fronzoli ingegnosi. **** Le prime note esitanti ronzano in sordina, insieme con le musiche d’insetti che salgono dalla campagna nell’aria tranquilla, nel crepuscolo caldo e dorato. Dapprima ella suona lentamente cose confuse, delle quali pare non si ricordi bene, il cui seguito si fa aspettare, non viene; e le altre piccine ridono disattente, rimpiangono il loro ballo interrotto. Ed ella stessa è distratta, imbronciata, come rassegnata a compiere un dovere. Poi, a poco a poco, la musica si anima, e le musmè ascoltano. Diventa rapida, con un tremito di febbre, e lo sguardo di Crisantemo non è più affatto insignificante come uno sguardo di bambola. La musica si muta in un rumore di vento, in risate grottesche di maschere, in lamenti strazianti, in pianti; e le pupille dilatate della suonatrice, fissano, dentro il suo essere intimo, misteriose cose giapponesi, indicibili. La signorina Arancio, la gheisa bambina, piccolissima e vezzosissima, che ha l’orlo delle labbra dorate col pennello, esegue dei passi deliziosi, con delle parrucche e dei visi falsi veramente straordinari, di legno o di cartone. **** D’altronde, finisce per noi anche questa estate calma e splendida, poiché domani correremo incontro all’autunno nel nord cinese. Ed io incomincio a contarle, purtroppo, le estati di gioventù che posso sperare ancora; e mi sento divenire più triste ogni volta che una di esse svanisce, se ne va ad unirsi con le altre, già scomparse nell’abisso nero e senza fondo in cui si ammucchiano le cose passate… ***** Ah, è ancora più giapponese di quanto avrei potuto immaginare, l’ultimo quadro del mio matrimonio! Mi vien voglia di ridere… Come sono stato ingenuo, lasciandomi quasi abbindolare da alcune parole abbastanza riuscite, pronunciate da lei ieri sera, mentre camminava al mio fianco; da una piccola frase abbastanza gentile che era stata abbellita dal silenzio delle due del mattino e da tutti gli ingredienti della notte!… Alla porta che si apre sul sentiero, mi fermo per gli ultimi addii: il piccolo broncio di tristezza è ricomparso, più accentuato che mai, sul volto di Crisantemo. E’ di circostanza, è corretto, mi sentirei offeso se non ci fosse. Suvvia, piccola musmè, lasciamoci buoni amici. Abbracciamoci anche, se vuoi… Ti avevo presa per divertirmi. Forse non ci sei riuscita completamente, ma mi hai dato quel che potevi darmi: la tua personcina, le tue riverenze e la tua musichetta. Tutto considerato, sei stata abbastanza graziosa, nel tuo genere giapponese. E chi sa? Forse penserò a te qualche volta, quando mi ricorderò di questa bella estate, di questi giardini così leggiadri, e del concerto di tutte queste cicale… L’AMORE FILOSOFICO Ramon GOMEZ DE LA SERNA Madrid 1888 Buenos Aires 1963 SENI Da SENI Da vicino non voleva mostrarmeli, ma siccome noi uomini siamo tanto insistenti le proposi che me li lasciasse vedere dalla finestra, di sera, quando io, che abitavo di fronte, mi fossi affacciato per darle la buona notte. **** Per affacciarsi su dei seni, per riconoscerli, per ricordarli, bisogna trascorrere molte notti su di essi, come un batteriologo che trascorre molti anni sul microscopio. ****** Quando si è molto giovani si crede che sia possibile andare a caccia sulla scala dei seni delle ragazze del vicinato. La scala è un cammino solitario per il quale scende distrattamente quella ragazza dell’ultimo piano che ha certi seni ballerini. Per lo più scende saltellando e i suoi seni si svelano così ancor più inevitabili; è assolutamente impossibile lasciarli stare. Si è guardato il fenomeno strano dell’allegria dei seni attraverso la spia dell’uscio di casa, celata medioevale dei nostri supplizi. Si torna a vedere spesso i seni girandoloni rimbalzare sul petto della ragazza quando scende le scale. E’ venuto il momento di mettervi mano? La gioventù illusa suppone che in questa allegria neutra della scala sia possibile giungere al possesso dei seni selvatici dell’ultimo piano. Un giorno finalmente il giovane aspetta cautamente l’ora. Attende alla finestra che entri in casa la giovane dai seni allegri. La vede venire, e quando ella passa esattamente sotto la sua finestra, si accorge come i suoi seni siano plastici e come entrino prima di lei nel portone avido. ***** Nel buio sentii qualche cosa che era dolce morbido e allungai le mani. Erano dei seni blandi, che cedevano con la giusta elasticità che hanno quando sono perfetti. Ad allungare le mani nel buio delle abitazioni buie sempre mi era parso di giocare a mosca cieca e di cercare i seni dell’amichetta che mi aveva bendato, confusa fra gli altri giocatori. Se stendevo le mani nel buio per non cadere, le stendevo anche per cercare dei seni, i seni dell’oscurità, il suo frutto prezioso. Spesso, invece dei seni dell’oscurità, mi venivano incontro i seni del reggitende o la finitura rotonda di qualche mobile. Ma finalmente quella sera mi vennero incontro i seni dell’oscurità, confusi, spessi, a piacere della mano. ***** Chiusi gli occhi per possederli meglio e sentii il loro miele sciogliersi nelle mie mani. Non parlai. Sarebbe stato fatale. Rimasi nell’opaco fino a molto tardi, e mi addormentai carezzando i seni dell’oscurità. I seni di quella donna erano i seni dell’anima, bianchi, puri, perfetti come due circonferenze. A toccarli sentii che toccavo la sua anima e tutto il mio essere fu scosso da un brivido, da una contrazione speciale. ***** I seni delle alunne del Conservatorio in grazia della musica che hanno imparato saranno sempre ben conservati. I vecchi professori ingiusti, ma umani, tengono in gran conto per la distribuzione dei diplomi, il fascino più o meno grande dei seni delle fanciulle del Conservatorio, seni con un nastrino al capezzolo. ***** I seni al mattino, sono come seni di donna che allatta, perché anche se di una vergine, in quell’ora vivono per la casa, si dedicano alla casa come la madre al figlio, sono pieni di un latte nuovo, il latte del nuovo mattino. I seni al mattino sono amici degli strofinacci, dei piumini da spolvero, degli specchi, dei fondi d’armadio, dei fornelli di cucina, dei bauli, sui quali si inclinano, dei giornali, degli scaffali, delle assi dei tavoli, della toelette. ***** Non si sa cosa pensare dei seni delle bambine, ma si è irresistibilmente portati a guardarli. A volte non si sa se i loro seni siano seni per davvero o non piuttosto invenzioni degli abiti che indossano; altre volte non si sa se quel che li imita sia il fremito tremulo e fine della seta arrotondata delle loro bluse. E’ un fremito della seta oppure un seno in libertà che non riposa ancora nel reggipetto? Molti misteri esistono nel seno delle bambine, grandi e piccoli misteri. ****** Seni delle fanciulle delle portinaie! Seni che ci fanno prorompere in questa esclamazione di sorpresa, perché sono sorprendenti, perché sono i seni che si sono sforzati di crescere, di esistere, di trionfare, di suscitare inquietudini ancorché nati in un vaso incrinato e sempre all’ombra. ***** Gli uomini abbracciati alle donne nel valzer pensano, al di sopra di tutto ciò che fingono di pensare: “Ho i suoi seni vicino… li ho addosso… si fregano contro di me… premono contro di me… Ora cedono, ora si schiacciano, ora soffrono troppo, ora scoppiano…” Guy de MAUPASSANT Dieppe 1850 Parigi 1893 Da Guy de Maupassant CHIAR DI LUNA Aprì la porta per uscire; ma si fermò sulla soglia, sorpreso da un chiar di luna così splendido che non se ne vedono quasi mai di simili. E, siccome era dotato di un animo eccitabile, uno di quegli animi che dovevano possedere i padri della Chiesa, quei poeti sognatori, si sentì di colpo distratto, emozionato per la grandiosa e serena bellezza di quella chiara notte. Nel suo giardinetto, inondato di dolcissima luce, gli alberi da frutto ben schierati in fila disegnavano con l’ombra sul sentiero i gracili rami appena rivestiti di verzura; mentre il caprifoglio gigante che si arrampicava sul muro della canonica esalava effluvi deliziosi, quasi zuccherati, e faceva fluttuare nella sera tiepida e lucente una specie di sentimento profumato. Prese a respirare profondamente, bevendo l’aria come gli ubriaconi bevono il vino, meravigliato, quasi dimentico della nipote. Perché mai Dio aveva fatto tutto questo? Se la notte è destinata al sonno, all’incoscienza, al riposo, all’oblio di tutto, perché mai renderla più incantevole del giorno, più dolce dell’aurora e delle sere; perché mai quell’astro lento e seducente, più poetico del sole che par destinato, tanto è discreto, a illuminare cose troppo delicate e misteriose per una luce violenta, sopravveniva a rendere così trasparenti le tenebre? Perché mai il più abile degli uccelli canterini non riposava come tutti gli altri e prendeva a vocalizzare proprio nell’ombra sconcertante? Perché quella specie di velo avvolgeva il mondo? Perché mai quei fremiti del cuore, quell’emozione dell’anima, quell’illanguidire della carne? Perché mai tutto quello spiegamento di seduzioni che gli uomini non potevano vedere, essendo coricati nei loro letti? A chi erano destinati quello spettacolo sublime, quell’abbondanza di poesia profusa dal cielo sulla terra? Il curato non capiva proprio. Da Guy de Maupassant RACCONTI DELLA BECCACCIA Un filosofo ci ha messo in guardia contro le trappole della natura. La natura vuole nuovi esseri, egli dice, e ci costringe a crearli, ponendo accanto alla trappola la duplice attrattiva dell’amore e della voluttà. Ed aggiunge: dopo che ci siamo lasciati prendere, dopo che l’accecamento di un istante è passato, ci prende un’immensa tristezza, perché comprendiamo l’inganno, vediamo, sentiamo, tocchiamo il motivo segreto e velato che ci ha spinto nostro malgrado. Sì, l’amore è una trappola, una immonda trappola. D’accordo, lo so, ci casco, e mi piace. La natura ci dà la carezza per nascondere il suo trucco, per costringerci nostro malgrado a perpetuare le generazioni. Allora, rubiamole la carezza, facciamola nostra, raffiniamola, mutiamola, idealizziamola, se volete. A nostra volta inganniamo l’ingannevole natura. Andiamo oltre le sue intenzioni, oltre a ciò che essa ha osato insegnarci. Che la carezza sia come materia preziosa uscita grezza dalla terra. Prendiamola, lavoriamola, rendiamola perfetta, senza curarci dei disegni principali, della volontà dissimulata di quel che chiamiamo Dio. E siccome è il pensiero a rendere tutto poetico, rendiamola poetica, signora, fino nelle sue tremende brutalità, fino nelle sue più impure combinazioni, fino nelle sue più mostruose invenzioni. Il seno può essere considerato nella donna un oggetto di utilità e i diletto nel tempo stesso. Togliamo l’utilità, se volete, e serbiamo il diletto: avrebbe quella forma adorabile che chiama irresistibilmente la carezza, se fosse destinato solamente al nutrimento dei lattanti? Lasciamo, signora, che i moralistici predichino il pudore, e i medici la prudenza; lasciamo che i poeti ingannatori perpetuamente ingannati, cantino la casta unione delle anime e la felicità immateriale; lasciamo che le donne brutte compiano i loro doveri e gli uomini ragionevoli le loro inutili opere; lasciamo i dottrinari alle loro dottrine, i preti ai loro comandamenti, e quanto a noi amiamo soprattutto la carezza che inebria, turba, snerva, esaurisce, rianima, è più dolce dei profumi, più leggera di una brezza, più acuta delle ferite, rapida, divoratrice, che fa pregare, che fa commettere ogni delitto, ogni azione coraggiosa! L’AMORE POETICO Paul VERLAINE Metz 1844 Parigi 1896 Il principe dei poeti maledetti. Biografie: Lawrence ed Elisabeth Hanson VERLAINE, Enid Starkie RIMBAUD contiene molte informazioni su Verlaine. Da Paul Verlaine POESIE lo faccio spesso questo sogno strano e penetrante di una donna sconosciuta, che amo, che mi ama e che ogni volta non è mai la stessa e neppure un'altra, e mi ama e mi comprende. Davvero mi comprende, e il mio cuore, a lei sola trasparente, ahimè, cessa d'essere un problema per Iei sola, e i sudori della mia fronte livida lei sola sa rinfrescarli, piangendo. E’ bruna, bionda, o rossa? Io lo ignoro. Il suo nome? Ricordo che è dolce e sonoro come quelli degli amanti che la Vita ha esiliato. Il suo sguardo è simile a quello delle statue, e la sua voce, lontana, e calma, e grave, ha l'accento delle voci care che ora tacciono. VI La luna bianca brilla nei boschi; da ogni ramo parte una voce sotto le fronde. O mio tesoro. Lo stagno riflette, specchio profondo, il profilo del nero salice dove piange il vento... Sogniamo, è l’ora. Un grande e tenero senso di pace pare discendere dal firmamento che l’astro irida... E’ l’ora squisita. Collegiali Una aveva quindici anni, l’altra sedici; dormivano insieme nella stessa camera. Era una sera afosa di settembre: gracili, occhi azzurri, rossori di fragola. Hanno tolto, per sentire meno caldo, le loro fini camicie profumate d’ambra. La più giovane tende le braccia e si inarca; la sorella, con le mani sui seni, la bacia. Poi si inginocchia, poi diventa feroce, e tumultuosa e folle, e la sua bocca affonda nell’oro biondo, nelle grigie ombre; e la fanciulla, durante tutto il tempo, prova sulle dita sottili, i valzer promessi, e, rosa, sorride innocente. Estate E la fanciulla rispose, spossata, sotto la inesausta carezza dell’ansante sua amante: “Io muoio, o mia adorata! Io muoio: il tuo seno di fuoco pesa e mi sazia e mi opprime; la tua forte carne da cui esce l’ebbrezza è stranamente profumata; essa ha, la tua carne, il fascino oscuro delle cose mature d’estate, essa ne ha l’ambra, essa ne ha l’ombra; la tua voce tuona tra le raffiche e la tua chioma sanguinosa fugge d’un colpo nella notte lenta. Da DONNE E UOMINI Bella, graziosa, dolce, piccola Cosina, appena ombrata di un oro sottile, che in un trionfo ti dischiudi al mio piacere roco e muto, fino alle tue tettine di bambina, di signorina appena in pubertà, fino al tuo petto trionfante nella sua gracile bellezza. Charles BAUDELAIRE Parigi 1821 1867 Opere I FIORI DEL MALE. LO SPLEEN DI PARIGI. I PARADISI ARTIFICIALI. Raccolta di poesie processate e condannate nel 1857. Oggi considerate Opera fondamentale. Da Charles Baudelaire I FIORI DEL MALE Canto d’Autunno Presto sprofonderemo nelle fredde tenebre; addio, viva luce di nostre estati troppo brevi! Già cadere sento con funebri colpi la legna sonora sul selciato dei cortili. Tutto l’inverno sta per ritornare nel mio essere: collera, odio, brividi, orrore, duro e forzato travaglio… Come il sole nel suo inferno polare, il mio cuore non sarà più che un rosso blocco di ghiaccio. Sto in ascolto, in fremiti, d’ogni ciocco che cade; eco più sorda non ha, mentre lo erigono, un patibolo. Il mio spirito è simile alla torre che cede sotto i colpi dell’ariete infaticabile, greve. Cullato da quell’urto monotono, mi sembra che in qualche luogo inchiodino in gran fretta una bara. Per chi? Ieri, l’estate… Ecco l’autunno! Questo misterioso rumore suona come una partenza. Io amo la luce verdastra dei tuoi lunghi occhi, bellezza, dolce, ma oggi tutto mi è amaro; e nulla, non l’amore che tu mi porti, o l’alcova, il camino, mi vale il sole radioso sul mare. Eppure amami, tenero cuore! Anche a un ingrato, a un malvagio, sii madre; sorella o amante, sii la dolcezza effimera d’un glorioso autunno o di un tramonto. Così breve compito! La tomba aspetta; è avida! Ah, lascia che con la fronte sulle tue ginocchia io possa godere (rimpiangendo l’estate bianca e avvampante) il raggio giallo e dolce della fine d’autunno! Charles Baudelaire LO SPLEEN DI PARIGI I BENEFICI DELLA LUNA La Luna, che è il capriccio in persona, guardò dalla finestra, intanto che dormivi nella culla, e disse: “Questa bambina mi piace”. E scese la soffice scala di nuvole, senza rumore penetrò dai vetri. Poi si stese su di te con la flessi¬bile tenerezza d'una madre, depose i suoi colori sul tuo volto. Le pupille ti son rimaste verdi, e le gote straordinariamente pallide. Contemplando quella vi¬sitatrice, gli occhi ti si sono stranamente ingranditi; e ti ha così teneramente serrato la gola che ti è rima¬sta per sempre la voglia di piangere. Tuttavia, nell'espansione della sua gioia, la Luna colmava tutte le stanze, come un'atmosfera fosfore¬scente, come un luminoso veleno; e tutta questa luce viva pensava e diceva: “Eternamente subirai l'influsso del mio bacio. Sarai bella a modo mio. Ti piacerà ciò che io amo e ciò che mi ama: l'acqua, le nuvole, il silenzio e la notte; il mare immenso e verde; l'acqua informe e multiforme; il posto dove non sei; l'amante che non conosci; i fiori mostruosi; i profumi che fanno deli¬rare; i gatti che svengono sui pianoforti e gemono come donne, con voce rauca e dolce! Sarai amata dai miei amanti, corteggiata dai miei corteggiatori. Sarai la regina degli uomini dagli occhi verdi, ai quali pure ho serrato la gola nelle mie not¬turne carezze; di quelli cui piace il mare, il mare immenso, tumultuoso e verde, l'acqua informe e mul¬tiforme, il posto dove non sono, la donna che non conoscono, i fiori sinistri che paiono turiboli di una ignota religione, i profumi che turbano la volontà, e le bestie selvatiche e voluttuose che sono simboli della loro pazzia. Perciò, maledetta e cara bambina viziata, ora sono qui steso ai tuoi piedi, intento a ricercare in tutta la bella tua persona il riflesso della tremenda Divinità, della fatidica madrina, della nutrice che avvelena tutti i lunatici. L’AMORE PROIBITO Giovanni ARPINO Pola 1927 LA SUORA GIOVANE In una Torino meyrinkiana l’autore insegue una dolce ossessione. Da Giovanni Arpino LA SUORA GIOVANE Aspettiamo il tram insieme, lei immobile fissa il marciapiede opposto, io sprofondo le mani nelle tasche del paltò, sotto le dita sento le palme sudate (lo sono già, mente scrivo), non riesco ad afferrare una parola, a scavare un’idea, un filo di coraggio. Dovrei fare qualcosa, avvicinarmi, parlare. Ma cosa dire? Come? Come si può affrontare una suora e parlare? E’ sempre stato difficile anche con le altre donne, si deve fare un tuffo nello scherzo e parlare e parlare e aver fiducia più nel proprio sorriso falso che nelle parole, più nella posizione delle spalle, nello sguardo, nella cravatta a posto che nell’improvvisazione. Si deve esagerare spiritosamente o melodrammaticamente, finchè la donna ride, o protesta, però non scappa. Ma ho quarant’anni. E lei è una suora. Non sono alto, già vado ingrossando, e lei è piccola, sì e no vent’anni, è bianca e rosa, con due sopraccigli che si uniscono in un’unica curva come un’ombra chiara sotto la benda stretta intorno alla fronte. ***** E non trovo la forza necessaria per arrivare un’altra volta fino a quella chiesa. Ho paura di vedermi costretto ad affrontarla senza aver avuto il tempo di pescare chissà dove la parola adatta, la faccia giusta. A volte credo di aver trovata la frase perfetta, la ripeto due o tre volte, la rimastico un poco ed ecco che si sbriciola, lasciandomi più povero, più confuso di prima. Eppure tocca a me. Stasera o domani, o tra una settimana. Non ho più molto tempo. Sennò lei capirà che ho paura, non solo soggezione, indecisione, pudore. Adesso si fida ancora, e aspetta e mi dà tempo, ma fino a quando? Non sarebbe più facile per me, mi scoprirebbe impaurito, privo di risorse. Mi sento senza nervi. Penso che un altro, più giovane, riuscirebbe a fare ciò che vuole. *** Le sette. Devo uscire. Ci fosse almeno una gran nebbia lungo il viale: mi sentirei più protetto. Perché ho anche paura degli altri, di occhi curiosi che mi sorprendano. Certamente anche lei ha questa paura. Mi accorgo che sono infinite le cose non dette sepolte in me. Anche gli altri covano segreti come me? Tento continuamente di immaginarla, ma è difficile. Avrà i capelli? Come veste sotto la tonaca? Sarà vero che non portano indumenti intimi, ma solo camicioni? La solita fitta al basso ventre, sgradevole. Mi accorgo che non ho mai avuto per lei, pensieri o desideri carnali. Mi stupisce: fino a poco tempo fa ho creduto (anzi, non avevo mai avuto bisogno di riflettere, tanto pareva naturale) che tra un uomo e una donna tutto nascesse da un desiderio, molte volte normale, serio, magari austero ma carnale sempre. Il resto dava un senso a questa cosa. Ora, invece, mi sento fuori da qualsiasi desiderio. E’ questo innamorarsi? Se è così, cosa significa? Cos’è? Scopro, con stupore, che non ho mai detto “ti amo”. Ecco, arrossisco. Il cervello macina nel vuoto. Le due suore si staccarono infine, e mi sentii spinto a seguirle. Veniva giù una nebbiolina acuta, le pietre della strada e le grandi lastre dei marciapiedi erano scivolose, dalle aperture degli antichi negozietti piovevano incerti chiarori. Era quella una stradina del vecchio centro della città, due automobili fronteggiandosi la intasavano, lo scampanellìo dei tram si annunciava feroce a distanza. C’era un cinematografo che espandeva i cartelli colorati del suo doppio programma per un largo tratto di muro, c’erano negozi di orologiai dalle fittissime vetrine, cupi negozi di ferramenta o di ciabattini con stivali, stivaletti, scarpe ortopediche allineate lungo bui scaffali. Il cielo, al sommo delle case illividite, era una striscia compatta di catrame. *** Si voltasse, pensavo (se non si volta, infatti, e non mostra il viso, riesco raramente a vederla, chiuso com’è il suo profilo dal velo). Stavo in agguato sperando si voltasse. E si voltò. Girò appena il capo, alzando lo sguardo senza fretta, pallidissima, all’orologio sospeso a metà della vettura. Non posò gli occhi su me, pur accorgendosi certo di come la stavo guatando. Non è successo per calcolo, è stato come uno scatto dei nervi, dei muscoli. La testa era fredda e vuota, solo dopo si infiammò. “Si può dare la buonasera a una suora?” Così dissi. Si voltò pallida, con gli occhi grandi, subito riprese a fissare il marciapiede opposto. “Non è peccato” rispose. Poi calma: “Però non dire più niente. Sono novizia. Tutte le novizie sono sorvegliate dai laici che non conosciamo”. ******** Lei aveva avuto come una rottura di voce, e nel silenzio sentii il suo respiro, leggero ma vibrante. Non riuscivo più a guardarla, fissavo la cupola del cappello nuovamente in mano. Appena stac¬cavo gli occhi dal cappello era la striscia nera della sua sottana che mi trovavo davanti, tra i due battenti della porta. È finita, pensai, sono un idiota. “ Dobbiamo parlare” cominciò lei, e la voce tremava appena. “Dobbiamo parlare, devi par¬lare. Non stiamo così.” Accennai di sì, ma sapevo che era inutile. “ Parla ” disse. La voce era tesa, mi faceva male sentirla agli orecchi. Ancora riuscii a guardarla, non distolse gli occhi, arrossendo leggermente distese le sue lab¬bra sottili. “ Ma tu” dissi finalmente: “da quando... ” Non riuscii a andare più in là. Lei sorrideva a occhi chiusi come liberata, in pace. “ Quattro mesi. Tu meno, vero? Tu non ti accorgevi, prima, lo so.” Sentii un'altra trafittura dolorosa alla schiena. “ Parla ” sussurrò, come allegra. “ Sì ” dissi: “ Sì. Quanti anni hai?” Pallida e rosea, i sopraccigli tremavano come un'ombra, ma quegli occhi resistevano a guardare, a capire. “ Quasi venti, e tu? ” Mi scappò una smorfia. “ Quarantacinque? ” invitò. “ No! Quaranta! Ne compio quarantuno a febbraio. ” “ Vanno bene per un uomo. ” Non trovavo parole. “ Quaranta ” mi sentii ripetere. Lei accennava tranquilla di sì. “ Non sei timido, vero? ” domandò. Di nuovo era arrossita. Scossi la testa, guardavo per terra. “ Non è peccato, vero? ” “ No ” riuscii a spiccicare. “ Non è peccato. Non è male ” disse allora, calma. “ No, no. ” “ Pensi male di me? ” “ Oh, no. ” Avrei voluto buttarmi a parlare, a domandare, ma la bocca era arida, frasi e parole si urtavano nella testa come pezzi di materia sonora che non riusciva ad amalgamarsi. Subito sparivano in un frastuono lasciando posto a un vuoto mobile, pantanoso. Le spalle mi si piegavano come per una lotta dolorosa, e un'altra fitta mi coglieva, mor¬bida e insistita al basso ventre. “ Non sei timido?” ripeté. Cercai di sorriderle. “ Non vuoi sapere come mi chiamo? Serena. Mi chiamo Serena. Non sono ancora suora. Si sente che sono piemontese? ” Rimasi fermo col mio stupido pane a mezz’aria. “Serena…” “Dillo ancora.” Arrossii ma dissi: “Serena”. “Non essere timido”. “Non lo sono”. “Lo sei, ma non dovresti esserlo più. Anche io ho tanta paura, ma non importa.” Mi sentivo disperato, legato, e non trovavo la forza di mettere in ordine mille cose da dire, caoticamente in giostra nel cervello. ****** Ho dormito tre, quattro ore di sonno doloroso, dopo la telefonata sono rimasto a letto fino a tardi, ogni tanto assopendomi un quarto d’ora. Non sapevo che in un uomo esistesse tutto questo, che si è di sedici come a quarant’anni, sempre. La notte passata ritorna a ondate, quando si ritira lascia scoperta un’emozione viva, elettrica, irritante. Mi sono tagliato radendomi, ho rotto anche un bicchiere. Sono sceso per il giornale e il caffè, i titoli sulle pagine scappavano davanti agli occhi e dovevo continuamente ritornare indietro per ricostruirne il senso. Mi sono nuovamente trascinato sul letto come pieno di dolori. Una grande gioia mi scuote, balza per esplodere, non ho mai avuto tanta ricchezza, non sono mai stato così bene: ma quando questa gioia affiora è mille dolori, mille piaghe. Non riesco a leggere il giornale, non riesco a starmene disteso, non ho un pensiero coerente. E lei è in qualche punto della città, forse per strada, e parla e mi pensa. Già questa immagine basta a riempirmi, mi dà frenesia, e insieme una lunga stanchezza, uno spossamento da malato. **** “Scusami, scusami” mi scapparono le parole: “Sono un verme, niente. Ho così bisogno di te, non sono niente senza di te. Dimmi che è tutto vero, ti prego. Io non sono forte come credi, sono un pover’uomo…” “Sta buono, buono…” “No, no, lasciami parlare. Non ho mai il coraggio di parlare. Non dirmi di star buono. Tu credi che io sia forte, sia un uomo. Invece ho una faccia di stoppa, che tutti prendono per vera. Ma non sono così. Dentro sono pieno di paure. Mi nascondo sempre, non ho nessun coraggio. Tu credi di poterti appoggiare a me, invece sono io che ho bisogno del tuo aiuto… Morirei, morirei…” “Vuoi che moriamo insieme?” disse. **** “Non voglio dire che mi occorrerà molto tempo, ma un poco sì. Tutta la mia vita sta cambiando, è cambiata. Devo abituarmi. Non sono mai disperato se sono con te. Non puoi mancarmi nemmeno un minuto.” *** L’ho aspettata fino alle nove, non è venuta. Non avevo messo la sciarpa, come un giovanottino volevo apparire più elegante, meno infagottato. Il freddo mi ha morso lungamente nel viale, la nebbia andava e veniva con folate minacciose. **** “Mi dica” fece il padre della suora: “Lei se la sente di stare con una ragazza di vent’anni? Perché non è mica facile, sa?” “Se me la sento?” “Sì,” riprese: “Se la sente o no? Perché le ci vorrà chissà quanta pazienza. Le donne non sono a posto come noi. Sono matte. Meglio non dar retta alle donne. Si accaniscono, si montano la testa per una ragione o per l’altra. Ragionano con l’utero. Io, al suo posto, avrei solo paura della differenza di età. A quarant’anni un uomo non ha già più voglia di mettere troppo pazienza.” Se non avessimo bisogno delle donne, noi uomini saremmo tutti signori.” Georges RODENBACH Tornai Belgio 1855 Parigi 1898 ARTE IN ESILIO. E’ il dramma di un uomo diviso fra l’amore per la Poesia e l’amore per una beghina (suora). Da George Rodenbach ARTE IN ESILIO Giovanni allora si alzò e andò a guardare dalla finestra aperta: pensava a quella sua vita tetra, accanto alla vecchia mamma, in una città fiamminga abbandonata e deserta dove si ritrovava solo, a pensare e a scrivere, simile a una fioca lucerna vivente che non faccia luce e si consumi da sé; e con la sua sensibilità di poeta, provava l’impressione di essere fra stranieri, in terra d’esilio! Del resto, quella era l’ora preferita, l’ora più bella del giorno, l’ora dell’agonia delle luci, quando la sera cade lentamente, il sole muta il sanguigno dei suoi raggi in un rosso rosato e lontano, a uno a uno, si accendono i fanali, soli soli, come anime. Una pace mortuaria, una volontà di silenzio, una rinunzia alla vita pareva emanasse da quei tetti letargici o dall’agonia sonora di una campanella che, dall’alto della sua torre, abbandonava al vento i suoni, come una scia di fumo. *** L’enorme silenzio che ricadde sulla chiesa lo distolse da quel sogno, e bruscamente egli uscì, e rimase in attesa fuori, davanti alla porta, con la speranza di vedere quella beghina che gli aveva così toccato l’anima; infatti, poco dopo, una forma nera, scivolando a passo di danza nell’ampia tonaca, apparve: era una donna giovanissima, una figurina esile e senza petto, col viso pallido e sofferente, d’un pallore di fiori bianchi che si sfanno. La sua cuffia, rigida, inamidata, le sporgeva a tettuccio sulla fronte. Ma gli occhi, soprattutto, gli occhi di quella vergine triste, turbavano: occhi larghi, grandi, del colore di un vecchio pastello, d’una tinta molle e delicata, eppure fissi e suggestivi come gli occhi delle lune d’inverno. **** Che ebbrezza capire i capolavori, e quella prima comunione con i poeti che tramandano in eterno le divine menzogne del genio! Li conosceva tutti, e li studiava e voleva loro bene. E anch’egli, a quei ricordi, si sentiva animato da emulazione, sentendo in sé il tormento del genio e la volontà di creare il capolavoro! La gloria, ha i suoi aspetti di vanità e di puerilità, ma che importa? La gloria! Pensate: penetrare anime estranee; essere amato da amici sconosciuti; sapersi letto dalle donne e rivelarle a sé stesse; sentire il proprio nome sussurrato quando si passa per la via; essere seguito per le strade, come accadeva a De Musset, nel tempo della giovinezza e gloria! Eppure, come avrebbe voluto amare! Trovare la sposa biancovestita che egli aveva invocato nella sua prima giovinezza! In quell’abbandono, sarebbe stata una salvezza incontrare un’anima fine, sensibile, che avesse l’intuito di indovinare i suoi pensieri e le sue predilezioni, un’anima che egli avrebbe formato e portata all’unisono con la sua! Ma presto si accorse che lì non avrebbe mai trovato quella che cercava, cui già tendeva le braccia nell’ignoto. **** Un’ottima trovata queste case di rifugio per le beghine! Ce ne vorrebbero anche per gli uomini, per gli artisti: una specie di gran convento libero, una sorta di falansterio di quel tipo. Lo condussero nel laboratorio, una grande sala dai muri sbiancati con la calce, dove le beghine erano disposte a cerchio, occupate a cucir biancheria, mentre recitavano a coro il rosario; una camera grande e verginale dove tutto era bianco; i muri come le anime, come la biancheria cucita e ricamata da quelle mani diligenti, e quegli altri ricami sul pavimento fioriti quasi in primavera di fiori freddi ma vari e delicati come i fiori di ghiaccio sui vetri, d’inverno. Simbolo apparente, pensava Giovanni, di quelle verginità tranquille che, per aver regolato le loro ore sulla monotonia delle piccole pratiche religiose, (come fermandole con gli spilli) hanno potuto anche comporre dei fiori con i fili della loro vita! ****** Giovanni aveva voluto l’amore senza denaro, la fanciulla eletta, conquistata attraverso tanti ostacoli; e la piccola suor Maria, l’ex beghina della Casa dei Fiori, era là, davanti a lui, viaggiava con lui, era sua moglie, tutta per lui! Giovanni adorava il mare, il mare del Nord, soprattutto, che non civetta sulla spiaggia in veste d’acqua azzurra con ricami di spuma; il mare del Nord, tragico e scontento, senza isolotti o scogli a fior d’acqua, il mare nudo e vergine, color dei cieli di novembre e delle pietre sepolcrali, di un grigio inalterabile e implacabile. Ma Maria stava ad ascoltare senza gusto e guardava appena l’immenso paesaggio liquido che le si agitava davanti: non c’era da dubitare che quell’infinito le sfuggiva, mentre, curiosa, si chinava sulla sabbia a raccogliere le conchiglie e le foladi erbose di varech. Ogni volta che parlava, Giovanni provava la dolorosa impressione di dovere spiegare le sue sensazioni, commentare il suo pensiero, abbassare di tono il suo sogno, attenuare i gorgheggi acuti dell’anima sua, perché Maria non lo seguiva nelle sue idee raffinate. Così, quando alla fine del mese, lasciarono la cittadina marina, Giovanni avvertì un’inquietudine al pensare che nella vita di un artista la donna può non essere una voce che parli, ma deve essere almeno un’eco che risponde. Trascorso qualche mese dal matrimonio, Giovanni cominciò a credere d’aver fatto male a sposare la piccola suor Maria: era come le altre. ***** Ogni sera, Giovanni, dopo cena, le leggeva qualche cosa, a bassa voce: per lo più versi di Hugo e, più spesso, di Baudelaire; ma ogni volta doveva accorgersi che ella non sentiva o ascoltava appena. Egli aveva sognato di vivere con lei come con una compagna più giovane da iniziare ala poesia, e, invece, se la ritrovava estranea ai bei versi, alle grandi musiche, senza il dono di impressionarsi e vibrare, in comunione con anime fraterne, di uno stesso brivido. Un giorno, Giovanni le parlò persino di quel che aveva scritto: le disse come avrebbe finito quel suo poema tutto facciate nere e chiaro di luna, e quali erano le sue speranze per quando sarebbe stato pubblicato. Maria l’ascoltava tutta contenta, con l’aria di partecipare alle sue chimere; poi, a un tratto, senza malizia, ingenuamente le chiese: “E quanto guadagnerai col tuo libro?” Il poeta non rispose nulla, divenuto di botto triste e silenzioso, sentendosi quella parola cieca e fredda nel cuore, come una coltellata. Non c’era dubbio: ella era come le altre; non sapeva immaginare una sublime abnegazione; ella che, pure, aveva capito la generosa follia del Crocefisso, non sapeva comprendere la follia dell’Arte. A lei, come ad altri, quello sforzo disinteressato doveva sembrare una pazzia! Era forse colpa sua se l’arte, la sua arte di scrittore, non gli dava nulla, in un paese dove non si legge? **** E Giovanni continuò a leggere altre poesie: sonetti, strofe, poemi di impressioni, tutte cose raffinate, cesellate, che egli considerava le migliori della sua opera, di cui però, sua moglie e sua madre (si vedeva) non afferravano la delicata fluidità. E Giovanni seguitava a leggere, macchinalmente, con la voce incerta, confusa, convinto, per non so che intuito segreto, di non essere più ascoltato; cercando di salvare le parole, di precipitare le strofe, di fronte a quella svogliata e distratta attenzione. Ogni tanto chiedeva a Maria: “Che te ne pare?” “Bene”. Ed ella si abbandonava a quella pallida fissità, come assorta in un voto di silenzio. Pazienza, l’indifferenza della folla, degli altri! Ma vedere i suoi, coloro che erano fatti della sua stesa anima e dello stesso sangue, vederseli accanto senza che i loro nervi vibrassero e i loro occhi lacrimassero, senza che il loro cervello avesse delle visioni, oh! Che dolore! Il dolore più grande per un poeta che, dopo essersi squarciato il petto come il pellicano della leggenda, non può dare da mangiare il suo cuore neppure ai propri cari. *** Giovanni invocò il massimo rispetto per quei tentativi d’arte nuova, d’eccezione, suoi e di pochi altri poeti sparsi qua e là, in qualche cittadina morta di provincia, come sentinelle sperdute che si cercano tra le tenebre e gridano la parola d’ordine: fatica sprecata! Perché quei pochi poeti morivano prima di aver compiuto l’opera; morivano di tristezza, di miseria, alcolizzati o pazzi, tra l’indifferenza generale. Quanti tesori sprecati, quanti talenti uccisi in germe. Un altro solo, della sua stessa generazione, aveva compiuto, come de Coster, vera opera d’arte; ricco, questi, nella solitudine di un castello signorile, però non meno dell’altro degno di compianto e sofferente, per aver gettato le sue armoniose fantasie lungo una via senza risonanze: il dolce Ottavio Pirmez, della cui vita nessuno si è curato, come neanche della morte, sopraggiunta oscuramente, inavvertitamente, a somiglianza della notte che si distende, invisibile, dopo il tramonto di una bella giornata. Solitario e fiero, non trovando chi lo capisse, nel suo paese, egli si contentò di un solo lettore: sé stesso; e scrisse per sé una bella musica d’anima. *** A che scopo? Perché doveva rinchiudersi in casa e cesellare i suoi sogni e dare tutta l’anima a quella folla indifferente o refrattaria? A che scopo? Era questa la frase che gli ritornava ogni giorno più insistentemente alle labbra, e gli mulinava nella testa e gli ossessionava la mente e gli rintoccava nelle tempie come una campana a morto che accompagnasse il feretro dei suoi sogni! A che scopo? E ora non pensava nemmeno a riprendere la sua vita altrove: era troppo tardi per trapiantare la sua anima, che aveva lasciato intristire negli anni migliori della giovinezza. Ormai era perduto per l’arte, assassinato da quella vita di provincia! La bella panoplia dei sogni e delle immagini che a venti anni era appesa come un trofeo ai muri dell’anima, si era ossidata al contatto dell’aria, al vento, al soffio freddo delle bocche indifferenti della folla. **** Quella passeggiata nel crepuscolo era stata sempre un gran piacere della sua vita: vedere nelle vie come una lotta dolorosa, i lumi accendersi lontano nell’agonia del sole. Giovanni raccoglieva entro di sé le confidenze della vecchiaia di una città che (lei, se non altri) lo amava e confidava nell’anima di lui! Come egli amava quella città e la ascoltava, la sera, raccontare storie fantasmagoriche e medievali, e si lasciava condurre lo sguardo per le scalinate delle guglie dentate, nei paesi di una volta. L’AMORE MORTALE Tom HANLIN Armadale, Scozia 1907 UNA SOLA VOLTA NELLA VITA, Un capolavoro sui temi della giovinezza, l’amore, la vita. Da Hanlin UNA SOLA VOLTA NELLA VITA Quando sono giovani, tutti gli uomini, una volta o l’altra, si innamorano di una determinata donna; e tutte le donne si innamorano di un determinato uomo. Accade a tutti. Accade una volta sola nella vita di tutti. Troverete gente la quale sosterrà che non è vero, gente che ci scherzerà sopra, gente che farà di tutto pur di non ammetterlo, perché hanno paura di riaprire una ferita, di essere derisi, di essere scoperti. Ognuno ha un suo angolo segreto nel proprio spirito, dove si svolge la sua vera vita che è assai diversa da quella esteriore dedicata al lavoro quotidiano. Il riaffiorare di un’eco del passato non vi ha mai tormentato? Una donna che passa e volge la testa bruna; l’inflessione di una voce; un suono, forse, o il vento, o un profumo; forse le stelle in una notte gelida, forse la pioggia che cade nel buio: qualcosa che per una magica associazione riporta il ricordo di un’altra persona. **** Anche Jenny aveva i piedi nudi. Era all’incirca della mia stessa statura e portava una camicetta rossa di maglia ed una gonna blu di panno. Ai polsi della camicetta aveva, come bottoni, due campanelle d’ottone e altre tre ne aveva all’altezza della gola. Quando si muoveva, le campanelle tintinnavano. Le sue guance erano rosse, i capelli neri neri e lasciati sciolti sulle spalle, gli occhi azzurri con punti neri proprio nel centro che facevano pensare a pietre preziose incastonate. **** “Te lo dimostrerò io, se tu non vuoi” disse Jenny, e mi si avvicinò camminando sui ginocchi; le campanelle sui posi tintinnarono e mi trovai circondato dalle sue braccia, mentre le labbra e i capelli sciolti mi sfioravano la guancia. Mi sentii invadere da un’ondata di calore, poi ebbi improvvisamente paura e arrossii in volto. Mi strappai dalle sue braccia proprio quando le sue labbra, morbide come il velluto, mormoravano il mio nome. La grande stanza era diventata improvvisamente piccola e calda; e lei era lì in attesa con le gambe piegate sotto di sè, con le guance infiammate, i capelli neri, gli occhi lucenti. Ora sapevo che Jenny era qualcosa di cui avevo bisogno. Ma come avessi bisogno di lei, e perché, non sapevo. Non sapevo come mi sarei comportato. Sentivo che lei aveva preso una iniziativa che sarebbe spettata a me, ma per fare qualcosa che non avremmo dovuto, e non sapevo se renderle il bacio, o batterla, o scappar via, o che cosa. **** Sedevamo allo stesso banco usando lo stesso calamaio e la stessa gomma. Il gomito e la mano di Jenny mi toccavano continuamente. Sentivo i suoi capelli neri, il suo profilo, la sua camicetta di maglia rossa, il suo respiro, il profumo che soltanto lei aveva. Paragonavo Jenny alle altre ragazze, e in tutte le altre c’era qualcosa che non andava. Mi avvicinai e con un balzo improvviso l’abbracciai. Faceva piccoli versi e girava il capo da una parte e dall’altra. D’un tratto il suo volto si fermò di fronte al mio; allora misi le mie labbra sulle sue, ed ella lasciò fare. ***** Me ne stavo a letto a pensare, e cercavo una soluzione a tutto ciò. Gli uomini si sposavano in due modi. Uno era il mio modo, quel modo strano con in sé qualcosa di male. Se la gente avesse saputo che volevate sposarvi nel modo cattivo, vi avrebbe fatto opposizione, e tenuto in disparte, e ve lo avrebbe reso impossibile. Non basta: si sarebbero uniti per mettervi al bando, togliendovi così la possibilità di condurre una vita facile ed avere il vostro posto tra gli uomini. L’altro modo era la consuetudine. *** “Quando la gente cresce, una volta o l’altra si sposa. Vuoi sposarti?” “Tu lo vuoi?” “Soltanto se sei tu, Jenny”. “Quanto a me, soltanto se sei tu, Frank”. **** Il mondo si stava spalancando, mi accingevo a fare grandi cose. Non sapevo di che cosa si trattasse, sapevo solo che nulla poteva impedirmi di fare quelle grandi cose che dovevo portare a compimento. Una volta ancora ero uomo tra gli uomini, e volevo essere come loro. Ma dietro di ciò era la sensazione di essere diverso da tutti gli altri e che dovevo lavorare per cercare di essere apparentemente come ogni altro. Tutti gli altri, invece, dovevano essere semplicemente sé stessi e basta, senza bisogno di lottare per giungere a questo. Pensiamo un istante. Al termine del giorno, quando sediamo soli, che è stato il giorno per noi? Null’altro che una serie di quadri che già svaniscono, e quelli che hanno parlato con noi non sono che ombre. Nel nostro spirito c’è solo una gran confusione. La vita reale non è reale, e non lo è perché il tempo la muove e la sospinge e spezza senza posa. E questa non si acquieta mai, non si ferma mai. Ma finisce quando noi finiamo. La sola cosa reale è quell’angolo segreto che abbiamo nel nostro intimo, ed è reale perché è al di fuori del tempo. Contiene tutti i pensieri che non si dicono mai, le immagini che non si descrivono, tutte le nostre speranze, le paure, i peccati, le vergogne. Il tempo non ha nulla a che fare con ciò. Là possiamo tornare vagabondando al passato, o precedere il domani. Possiamo prendere ciò che è stato detto, e ridirlo; possiamo prendere ciò che è stato fatto, e rifarlo, per accordarlo all’ideale. Quell’angolo segreto è immobile. Ci darà tutto ciò che chiediamo. E non finisce, neanche quando noi finiamo. Ciascuno sa che cosa succede in quell’angolo dentro di sé. Ma come può sapere che cosa succede in quello degli altri? Per saperlo, deve attenersi allo loro vita reale, alla loro vita esteriore di parole e di fatti. E tutti sono così bravi a nascondere, e il tempo è così indaffarato a spingerli innanzi e a modificare la loro vita esteriore, che davvero non so se qualcuno riesce mai a sapere. Per lei sono solo un uomo che lavora in un pozzo e lavorerà sempre in un pozzo; e qualunque donna si leghi a un uomo così, si lega a una stanza con cucina, con nessun altra prospettiva se non miseria. E lei vuole tenersi alla larga da tutto ciò. Ha visto altri modi di vivere, e tutti migliori, e sogna il suo futuro in uno di questi. **** “Un giorno, Jenny, tra qualche tempo, cammineremo ancora per questa strada. E vedremo quella stessa fila di luci, ma una di esse sarà la nostra, splenderà da casa nostra, tua e mia. Ed entreremo in quella casa e sopra la mensola ci sarà il nostro ritratto fatto nel giorno delle nozze. Un giorno tutto questo sarà vero, Jenny”. “Un giorno, Frank” sussurrò. **** Pentole, padelle, quadri, ninnoli passarono sotto il mio sguardo, e dovetti indovinare il prezzo della credenza. «Adesso guarda la radio, Frank. Accendila, Gus, fagli ascoltare la voce. Abbiamo preso l'America la prima volta che l'abbiamo ac¬cesa: ce ne vuole per batterla, Frank ! Non siamo stati fortunati, a trovare una casa per noi? » Per tutto quel tempo li invidiai terribilmente. Cosí avremmo potuto essere io e Jenny. Solo che avessimo potuto stare l'uno accanto all'altra come Gus e Cely, e cosí saremmo stati io e Jenny. Poi strani, cattivi pensieri mi assalirono. Hanno soltanto una stanza in cima a una scala in una via secondaria, e in questa viuzza secon¬daria devono vivere per tutta la vita. Sono carichi di debiti. E’ chiaro che Gus non esce mai di casa, e nemmeno Cely, eccetto il sabato per andare al cinema. Quando riusciranno a pagare i debiti, ci sarà un bambino sul tappeto, e poi un altro ed un altro ancora. Non riusciranno mai ad avere un momento di respiro, finché non avranno tirato su i figli, e allora sarà tempo di inchiodarli in una cassa. Non ero un uomo libero, senza alcun legame ? Potevo fare qualsiasi cosa, o lasciar andare qual¬siasi cosa, e recarmi in qualsiasi posto; non c'era nulla o nessuno che mi potesse trattenere. Ma non c'era neppure alcuno che mi spingesse. Il mondo era mio perché avevo ancora qualcosa da trovare. E questo qualcosa… non era quello che loro avevano già trovato? L’antico sentimento per Jenny bruciava dentro di me; una volta ancora le candele erano accese davanti al suo altare. **** Sempre mi stupiva quando la vedevo in carne ed ossa. Potevo figurarmela con la mente; tuttavia, ogni volta che la vedevo in realtà, dovevo trattenere il respiro. Jenny era uguale a tutte le donne che sono nate per mettersi a posto, per fare le cose che si sono sempre fatte. Vogliono migliorarle, ma non vogliono cambiarle. Dammi una casa ed un uomo, e date un lavoro a quell’uomo perché possa darmi il denaro che guadagna. “Avrò bambini da lui, e li alleverò. Creerò un mondo accanto al focolare”. Ecco che cosa sono le donne. Il matrimonio è la fine. Non c’è più ritorno, non c’è scampo. E’ il termine, il punto culminante. Come la morte, non si può dimenticare, né si può staccarsene. Si può piangere; il nostro cuore può spezzarsi; nulla lo muta. **** Era sera, e nella strada c’era la calma di una sera estiva; dalle automobili che passavano veniva odore di benzina e rumori dalle gente che ci sfiorava, gente e cose che erano diventate d’improvviso remote come i pesci dell’acquario. Non c’era null’altro e nessun altro al mondo, all’infuori di me e di Jenny Dewar. *** Entrai un bar a bere, e chiunque mi avesse guardato avrebbe visto soltanto un uomo che beveva. Ma ero uno che era stato spezzato e stava mettendo insieme i suoi pezzi. Sapevo una cosa: non ero dimenticato; nell’angolo segreto dello spirito di Jenny, Frank Steward dominava ancora. Dovevo solo apparire, e tutto il suo mondo andava in frantumi. Lo stesso era per me: lei doveva soltanto apparire in tutta la sua perfezione, e mi avrebbe potuto uccidere con uno sguardo. *** Ecco Jenny Dewar e tutto quello che le restava: lavoro e miseria, senza fine; il peso di una sola stanza, giorno dopo giorno; nulla da indossare e poco da mangiare; raccontare la storia della propria vita ad una persona dalla faccia dura in un ufficio parrocchiale, andare timidamente in cerca di scale da strofinare e di panni da lavare, con scarpe pesanti e grembiule da fatica. A questo era arrivata Jenny Dewar, a questa capanna sulla collina, circondata di detriti e di alberi morti. Eccola lì, tra le sue cose, sola. E fuori, la palude e il vento e il buio, e al di sopra di tutto le stelle. **** Non ci sono più scale da strofinare, non ci sono più panni da lavare, non ci sono più code da fare agli uffici parrocchiali, non ci sono più viuzze laterali da percorrere per evitare coloro che conoscevano Jenny Dewar, quando Jenny Dewar aveva 19 anni. Non più una sola stanza, non più miseria. Non più sofferenza, non più tradimenti, non più consunzione. Immune per l’eternità dalla tristezza e dalla bellezza e dall’orrore che è la vita. Per Olof EKSTROM Svezia 1926 1981 HA BALLATO UNA SOLA ESTATE Una incantevole storia d’amore, nella magia della campagna svedese. Da Per Olof Ekstrom HA BALLATO UNA SOLA ESTATE L’aria era di cristallo e il cielo sembrava di seta. Ma il sole non dava calore e la notte gelava ancora. La ragazza era piena di vento, di sole, di gioia di vivere. **** Fu come se un sipario si fosse levato, come se si fosse dissipata la nebbia. Vedeva sempre più lontano e con maggior chiarezza. Goran ebbe la sensazione che universi sconosciuti gli si aprissero dinanzi. *** La sera di San Giovanni ci si sarebbe creduti in aprile. Di tanto in tanto pioveva e faceva freddo, poi il sole si faceva strada ad asciugare l’umidità. Pesanti nuvole grigie scorrevano da ovest ad est. All’apparire del sole brillavano come fossero di neve. I campi di segale ondeggiavano al sole. Accanto alla fattoria di Josias Helden le ventate maltrattavano i pioppi argentati che si facevano tutti banchi. *** Quando Dio fa una ragazza si regola in un certo modo: prima prende un piccolo corpo delicato, che rende morbido ed agile, poi la sua mano possente prende i colori della luce, del cielo e della terra, ed egli li mescola per creare la sua anima. Allora la ragazza risplende tra gli altri fiori luminosi che il Signore ha creato con la sua mano perché siano di conforto al genere umano. Ragazza, piccolo fiore! Vieni a consolare il mio cuore. **** Immagina che ogni essere umano sia come una piccola fiamma, simile a quelle, una luce che si muove nel tempo e nello spazio. Immagina che lasci dietro di sé una piccola scia luminosa. Che trama intricata e strana ne deriverebbe: esseri che si incontrano e poi di nuovo si separano. Delle fiamme si accendono, altre si spengono; talvolta due piccole stelline, fatte una per l’altra, si incontrano e danno vita a una luce immensa e chiara… A sua volta fu invaso da uno spaventoso senso di solitudine… gli sembrava che la pianura, tutto intorno a loro si sollevasse per ricadere su di lui, schiacciandolo con il suo peso immenso. E quel vento, poi, quel vento rigido che soffiava sul cielo pesante e basso. Paese di fantasmi, patria di folli… Henrik SIENKIEWICZ Polonia 1846 1916 Il suo capolavoro è HANIA. Un amore fra adolescenti: una grande ricchezza di piacere e dolore. Nota: nelle storie della letteratura che ho consultato questo romanzo di Sienkiewicz non viene segnalato! Da Sienkiewicz HANIA Così, cominciavo a sentire le profonde gioie dell’amore, e nello stesso tempo le pene che l’amore ci procura. Ma sprecai stupidamente quel momento supremo. Mi avvicinai a lei, le presi la mano, e le dissi: “Hania…”; ma feci tutto questo in modo tanto goffo, con così poca naturalezza, e la voce con cui parlai fu tanto diversa dalla mia, che decisi subito di tacere, rimanendo imbarazzato più che mai. Ah! Come fui irritato, allora, contro me stesso!… **** “La donna! L'amore! Siamo tanto imbecilli da attribuire all'una e all'altro un'importanza straordinaria, e appunto per questo siamo tan¬to infelici!... Mio caro, fa' come faccio io: domanda alla donna un po' di piacere, ma non diventare suo schiavo. È una mercanzia che inganna; abbi l'astuzia di non comprarla con del denaro buono! Vi giuro che non la calunnio, la donna... Essa piace anche a me, ma vi assicuro che non mi lascio illudere!... Anch’io fui innamorato… Sì, di una certa Lola. Avrei adorato la sua veste come una cosa sacra, quantunque non fosse altro che un pezzo di cotonina… Ebbene: quella Lola si voltolava nel fango, mentre io le facevo un trono nel cielo! E avevo torto io! Perché voler dare, per forza, delle ali a un essere umano? Come è stupido, l’uomo!” **** Guardai Hania. Mio Dio, quanto era mutata, in sei mesi! Invece della gracile bambinetta che avevo lasciata, vedevo ora una ragazza quasi completamente formata, quasi grassi, robusta, non più tanto pallida. Somigliava a una rosa; le sue guance colorite attestavano la salute, la freschezza giovanile. Mi accorsi che i suoi occhioni azzurri mi osservavano con vivissima curiosità. Lei si avvide, dal canto suo, dell’impressione che produceva in me, ed un sorriso le sfiorò le labbra. D’altronde, seppi in breve quanto ella fosse più matura di me, per certe cose. Io ero istruito, ma a paragone di lei ero ancora un fanciullo in tutto ciò che concerne la vita, in tutto ciò che si deve fare o dire secondo le circostanze. Certo, non l’avrei più dominata con una vera superiorità, neppure come tutore. Durante il viaggio, mi ero proposto di sostenere convenientemente la mia parte, di parlarle con affettuosa indulgenza paterna; ma ora sentivo l’impossibilità di un simile contegno. Avvenne invece che fu lei a mostrarsi buona e affettuosamente condiscendente verso di me! Questa inversione delle parti mi sfuggì dapprima, ma poi dovetti arrendermi all’evidenza. Perciò, quando fui solo nella mia camera e mi diedi a riepilogare le mie impressioni, mi sentii dominato da uno stupore a cui si univa un sentimento complesso di delusione e di umiliazione. E allora il mio amore d'un tem¬po riapparve nel mio cuore, come il fuoco riappare dalle fessure di una casa internamen¬te incendiata. Il viso puro e leggiadro di Ha¬nia, che avevo visto ancora un po' intorpidito dal sonno, la manina bianca fra le pieghe della mantiglia indossata in fretta, i lunghi capelli sciolti, tutti i particolari che mi avevano maggiormente colpito in lei, erano causa, ora, di un gran disordine nei miei pensieri, e, in realtà, non riuscivo a pensare ad altro… In realtà, io l'avevo lasciata tanto bambina non da non poter sapere che cosa fosse un senti¬mento. Per lei, allora, tutto ciò che ci eravamo detto sarebbe stato incomprensibile. Ora, invece,¬ella dimostrava una tale disinvoltura ed una tale comprensione, nell'accennare a certe sfumature sentimentali, da far supporre che sapesse più di quanto doveva realmente sa¬pere... Come si era sviluppata e raffinata, la sua intelligenza ancora tanto puerile pochi mesi innanzi!... Un simile fenomeno si veri¬fica spesso, nelle fanciulle. Tutto un mondo di idee e di sentimenti sboccia in loro talvolta, con incredibile prontezza, da un mese all'al¬tro. Hania aveva ormai diciassette anni, e per¬chè una completa metamorfosi avvenisse in soli sei mesi nel suo essere fine e sensibilissi¬mo, era bastato qualche influsso dell'ambiente in cui viveva, dell'istruzione che aveva rice¬vuta, dei libri che forse aveva letti di nascosto. Infine, Hania alzò gli occhi, li fissò nei miei, ed io la guardai ugualmente, e ci sentimmo più confusi di prima. Seduti uno a fianco dell’altra, immobili e muti, sembravamo di legno. Io sentivo distintamente i battiti precipitati del mio cuore. Di tanto in tanto, mi pareva che una forza mi afferrasse al collo per buttarmi ai piedi di Hania; ma subito un’altra forza mi teneva per i capelli e mi impediva di muovermi… Hania si decise ad alzarsi, e mi disse rapidamente, con un’inquietudine nella voce: “Devo andare… Sono quasi le undici! la signora d’Ives mi aspetta!…” *** Dopo aver suonato ancora per qualche mi¬nuto, Hania smise, alzò il capo, e mi parlò con una voce insinuante e dolce: “ Signor Enrico...” “Che c'è, Hania?” “ Volevo domandarvi una cosa... Non so più... Ah, sì! Ecco: me ne rammento... Il si¬gnor Selim è stato invitato per domani?” “ No. Mio padre ha detto che domani an¬dremo ad Usciz. È arrivato un pacco che dob¬biamo consegnare alla signora Uscizka.” Hania tacque. Poi, rimise le mani sulla ta¬stiera e ne trasse alcuni accordi. Io sentivo che il suo pensiero errava altrove, e che le sue dita suonavano macchinalmente. Dopo un mo¬mento, ella mi guardò di nuovo, e riprese: “ Signor Enrico...” “ Hania?...” “ Ho da domandarvi un'altra cosa... Quel¬la Giosia di Varsavia, è bella?” Il mio cuore si empì di una triste collera. Mi fu impossibile frenarmi, scattai in piedi, e, avvicinatomi al pianoforte, dissi ad Hania con voce tremante: “ Non temere... È meno bella di te! Puoi esser certa che riuscirai con facilità a sedurre completamente Selim e a farti adorare da lui!” Hania arrossì violentemente, e a sua volta si alzò di scatto: “ Oh, che dite, signor Enrico?” “ Mi capisci benissimo, Hania. Non occorrono spiegazioni!” E, ripreso il cappello, uscii dal salotto. *** Per quanto fossi ingenuo ed inesperto, intuivo questa verità! E sapevo anche un'altra cosa: che fra gli avvenimenti complessi che erano da prevedere, io non sarei stato guidato dalla mia volontà, ma dal mio istinto e da quei casi secondari che spesso producono dei grandi risultati e talvolta decidono della felicità o del¬l'infelicità d'un uomo. Perciò ero forse più infelice di quanto dovessi esserlo per le cause soltanto apparenti che credevo di scoprire; ma l'infelicità non è determinata soltanto dalla forza degli avvenimenti; nasce anche dalla sen¬sibilità del soggetto, ed è più o meno grande a seconda del grado maggiore o minore di questa sensibilità. *** Hania mi salutò con cortesia, ma tanto freddamente da annientare lì per lì tutte le mie buone intenzioni. Poi ella andò a sedersi al suo posto, accanto la governante, e non mi guardò più, per tutta la durata del pasto. Allora la vita mi apparve tristissima, vuota, priva di qualsiasi valore… ¬Amavo Hania con tutto l'ardore del mio cuore adolescente. L'adoravo come si può adorare la divinità. Amavo tutto, di lei: i suoi occhi, ogni ricciolo dei suoi capelli, le sue labbra, la sua voce, e perfino la sua veste e ¬l'aria che respirava. Il mio amore traboccava da tutto il mio essere. Era tutta la mia vita; mi scorreva nelle vene e mi consumava. Per altri, l'amore forse non esclude le altre preoccupazioni dell'esistenza; per me, tutto l’universo si compendiava in Hania; tutti i miei pensieri si riferivano a lei, e per tutto ciò che non la riguardava, rimanevo cieco e sordo. Ardevo come una fiaccola, e quel fuoco mi divorava, e sentivo che avrei potuto morirne. Oh, soffrivo immensamente! Udivo nei viali vicini le liete conversazioni degli altri visitatori e degli ospiti; sentivo intorno a me il profumo di mille fiori; gli uccelli, prima di abbandonarsi al sonno, cinguettavano sugli alberi, mentre il cielo si coloriva delle luci meravigliose del tramonto. Tutto era pace e dolcezza, ed io solo, fra tanta magnificenza di vita, invocavo la morte, con le lacrime agli occhi!… Allora, l’avvenire si presentava alla mia mente come un’abisso di desolazione: un avvenire senza Hania, terribilmente vuoto e triste. *** Infatti, l’Hania di un tempo non esisteva più, o piuttosto non esisteva più la mia passione per lei;e nel mio cuore rimaneva soltanto il gran vuoto lasciato da un grande amore, rimaneva soltanto il dolore di una ferita aperta… Henrik Sienkiewicz LOTTE VANE Da Sienkiewicz LOTTE VANE No. Ho perduto ogni stima delle donne. In principio avevo piena fede in loro, le ho onorate, le ho amate e ritenute il miglior compenso per le nostre fatiche e il nostro lavoro; ora invece mi piacciono… ma in un altro modo, tu mi capisci? E questo rende impossibile l’amore. Il concetto del fidanzamento si potrebbe raffigurare ad un velo trasparente che copre le forme della donna amata. Trascinandola all’altare, le si strappa anche quello, non pensando che, col velo, si toglie anche l’incanto. **** Se avesse avuto una stella nei capelli la si sarebbe presa per un angelo. **** Come tutti, anche egli dovette scaricare la vita, o meglio l’esuberanza giovanile della vita, nel canale stretto dell’amore e della donna. Noi abbiamo consumato troppa forza vitale nella caccia all’amore delle donne… L’amore è volato via come un uccello, e le nostre forze si fiaccarono in lotte vane. Jan OTCENASEK Cecoslovacchia 1924 ROMEO GIULIETTA E LE TENEBRE Nel 1960 da questo suggestivo romanzo è stato tratto un ottimo film: Giulietta Romeo e le tenebre. Da Otcenasek ROMEO GIULIETTA E LE TENEBRE Le vecchie case sono come la gente vecchia: piene di ricordi. Hanno una loro vita e fisionomia particolare. I loro muri putridi hanno forse assorbito già tutti gli odori che perdurano nella prossimità delle dimore umane. Da tempo hanno perduto l’insignificante odore di malta e di calce, così caratteristico per le moderne e talvolta anche un poco monotone scatole sulle distese della periferia che non hanno potuto farsi sinora una loro storia. I muri delle vecchie case sono vivi. Vivono dei destini che si sono svolti fra di loro. Quante cose hanno visto? Quante ne hanno sentite? **** C’erano due porte: una dava nella sartoria ed era sempre chiusa, l’altra dava direttamente sul corridoio. La povertà dell’arredamento comprato per quattro soldi dai rigattieri della città vecchia, non diminuiva l’intimità di questa tana. Qui era possibile leggere e sognare. Qui si era perfettamente indipendenti e maturi. Bastava chiudere la porta. Per questa porta talvolta entrava anche una donna. Non la conosceva, non le vedeva il viso e non sentiva la sua voce, perché era immaginaria, presente solo nella impaziente attesa, tessuta di un opaco desiderio e di un sogno dolciastro, di cui lui stesso si vergognava un poco. *** La città serale rumoreggiava da lontano. Il ragazzo sbadigliò. Un sospiro? Chiuse la bocca e girò la testa. Una ragazza stava seduta sul lato opposto della panchina, stranamente rannicchiata in se stessa. Una vali¬getta nera sulle ginocchia, la teneva con la destra, la stringeva sul petto, come se avesse paura che qualcuno gliela potesse strappare. Dato che aveva la testa inchinata, vide solo il suo profilo. Nel fiac¬co crepuscolo luccicava il viso sotto i capelli neri; sotto la stoffa della gonna estiva le ginocchia era¬no serrate strette. Lui credeva che dormisse, tanto era immobile. Si rese conto che la guardava con una curiosità maldestra, e si rabbuiò. Tentò di staccarne gli oc¬chi, ma non ci riuscì. Non era più così gradevol¬mente solo con i suoi pensieri. “ Non è venuto al¬l'appuntamento, signorina? ”. Dopo un momento si accorse con meraviglia che lei piangeva. Un pianto soffocato, quasi impercettibile, scuoteva le spalle curve, un singhiozzo da bambino. Buttò la cicca sul sentiero e con sforzo si decise: “ Le è successo qualcosa, signorina?” Lei non si mosse, non alzò nemmeno gli occhi. La domanda rimase nel silenzio senza eco. Lui tossicchiò, avvicinandosi. “ Perché piange?” Lei scosse la testa, ma continuò a tacere. Il ragazzo cessò di guardarla simulando una com¬pleta indifferenza, però non riuscì ad alzarsi e andarsene. Sedettero così in un lungo pesante silenzio, gli sembrò che passasse tutta un'ora prima che riprendesse coraggio: “Le posso essere utile in qualche modo?” “No, mi lasci stare, per piacere! Non si oc¬cupi di me!” “Ma io... voglio dire lei... piange... Io solo... non penserà mica...” Ascoltava il proprio confuso balbettio e gli sembrava che fosse un altro a parlare. Vergognandosi, tacque solo quando accanto a loro passò una cop¬pia silenziosa. Ehm... e adesso? Rifletteva con la fiducia di sé scossa. Non gli restava che andarsene, non sapeva nemmeno allacciare un discorso discreto con una fanciulla non conosciuta nei corri¬doi della scuola. E poi... Il tempo passava; esitando guardò l'orologio da polso. Erano già le nove passate, certamente avreb¬be perduto l'inizio del film, accidenti! Sulla città pendeva già la tenebra primaverile. Ma quando si girò di nuovo, continuò a starsene seduto. Lei singhiozzava ancora con il viso voltato verso terra, inghiottendo le lacrime. Deciso, si chinò verso di lei, ma lei si raddrizzò, come se volesse saltare o scappare. Non la capiva proprio. Disarmato, scosse le spalle. “Se ne vada!” “Ma perché? Se io...” “Che gliene importa di me? Mi lasci stare, ha capito? ” Lui non sapeva come rispondere. E si sentiva adesso piccolo e spaurito, impreparato a una tale valanga di impressioni e capiva che ora nemmeno una sigaretta lo avrebbe aiutato. I pensieri confusi gli giravano in testa da soli, ma non riusciva a trattenerli. E adesso? Andarsene? Sapeva che non poteva andarsene. E nemmeno voleva. ***** Si sedette affannato di fronte a lei e la guardò attentamente. Solo ora alla luce si accorse che lei era bella. Il viso sotto i capelli scuri era di un pallore irreale, non simmetrico, ma le piccole sproporzioni lo rendevano più espressivo. Non tur¬bavano. Gli occhi come una notte di grafite nera splendevano sotto gli archi delle fitte sopracciglia che si incontravano con qualche rado peluzzo so¬pra il naso. Gli occhi splendenti, timidi e com¬moventi, pieni di meraviglia infantile, erano belli. Scivolò con lo sguardo sul suo seno piccolo sotto la camicetta bianca con una stella gialla. Svelto abbassò gli occhi. Gli girava un poco la testa. Mai, nemmeno molto più tardi, riuscì a distin¬guere di che cosa lei odorasse. Sapone, profumo dozzinale, capelli, odore di ascelle. Quella notte si addormentò nella sua stanzetta con sentimenti complicati nel cuore. Quante cose erano accadute quella sera? C’era in lui un po’ di paura e anche una strana gioia, curiosità e superbia della propria azione. Si chiamava Esther. Che nome! Forse, forse, l’ha salvata davvero. **** Era sorpreso che lei non lo avesse fatto uscire. Sentì i piedi nudi che si poggiavano sul pavimento, il ticchettio delle scarpette, il fruscio della biancheria sul corpo nudo. Il sangue gli battè nelle tempie, il corpo si irrigidì immobile. Si passò la mano sul viso asciutto. Faceva caldo. “Ti conosco da sempre eppure ci siamo incontrati solo avanti ieri sera, nel parco, sulla panchina. Può darsi che ci siamo incontrati in una vita precedente. Forse fummo fratello e sorella. Oppure due amanti male assortiti. Dico sciocchezze, è vero?” La baciò maldestro come un ragazzo. Lei scosse la testa, le labbra le scivolarono sul viso, ma lui non si arrese, finchè non raggiunse le sue labbra. Un silenzio tremulo li avvolse, le parole tornarono da lontano ed esitanti. La casa attorno a loro si addormentava d’un sonno irrequieto ma loro due vegliavano. Senti? Che silenzio ora. Quel rumore appena percettibile lì accanto, non è niente, sono solo i topi… **** Smise di leggere e di occuparsi delle stelle. Che farsene adesso? Che gliene importa, se non può tenere la propria vita fra le mani. Ogni amore ha la sua storia. Anche se abbastanza breve. Una specie di storia in sintesi. Ha il suo tempo di crescita e di maturità. Ha i suoi alti solari e bassi precipitosi. Le sue piogge e nevicate. Lei non appartiene più a nessun posto e a nessuno. Solo a me. E alle tenebre. ***** “Paolo…” Brutto risveglio: attorno a lui c’erano solo quattro muri tristi. “Mmmm…? Che c’è?” “Hai già avuto… una donna?” Lui si alzò sui gomiti. “Che vuoi dire? Se io…” “Così” si fermò imbarazzata “penso se l’hai posseduta. Tu sai certamente…” Non rispondeva, sgradevolmente sorpreso da questa domanda. Non se l’aspettava. Come se lo avessero spruzzato con l’acqua gelata. Si coricò di nuovo supino, guardando con aria seccata il soffitto. Perché questa domanda? Esitò, ma alla fine ammise malvolentieri. La verità. “No”. E subito aggiunse: “Perché me lo domandi?” “Così. Sono contenta.” **** Danzavano, e l’ombra deforme di due corpi stretti scivolava sui muri, si arrampicava sul soffitto, sventolava, si spezzava negli angoli, la luce e l’ombra cadevano sul volto di Esther a spirali. Gli sembrò di vederla ora in modo diverso. Si stringeva a lui con tutto il corpo, la testa rovesciata indietro, gli occhi socchiusi e le labbra semiaperte. La stringeva con tutte le forze. L'incendio li prese contemporaneamente, confondendo i loro pensieri. Tutto svaniva, restava solo lei, centro di tutto. Tutto ciò somigliava ad un volo, a una vertigine. Le accarezzò le guance con una dura tenerezza, accecato da nuovi sentimenti; ah, quel cuore! Le batteva incontro come una campana. E il suo respiro! Gli passava sul viso ardente, nei capelli, sulle tempie. Solo quando posò le labbra sul suo petto scoperto e sulle piccole punte dei seni, lei si oppose con tutto il corpo in una difesa disperata. Lui le infilò le mani nei capelli, la travolse supina e, poiché si difendeva, cominciarono a lottare tra scoppi di risa soffocate. In quella lotta lei usava tutte le arti femminili, che gli uomini per principio non ammettono. ***** E sapeva che ogni giorno divenivano più vicini l’uno all’altra, anche se non si erano ancora conosciuti intimamente come uomo e donna. E sapevano che tutti e due avevano uno strano timore davanti a ciò che si avvicinava come in un cerchio, che pendeva sopra di loro come una domand¬a senza parole, sorgeva dalla profondità della tenerezza e di nuovo si allontanava, portato via dalla timidezza che scioccamente lottava col desiderio. Quel desiderio! Era in ogni carezza, lui l'aveva negli occhi, nella bocca e lo nascondeva con uno sforzo, che lei sapeva apprezzare. Li sorprendevano certi momenti, in cui evitavano di guardarsi negli occhi. Solo la memoria lavora fervidamente. Proietta come una fantastica lanterna magica le immagini sbiadite, capovolte. Ogni tanto le sembrava che quello che aveva vissuto prima non fosse nemmeno vita. Forse era solo attesa di quello che si avvicinava, una illusione, un sogno. Tredici anni! Lei ha un’amica intima, Jitka, con le forze unite pregano la madre di farle tagliare le trecce. Una piccola congiura di cui anche il padre era scontento e mormorava. E poi diventa già quasi signorina, metà bambina, metà donna, sul petto piatto si alzano timidamente due collinette; un poco ghigna, un poco piagnucola, meravigliata dal cambiamento di se stessa, ecci¬tata da ciò che le è entrato nel corpo e le ha confuso i pensieri, impacciata dai sentimenti co¬lorati che la penetrano, sbrigliata e d'improvviso tenera e immersa nel suo complicato mondo. Le confidenze e il sussurrio e le risate stridule delle ragazzine e le passeggiate solitarie con un faz¬zoletto appallottolato nel pugno. ***** “ Paolo!” “ Dimmi!” disse con la voce rauca e la gola secca. Lei lo attirò a sé con tutta la forza, premette le labbra sulla sua bocca immobile. Poi sentì la sua voce. “Io voglio che tu mi prenda. Ora, subito, prendimi, non aspettare, mio caro...” Fuori del tempo! Il tempo passava attorno a loro, ma non li toccava. Erano caduti fuori dalla sua carrozza strepitante. Gli si arrese subito tutta, con un pudore non offuscato da vergogna, il suo corpo gli bruciava tra le braccia. Si era sciolta in lui. Non esisteva più. Amor mio! Un grido som¬messo dalle profondità! Sentì questo grido quan¬do entrò nel suo corpo, e tremò tutto. **** Tutto defluiva; ritornavano senza comprendere ancora, stupefatti dalla forza che persisteva in lo¬ro, penetrati d’una gratitudine senza parole. Posò la guancia ardente sul bianco petto scoperto, sot¬to la sua guancia i seni nudi si alzavano nel re¬spiro; il cuore rallentava la sua corsa. Lo senti. Tacevano entrambi. Non avevano parole. Lui, gli occhi chiusi, la sentiva ancora con tutto il suo corpo. Dal buio gli giungevano le sue carezze, la tenerezza e l'odore gli faceva girare la testa. Giacquero a lungo così sperduti l'uno nell'altra tra le mura della città, due piccole pallottole, rotolate sotto una grondaia. Le ore? Forse gli anni, gli anni-luce con cui si misurano le distanze tra le stelle. ******* Da lei! Da lei! Il cervello macinava a vuoto queste due parole, mulino senza grano. La lei! Da lei! ******* Le vecchie case sono come i vecchi uomini: pieni dì ricordi. Hanno la loro facciata, il loro odore. I loro muri vivono in una maniera straordinaria. Che casa hanno visto? Che cosa hanno sentito? La loro ver¬nice screpolata ne ha assorbite di cose durante gli anni! Sì, quei muri sono le vive avventure della gente, avventure che si sono svolte tra loro. Certe di queste vanno spesso ricordate, altre ca¬dono nell'oblio, Delle altre si tace. Vivono senza parole, dietro le labbra, dietro gli occhi. Appar¬tengono alla storia mai scritta, eccitante, delle vecchie case. Le vecchie case hanno la loro voce mattutina. Ascolta: qualcuno scende la scala, fischietta adagio, il berretto piatto passa per un attimo da¬lla finestra, i sandali schioccano sulle mattonelle, poi una sveglia suona di sopra, e un bambino destato dal sonno le risponde con uno strillo rabbioso. I passi e le voci, la fontanella fa cantare nell’angolo¬ della balconata un secchio di latta, in qualche posto gorgheggia un alto riso di ragazza... la casa si sveglia e dalla porta aperta della cucina si sente il rumore d'un macinino da caffè… Jules Amedee BARBEY D’AUREVILLY Saint Sauveur le Vicomte nel Cotentin 1808 Parigi 1889 LE DIABOLICHE E’ un capolavoro. Racconta i drammi segreti delle cittadine di provincia; le storie d’amore che si svolgono sotto le coltri del perbenismo; le passioni che covano sotto la cenere della rispettabilità. Da Barbey D’aurevilly La tenda cremisi in LE DIABOLICHE All’infuori di questo e dell’eterna domanda, sempre la medesima, di qualche viaggiatore, istupidito dal sonno che abbassava uno sportello e gridava nella notte, resa ancor più sonora a furia di silenzio: " Ehi, dove siamo, postiglione? "... nul¬la di vivo si sentiva o si vedeva intorno e dentro quel¬la vettura piena di persone che dormivano, in quella città addormentata, ove forse qualche sognatore, come me, cercava attraverso il vetro del suo scompartimen¬to di scorgere la facciata delle case, sfumanti nella notte, oppure sospendeva lo sguardo e il pensiero a una finestra ancora illuminata a quell'ora tarda, in quel¬le cittadine dai costumi regolati e semplici, per le quali la notte era fatta soprattutto per dormire. La veglia di un essere umano - fosse pur solo d'una sentinella -, quando tutti gli altri sono immersi nell'assopimento ca¬ratteristico dell'animalità affaticata, ha sempre qual¬cosa d'imponente. Ma ignorare il motivo per cui si ve¬glia dietro una finestra dalle tende abbassate, ove il lume tradisce la vita e il pensiero, aggiunge la poesia del sogno alla poesia della realtà. Quanto a me almeno non ho mai saputo vedere una finestra, illuminata di notte, in una città dormiente attraverso la quale pas¬savo, senza appendere entro quella cornice di luce un mondo di pensieri, senza immaginare dietro quelle ten¬de delle intimità e dei drammi... E ora, certo, in capo a tanti anni, ho ancora nella mente alcune di quelle fine¬stre che vi sono rimaste, eternamente e melanconica¬mente luminose, e che mi fanno dire spesso, quando, pensandole, le rivedo nelle mie fantasticherie: "Ma che c'era dietro quelle tende?" ***** Ma vi sono cose che non si dimenticano più. Non tante, ma ve ne sono. Ne conosco tre: la prima uniforme indossata, la battaglia sferrata, la prima donna posseduta. Ebbene! Per me quella finestra rappresenta la quarta cosa indimenticabile. ***** La loro figliola! Era impossibile sembrare meno di così la figlia di persone come quelle! Non già che le più belle ragazze del mondo non possano nascere da qualsiasi sorta di gente. Ne ho conosciute… e anche voi, non è vero? Fisiologicamente l’essere più laido può produrre il più bello. Ma lei! Tra lei e loro v’era l’abisso di una razza! “Che bella figliola!” e non si sarebbe pensato a lei più che a qualsiasi bella figliola incontrata per caso, e di cui si dicono quelle parole per non pensarci più. Ma quell’aria… che la isolava, non soltanto dai suoi genitori, ma da chiunque altro, di cui pareva possedere né le passioni, né i sentimenti, vi inchiodava… di meraviglia sul posto… Vidi scuro… mi fischiarono le orecchie. Credo che impallidii spaventosamente. Mi parve di svenire… d’essere sul punto di dissolvermi nell’indicibile voluttà cagionatami dalla carne soda di quella mano, un po’ grande e forte come quella di un ragazzo, che stringeva la mia. Sono passati ormai 35 anni, e mi farete l’onore di credere che frattanto la mia mano si è non poco viziata alla carezza delle mani femminili; ma provo ancora, quando ci penso, l’impressione di quella che stringeva la mia con un dispotismo così follemente appassionato! Questo mi pareva più forte di quanto avessi mai letto, di quanto avessi mai sentito dire sulla naturalezza della menzogna attribuita alla donne, sulla potenza della maschera che esse sono in grado di atteggiare davanti alle loro più violente o profonde emozioni. Ma pensate! Aveva diciott’anni! Se li aveva poi!… ***** Fu una missiva di circostanza, il biglietto supplichevole, imperioso ed ebbro di un uomo che ha già bevuto una prima sorsata di felicità e ne chiede una seconda… Avevo la signorina Alberta di fronte, e la guardavo con quell’intenzione insistente che vuol farsi capire. Vi erano venticinque punti interrogativi nei miei occhi; ma i suoi erano calmi e muti e indifferenti come al solito. Mi guardavano, ma era come se non mi vedessero. Bollivo di curiosità, di dispetto, d’inquietudine, d’un mucchio di sentimenti agitati e delusi… E se così avveniva durante il giorno, non altrimenti accadeva gran parte della notte. Mi coricavo tardi. Non dormivo più. Mi teneva sveglio, quell’Alberta d’inferno che me lo aveva acceso nelle vene, per poi allontanarsi come l’incendiario che non volge nemmeno il capo per vedere il fuoco da lui stesso acceso fiammeggiare dietro di sè. Ah! Perbacco! Parlano di visioni coloro che ci credono; ma il più sovrannaturale degli spettri non mi avrebbe arrecato la sorpresa, il colpo al cuore che sentii e che si replicò in palpitazioni folli quando vidi venire a me - da quella porta spalancata- Alberta, spaventata dal rumore prodotto dalla porta aprendosi, un rumore che si sarebbe ripetuto se l’avesse chiusa! ***** La bocca si socchiuse… ma gli occhi neri, dal cupo splendore, dalle ciglia così lunghe che quasi sfioravano le mie, non si rinchiusero, no, e nemmeno palpitarono; ma in fondo a essi, come sulla bocca, vidi passare la follia! Il mio cuore batteva contro il suo, che pareva restituirmene i battiti!… Era inebriante e deludente a un tempo, ma era tremendo! Mi ci abituai più tardi. A furia di rinnovare impunemente quell’imprudenza innominabile, diventai tranquillo in quell’imprudenza. A furia di vivere nel pericolo di venir sorpreso, mi ci abituai. Non ci pensai più. Pensai solo a essere felice. La sua bocca triste restava muta d'ogni cosa... fuorché di baci! Vi sono don¬ne che vi dicono: Mi perdo per voi; ve ne sono altre che vi dicono: Quanto mi disprezzerai!; si tratta di modi diversi per esprimere la fatalità dell'amore. Ma lei, niente! Non cacciava una parola... Strana cosa! Creatu¬ra ancor più strana! Mi faceva l'effetto di uno spesso e duro coperchio di marmo che ardesse, scaldato dal di sotto ... Credevo che sarebbe giunto un momento in cui il marmo si sarebbe finalmente spaccato sotto l'ardente calore, ma il marmo non perse mai la sua rigida densità. Nelle notti in cui veniva, non aumentava né la confidenza, né l’abbandono e, se mi concedete quest’espressione ecclesiastica, fu sempre difficile da confessare quanto la prima volta. Mi aveva scagliato attraverso l’anima brividi di ogni sorta, terrori di ogni tipo. ***** State a sentire… Accadde una notte. Con la vita che facevamo, non poteva trattarsi che di una notte… una lunga notte d’inverno. Non dirò che fosse una delle più placide. Lo erano tutte le nostre notti. Lo erano diventate a forza di felicità. Dormivamo su un cannone carico. Non provavamo la benché minima inquietudine facendo l’amore su quel filo di sciabola posto sopra un abisso come il ponte dell’inferno dei Turchi! Alberta, quella notte, era più silenziosamente innamorata che mai. I suoi amplessi avevano un languore e una forza che era per me un linguaggio. Da Barbey D’Aurevilly Il più bell’amore di Don Giovanni in LE DIABOLICHE Lui ebbe, quella sera, la voluttà sazia, sovrana, noncurante, assaporatrice, del confessore di monache e del sultano. Dunque era tardi, vale a dire presto! Sorgeva l’alba. Contro il soffitto e a un certo punto delle tende di seta rosa del boudoir, ermeticamente tirate, si vedeva spuntare e arrotondarsi una goccia d’opale, simile a un occhio crescente, l’occhio curioso del giorno che pareva voler spiare da lassù ciò che andava accadendo in quell’infuocato boudoir. ***** Non credo che io fossi il primo uomo che ella aveva amato… Aveva già amato una volta, e non il marito; ma in modo virtuoso, platonico, utopistico, di un amore che esercita il cuore più di quanto non lo ricolmi; che ne prepara le energie per un altro amore che dovrà seguire fra breve; di quell’amore di prova, insomma, che assomiglia alla messa bianca detta dai giovani preti per esercitarsi a dire poi senza sbagliarsi la vera messa, la messa consacrata… Entrai nella sua vita che ella era ancora alla messa bianca. La sua vera messa fui io, ed ella la disse allora con tutte le cerimonie relative e con la pompa di un cardinale. ***** Già, era bruna, bruna di capelli, di un nero corvino, il più stupendo riflesso d’ebano che io abbia mai visto rilucere sulla voluttuosa, lucente convessità di una testa femminile, ma di carnagione era bionda; ed è dalla carnagione, non dai capelli, che una donna va stimata bruna o bionda. Era una bionda dai capelli neri… Lajos ZILAHY Ungheria 1891 Jugoslavia 1974 PRIMAVERA MORTALE Zilahy entra prepotentemente, di diritto in questa guida con il libro che ha scritto per primo nel 1922. PRIMAVERA MORTALE è la storia di un amore a prima vista, tipico delle nature passionali e chiamato anche colpo di fulmine. Un amore violento, distruttivo, karmico, viene descritto con grande poesia e partecipazione emotiva. Solamente un giovane poeta può vivere e scrivere un romanzo come questo. La misteriosa casa in Via Agucta 10/B, a Budapest, dove si svolge questa storia d’amore, ossessionò per molto tempo i miei pensieri. Sono convinto che avverrà lo stesso a tutti i lettori di questo stupendo romanzo. Da Zilahy PRIMAVERA MORTALE Ero come pazzo. Oh, credimi, non c’è nella vita cosa più esasperante del sorgere dell’amore. E’ l’oppio di desideri segreti e misteriosi che aspiri profondamente fino al cuore, come il profumo caldo e carico del fieno e della salvia. E’ il mistero dell’ignoto e dell’infinito, il suono dell’arpa dell’eterna primavera sulle corde tese dell’anima. Puoi tu immaginare espresso in musica, come un uomo e una donna, che ancora non si conoscono, combattono un muto duello, una muta lotta d’amore soltanto con gli sguardi ora timidi, umili, evasivi; ora insistenti, infiammati. *** “Vi amo. Mortalmente. Vi ho veduto tre volte in vita mia. Vi amo.” Seguì un silenzio tanto lungo, che pareva non dovesse cessare più. Poi Edith parlò sommessamente: “Non vi credo.” **** La incontrai il pomeriggio del giorno dopo, davanti alla casa. Rispose al mio saluto con un sorriso un po’ triste e fece per proseguire. Io avevo già preparato tutto un discorso: frasi che avevo ripetuto tra me infinite volte, come un attore prova la parte. In quell’istante però, sentii che sarebbero state intempestive, vuote, banali, goffe. **** Sedetti sul divano vicino a lei. Non protestò. Socchiuse gli occhi e rovesciò un po’ la testa. Sul suo viso era riflessa felicità mista a un virginale terrore; dalle sue labbra irradiava un soave sorriso. Sussultavamo ad ogni minimo rumore. “Se venisse qualcuno...” disse lei ansante; “rimettetevi subito al vostro posto...” Poi si nascose il volto tra le mani. Ormai eravamo complici. Ormai era lei che mi suggeriva ciò che dovevo fare. Dalla parte del giardino d’inverno si udì girare una maniglia. Rapido come un lampo, tornai sulla soffice poltrona color pane. **** Mentre Edith si guardava intorno, nel giardino io chiusi internamente il portone. La ragazza si voltò di scatto: “Cosa fate?” “Ho chiuso. Siamo soli.” Edith afferrò la maniglia. “”Lasciatemi uscire. Voglio andarmene.” In quell’istante, mi apparve tanto strana e insolita, che ne fui allarmato. E già mi pentivo di averla condotta là, così di sorpresa. C’era in quella solitudine, un fascino che faceva rabbrividire. Quel silenzio misterioso, in quella piccola stanza disadorna, oltre due porte chiuse a chiave, in una solitaria via di Budapest... Tutto ciò significava libertà, emancipazione, infrazione ai divieti che frenano la vita e la giovinezza! ***** Ripensando, sento che quel giorno Edith avrebbe potuto essere mia. Anzi, non comprendo come anche questo non sia avvenuto. Fu un gioco, non altro; un gioco bello, delizioso e tormentoso. Un volare intorno alla fiamma. Una febbre soave, piccoli brividi caldi, carezze che a lei sembravano di un’arditezza terrificante. Ad un tratto Edith si sganciò la camicetta, l’abbassò con mani convulse, come se le introducesse frementi in una ferita il cui dolore è voluttà; tanto l’abbassò che d’un tratto ne balzarono fuori, nivei e tremanti, i piccoli seni da adolescente. Poi divenne ancora più ardita; la sua immaginazione, spinta dall’istinto, bramava la nudità; e la consapevolezza che i miei occhi bevevano inebriati, accarezzando il candore del suo corpo che mai occhio d’uomo aveva mirato, la faceva rabbrividire perdutamente. Non dicemmo una parola; le parole si erano fuse al calore della passione. Solo piccoli gridi, piccole risa convulse, voci di due animali giovani e belli, di due creature che in quell’ebbrezza meravigliosa erano tornati diecimila ani addietro, dimenticando tutto, persino il linguaggio umano! **** Tutti gli abiti erano caduti. Così Edith stava innanzi a me, con le sue scarpette verniciate, e le calze grigio argento. Più tardi, assai più tardi, una stanchezza mortale ci richiamò da quell’estasi. Ma non fu un risveglio totale. Quando, con gli occhi velati, uscimmo in strada, non potevamo ancora pronunciare una sola parola: camminavamo, ci trascinavamo, come se quel fuoco avesse arso le nostre membra. Non osavamo parlare, perchè certo avremmo potuto solo balbettare. “In quella casa non torneremo mai più” soggiunse Edith. Invece, da allora, non passò giorno che non visitassimo la casetta di Via Agucta. L’AMORE MASOCHISTA Leopold von SACHER MASOCH Leopoli 1836 Lindhein 1895 Lo scrittore Masoch viene trattato anche nella Psychopathia Sexualis del prof. Krafft Ebing, che definisce l’algolagnia col nome di masochismo. L’algolagnia è la perversione sessuale che ricava piacere dal dolore (l’opposto del sadismo). In ogni atto sessuale è presente una componente sadica e una masochista. Quando una delle due è troppo grande e dominante, allora essa diventa perversione. La biografia del cavaliere Masoch è scritta nel bel libro: IL MARCHESE E IL CAVALIERE di James Cleugh. Cleugh giustamente scrive a proposito di Masoch: I veri artisti sono quasi sempre degli anomali, perché hanno idee più elevate degli uomini comuni, riguardo la funzione del sesso nell’ispirazione artistica e letteraria. Ottima biografia: Bernard Michel Il Piacere del Dolore Sugar editore. VENERE IN PELLICCIA di Leopold von Sacher Masoch è la storia poetica di un amore disperato fra il protagonista Severin e la bella e crudele Wanda. Da Masoch VENERE IN PELLICCIA Lei è una donna, divina, ma pur sempre una donna, e quindi crudele in amore, come tutte. **** Durante le sedute di posa, Wanda tiene sempre a portata di mano delle caramelle e ogni tanto le usa come proiettili bersagliando il povero pittore. “Sono contento che lei sia così di buon umore, graziosa signora,” dice il pittore, “però mi duole che il suo bel volto abbi perso quell’espressione di cui ho bisogno per il quadro”. “Ah, quella espressione? Abbia pazienza solo un momento,” risponde lei sorridendo. Si alza in piedi e mi allunga una frustata. Il pittore la fissa con occhi sbarrati; ha dipinto sul volto uno stupore infantile, un misto di orrore e di meraviglia. Mentre mi frusta, il viso di Wanda assume, ogni istante più intensa, quell’espressione crudele e sprezzante che così stranamente mi rapisce. “E’ questo che le serve per il suo quadro?” grida. Di fronte al raggio gelido del suo sguardo il pittore abbassa gli occhi, sconvolto. “L’espressione c’è,” balbetta, “ma non posso ancora mettermi a dipingere…” “E perché mai? La posso forse aiutare?” ribatte lei, in tono di scherno. “Sì…” grida il pittore, come impazzito. “Frusti anche me.” Leopold von Sacher Masoch L’AMORE CRUDELE. Una stupenda raccolta di racconti ispirati ad avvenimenti storici, con donne perfide e crudeli. Ecco i titoli: La zarina nera. la Venere di Murany. Le sanguinose nozze di Kiew. La pantofola di Saffo. La Giuditta di Bialopol. Acqua di gioventù. La fontana delle lacrime. Da Masoch L’AMORE CRUDELE L’alhambra della Tauride è da parecchio tempo in rovina. Le meravigliose fontane tacciono. Nella prigione distrutta della Beltà, il gufo ulula sotto il soffitto sfondato e i serpenti strisciano rapidi, sulle lastre scheggiate. Sola, sulla misteriosa tomba della meravigliosa straniera, la fontana delle lacrime prosegue il suo rimpianto eterno, triste e incompreso e, sotto le rose e i mirti, l’usignolo singhiozza il suo immortale lamento d’amore. Leopold von Sacher Masoch LA MADRE SANTA In questo romanzo Sabodil, un giovane contadino, si innamora di Mardona, una donna considerata divina e adorata come una Dea dai componenti della setta dei Duchobarzen. Da Masoch LA MADRE SANTA “Tu sei un miserabile peccatore ed io sono al posto di Dio” disse la donna dignitosa e fiera. “L’amore ti acceca. Apri gli occhi e non lasciarti soffocare dall’orgoglio umano. Pensa alla mia situazione presso di te. Andiamo! In ginocchio! E adora Dio che mi ha inviato!” “Oh Mardona!” mormorò smarrito Sabadil. “Dimmi solamente che non mi odi”. “Umiliati dunque!” Egli cadde ai suoi piedi, annientato. “Sono perduto in questo mondo senza di te” gridò disperato. “Tu sei tutto il mio cielo e il mio inferno”. “Credi che Dio mi abbia eletto?” domandò Mardona implacabile e dolce fissando l’uomo col suo sguardo irresistibile e bruciante. “Senti adesso che tu non sei nulla senza di me? Che tu hai bisogno della mia intercessione presso Dio?” “Sì, lo sento” mormorò Sabadil, dominato suo malgrado. “Ebbene!” gridò Mardona. “A terra e prega!” Quando lo vide disteso davanti a lei, con la faccia a terra, un sorriso di trionfo illuminò il viso di Mardona e i suoi occhi mandarono strane luci. Da Masoch FALSO ERMELLINO Già nelle antiche leggende e poesie germaniche, la verginità è sempre accoppiata a una certa selvatichezza e si esalta nella sua rappresentante più tipica, la figura di Brunilde. Nella donna, questa casta fierezza si trasforma in glaciale crudeltà. La vergine d’Islanda, dal cuore blindato, che uccide i pretendenti e scaraventa dal letto, la prima notte di nozze, il proprio marito legato; ella conserva ancora umanità, ma la signora di Provenza, che fa cucire il proprio menestrello in una pelle di lupo e gli dà la caccia coi cani, diventa troppo inumana e suscita la nostra scandalizzata riprovazione. Da Masoch RACCONTI DI GALIZIA Sapete perché tutti i matrimoni hanno esiti infelici? Ho forse torto? Non credo. E allora che cosa è? Una legge della Natura? Ho capito che la Natura si prende gioco di noi. Quando, al momento dell’estasi, l’uomo e la donna sembrano formare un solo essere, la Natura non pensa affatto a noi! Essa non si preoccupa della nostra felicità; pensa soltanto alla conservazione della specie. Vedo il baratro aperto fra l’uomo e la donna e comprendo che i bambini sono la carne che salda il padre e la madre, come i dannati dell’inferno; e sono anche l’acido che scioglie le affinità elettive. La Natura ci ha imposto una sofferenza ancora più terribile della vita; l’amore. Gli uomini la chiamano felicità, voluttà. E invece è una lotta, uno scontro mortale. La donna è il nemico; vinto, l’uomo si sente alla mercé di un avversario spietato. Sì, l’amore è un dolore e il possesso una liberazione. L’amore è una violenza che uno esercita sull’altro. L’amore è una schiavitù. Si diventa schiavi quando si ama. Si è maltrattati dalla donna e si gode della sua crudeltà. Poi viene la reazione, la rivolta. Si tenta di scuotere la tirannide di questa vita estranea; cerchiamo di nuovo noi stessi. È la resurrezione della natura. I sessi non si ingannano perché vogliono essere ingannati, ma perché devono essere ingannati. L’AMORE ROMANTICO Gustav FLAUBERT Rouen 1821 Parigi 1880 Gustav Flaubert NOVEMBRE Questo breve romanzo descrive tutta la poesia del risveglio e del bisogno d’amore. Da Flaubert NOVEMBRE E’ triste la stagione in cui siamo: si direbbe che la vita stia per andarsene col sole, un brivido corre nel cuore come sulla pelle, tutti i rumori si spengono, gli orizzonti impallidiscono, tutto sta per dormire o morire. Il sole gettava un ultimo addio da dietro i colli confusi, le luci delle case si accendevano nella valle e la luna, l’astro della rugiada, l’astro delle lacrime, incominciava a scoprirsi tra le nuvole e a mostrare la sua faccia pallida. Vagamente bramavo qualcosa di splendido che non avrei saputo formulare con alcuna parola, né precisare nel pensiero sotto alcuna forma, ma di cui tuttavia avevo senza tregua il preciso desiderio. Certe parole mi sconvolgevano, quella di “donna”, di “amante” soprattutto; cercavo la spiegazione della prima nei libri, nelle illustrazioni, nei quadri, dei quali avrei voluto strappare i drappeggi per scoprirvi qualcosa. La pubertà del cuore precede quella del corpo; ed io avevo più bisogno d’amare che di godere, più voglia d’amore che di voluttà. Non ho neppure più idea di questo amore della prima adolescenza, dove i sensi non sono nulla e che il solo infinito riempie; posto tra l’infanzia e la giovinezza, ne è la transizione e passa così in fretta che lo si dimentica. ***** Oh,l come odorano i capelli delle donne! Come è dolce la pelle delle loro mani, come i loro sguardi ci penetrano! Strana contraddizione! Fuggivo la compagnia delle donne e provavo davanti a loro un piacere delizioso; sostenevo di non amarle per nulla e invece vivevo in tutte ed avrei voluto penetrare nell’intimo di ciascuna, per unirmi alla sua bellezza. Le loro labbra mi invitavano già a baci diversi da quelli delle madri, col pensiero mi avvolgevo nei loro capelli e mi mettevo tra i loro seni per schiacciarmi in un divino soffocamento. ***** Sognavo il dolore dei poeti, piangevo con essi le loro lacrime più belle, li sentivo fino in fondo al cuore, ne ero penetrato, straziato, alle volte mi sembrava che l’entusiasmo che mi comunicavano mi facesse loro eguale e mi portasse fino a loro. Perché non abbiamo sentito abbastanza la nostra felicità quando ci passò per le mani? Avremmo dovuto, in quei giorni, non pensare che a gustare ed assaporare a lungo ogni istante perché questo passasse più lentamente. In quel tempo, ogni mattina svegliandomi, mi pareva che, in quel giorno, stesse per compiersi qualche grande avvenimento; avevo il cuore gonfio di speranza, come se avessi atteso da un lontano paese un carico di felicità; ma, col procedere del giorno, perdevo tutta la mia baldanza; soprattutto al crepuscolo, capivo bene che non sarebbe capitato nulla. Infine arrivava la notte e mi coricavo. ***** Mi prese contro la vita, contro gli uomini, contro tutto una rabbia indicibile. Avevo nel cuore dei tesori di tenerezza e divenni più feroce delle tigri; avrei voluto annientare il creato e addormentarmi con lui nell’infinito del nulla. Allora la morte mi parve bella. L’ho sempre amata, e da bambino la desideravo solo per conoscerla, per sapere che cosa c’è nella tomba e quali sogni ha questo sonno. Le fantasie di voluttà e d’amore che mi avevano assalito a 15 anni vennero a ritrovarmi a 18. Se avete capito qualcosa da ciò che precede, dovete ricordare che io a quell’età ero ancora vergine e non avevo ancora amato; per quanto riguardava la bellezza delle passioni e i loro clamori, i poeti fornivano argomenti alla mia fantasticheria. **** Come fare? Chi amare? Chi ti amerà? Quale sarà la gran dama che vorrà saperne di te? La bellezza sovrumana che ti tenderà le braccia? Chi potrà dire tutte le passeggiate tristi fatte da solo in riva ai ruscelli, tutti i sospiri dei cuori gonfi tesi verso le stelle, durante le notti calde in cui il petto è soffocato. Sognare l’amore vuol dire sognare tutto, è l’infinito nella felicità, il mistero nella gioia. Soprattutto all’avvicinarsi della primavera, quando i lillà incominciano a fiorire e gli uccelli a cantare sotto le prime foglie, allora mi sentivo il cuore preso dal bisogno d’amare, di fondersi tutto intero nell’amore, di assorbirsi in qualche dolce e grande sentimento e quasi di ricrearsi nella luce e nei profumi. ***** Essa mi disse: “Ma che hai? Vieni!” E andò a sedersi su un lungo canapè coperto di tela grigia, addossato alla parete; io mi sedetti accanto a lei essa mi prese la mano, la sua era calda, e rimanemmo lì a lungo a guardarci senza dire nulla. Io non avevo mai visto una donna così da vicino, tutta la sua bellezza mi avvolgeva, il suo braccio toccava il mio, le pieghe della sua veste ricadevano sulle mie gambe, il calore del suo fianco mi accendeva, da questo contatto io sentivo le curve del suo corpo, e contemplavo la rotondità della sua spalla e le vene azzurre delle tempie. Essa mi disse: “Ebbene?” “Ebbene!” risposi con aria gaia volendo scrollarmi quel fascino che mi addormentava. Ora non mi ricordo più di ciò che essa mi disse né di quello che io le risposi, rimasi così a lungo perduto, sospeso, oscillando nel battito del mio cuore; ogni minuto aumentava la mia ebbrezza, ogni momento qualcosa di più mi entrava nell’animo, e tutto il mio corpo rabbrividiva di impazienza, di desiderio, di gioia, e tuttavia ero grave, piuttosto cupo che lieto, serio, assorto come in qualcosa di divino e di supremo. La sua pelle calde e fremente era stesa sotto di me e rabbrividiva; da capo a piedi io mi sentivo tutto coperto di voluttà; la mia bocca incollata alla sua, le dita intrecciate, cullati nel medesimo brivido, allacciati nella medesima stretta, respirando l’odore dei suoi capelli e l’alito delle sue labbra, mi sentii deliziosamente morire. Rimasi ancora qualche tempo beato, a gustare il battito del mio cuore e l’ultimo sussulto dei miei nervi agitati, poi mi parve che tutto si spegnesse e scomparisse. ***** Ed uscii, l’aria mi rianimò, mi trovai tutto cambiato, mi pareva si dovesse scorgere, sul mio viso, che non ero più il medesimo uomo, camminavo leggermente, fieramente, contento, libero, non avevo più nulla da imparare, nulla da sentire, nulla da desiderare nella vita. Era dunque soltanto questo, amare! Perché, mio Dio, abbiamo ancora fame quando siamo sazi? Perché tante aspirazioni e tante delusioni? Perché il cuore dell’uomo è così grande e la vita è così piccola? Vi sono dei giorni in cui neppure l’amore degli angeli gli basterebbe, ed in un’ora è stanco di tutte le carezze della terra. **** La sua veste di seta frusciava sotto le mie dita con rumore di scintille; a volte dopo aver sentito la superficie vellutata della stoffa, sentivo poi la calda dolcezza del suo braccio nudo, e il vestito sembrava far parte di lei ed esalare la seduzione delle più lussureggianti nudità. Ma quando essa si fu coricata accanto a me, mi espose, con orgoglio di cortigiana, tutti gli splendori della sua carne. Vidi nudo il suo seno sodo e sempre gonfio come di un mormorio tempestoso, il ventre di madreperla dall’ombelico cavo, il suo ventre elastico e contrattile, dolce per appoggiarvi la testa come su un cuscino di seta calda; aveva dei fianchi superbi, di quei veri fianchi di donna, le cui linee, degradando su una coscia tonda, ricordano sempre, di profilo, non so qual forma agile e corrotta di serpente e di demonio. ***** Io amo i capelli. Quante volte nei cimiteri che venivano rimossi o nelle vecchie chiese che venivano demolite, ne ho contemplati che apparivano nella terra smossa, fra ossa gialle e pezzi di legno imputridito! D’altra parte è una confidenza che non ho fatto a nessuno, si sarebbero burlati di me. Forse che non si deridono quelli che amano, essendo questa una vergogna fra gli uomini? Ciascuno, per pudore o per egoismo, nasconde le cose migliori e più delicate che possiede nell’animo; per farsi stimare, bisogna mettere in mostra soltanto i lati più brutti, questo è il mezzo per restare al livello comune. Guido DA VERONA Saliceto sul Panaro (Modena) 1881 Milano 1939 SCIOGLI LE TRECCE MARIA MADDALENA. COLEI CHE NON SI DEVE AMARE. MIMI’ BLUETTE FIORE DEL MIO GIARDINO. YVELISE. L’AMORE CHE TORNA. LA VITA COMINCIA DOMANI. LA CANZONE DI SEMPRE E DI MAI. LA DONNA CHE INVENTO’ L’AMORE. LA MIA VITA IN UN RAGGIO DI SOLE. MUSICHE DEL SOGNO ERRANTE. SARAH DAGLI OCCHI DI SMERALDO. LETTERA D’AMORE ALLE SARTINE D’ITALIA. AZYADEH LA DONNA PALLIDA. eccetera I suoi difetti (esagerazioni, artifici) sono superiori ai suoi pregi. Ma quando incontriamo i suoi pregi, ci lasciano senza fiato. Da Guido Da Verona SCIOGLI LE TRECCE Amo questa maniera di vivere, la quale consiste nell’andare via. Quando la musica del treno canta nelle mie vene d’esiliato, io sento battere in me, più rossa di fervore, la poesia della vita. Non è la strada maestra quella che mi conduce verso il dolore. Sono i vicoli tortuosi e bui, le vie di pochi metri sepolte nelle città definitive. **** E nel guardarla pensavo: “Questo è forse l’amore”. Pensavo: “Rubare alle cose, alle anime che passano, il loro profumo più inebriante, abbandonarle prima che sfioriscano, allontanarsi prima di conoscere la stanchezza: questo è forse l’amore. Portare con sé un rimpianto, qualcosa di magnifico e di perduto, smarrirsi nei labirinti della vita portando in sé un desiderio giovane, non ancora disperso in polvere, pensare con una malinconia profumata a tutto quello che poteva essere e non fu: questo è forse l’amore. Udire lontano, confusamente, nelle distanze dell’anima, una musica lenta che trascina come nell’aria un velo, e credere che là indietro, in quella musica del nostro cuore disperso, in quel colore d’aria distante, vi era forse o vi poteva essere la felicità; sognare con occhi pieni d’aurora l’amante nuova che si incontrerà nei miracoli della strada più lontana: questo, questo è veramente l’amore. La distanza è l’amore. Ciò che per noi fu tale in un’ora di bellezza, e finì. La donna che passa è l’amore; la donna senza storia, senza nome, senza il peso inevitabile dei suoi mediocri peccati. Quelle che andarono via, scomparvero, travolte nella musica di un treno. Quelle che a noi diede il mare, di notte, nel grande spazio, laggiù, sotto le stelle, quando cantava il maestrale… **** Aveva la infinita bellezza di appartenere ad una patria lontana, di giungere da un mondo impreciso, di avervi abbandonato con una lacrima, di avervi scritto con un fiore. Passando, in un giorno d’esilio, vi diede con vero profumo tutto il bene che poteva dare di sé; la sua bocca limpida e rossa, le sue trecce pesanti che si sciolsero in una notte di stupenda follia; e sarà una striscia di fumo, nulla, un po’ di anima dispersa nel rumore della strada, qualcosa di troppo lieve, di troppo azzurro, la memoria di una sera d’estate, una striscia di fumo, nulla… Le donne, in fondo, non sono mai l’amore; sono qualche volta la via necessaria per giungere all’amore. **** Aveva le trecce così nere che parevano immergere tutta la sua persona in un cerchio di oscurità. Spegni il lume… La via dell’amore, dicono, è buia. **** Allontanarsi da una donna è sempre una cosa triste, perché ogni donna possiede un poco della nostra gioventù. Quello che fu con una, certo non sarà con altre; l’amore che finisce è un’illusione perduta, un gioiello che non si ritroverà mai più. E lo sentono anche le anime semplici, se pure non comprendono il senso di questa grave tristezza. Solo i poveri di spirito hanno desideri tenaci, apprezzano la durabilità e si appendono al proprio cuore come ad una forca. Ma chi possiede immaginazione, chi può e vuole rinnovare sé stesso, ha sempre il logico timore che un sogno si disperda in cenere quando esso diventa realtà. **** Nella vera amante c’è spesso il senso, più ancora l’intenzione, della sterilità. Il suo grembo non vuole sottomettersi al peso, alla deturpazione della fertilità materna. La infinita bellezza che ella prova e regala con i suoi sensi, non vuole giungere ad assorbire la vita, ma preferisce soffocarla, deluderla, poiché le sembra che sia questo un bene superiore alla vita medesima. La perfetta voluttà esclude ogni altro fine; c’è in essa una tendenza verso l’uccisione. Sì è triste come il vedere ogni cosa che tramonta, nella fredda vita. Eppure le rose nascoste ancora fioriscono dai fragranti rosai; nei sepolcri vegetali della terra il seme di domani sta per nascere; solo una cosa è bella nel mondo, solo una cosa è giovane intramontabilmente: la poesia di ciò che va oltre. Guido da VERONA Da LE CANZONI DI SEMPRE E DI MAI Ma quando mi avvicinavo a lei, ed il suo seno un po’ troppo sospirante minacciava, gonfiandosi, di toccare il mio petto, provavo un tale stordimento, un tale malessere, che, vedendomi così pallido, la bocca di Mirella si orlava di un sorriso pieno di tormento. Un sorriso che vedo ancora, e tremo ancora, e ne sono tutto tramortito. **** Oso dire che nove uomini su dieci muoiono senza aver mai conosciuto l’amore, la vera disperazione dei sensi. Per amare, per sapere ciò che questa parola può racchiudere di paradisiaco e di infernale, bisogna essere qualche dito al di sopra, o se preferite al di sotto del tipo normale. Soltanto gli esseri d’eccezione hanno veramente amato; per questo il loro amore assume spesso forme che la morale media disapprova e non può comprendere. Occorrono due veri poeti dell’amore per comprende quali profondità può raggiungere questa parola così lieve. Credo che per i veri sensuali, cioè per i mistici del piacere, l’amore sia filosofia pura; una loro maniera, forse la più lirica e la più semplice, di comprendere, di approfondire l’infinito mistero delle cose. **** All’età di venti anni, il mio senso divino del mondo era Mirella. In lei e per lei concepivo l’infinito universo. Il suo corpo era la mia religione, la sua carezza il mio raggio di sole. C’è sulla terra un uomo il quale possa dire di aver realmente compreso il cuore di una donna? Di aver realmente guardato sino in fondo al cuore di una donna? Ritrovare davanti a sè la donna sparita già da dieci anni, la donna che fu il solo amore di tutta una vita. Offertami così dal destino, buttata quasi fra le mie braccia, lì, nella mia casa, nella profumata vampa di un giorno d’estate, mentre leggevo la canzone d’amore del trovatore arabo, fra il silenzio un po’ lugubre della mia vecchia biblioteca, avvolto nel profumo -che dico il profumo?- fra il delirio bianco dei gelsomini. Da Guido da Verona COLEI CHE NON SI DEVE AMARE Allora egli prese una mano della donna e lentamente, con una specie di insidia la accarezzò. “E’ strano” disse l’uomo “ma tu mi intimidisci. Ho sempre avuto una certa paura di te. Sulla tua bocca vedo spesso una specie di derisione.” “Davvero? Che bizzarria!” “Del resto hai ragione: mi devi trovare quasi ridicolo. Gli uomini innamorati sono sempre ridicoli”. “E le donne?” ella chiese. “Le donne, io credo, non lo sono quasi mai.” “Che cosa? Ridicole?” “No, innamorate.” “Ah, non saprei... Ma certo lo confessano più raramente.” Da Guido da VERONA MIMI’ BLUETTE FIORE DEL MIO GIARDINO La divina Bluette provò subito la gioia di possedere, nell’anima e nei sensi, un piccolo segreto. Provò quella gioia sottile, irritante, esilarante, quella gioia fresca e pungente come la spuma dello Champagne, che ubriaca come un afrodisiaco, quando si riceve il primo sorriso di una creatura che piace. L’amore è solo una prolungata memoria di questo momento. Non credete all’amore logico, all’amore che manca di follia. **** La ragazza gli fece sentire con le labbra, con il seno, con l’intera sua bellezza che una donna veramente innamorata è la più ebbra forza dell’infinito. Lo stordì come un veleno dolce che accende negli occhi angoli di paradiso. Poi tornò a casa, un mattino che le strade oscillavano davanti ai suoi occhi appassiti. Era un mattino freddissimo, limpido, quasi tremolante. La città prendeva un colore di ghiaccio, le forme degli uomini, pareva che avessero un contorno di gelo. ***** Certamente nel pensiero dell’uomo vi è un desiderio di musica, un desiderio di poesia. E questo bisogno, in fondo, è la tendenza verso il limite. Cos’è la vita? Questo rumore, questo colore, questo nulla. Julian HALEVY GIOVANI AMANTI L’aveva vista per la prima volta nella stazione ferroviaria sotterranea tra la 53esima strada e Lexington Avenue, e, in seguito, quando pensava a come tutto si era svolto, si stupiva che un incontro così importante, probabilmente il più importante che avesse mai avuto, fosse stato così casuale. Allora vide la ragazza sul marciapiede. Capì che stava per rivolgergli la parola: era sottile, emaciata, con grandi occhi neri, che si riflettevano senza vedersi sugli specchi delle bilance e dei distributori automatici di chewing gum. Gocce di pioggia scintillavano sui suoi capelli neri, pettinati all’indietro con la riga in mezzo, ed era tutto bagnato anche il mantello corto di coniglio scuro, che la pioggia aveva reso misero e sciatto. Mentre gli si avvicinava, sentì come un vuoto allo stomaco. E’ terribile lui pensò, non puoi neanche parlare a una ragazza senza che sembri subito che vuoi fare un approccio. E se invece non vuoi? Allora ti vergogni, perchè l’apparenza è sempre quella di approccio. Avrebbe voluto che ci fosse il modo di attaccare con una ragazza con parole nuove, forse con un linguaggio nuovo, e non già così usato da non avere più valore. Egli si rese conto di sapere ben poco sulle ragazze: di solito uno crede che siano brave a sgranare gli occhi, a strillare e a far altre cose incredibili. Ma lei era bella. Tutto ciò che diceva era bello. ************ Lui passò in rivista le varie facce dei passeggeri: la ragazza doveva essere là. Tutto ciò non poteva essere accaduto inutilmente. Ma lei non era in quel vagone. Disperato, cominciò a percorrere il treno: tra vagone e vagone soffiava un vento fresco e le ruote parlottavano ironicamente, come per schernirlo. La trovò nel terzo vagone. Era in piedi, vicino alla portiera centrale, col naso schiacciato sul vetro del finestrino e guardava il buio correre via, attraversato dalle meteore dei segnali luminosi. “Salve” le disse. La ragazza lo guardò con sospetto ed egli capì che non sarebbe stato facile. “L’ho seguita perchè volevo parlarle”. La ragazza si voltò di nuovo verso il finestrino. Cercando di dare alla sua voce un tono dolce e persuasivo egli continuò: “Questo non è il treno giusto: va a Flathbus” “Mi lasci in pace, per piacere” La sua voce era monotona e la preghiera sembrava rivolta non a lui ma al mondo intero. Il ragazzo continuò a fissare l’immagine di lei riflessa dal vetro: spariva ogni volta che passavano dinanzi a una lampada del tunnel e gli sembrò un’apparizione. Capiva che aveva paura di lui. “La condurrò a casa sua, se permette”. Lei non rispose e gli sembrò irraggiungibile. Le sfiorò la mano che teneva appoggiata sulla ringhiera e lei la ritirò subito. Uscirono dalla sotterranea nella notte: erano all’angolo della Quattordicesima strada con l’Ottava Avenue. Non pioveva più ma l’aria era umida e pesante. Il freddo acuto dell’inverno se ne era andato e si sentiva che la primavera non era lontana. L’insegna al neon del bar rosticceria vicino alla banca proiettava sul marciapiede riflessi rossi e verdi. Avviandosi a casa verso il centro della città furono avvolti in una luce irreale. **** Arrivata la pianerottolo, si girò con gli occhi brillanti. I loro visi erano allo stesso livello. Egli pensò che mai il suo sguardo si era posato su occhi così teneri e comprensivi. Le parole gli sfuggirono prima che potesse trattenerle: “Credo di amarti, Pamela”. Immediatamente vide la paura sul volto della ragazza e gli dispiacque di aver parlato. ************ Pamela aveva riunito i capelli in una piccola crocchia che scopriva l’ovale perfetto del suo volto. La linea pura del chimono valorizzava i suoi lineamenti minuti e la pelle color avorio. Pensò che non aveva mai visto nulla di più bello. Camminò con grazia fino al letto e poi fece un profondo inchino. La scollatura del chimono si abbassò ed egli con emozione vide il seno: era di un bianco caldo, rotondo e sodo; poiché era china in avanti, sembrava voler fuggire fuori dalla seta e tendersi verso di lui. Fu penetrato dal suo profumo e sentì la presenza reale del suo corpo; il peso e la sostanza della sua femminilità lo colpirono con dolorosa acutezza. Il ragazzo incominciò ad accarezzare il corpo incredibilmente liscio della ragazza, prima con timidezza, sorpreso dalla gioia che provava, poi con più ardire, esplorandone i segreti più intimi e delicati. “Perchè i ragazzi sono così duri e le ragazze così morbide?” “Non lo so, ma mi pare una buona idea.” “Una buonissima idea.” *********** Fu colpito dall’idea che stava sveglio perchè Pamela non poteva dormire. La pace della loro intima unione armoniosa era finita: erano due esseri umani soli e divisi, che si cercavano in mezzo a forze oscure e sconosciute, come maree erranti. Soltanto pochi minuti prima egli era perfettamente felice, perchè credeva di aver finalmente trovato la cosa preziosa che aveva cercato da tanto tempo: l’aveva trovata proprio quando cominciava a dubitare che esistesse, quando cominciava a credere che l’amore fosse una sua invenzione. Ed ecco che scopriva che la nuova felicità comportava anche dolore, un dolore a cui non era preparato, ma che tuttavia confermava la sua convinzione di aver scoperto la vera felicità. Si chiese se non l’avrebbe preferita diversa, più simile a quell’unione perfetta in cui si era risvegliato. Ma riflettendo sinceramente, concluse che sì, l’amore avrebbe dovuto essere assolutamente bello e semplice, ma anche così, come l’aveva incontrato, era meglio di nulla. ********* Il desiderio ritornò prepotentemente e questa scambievole offerta li unì nell’atto d’amore. Dimentichi di tutto, si lasciarono cullare in una delizia senza fine, un’unione assoluta dove l’io si smarriva; quell’unione che aveva implorato non soltanto per sè ma per lei. E Pamela vi partecipava con dolci gemiti e mormorii, come per esprimere sentimenti che le parole non valevano a dire. E poi la consumazione, lo spasimo senza fine in cui egli si abbandonò con un grido roco di pena e di gioia, slanciandosi in un volo tremante, planante, che lo portava più in alto, sempre più in alto, a una vetta sublime e luminosa, dove si sentì desiderato e accolto per sempre. E infine quella pace fluttuante, l’amore che culla e sussurra e le lacrime che si confondevano sui loro volti. E il loro amore questa volta fu diverso; non era più il bisogno dell’altro, ma l’unione totale dei loro corpi, la promessa di affrontare insieme quei problemi, che non erano altro che un riflesso, in loro, dei mali del mondo. ***** L’amore era più complicato di quanto avesse creduto, e doveva ammettere che adesso aveva meno fretta di sposarsi e di avere molti figli. Adesso il ragazzo voleva diventare uno scrittore. Avrebbe raccontato tutto ciò che era in lui e tutto ciò che aveva ispirato il suo amore per Pamela. Avrebbe cantato la loro passione e gridato ad alta voce contro i mali che li minacciavano. Avrebbe affidato alla penna la missione di trasmettere agli altri le loro esperienze personali. ********** Un roco lamento di lui risvegliò la sua passione nascosta. Lei rispose con slancio selvaggio alla violenza della sua stretta, come sfidandolo. Egli gridò di pena e di estasi e, alla fine, con un dolce lamento, si arrese. La ragazza, tremando lo sentì venir meno e lo attirò ancora a sè, esultante, trattenendosi alla soglia della liberazione, al limite del cieco spasimo in cui l’io si arrende al mistero, si libera nel nulla, senza nulla più volere, teso come un arco. *********** “La gente è così complicata!” Sospirò. “E lo scopro proprio adesso, nel momento in cui ho deciso di passare la mia vita a scrivere della gente”. L’AMORE PSICOLOGICO Jaroslaw IWASZKIEWICZ Kalnik (Polonia) 1894 Varsavia 1980 LE SIGNORINE DI WILKO Narratore finissimo di immagini e di emozioni. Da Iwaskiewicz LE SIGNORINE DI WILKO Cominciò a contare. Erano passati 15 anni giusti. Non se ne era neppure accorto. Fela, Julcia, Jola. Che fine avranno fatto? Affrettò il passo suo malgrado per trovarsi al più presto sul colle, ma il boschetto era cresciuto, non avrebbe più trovato la vista di prima. Degli zii sapeva soltanto che c’erano, che abitavano là, che vivevano, riceveva loro notizie, sebbene di rado. Ma di quell’altra casa non sapeva niente. Non s’erano più incontrati, come capita spesso in questo mondo. E lui che aveva dimenticato tutto, né più aveva scritto, né domandato! Ricominciò a contare mentalmente, con una certa difficoltà. Il passo involontariamente diventava più lento. Ormai saranno vecchie, si saranno maritate. Sicuro, Julcia aveva allora venti anni, o forse ventuno. Kazia era di poco più giovane. E Jola? Anche lei, adesso, deve aver superato la trentina. ***** Venne tirato dentro per la mano nella stanza attigua, dove era già accesa la lampada sebbene fuori fosse ancora chiaro. Là, lo circondarono tante braccia femminile, nude e calde, qualcuna addirittura lo baciò. “E Fela dov’è?” “Fela, Fela, vieni qui!” chiamò Julcia. “Guarda che ragazzona, vieni qui, Fela,” Una ragazza di una decina di anni, grande, grossa, e brutta, ma con lo stesso colorito della madre e delle zie, uscì dalla stanza accanto e salutò Wiktor. “E’ la mia maggiore, “disse Julcia, “questa piccola qui è la mia seconda.” “Sono già così grandi,” disse Wiktor distrattamente, “non sapevo neppure che ti fossi maritata. Ma io chiedevo della Fela grande.” “Come non lo sai?” disse Julcia con voce sommessa. “Fela è morta, eh, ormai sono più di dieci anni. Di spagnola.” Wiktor sorrise, guardò Julcia e poi Tunia. Forse erano le più somiglianti tra loro, ma quanto diverse! Adesso Tunia aveva probabilmente l’età di Julcia in quei tempi. Era forse più bella, meno fresca, più sottile nelle giunture, più delicata, e aveva gli occhi grigi, occhi timidi e grandissimi, mentre quelli di Julcia erano celesti, belli ma insipidi. E improvvisamente cominciò a fluire davanti a lui, sopra i visi di quelle donne candide, un corteo di immagini, di fatti, di sofferenze, di battaglie e di azioni inutili. Pensò alla sua vita imbrogliata e spezzata fin dall’inizio, e ne fu scosso. *** Era entrato al buio, senza accen¬dere la candela, si era seduto sulla prima sedia che aveva trovato e, guardando le finestre dalle quali si vedeva il cielo azzurro rischiarato dalla luna invisibile, si era tolto le scarpe, i calzini, mentre i leggeri panni che coprivano il suo corpo erano rimasti accanto alla sedia. Avvicinatosi al letto, si era reso conto dell'errore, e, can una risatina sommessa, senza saper perchè, s'era messo a insistere nello sbaglio: a recitare con se stesso. Aveva toccato la ragazza distesa, ma lei non si era mossa, le si era seduto accanto, lei aveva continuato a dormire. S'era coricato vicino a lei e aveva sentito d'un tratto attraverso il fine lenzuolo tutte le voluttà del suo corpo. Dopo un mo¬mento aveva capito che Julcia non dormiva, ed era ri¬masto come impietrito dall'impressione. Erano stati a gia¬cere così per lunghi minuti, senza una parola, trattenendo il respiro. Piano, piano, impercettibilmente, come le sfere di un orologio, avevano eseguito tutta una serie di sposta¬menti per avvicinarsi l'uno all'altra, fina ad abbracciarsi, a stringersi. Mai Wíktor potrà dimenticare l'impressione provata nel sentire sotto la mano la pelle di quella ra¬gazza. Era una cosa infinitamente bella, calda e materiale come un fiore. Non sa perchè, ma non si erano detti niente. Perchè simulavano tra loro questa commedia del sonno assolutamente impossibile? Quel che facevano escludeva qualsiasi possibilità d'incoscienza. Wíktor sentiva che tut¬te le sue forze erotiche giungevano a tal punto di tensione da farlo cadere in un’estasi spasmodica; ogni volta che la sua mano sfiorava il corpo di Julcia si sentiva quasi venir meno. **** Solo ora capiva in che cosa era consistito il fascino di quei due anni e per quale ragione aveva potuto farli rivivere così facilmente. Era l’atmosfera di giovanile, inconscio erotismo che circondava le sei belle e simpatiche ragazze. Anche per esse aveva avuto valore, e per questo avevano conservato di lui un così vivo ricordo e rievocavano sue frasi, suoi atti, fin le cose più insignificanti: come riparava i campanelli, come si lucidava le scarpe col latte cagliato. Julcia, purtroppo, non conta più. Ogni cosa legata a lei è definitivamente esclusa, con lei non sa più nemmeno parlare. Essa è un libro chiuso. Completamente diversa, dissimile, finita. Quegli anni, però, non sempre si lasciano scavalcare. Kazia non ha mai significato niente, ma le altre? Jola, Zosia, Tunia. Povera Fela, ora sarebbe la più bella, ma è morta. Ma fra tutte lei sarebbe stata la meno cambiata: oggi avrebbe raggiunto il termine di quella parabola, allora appena all’inizio, che è come la più bella arcata di un ponte nella vita di una donna, sarebbe quasi identica a come era allora sul prato, avrebbe forse voltato la testa verso di lui dicendogli: “Perché te ne stai lì?” O forse: “Perché non vieni?” Era venuto, ma troppo tardi; tutto ciò che avrebbe potuto attenderlo era ormai cenere. *** Tornò al palazzo deluso, Tunia gli camminava accanto, d’un tratto ammutolita. Notò che i suoi occhi color azzurro intenso lanciavano sguardi smarriti da sotto la larga arcata delle sopracciglia. Gli fece pena e provò una stretta al cuore al pensiero di quanto avrebbe potuto amare una creatura così viva e bella. **** Wiktor sentiva l’impenetrabile solitudine dell’uomo; l’impossibilità di mostrare a Jola quel che avveniva dentro di lui: ogni cosa raggiungibile, che poteva concretarsi, si dissolveva nel nulla lasciando una nebbia fatta di pensieri. Rinunciava a tutto, era un giorno che aveva il suono della musica delle grandi sonate di Beethoven. Henry BOSCO Avignone 1888 Nizza 1976 LA FATTORIA. Un amore difficile ambientato nella suggestiva campagna francese (Provenza). Straordinarie descrizioni di paesaggi esteriori e interiori, di sentimenti complessi e psicologie raffinate. Da Henry Bosco LA FATTORIA Genoveffa era Mètidieu fino alla punta delle unghie. Non viveva: danzava. La sua vivacità mi lacerava il cuore. Perché il mio amore è lento a posarsi; gli occorrono oggetti un po’ pesanti e che si muovano poco. Per amare ho bisogno anzitutto di intenerirmi e non di ammirare. Genoveffa era già grande, svelta, un po’ rossigna, ardita, e a quel tempo faceva pensare a una creatura del vento. Creature simili si può certo amarle, ma non credo possibile trattenerle a lungo nel raggio del proprio amore. Certe volte, acquattato sotto la siepe di biancospino, la spiavo, soprattutto di mattina, in quell’ora che i bambini sono più leggeri. Mi commuoveva vederla correre di qua e di là, come senza scopo. Non guardava mai dalla mia parte. A volte, sfiatata dal gran correre, si fermava ansimante a due passi dal mio nascondiglio. E allora la vedevo bene, perché potevo osservarla con agio. Aveva grandi gambe nude, graffiate dagli spini, due occhi di un verde cupissimo, e qualche chiazza di rossore sulle braccia, sul collo. La trovavo brutta e sfrontata. Tuttavia, in quei momenti che quasi la toccavo, un tal calore emanava da tutto il suo corpo che mi sentivo il cuore battere con violenza contro la terra. ***** Era cresciuta; e pallida in volto. La sua vivacità consueta pareva trapassata in una commovente goffaggine. Nessuna timidezza ancora, ma un curioso impaccio. I capelli, che prima tiravano al rosso, avevano perduto di fiamma; ora un nastrino li teneva annodati sulla nuca. Nel viso smagrito c’era un’aria di stanchezza, ma tenerissima; e nei grandi occhi verdi, che si erano schiariti come un’acqua, passava talvolta un lampo, un’espressione fuggitiva di smarrimento, poi di languore. Io ero turbato. Mi accolse con dolcezza e osò appena toccarmi la punta delle dita quando le diedi la mano. L’emozione mi impedì di manifestarle il minimo piacere; e fui taciturno e scostante come al solito. **** Una notte che faceva caldissimo e il più dolce dei chiari di luna, senza badarci trascinai Genoveffa alla fonte. Sulle prime non parve emozionarsi per quella vicinanza; e già mi mostrava, incantata, le scaglie lucenti delle carpe che passavano nell’acqua illuminata dalla luna. Ma all’improvviso tacque e io rimasi colpito dal suo silenzio. Alzai meravigliato gli occhi verso di lei. Era pallidissima. Con la mano sinistra si sosteneva ad un ramo, e, tenendo il corpo proteso nella vasca, guardava con strano spavento, nella placida acqua della fonte, il paesaggio di cristallo che la luce aveva fatto sorgere dal fondo tenebroso, e attraverso il quale i pesci nuotavano misteriosamente. Aveva gli occhi smarriti e la credetti sul punto di cadere nell’acqua. Tuttavia non osai toccarla. Ma si riprese. Facendo forza col braccio sul ramo ritrasse indietro il corpo. Restò un attimo immobile, poi venne verso di me. Era ancora molto pallida; mi fissava con i suoi occhi verdi (così improvvisamente estranei) i quali lasciavano filtrare uno sguardo aguzzo che non le conoscevo. “Hai fatto bene a non toccarmi” mormorò. “Torniamo a casa.” Ero anch’io abbastanza turbato per non poter rispondere. Nell’arrivare alla fattoria mi disse: “Pasquale, qui sono felice; non chiedo altro. Ma hai visto, l’acqua turba le donne…” Ora sorrideva un poco, d’un sorriso ancora notturno ma abbastanza placato, che mi fece bene. *** Nella navata della cappella restano tre banchi, e per terra, vicino all’acquasantiera, un vecchio mazzolino di fiori di carta dipinta. E’ caduto lì non so da dove, e mai nessuno si è dato la pena di raccattarlo. L’altare maggiore è di legno, verniciato di rosa e celeste, e sul tabernacolo si erge una modesta croce di piombo dorato. Genoveffa era già tutta vibrante di emozione per la scalata della finestra. La nostra presenza nella chiesetta aveva non so qual aria di intrusione clandestina che, pur incantandola, la turbava molto. Era sul far della sera e l’aria chiusa tra quelle vecchie mura esalava un odore di gesso e di muffa che faceva stringere il cuore. Restavamo tutte e due in silenziosi. **** Agli avvenimenti che si producono nel sonno io sono portato per natura a dar più importanza di quanto non si faccia comunemente. **** Il terreno era accidentato, muschioso. Qua e là della ferraglia: un vomere, una zappa, un pezzo di rastrello… Stanghe all’aria, sotto un capannone mezzo crollato, marcivano due carrette. Di lato era ancora in piedi una fornace di mattoni la cui porta pendeva da un cardine. Più oltre si vedevano i quattro trogoli deserti del porcile. L’aria sapeva di ferro rugginoso, di legno imporrito, di argilla umida e di quell’odore accorante d’autunno morto e di misera lettiera che esalano gli ovili abbandonati da molto tempo. *** Se io sono sensibile a questi rumori, quanto più doveva esserlo Genoveffa, che da natura e da una singolare attitudine alle emozioni era resa vulnerabile ai più lievi assalti! A momenti la sua sensibilità si affinava al punto da farle percepire variazioni del silenzio inafferrabili ai miei sensi, pur educati da dieci anni di solitudine. Ho ascoltato mille silenzi intercettandone, sotto un’apparente immobilità, le infime alterazioni; ma in vita mia non ho mai ricevuto comunicazioni misteriose come quelle che raccoglieva Genoveffa, attenta ai minimi segni interiori. **** Genoveffa mi diede un bacio. Poi se ne andò, d’un passo che mi parve strano perché non la sentivo camminare. E’ vero che non ero più in questo mondo. Non feci movimento per correr dietro a Genoveffa e rimasi lungamente immobile. Non mi aspettavo quel bacio, leggero e dolce come la neve. Eppure era un vero bacio di donna giovane e tiepida: dotato, come un bacio d’amore, di una viva potenza di penetrazione, ma tale come se già non provenisse più da questa terra. **** Presi Genoveffa per un braccio e la trascini fuori, certo con un po’ troppa di violenza perché me lo fece notare: “Sei brusco Pasquale. Lasciami…” Ebbi vergogna e le posai una mano sulla spalla. Lei allora cedette a un movimento di estrema tenerezza, stringendosi a me così dolcemente che mi incominciò a battere il cuore. ***** Quel silenzio mi schiacciò. Era voluminoso e basso come quella stanza serrata, quella cucina semibuia dove mangiavamo. Niente pareva potesse sollevarne il blocco massiccio. Era un silenzio durevole, un silenzio senza speranza, come ne nascono soltanto nei luoghi chiusi. Quello dei campi è sempre vasto, e traversato da impalpabili vibrazioni aeree. Fa ancora un gran caldo. L’estate si immerge nel settembre coi suoi grandi polveroni, le sue foschie mattutine e, la sera, i suoi profumi immensi di erbe secche, di pini, di pietrame ribollente e di legno calcinato. Bisogna che pensi ai prossimi lavori agricoli: l’uva è quasi matura. Benché faccia sempre caldo, l’estate declina. Ormai la luce è più bassa: e si carica di colori, soprattutto la mattina e la sera, quando l’umidità della notte ha purificato l’aria e impregnato i terreni. Ogni tanto erborizzo. A curvarsi sul suolo, già si sente che si avvicina l’autunno. L’odore dei ciottoli e dell’argilla non è più il medesimo che in agosto o in luglio, quando le radici bruciano e i selci scottano. Oggi la vita si disfa nelle profondità della terra. Le barbe disseccate si indeboliscono e gli alimenti sotterranei non giungono più fino alla cima delle foglie che tra poco incominceranno a diventare friabili. Nulla si è ancora alterato, né la forma né il colore dei vegetali, ma una stanchezza sorda grava sulla vita delle campagne; e via via che queste si lasciano andare, l’incanto dei prati e delle vigne si fa più sensibile. Io sono unito da legami misteriosi a queste variazioni del cielo, delle acque e della terra. Quanto interviene a trasformarli, trasforma anche me. **** Da tutte le altre parti, e persino nei campi arati più alti, il terreno bruno è ricoperto da quel tappeto friabile, obbediente al minimo avvallamento, alla minima gobba. Nera, la Jassine (la fattoria) appare traverso il suo bosco spoglio come una rozza bestia dell’inverno, accucciata nella neve. Qua e là un corvo saltella su quel candore e ci fa un buco col becco. Il silenzio è straordinario. Si sente il sangue fischiare dolcemente nelle orecchie. Un cielo basso e ovattato soffoca i suoni. Non nevica più; ma non è che una pausa, prima di sera. Dappertutto le case fumano: Genevet, Farfaille, gli Alibert… Non un soffio. Tutto è calmo. E’ il primo giorno d’inverno, l’alba delle nevi. L’AMORE UMANO Thomas DE QUINCEY Greenheys (Manchster) 1785 Edinburgo 1859 CONFESSIONI DI UN MANGIATORE D’OPPIO Da Thomas de Quincey LE CONFESSIONI DI UN MANGIATORE D’OPPIO Nobili sono gli impulsi della virilità che sboccia, se non sono del tutto ignobili; e alludo a quel periodo in cui comincia a fiorire il senso della poesia e nel quale i ragazzi cominciano a sentire il paradiso che nasconde il sorriso femminile. Sul far della sera infilai Greek Street e scoprii, prendendo possesso del nuovo alloggio, che era già abitato da un unico inquilino, una povera ragazzetta senza nessuno, dell'apparente età di dieci anni, ma che la fame, con le sue sofferenze che spesso fanno apparire i bambini più vecchi di quanto sono, aveva duramente segnata. La piccola derelitta mi fece sa¬pere che viveva e dormiva là, sola, già da qualche tempo; e grande fu la gioia della povera creatura al¬l'apprendere che in futuro le sarei stato compagno durante la notte. La casa si poteva appena chiamar vasta, poiché in ogni piano non era abbastanza grande; ma, avendo quattro piani, era vasta abbastanza da dare un vivo senso di solitudine sonora di echi; inoltre, sfornita di mobili com'era, il rodio dei topi vi risuonava prodi¬giosamente nella scala e nel vestibolo; quindi, oltre le sofferenze fisiche del freddo e della fame che le tormentavano il corpo, la poveretta aveva trovato modo di soffrire ancor di più per gli esseri spaven¬tosi che le creava la fantasia. Contro tali nemici io potevo prometterle protezione, e la mia compagnia era in sé una protezione; ma altro e più utile aiuto, ahimè, non potevo offrirle. Si dormiva sull'impiantito, senza altro guanciale che un cumulo di cartacce di procedura, e altra coperta che un gran mantello; in seguito, però, scoprimmo, in soffitta, un vecchio copertoio da divano, un picco¬lo tappeto e pochi altri cenci che servirono a riscal¬darci un poco. La povera bambina mi si stringeva addosso in cerca di un po' di calore e di protezione contro i suoi spettrali nemici. Quando le mie sofferenze non erano più acute del solito, me la prendevo fra le braccia, in modo da scaldarla tanto che potesse addormentarsi, mentre io non vi riuscivo, poiché durante gli ultimi due mesi della mia miseria, dormivo parecchio durante il giorno ed ero soggetto a molti assopimenti leggeri. Quanto alla povera bambina, l’accesso allo studio (se così posso chiamare quell’emporio di pergamene e di atti legali) a lei era negato; quella stanza era per lei la camera di Barbablù; un Barbablù che, verso le sei, l’ora in cui di solito si recava a pranzare, la chiudeva regolarmente a chiave. Se la bambina fosse una figlia illegittima di Brunell o soltanto una servetta non riuscii mai a sapere, nè sapeva ella stessa; certo era trattata, in complesso, come una serva. Infatti, tranne la camera di Barbablù che la povera bambina credeva permanentemente frequentata da fantasmi e che inoltre era chiusa a chiave, tutte le altre stanze, dalla soffitta alla cantina, erano a nostra disposizione. Il mondo era tutto nostro, e noi piantavamo le tende per la notte dovunque il capriccio ci suggeriva. La casa, come ho detto, era vasta e di bell’aspetto, in una posizione cospicua e assai nota di Londra; molti lettori le passeranno davanti senza dubbio poche ore dopo aver letto queste righe. Dal canto mio, quando una circostanza mi conduce a Londra, non manco mai di andarla a vedere; e, questa sera stessa, 15 agosto 1821, il mio natalizio, verso le dieci ho deviato dalla mia passeggiata notturna lungo Oxford Street, per darle un’occhiata. Presentemente la casa è occupata, a quanto pare, da una rispettabile famiglia; le finestre non sono più rive¬stite d'un impasto di vecchia fuliggine e di antiche piogge, e tutto l'aspetto esteriore non è più tetro come era allora. Al lume delle lampade, nel salotto che dà sulla strada, ho potuto osservare una riunione in¬tima; forse prendono il tè, tutti sembrano animati e felici. Qual meraviglioso contrasto, ai miei occhi, con l'oscurità, il freddo, il silenzio e la desolazione che, diciannove anni or sono, regnavano in quella stessa casa, abitata la notte soltanto da uno studente affamato e da una povera bambina abbandonata! Di questa, negli anni che seguirono, ho cercato in¬vano una traccia. A parte la sua condizione, non era affatto ciò che si dice una fanciulla interessante; non era né graziosa, né di pronto ingegno, né di modi particolarmente piacevoli. Ma, grazie a Dio, anche allora, non abbisognavano tanti abbellimenti, tante grazie accessorie, per conciliarsi il mio affetto; la pu¬ra natura umana, nella sua semplicità, nell'umiltà quotidiana mi bastavano; e volevo bene a quella bam¬bina, perché era la mia compagna di sventura. Se è ancora al mondo, probabilmente sarà madre, avrà figli; ma, come ho detto, non sono riuscito a saperne più nulla. Lo rimpiango; ma vi era un'altra persona, a quel tempo, che poi ho cercato con più profonda ansia e con assai più profondo dolore di non poterla rintrac¬ciare. Era una giovinetta appartenente alla classe infelice degli esiliati e dei paria della popolazione femminile. Non mi vergogno, né ho alcuna ragione per vergognarmi, di confessare che allora ero fami¬liare e amico di molte di tali sciagurate. **** Essendo a quel tempo anch’io, per necessità, un peripatetico, uno che batteva i marciapiedi, mi incontravo naturalmente più spesso in quelle donne peripatetiche che sono chiamate tecnicamente donne da marciapiede. Alcune di queste avevano preso talvolta le mie difese contro qualche guardia che pretendeva di scacciarmi dalle soglie delle case dove mi ero seduto, altre mi avevano protetto da più serie aggressioni. Ma una, fra loro, quella che mi ha condotto a parlare di un tale argomento… ma no! Anna dal nobile cuore, io non devo classificarti fra tali donne: troviamo, se è possibile, un nome più gentile, per designare la condizione di colei alla cui bontà e compassione devo la vita, poiché mi soccorse in un momento che ero abbandonato dall’universo intero. Per molte settimane avevo camminato, la sera, lungo Oxford Street con quella povera ragazza abbandonata, e mi ero riposato con lei sulle soglie delle case, o sotto i portici. Doveva essere più giovane di me e, infatti, mi disse che non aveva ancora sedici anni. Spinto dall’interesse che mi ispirava, ero riuscito a strapparle la sua semplice storia. ***** Ecco, frattanto, il debito che avevo con lei, e così grande che mai avrei potuto pagarlo: una sera, che percorrevamo insieme Oxford Street, alla fine d'una giornata in cui mi ero sentito più debole e sofferente del solito, pregai Anna d'accompagnarmi nel quar¬tiere di Soho; là, ci sedemmo sugli scalini d'una ca¬sa, passando innanzi alla quale, provo ancor oggi una dolorosa amarezza e, dal profondo del cuore, rendo omaggio allo spirito di quella sventurata fanciulla, per il ricordo della nobile azione che vi compì. D'un tratto, appena fummo seduti, mi sentii molto peggio; le avevo appoggiato il capo sul petto, e d'im¬provviso le caddi, tra le braccia, sugli scalini, ri¬verso. Per le sensazioni che provavo, compresi con certezza che, se non mi avessero dato un violento eccitante, sarei morto sui posto, o per lo meno sarei caduto in un esaurimento da cui, senza amici com'e¬ro, non avrei potuto sperare di sollevarmi mai più. In quel frangente fatale, la povera orfana mia com¬pagna, che dal mondo non aveva avuto che oltraggi, tese la mano che mi salvò. Gettando un grido di ter¬rore, ma senza perdere un istante, si lanciò in Ox¬ford Street, e in meno che si possa immaginare tornò con un bicchiere di porto drogato. Il mio stomaco vuoto, che avrebbe respinto qualsiasi cibo solido, da quel vino risentì subito un immediato ristoro. E, per quel bicchiere, la generosa ragazza aveva vuotato completamente e senza esitazione alcuna la sua umile borsa, che, a quel tempo, bisogna rammentare, non conteneva quasi nemmeno di che nutrirla; e l’aveva fatto senza avere alcun motivo di sperare che io potessi mai rimborsarla. Alcuni sentimenti, benché non più profondi, né più appassionati, ci inteneriscono, però, più degli altri; e, spesso oggi, quando passeggio per Oxford Street sotto i tristi fanali e odo un comune organetto suonare una di quelle arie che anni or sono consolavano me e la mia giovane compagna, mi vengono le lacrime agli occhi, e medito sul misterioso destino che ci separò in modo così critico e improvviso per sempre. ****** Frattanto, che era avvenuto della povera Anna? Dov’era? Dove era andata? Fedele agli accordi, la cercai ogni giorno, la attesi ogni sera per tutto il tempo che rimasi a Londra, all’angolo di Titchfield Street. Questa, tra i molti affanni che la maggior parte degli uomini incontrano in questa vita, fu per me l’afflizione più grave. Se Anna viveva, senza dubbio senza dubbio talvolta ci dobbiamo essere cercati proprio nello stesso momento per i formidabili labirinti di Londra: forse siamo stati anche a pochi piedi di distanza l’uno dall’altra, poiché, in una via di Londra, una barriera non più spessa può costituire sovente una separazione per l’eternità. Per alcuni anni ho sperato che ella vivesse ancora; e credo, nelle svariate visite a Londra, di aver scrutato, nel senso letterale non retorico della parola, miriadi di visi femminili nella speranza di incontrare Anna. Non la vedessi che un istante, la riconoscerei fra mille; bella non era, ma aveva un’espressione assai dolce, e un portamento del capo particolarmente grazioso. La cercai, come ho detto, pieno di speranza: così fu per molti anni; ma oggi, oggi avrei timore di vederla, e quella sua tosse, che mi addolorava quando la lasciai, è adesso la mia consolazione: adesso non desidero più rivederla, ma pensare a lei più serenamente, come a una persona da lungo tempo distesa nella tomba… Così, dunque, Oxford Street, matrigna dal cuore di pietra, che ascolti i sospiri degli orfani, che bevi le lacrime dei fanciulli, alfine mi separai da te. Era giunta l’ora, alfine, in cui non avrei percorso mai più, col cuore angosciato, i tuoi interminabili marciapiedi, non avrei più sognato, per svegliarmi poi in preda alle torture della fame. Troppi successori di me e di Anna, troppi eredi delle nostre calamità, dopo di allora hanno senza dubbio calpestato le nostre orme. Altri orfani, dopo Anna, hanno sospirato, altri fanciulli hanno versato lacrime; e tu, Oxford Street, di quanti altri innumerevoli cuori, da quei giorni a oggi, hai riecheggiato i lamenti. August STRINDBERG Stoccolma 1849 1912 Drammaturgo, romanziere, scrittore di teatro. Analista di realtà fisiche e psicologiche. Scrittore amaro e spietatamente vero. LA LAMPADA VERDE. SOLO. Da Strindberg LA LAMPADA VERDE La sera del matrimonio, stavo salendo le scale e scorsi dalla fessura della buca delle lettere sulla porta, attraverso l'anticamera, come il tavolo del salone era addobbato con fiori e candelabri accesi in attesa degli sposini che ancora non giungevano. Le candele bianche, la fissità delle fiammelle, la silenziosa musica dei colori dei fiori mi incantarono, tanto che sembravo un cacciatore che sta puntando. Poi, salendo ancora gradino, scorsi, sempre attraverso quella fessura, l'argenteria con la frutta, due calici veneziani e un secchiello dorato per il ghiaccio. Già, proprio come su da noi, e giusto un anno dopo!... E il mattino successivo sarebbero calate le maschere! pensai. **** Sposati da otto giorni. Io intanto avevo già visto dalla targhetta chi era lui: un architetto, mai sentito. Una sera ero stato fuori e rincasavo dopo che era stata spenta l'illuminazione sui pianerot¬toli. Già nel vestibolo fui raggiunto dalle note del pianoforte e, salendo per quella misteriosa spirale a conchiglia che forma una scala, mi sem¬brava di procedere in un magma di tenebra e di musica in crescendo, che al terzo piano divenne addirittura rimbombo. Lì l'oscurità odorava di buon tabacco e, in quella buia nebbia, scorgevo tre macchie di bragia. Accesi un fiammifero e mi ritrovai di fronte tre signori in frac che erano usciti sul pianerottolo a fumarsi un sigaro al buio. Era il primo ballo! Giunto al quarto piano, ancora la musica; i passi di danza facevano tremare il mio lampadario: vocio, risate a tavola, brindisi agli sposi, canzoncine conviviali e infine il repertorio del grammofono. Mi rallegrai per loro e volentieri donai il mio sonno notturno, benevolente offerta alla loro giovane felicità. Di¬fatti ballarono fino al mattino e potei udire, ripetuto varie volte, il valzer Le Charme, che era evidentemente il pezzo preferito dalla signora!... Il giorno dopo il marito andò a lavorare, e verso mezzogiorno ascoltai come la giovane donna suo¬nava Le Charme, delicatamente, languidamente, quasi un eco del ballo di ieri. Non mi sembrava che eseguisse per il suo uomo e mi sovvenni dell'affasci¬nante tipo bruno, dagli occhi appassionati, che si era trattenuto sul pianerottolo. Ma allonta¬nai subito il cattivo pensiero e fui invece preso da compassione per quella ragazza, che prendeva ormai congedo dalla giovinezza, dalla danza, dai corteggiamenti, per apprendere l’amara serietà dell’esistenza. *** Passati alcuni mesi, la musica prende a dira¬darsi. I pranzi domenicali si fanno più silenziosi. C’è qualcosa di nuovo: la sera odo un metodico martellare e battere... sembra il laboratorio di un ebanista. Non riesco a capire che cosa un archi¬tetto possa fare in casa per produrre un simile rumore, ma una sera intercetto: "Tocca a te" e “Adesso tiro"; ecco la soluzione: sono i ben noti colpi del tric-trac, il rotolio dei dadi... Ah, a que¬sto siete arrivati!... Comincia a prevalere un silenzio sordo, c'è una specie d'attesa piena di speranza; e infine, un pomeriggio, la quiete è la¬cerata da un urlo che annuncia l'ingresso di un es¬sere umano nella vita. **** In un primo tempo, il bimbo dorme nella camera dei genitori e di notte lo si sente piangere e, qualche volta, è accompagnato da una voce di basso ovat¬tata che brontola nel dormiveglia, cui risponde a tratti una voce femminile un po' isterica, che snocciola paroline... Eccoci poi ad un trasloco di mobili, perché il suo piagnisteo notturno era ormai il ruggito d'un leone e le paroline un fiume. Lui la notte vuol dormire perché la mattina deve lavorare e il salotto si trasforma di conseguenza nella camera del bambino; si assume un'infermiera e i biberon prendono a riempirsi e svuotarsi. Il bimbo piange ora giorno e notte, qualche volta per un’ora, qualche altra per due. Comprendo che c'è un nuovo regime, come una distribuzione dell'alimentazione a ore stabilite alla maniera dei serragli e delle caserme. Intanto il medico assicura che il piccolo si abituerà alla somministrazione regolare dei pasti e che col tempo Aspetterà paziente e tranquillo il suo cibo. Tutte sciocchezze però, perché il piccolo pianse per la fame un anno e mezzo, ed era del tutto naturale. In seguito, parve subentrare una situazione di compromesso: il marito portava a casa i suoi amici a giocare a carte, se non altro per non uscire… Presto però non si giocò più ed i coniugi, solo per qualche tempo, cominciarono a leggere ad alta voce. La lettura cessò; arrivarono gli sbadigli; il pianoforte taceva da tre mesi; niente più ospiti; il silenzio eterno! Poveracci! Fino all’infinito silenzio che subentra quando due anime si sono consumate a vicenda, divorate a vicenda, neutralizzate a vicenda. August Strindberg SOLO Deluso dall’amore l’autore ormai cinquantenne cerca rifugio nell’amicizia; ritrova i vecchi amici di una volta, ma anche questi lo deluderanno e sceglierà la solitudine. Da Strindberg SOLO Dopo dieci anni di soggiorno in provincia sono di nuovo nella mia città natale, a pranzo, a tavola coi vecchi amici. Siamo più o meno tutti cinquantenni e i più giovani della comitiva sono oltre i quarant'anni o giù di lì. Tutti ci stupiamo di non essere troppo invecchiati dall'ultima volta che ci siamo visti. Certo, qua e là, la barba o le tempie di qualcuno paiono leggermente brizzolate, ma c'è anche chi è ringiovanito dall'ultimo incontro; intanto si ammette uno strano cambiamento nell'esistenza verso il quarantesimo anno. Gli amici si sentivano anziani, credevano che la vita stesse avvicinandosi alla fine; scoprivano malattie immagi¬narie; avevano difficoltà a infilarsi il soprabito perché le braccia erano come più rigide. Tutto appariva loro ormai annoso e consunto; tutto si ripeteva, ritornava in una eterna noia. Le nuove generazioni premevano minacciose e senza la minima considerazione per le prodezze di chi le aveva precedute; già, la cosa peggiore era proprio che i giovani stavano facendo le stesse scoperte che avevamo fatto noi e, peggio, presentavano le loro vecchie novità come se nessu¬no se le fosse mai figurate prima. Intanto si parlava di antichi ricordi della nostra giovinez¬za e ci si immergeva nel tempo andato, letteralmente rivivendolo, ritrovandosi vent'anni prima, tanto che qual¬cuno cominciava a chiedersi se il tempo esistesse. **** Fin dal primo incontro mi ero reso abbastanza conto che gli amici erano restati sempre quelli di una volta e mi ero po' meravigliato di questo. Avevo però osservato che non sorrideva più tanto facilmente e che si era alquanto cauti nel parlare. Avevamo scoperto il valore, il potere della paro scambiata. La vita non aveva realmente addolcito le opinio¬ni, ma il buon senso aveva alla fine insegnato qualcosa, che tutte le parole si ritorcono sull'uomo; e avevamo pure capito che l'uomo non è fatto di toni interi, ma per poter dare in qualche modo un'opinione sul prossimo servono anche i semitoni. Ora invece, non ci sorvegliavamo troppo: non si misuravano le parole, non si rispettavano le opinioni, si andava a briglia sciolta come una volta e poi al galoppo, ed era proprio divertente. Quindi una pausa, diverse pause, e alla fine un penoso silenzio. Quelli che avevano parlato dl più provavano angoscia, come se avessero detto troppo. In quel silenzio sentivano che nel corso dei dieci anni precedenti nuovi legami erano stati allacciati da ciascuno e che nuovi sconosciuti interessi li dividevano e quelli che avevano parlato liberamente avevano urtato scogli sommersi, strap¬pato fili, devastato terreni. Avrebbero anche potuto accor¬gersi di tutto ciò e d'altro ancora, solo se avessero fatto caso agli sguardi aggressivi e difensivi, alle smorfie delle bocche le cui labbra occultavano una parola non detta. **** E adesso attaccava una discussione che si sarebbe dovuta fare almeno vent'anni prima. Si cercava ora di rendere cosciente ciò che negli anni felici della maturazione era venuto fuori del tutto incoscientemente. La memoria non ci accompagnava, avevamo dimenticato ciò che avevamo detto e fatto, citavamo noi stessi e gli altri erroneamente, e fu presto una gran confusione. Appena calava il silenzio qualcuno ripeteva la stessa cosa di prima e la discussione girava su se stessa. Ancora silenzio e subito si ricominciava! Questa volta ci separammo con la sensazione di aver chiuso col passato e di essere ormai divenuti maturi, in diritto di lasciare la serra per crescere infine liberamente, piantati su una terra libera, senza più giardinieri, cesoie ed etichette di sorta. Cosi, in sostanza, si finiva per restare soli, come sempre. Ma non era ancora completamente finita, poiché certi che non volevano fossilizzarsi, bensì andare avanti, scoprire, conquistare nuovi orizzonti, si riunivano in gruppetto nel loro luogo preferito di conversazione, il caffè. Prima certo avevano provato a farlo in casa, ma lì s'era scoperto che l’amico aveva nella giacca una fodera chiamata moglie, spesso, invero, dalle cuciture alquanto strette. In sua presenza occorreva parlare d'altro e si evitava di discutere le proprie cose; si verificavano così due casi: o la signora presiedeva e risolveva d'autorità tutti i problemi e si doveva star zitti per cortesia, o la signora si alzava, correndo verso la camera dei bambini e facendosi poi vedere salo a tavola dove si faceva la figura del mendicante o dello scroccone e si era trattati come se si fosse lì per tentare il marito ad abbandonare casa e famiglia, doveri e fedeltà. Così non poteva andare e del resto spesso degli amici si separavano a causa della reciproca antipatia delle loro mogli. Si irritavano a vicenda. E allora si scelse il caffè. Ma stranamente non ci si sentiva a proprio agio come in passato. Ci si voleva appunto persuadere della neutralità del luogo, in cui nessuno era padrone e nessuno ospite, ma intanto s'avvertiva 1'inquie¬tudine degli sposati, perché qualche moglie era sola a casa e se fosse stata veramente sola nella vita avrebbe anche potuto cercare compagnia, mentre ora appariva come una condannata alla solitudine domestica. Inoltre i clienti del caffè erano in maggioranza celibi, in pratica quasi nemici, e, come senza casa, sembravano qui accampare diritti. Si comportavano insomma come fossero a casa loro, facevano baccano, scoppiavano a ridere considerando gli sposati come intrusi, in una parola: disturbavano. In qualità di vedovo mi pareva di avere un certo diritto al caffè, ma forse non era così, e quando invitavo gli ammoglia¬ti a venirvi, mi attiravo subito l'odio delle signore che smisero di conseguenza d'invitarmi in casa. E forse a ragione, poiché il matrimonio è una cosa a due. Quando arrivavano al caffè i signori mariti erano spesso così pieni delle loro questioni domestiche che prima dovevo sorbirmi le loro preoccupazioni su cameriere e bambini, scuole ed esami, e finivo col sentirmi così profondamente coinvolto nelle beghe familiari degli altri che nulla mi valeva d'essermi liberato dalle mie. **** Una Babilonia che culminava in litigi e fraintendimenti. «Ma non capisci quello che dico!» era il solito grido d'aiuto. Ed era così! Ognuno nel corso degli anni aveva dato nuovi significati alle parole, nuovi valori ai vecchi pensieri e non si voleva palesare il proprio intimo parere, che costituiva il vitale segreto della persona oppure il presentimento del prossimo futuro di cui si era gelosi. Ogni notte, tornando a casa, dopo una di queste serate al caffè, sentivo la vacuità di tali sfrenatezze, dove in verità si voleva solo udire la propria voce ed imporre agli altri le proprie opinioni. Il mio cervello sembrava fatto a brani o come se fosse stato zappato e seminato a erbacce, che si dovevano rastrellare perché non germogliassero. E, giunto a casa nella solitudine e nel silenzio, ritrovavo me stesso, mi avvolgevo nella mia atmosfera spirituale sentendomi a mio agio come in un bel vestito e, dopo aver meditato un'ora, mi immergevo nel nulla del sonno, liberato dal desiderio, dalla passione, dalla volontà. Così a poco a poco cominciavo a sospendere le mie visite al caffè; mi allenavo alla solitudine; ricadevo in tentazione, ma ogni volta ne uscivo più guarito, finché, alla fine, scoprii il piacere immenso d'ascoltare il silenzio e di udire le sue nuove voci. **** Questa è infine la solitudine: avvolgersi nella seta dell'a¬nima, farsi crisalide e attendere la metamorfosi, che non può mancare. Si vive intanto delle proprie esperienze e telepati¬camente si vive la vita altrui. La morte e la resurrezione: una nuova educazione per un nuovo ignoto. Finalmente possiedi solo te stesso. I pensieri altrui non controllano più i miei; opinioni, capricci altrui non mi angustiano ¬più. Ora l'anima comincia a maturarsi nella riconquistata libertà e provo un'immensa pace interiore, un piacere sereno, un senso di certezza e di responsabilità. Se rifletto sulla vita sociale che dovrebbe essere una specie di palestra, non posso ora che giudicarla altro che una scuola di vizi. Se rechi in te un senso di bellezza, essere costretto a vedere bruttezza è una vera tortura, che ti spinge ingannevolmente a ritenerti un martire. Chiudere gli occhi di fronte all'ingiustizia solo per riguardo t'insegna a poco a poco a diventare un ipocrita. Abituarti a sopprimere conti¬nuamente le tue opinioni e sempre per riguardo, ti rende vile. Infine caricarti, per quieto vivere, della colpa di crimini non commessi, ti umilia senza quasi che te ne accorga, sicché un bel giorno ti ritrovi convinto d'essere una canaglia; non sentire mai una parola di conforto ti toglie arditezza, coraggio; pagare per gli errori altrui ti induce a ribellarti contro gli uomini e il mondo. Ma la peggior cosa è non essere padroni del proprio destino, tanto più se t'impegni ad agire nella massima correttezza. Che senso ha mantenere una condotta incensu¬rabile, mentre magari la tua compagna s'insudicia? Un'altra cosa che ho guadagnato nella solitudine è poter decidere da solo la mia dieta spirituale. In casa mia infatti ¬non sono più obbligato a vedere nemici a tavola e ascoltarli, in silenzio, diffamare ciò che io rispetto; non sono più costretto a udire musiche che detesto; finalmente non vedo più sparsi per casa giornali con caricature mie e dei miei amici; mi sono liberato dalla lettura di libri che disprezzo, dall'obbligo di visitare mostre per ammirare quadri spregevoli. In una parola, dispongo della mia anima, per quanto si abbia diritto a disporne, e posso così scegliere le mie antipatie e le mie simpatie. Non sono mai stato un despota io, ho solo impedito che mi si dominasse, cosa che i despoti non tollerano. Al contrario, ho sempre odiato i despoti e questo non viene da loro perdonato. Ho sempre voluto avanzare, elevarmi, e quindi ho avuto sempre una sorta di diritto supremo d'oppormi a chi mi ha voluto trascinare verso il basso ed è per questo che sono rimasto solo. Hans KONINGSBERGER Di PARI PASSO CON L’AMORE E LA MORTE Da Hans Koningsberger DI PARI PASSO CON L’AMORE E LA MORTE Mi avvicinai a quella casa molto rapidamente; una parte della strada la feci, credo correndo. Ma non ne sono sicuro perché, a digiuno e con il vino che mi sguazzava dentro, il mondo divenne un luogo di sogno. L’aria si fece fredda, la luce radente del tardo pomeriggio rendeva scintillante ogni cosa, e io volavo. **** Forse, un osservatore meno parziale l’avrebbe definita semplicemente una ragazza dalla carnagione chiara; ma io so che in quello stesso momento decisi di innamorarmi di lei. “Come vi chiamata?” domandai. “Claudia”. Non potei fare a meno di sorriderle. “Che bel nome, poetico e pagano.” Ella inarcò le sopracciglia. “Poetico?” “Come fece vostro padre a ottenere il consenso del vescovo? Sembra assai poco cristiano.” “Ma niente affatto. Sono nata il 15 gennaio. E’ il giorno di San Mauro. San Mauro è il protettore degli zoppi, e claudus in latino significa zoppo.” “Certo”, dissi. “Perdonatemi. Siete una fanciulla molto dotta.” Ella mosse alcuni passi verso la casa, si fermò e mi guardò. “Perché avete detto che è poetico?” “Quanti anni avete compiuto il 15 dello scorso mese di gennaio?” Si accigliò, irritata, ma poi rispose: “Sedici”. “Claudia è un nome poetico”, dissi a questo punto, “ma non stavo pensando a un santo affetto dalla gotta; Claudia era il nome di una donna bella da togliere il respiro che visse a Roma prima della nascita di Cristo.” **** Non l’avrei veduta se non avessi indugiato così a lungo in quella sala, pensai, e mi sono trattenuto soltanto perché avevo incominciato a sognare il mare. Ma il mare è ciò che tutto abbraccia e il confine del conosciuto; pertanto simboleggia due volte la femminilità. E mi parve, allorché sigillai quella lettera, di amare Claudia, di amarla come non avevo amato mai nessun’altra fanciulla prima di allora in vita mia, e di averla amata fino a questo punto sin dal primo momento. Si sentiva nell’aria un odore pungente di pesce e di sale; il cielo era di un grigio luminoso, abbacinante, che feriva gli occhi. Lei non mi aveva chiesto nulla, e meno che mai di amarla, o di tornare da lei. Cosa ancor più strana, sapevo benissimo che questo amore per una fanciulla appena veduta e mai toccata, era, in vasta misura, un sentimento creato soltanto nella mia mente. Credo che una creazione di questo genere sia legittima; offre un punto di appoggio all’uomo che si accinge a un’impresa tutto solo in questo mondo caotico. ****** Non parlammo. Attraverso l’apertura della porta vedevamo le nuvole a occidente incendiate dal tramonto; poi l’oscurità dilagò rapidamente. “Guarda”, disse Claudia, e additò una stella che splendeva attraverso uno squarcio nel tetto. Poi mi voltò le spalle. “Ho freddo”, disse. Mi avvicinai e la cinsi con un braccio. Si addormentò; udivo il suo respiro, lento e regolare. Giacqui così, il mio corpo contro il suo, ormai caldo, desiderandola, ma rimanendo assai casto; sentivo i suoi sodi contorni di fanciulla attraverso tutte le vesti. La presi per i gomiti e la feci alzare. Claudia, quando l’avevo ritrovata, era pallida e smunta; ma da quando avevamo lasciato l’abbazia, il colore era tornato sul suo viso. La scrutai; si sforzò di reprimere un sorriso e per un momento i denti le scintillarono tra le labbra, in modo eccitante, ma anche innocente, come accade con i bambini. “La mia lettera era diretta a una fanciulla immaginaria”, dissi, “una fanciulla immaginaria e una fanciulla ideale. Ma credo che tu e lei siate la stessa persona.” Dopo un poco smise di singhiozzare e mi sorrise attraverso le lacrime. “Non ho più una famiglia”, disse. “Non ho nessuno, nessuno tranne te che sei il mo innamorato.” Poi domandò: “Non puoi far ardere un po’ di più quella candela?” e incominciò a spogliarsi. La fissai con gli occhi spalancati, ed ella tirò su con il naso liberandosi delle ultime lacrime e rise. “Dato che sei il mio innamorato”, asserì poi, molto seria, “lascerò che tu mi veda, questa sera. Ma non devi toccarmi, lo sai”. ***** Tra le nubi lacerate filtrava appena un baluginio di chiarore lunare, ed era già buio quando trovammo una capanna deserta. Spezzai il pane in due, porsi a Claudia la sua parte e mi distesi nell’angolo più lontano, il coltello nella mano sinistra, il pane nell’altra. Mi destai trasalendo, in piena notte. Claudia, distesa accanto a me, premeva la bocca contro la mia. L’oscurità era così fitta che non riuscii a distinguere il suo viso, ma sentii che stava rabbrividendo. La cinsi con un braccio e mi scostai stupito, poiché era nuda. Non mi diede ascolto, continuò a spogliarmi, e in ultimo non riuscii a impedirmi di aiutarla. E giacqui su di lei, in una tenebra senza fondo, ed ella spinse le mani tra noi e mi portò nel suo corpo. Si lasciò sfuggire un gemito sommesso, e poi la possedetti; stelle e lampi di luce bianca danzarono dinanzi ai miei occhi ben chiusi, mentre Claudia de Saint-Jean si lasciava prendere da me. **** Volle che la spogliassi; era la prima volta che ci trovavamo insieme così, in un vero letto. Poi Claudia gettò indietro le coperte e dichiarò: “Devi sapere, Heron, che non ho mai visto un uomo nudo in vita mia”. Il respiro mi mancò, non sapevo che cosa rispondere, infine riuscii a dire: “Be’, in tal caso, faresti meglio a vedere me”. Facemmo all’amore come non credo che mi fosse mai accaduto prima; e, a un tratto, vidi gli occhi di Claudia spalancarsi, ed ella ansimò come se fosse stata trafitta con un coltello. A lungo giacque immobile con gli occhi chiusi, poi bisbigliò: “Non avevo mai provato niente di simile... fare all’amore è questo? E’ questo che accade a una donna?” Ma poi si mise a piangere. Prima di amare una donna, dovevi dirle che l’amavi, parlare a lei o anche a te stesso. Prima di poter amare dovevi essere in grado di pronunciare le parole. Dovevi possedere la volontà di dirle, la volontà di sacrificare e negare te stesso. Ma da dove poteva mai venire una simile volontà? Domandò Claudia. Veniva dall’essere smarrito nella più alta bellezza della donna, dall’ebbrezza mistica del corpo di una fanciulla, dei suoi occhi, del suo sorriso. **** Ella era schiva nel togliersi l’indumento più innocente, nel mostrarmi la caviglia; e da ciò scivolammo ogni volta in improvvise, sfrenate, incredibili intimità durante le quali l’accarezzavo, le baciavo il ventre, durante le quali ella mi prendeva tra i seni, e persino in bocca. Era adesso l’inizio dell’estate, giugno, con notti brevi e sussurranti e giornate calde: albe durante le quali Claudia e io ci alzavamo e uscivamo di casa, senza incontrare nessuno, e camminavamo sull’erba a piedi nudi. Ella rabbrividì, e decidemmo di proseguire. Tutto ciò che indossavamo, come ogni cosa intorno a noi, era bagnato, ma ben presto riuscimmo a riscaldarci, perché l’aria era mite. Nuvole basse scivolavano via nel cielo, si udiva un ininterrotto picchiettare, gocciolare, un frusciar d’acqua corrente; cornacchie e corvi volavano gracchiando proprio rasente le chiome degli alberi. “Volta il viso verso l’alto mentre cammini”, disse Claudia. “Perché?” “Io sto facendo così, è piacevole. Sembra... la pioggia sta lavando via il sale di tutte le lacrime che ho versato.” ***** Claudia si inginocchiò; io le rimasi accanto silenzioso. Poi ella disse, rapidamente: “Vuoi tu, Heron, prendere me Claudia, come tua sposa?” Abbassai gli occhi sui suoi capelli striati d’oro, ella non si mosse, e io risposi: “Sì”. Claudia aspettava. Pertanto mi inginocchiai a mia volta e dissi: “ E vuoi tu, Claudia, prendere me, Heron, come tuo sposo?” Mi mancò un poco la voce mentre pronunciavo queste parole. Eravamo così patetici. “Sì”, rispose lei. “In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.” “ E di Afrodite. ” Marcel Schwob Chaville 1867 Parigi 1905 Opere IL LIBRO DI MONELLE. Capolavoro di estetica e psicologia. Da Marcel Schwob IL LIBRO DI MONELLE Bonaparte lo squartatore, appena diciottenne, conobbe sotto le porte di ferro di Palais Royal una piccola prostituta. Era pallida in viso e tremava dal freddo. “Bisogna pur vivere ” gli disse lei. Nè tu nè io conosciamo il nome di questa ragazza che Bo¬naparte si portò in camera, una sera di novembre, in un albergo di Cherbourg. Veniva da Nantes, città di Bretagna. Stanca e debole, era stata da poco pian¬tata dal suo amante. Era semplice e buona e aveva una voce dal suono dolcissimo. Bonaparte serbò il ricordo di tutto questo. E io penso proprio che, più tardi, il ricordo del suono della voce di lei l'abbia commosso fino alle lacrime; e penso anche che l'ab¬bia cercata a lungo, d'inverno, la sera, e che non l'abbia mai più rivista. Càpita una volta sola - capisci? - che le piccole prostitute escano dalla calca notturna per un atto di bontà. Anna, per esempio, si precipitò in aiuto di Tommaso de Quincey, il mangiatore d'oppio, che stava sul punto di svenire sotto i grossi lampioni accesi della strada larga di Oxford. Gli occhi bagnati di lacrime, essa gli accostò alle labbra un buon bicchiere di vino dolce, e stette lì a baciarlo, a coc¬colarlo. Poi si dileguò nel buio. Probabilmente morì poco dopo. Aveva la tosse l'ultima sera che la vidi, disse de Quincey. Chissà, forse è rimasta in giro per le strade; eppure, per quanto egli l’abbia cercata con tutta la sua passione, affrontando e sfidando lo scherno della gente a cui si rivolgeva, Anna fu perduta per sempre. Quando, più tardi, ebbe una casa confortevole, spesso, con le lacrime agli occhi, egli pensava che la povera Anna avrebbe potuto vivere lì, insieme a lui; mentre invece se la imma¬ginava ammalata o moribonda o afflitta, in mezzo al sudiciume senza scampo d'un b... di Londra, e lei, proprio lei aveva portato via con sé tutto l'amore, tutta la pietà del suo cuore. Vedi, esse lanciano un grido di compassione verso di voi e vi accarezzano la mano con la loro mano scarna. Solo se siete molto infelici esse vi capiscono e piangono con voi e vi consolano. La piccola Nelly era uscita dalla sua casa infame per andare incontro al galeotto Dostoievskij; e, devastata dalla febbre, l'aveva guardato a lungo con i suoi immensi oc¬chi neri e pieni di paure. La piccola Sonia (è esistita anche lei come le altre) aveva baciato l’as¬sassino Rodion subito dopo la confessione del delitto. ¬ “Ti sei rovinato! ”, gli disse con accenti di¬sperati. E balzando di colpo in piedi, gli si era gettata al collo; e mentre lo baciava, gridava in uno slancio colmo di pietà: “No! ormai al mondo non c'è nessuno più disgraziato di te!”. Poi a un tratto era scoppiata in un pianto dirotto. La piccola Nelly, alla pari di Anna e della ragazza senza nome che venne incontro al giovane e mesto Bonaparte, scomparve anch'essa, inghiottita dalla nebbia. Dostoievskij non disse mai cosa ne fu della piccola Sonia, così pallida, così smunta. Né tu né io sappiamo se essa seppe fino in fondo aiutare Raskol¬nikof durante la sua espiazione. Penso proprio di no. Se ne sarà andata via piano piano, per aver sofferto troppo, amato troppo, stringendosi nelle pro¬prie braccia. Nessuna di loro, capisci, vi può restare vicina. Sarebbero troppo tristi, e poi non se la sentono di rimanere: si vergognano. Quando voi smettete di piangere, loro non osano più guardarvi in faccia. Vi insegnano quello che hanno da insegnarvi, poi se ne vanno. Attraversano il gelo e la pioggia solo per baciarvi la fronte e asciugarvi gli occhi; poi, di nuovo, le tenebre orrende se le riprendono. Chissà, può darsi che debbano andare da qualche altra parte. Voi le conoscete solo quando traboccano di com¬passione. Allora non dovete pensare ad altro. Non dovete pensare a quello che hanno potuto fare nelle tenebre. È vero: Nelly nell'orribile casa, Sonia ac¬casciata ubriaca su una panchina del viale, Anna mentre riporta dal negoziante di una viuzza buia il bicchiere di vino vuoto, possono essere state oscene e crudeli. Sono creature di carne. Ma vedi, per fare dono, sotto il lampione acceso della strada maestra, di un bacio pietoso, esse vengono fuori da un vicolo cieco e buio. In quel momento lì erano divine. E si deve dimenticare tutto il resto. **** E Monelle disse ancora: Ho pietà di te, ho pietà di te, mio amato. Eppure ritornerò nella notte; perché bisogna che tu mi perda prima di ritrovarmi. E quando mi ritroverai ti sfuggirò di nuovo. Ecco: io sono colei che è sola. E Monelle disse ancora: Giacchè sono sola, mi chiamerai Monelle. Ma nei tuoi sogni, mi chiamerai con tutti gli altri nomi. In questo stesso giorno una piccola creatura ti toccherà con la mano e poi fuggirà. Poiché tutte le cose sono fuggevoli; ma Monelle è la più fuggevole di tutte. **** Che, non appena creato, si dilegui ogni dio. Che, non appena creata, ogni creazione perisca. Che il dio antico doni la propria creazione al più giovane affinchè questi la riduca in polvere. Che ogni dio sia solo il dio del momento. Pensa al momento. I pensieri duraturi non sono che contraddizioni. Ama al momento. L’amore, quando perdura, non è altro che odio. Sii felice con il momento. La felicità che perdura diventa infelicità. Onora tutti i momenti, e guàrdati dal costruire legami fra le cose. Non trattenere il momento: non faresti che sfinire un’agonia. Vedi: ogni momento è insieme culla e bara; fa’ che la vita e la morte ti appaiano entrambe singolari e nuove. I momenti sono simili a asticelle bipartite, metà bianche e metà nere. Non accomodare la tua vita combinando disegni con le parti bianche. Poiché ti ritroverai, in seguito, con i disegni fatti di parti nere. L’AMORE RIBELLE Mario MARIANI Roma 1884 Brasile 1951 Mariani è un autore ribelle, impulsivo, anarchico. Spesso è cinico, beffardo e disilluso per aver provato le brutture della vita, ma il suo animo rimane sempre umano, profondamente umano. LE ADOLESCENTI. LE SORELLINE. POVERO CRISTO. Mario Mariani LE ADOLESCENTI fu processato per oscenità nel 1919. Da Mario Mariani LE ADOLESCENTI Fra un maschietto e una femminuccia, la più intraprendente è sempre la femminuccia. E la favola dura anche quando si è grandi. E’ sempre la donna che fa quello che vuole e fa fare quello che vuole. Nonostante le leggi, i costumi, i pregiudizi. Ci sono degli uomini i quali credono d’aver fatto la corte penosamente a una donna e non sanno che invece è stata proprio quella donna che li ha guardati, scelti, voluti e che, senza parere, si è fatta fare la corte a modo suo, così e così, di qui fin là. Tu certo, Rossella, queste cose le sapevi già allora. Perché una donna sa nella culla quello che un uomo non sa ancora presso la bara. Da Mario Mariani LE SORELLINE Era scesa sulle chiatte del Danubio verso i porti del Mar Nero con i cosacchi domatori di belve e a sette anni aveva già un amante e la pelle solcata dai colpi di nagaika. Aveva ballato sui fili di ferro delle piazze di Istanbul al suono della bandura e della balalaika mentre i marinai del Corno d’Oro, greci, bulgari, armeni rumeni, turchi, battevano le mani in ritmo, accosciati sopra tappeti preziosi. Aveva fumato l’oppio nelle bettole dei porti del Caspio e letto la fortuna nel palmo delle mani bianche delle ladies inglesi ad Alessandria. Venduta a dieci anni, era rimasta per tre mesi prigioniera in un lupanare di Singapore, obbligata a soddisfare le artificiose lussurie dei mercanti malesi e dei soldati indù. **** LUI: “Cantiamo assieme l’alba lunare… Perché mi rubi i tuoi sogni? Vorrei fermarli tutti nella dura cornice della mia volontà, tenerli nel mio pugno chiuso o stretti fra i denti inchiodati come la mia rabbia quando la stringo. Ma i tuoi sogni sono cerbiatti spauriti che fuggono all’impazzata, con improvvisi balzi, per ogni dove”. LEI: “Fuggono per essere liberi. Vorresti forse metterli al guinzaglio?” LUI: “Io no. Rinnegherei la mia verità. Ma stando eternamente genuflessi davanti alla propria verità ci si scorticano i ginocchi”. LEI: “E’ la luna che ti fa male, che ti incipria l’anima. Perché ti senti le ginocchia scorticate?” LUI: “Perché certe volte, provo la nostalgia di quello che ho distrutto. E la mia rabbia maggiore è questa: che non sono stato io a distruggere; io ero soltanto una risata di cui si servivano il tempo e il destino. Sono stato uno strumento dentro cui soffiava un demone o un demiurgo ignoto. Eppure sono felice. Felice perché so che alcune mie parole hanno accoppato più sentimenti falsi e più idee morte di quel che non abbia accoppato uomini il cannone. Sono felice perché ho servito la mia verità. Ma certe volte…” LEI: “Certe volte?…” LUI: “Sì. A che serve mentire? Anche il non-mentire è una mia spinosa necessità. Certe volte, quando incontro la rasoiata del mio riso sulla bocca degli altri e so di averlo formato io quello sfregio di sarcasmo, provo una grande pena!” LEI: Bisogna che gli uomini imparino a sopportarla quella pena e a non soffrirla per essere meno tristi”. LUI: “Lo so: l’ho detto io.” LEI: “E allora, che cosa vorresti? E da chi?” LUI: “Forse da te. Ho corso un mare troppo tormentato. Sono stanco di dolore e di piacere. Sono affamato di serenità. Vorrei che non soltanto il tuo corpo giovane ed elastico fosse mio, ma anche i tuoi pensieri e i tuoi sogni. Vorrei che quando mi posi la testa sul cuore e chiudi gli occhi non nascesse sotto le tue palpebre chiuse nessuna immagine straniera.” LEI: “Vorresti la rosa azzurra, il fiore che canta, l’uccellino che parla, vorresti quello che vuole l’umanità bambina, l’umanità che tu hai provato a disincantare.” LUI: “Sì. Vorrei credere anche io nell’impossibile sogno dei millenni, addormentarmi una sera sull’amaca di una vecchia, rosea menzogna.” Da Mario Mariani POVERO CRISTO Focolare domestico! Menzogna inutile, senza scusa. Carcere volontario. Tragedia soffocata, muta come il passo sui tappeti, come i vellicamenti sotto le tavole, i baci dietro le tende, i sussurri negli anditi bui. Ombre lunghe, sulle tappezzerie, di cattiverie e di tradimenti, di odi senza nome. Pane sozzo, avvelenato. Commedia sempiterna e ripugnante del sentimento, dell’affetto, dell’amore, della bontà. Focolare domestico! Stasera hanno acceso il ceppo o la schiampa, nel caminetto. E il legno crepita. E le monachine cercano la libertà verso le sorelle maggiori: le stelle. C’è un alberello di Natale nella stanza grande carico di orpelli e fantocci e frutti falsi. Tutto falso. La fiamma illumina sorrisi di maschere. Focolare domestico! Tutti raccolti intorno. Si benedice ai capelli bianchi della nonna che fu sgualdrina ai suoi tempi ed ebbe tanti amanti quanti ha ora capelli bianchi. Ilarità della fiamma! Si benedice alle virtù della sposa che si pavoneggia e coglie, nella confusione, l’occasione per dare un appuntamento all’amico che è fra gli invitati. Ilarità della fiamma! Si brinda al padre e alla sua integra vita ed egli, un po’ brillo, pizzica le parti molli della serva. E sogna cambiali false. Ilarità della fiamma! Si sussurra della virtù e dell’innocenza delle bimbe che intanto inseguono, lungo gli oscuri corridoi, i maschietti che hanno avide dita. Ilarità della fiamma che illumina sorrisi di maschere. Commedia inutile. Ipocrisia vana. Ciascuno inganna e si illude di non essere ingannato. E pretende di non essere ingannato. Tragedia dell’egoismo, orgia dell’imbecillità. E nessuno che abbia il fegato di constatare: ma siamo tutti così! E facciamo il comodo nostro! E non insultiamoci più! Focolare domestico: marchio di Caino, farsa di Betlemme. Petrus BOREL Pierre Joseph Haunterive Borel Lione 1809 Algeria 1859 RACCONTI IMMORALI Scrittore amaro come il grande Baudelaire. Esiste una bella biografia di questo scrittore: Enid Mary Starkie, Petrus Borel the lycantrope, his life and times, Da Petrus Borel RACCONTI IMMORALI L’ora di coricarsi! Ora così delirante, così palpitante di pudore e di voluttà! Ora che confonde gli esseri, che ravviva o soffoca il desiderio! L’ora di coricarsi, che svela menzogne e bellezze! Ora troppo spesso, dei penosi contrasti! Ora talvolta davvero fatale!… La sposa si tolse con grazia la veste nuziale e i gioielli; sembrava una rosa che si sfogliasse; era un bellezza casigliana come se ne vedono nei sogni!… Vesalius si toglieva goffamente gli abiti della festa e svelava la sua sconcia ossatura; era una mummia che scioglieva le proprie bende. **** “Ho visto chiaro in ogni cosa.” “Anche nell’amore?” “L’amore! Ma che cos’è l’amore? E’ stato reso poetico a uso degli sciocchi! Non è altro che una volgare necessità periodica, una stridula legge di natura, di quell’eterna natura che moltiplica e riproduce, una brutale tendenza, un carnale incontro del sesso, uno spasimo! Passione, tenerezza, onore, sentimento, tutto si riduce a questo.” “Che odioso linguaggio!” “Ieri non parlavo così; ieri vivevo ancora nell’inganno, ma molti veli sono caduti dai miei occhi dopo ieri. Nessuno credeva e si illudeva più di me, nessuno è mai stato più sentimentale. Più il sogno è stato grande e bello, più il risveglio alla realtà è doloroso. Ieri ero pieno di sensibilità, oggi di ferocia. Amavo una donna con tutto me stesso. Credevo che mi amasse; ero il suo trastullo! La credevo candida, era bassa e vile. La credevo ingenua, celestiale, pura, era una prostituta! Sono furioso! E soltanto l’amore, l’amore per questa donna mi tratteneva in questo mondo!” *** Felicità, che parola derisoria! Non ho ancora incontrato degli esseri così sfrontati da confessarsi felici! Vengano dunque gli impostori, che io possa strangolarli! I furfanti che cantano l’amore, lo inghirlandano, lo solfeggiano, che lo raffigurano come un fanciullo paffuto, esuberante di gioia, vengano dunque questi impostori, che io possa strangolarli! Cantare l’amore!… Per me l’amore è odio, gemiti, lamenti, vergogna, dolore, oppressione, lacrime, sangue, cadaveri, ossa, rimorsi, io non ho mai conosciuto altro!… Coraggio, rosei pastorelli, cantate dunque l’amore; che derisione! Che amara mascherata! Ma tu Jean Louis, tu che sei penetrato dietro le quinte, tu che hai visto il rovescio della medaglia, conosciuto la piatta realtà e toccato il fondo; tu che hai visto da vicino e a nudo i re, ciarlatani rivestiti di lustrini; tu che hai potuto vedere lo scheletro delle vecchie sotto l’ocra della cipria e il gessoso belletto di cui si sono ricoperte; tu che ti sei fatto strada presso la prima attrice giovane, così candida, così inesperta in scena, ma la cui bocca sa di farmacia; tu che sai che i quattrini non sono che gettoni, tu per cui i re, i soldati, i nobili, le belle donne, i servi, non sono che buffoni ribaldi che parlano di onore, di gloria, di giustizia, secondo il ruolo che è loro imposto; Farisei che, lontano dalla folla dell’anfiteatro, si trascinano nelle dissolutezze e guazzano nella bassezza. Per viltà gli uomini indietreggiano davanti all'annientamento; a modo loro si preparano una vita futura, si cullano e s'inebriano in questa menzogna che loro stessi hanno creato; e tutti contenti di questa trovata, quando sono in agonia, come dei folli, nel loro letto, con un riso sciocco sulle labbra, vi dicono: “ Addio, arrivederci, parto per un mondo migliore, ci ritroveremo là! ». E allora, con un sorriso ancor più sciocco, gli eredi, in cuor loro felici, rispondono: “Addio, buon viaggio, ci ricongiungeremo fra poco, preparateci il posto in paradiso”. Ebbene, no, idioti che siete, voi finite dove finisce ogni cosa, nel nulla!... Ed è in faccia alla morte, con un piede nella fossa, vigliacchi, che ve lo dico! Non voglia un'altra vita, ne ho abba¬stanza di questa, è il nulla che io invoco. Chi ricompenserà il cavallo per le sue fatiche, la foresta per le devastazioni della scure, della sega, del fuoco?… Senza dubbio c’è un’altra vita anche per i cavalli e le querce?… Un paradiso! L’AMORE DELUDENTE Jean ROUSSELOT Poitiers 1913 2004 UN FIORE DI SANGUE. Romanzo amaro, psicologico e di introspezione. Da Jean Rousselot IL PONTE SUL TEMPO Molto presto mi resi conto di non essere “come gli altri”. Ciò che per i miei compagni era scappata e gioco, per me era avventura e rito. Avrei allora potuto, senza abbassare gli occhi perché non li vedessero velati dalle lacrime, affrontare le ragazze che camminavano sui marciapiedi, tenendosi sottobraccio e incoraggiandosi l’un l’altra a ridere, i capelli sciolti e i piccoli seni ostentati. Invano vedevo dei giovani, non più belli né più intelligenti di me, “riuscire” con le ragazze, lanciano facezie grossolane, o addirittura maltrattandole. **** “Ci si è fatti belli per andare a trovare la piccola, eh?” Ecco ciò che mi diceva l’albergatore, un uomo attempato ma ancora pieno di vigore e di “mezzi”, vedendomi uscire alle nove di sera, con i capelli impomatati, il nodo della cravatta rifatto e le scarpe lucide; ed era ciò che al suo posto qualsiasi altro uomo mi avrebbe detto, con la medesima voce gioviale, affettuosa e complice… “La piccola”… “La piccola”… Come far capire al prossimo che non c’era nessuna “piccola” al termine della mia allucinante ricerca. In verità, non ho mai vissuto, ho atteso di vivere; non ho mai veramente creduto che le mie azioni mi impegnassero, che le loro conseguenze fossero gravi, definitive, che quaggiù l’innocenza non esistesse. ***** Mathilde sorrise; aveva i denti quadrati, un po’ lunghi, di una bianchezza splendente; i suoi occhi nocciola brillarono ma¬liziosi e teneri, già complici. “ Vi prego ” soggiunsi “ permettete¬mi di accompagnarvi.” “ Va bene! Ma mi lascerete all'angolo di via Sablettes.” Avevo vinto! Una ragazza, una bella ra¬gazza, accettava la mia compagnia, non mi squadrava con disprezzo, ascoltava le mie parole precipitose, ingarbugliate, senza prendersi gioco di me! Era davvero bella? Sì, credo di sì, sebbene nel viso attuale di Mathilde mi sia impossibile ritrovare quel¬lo d'allora. L'avevo davvero guardata? Parlavo, parlavo... Avevo bisogno di stor¬dire, addormentare la mia diffidenza, e sot¬to quel flutto di parole ero più solo che mai. Mi era per lo meno finalmente concesso di gridare a voce alta ciò che mille volte ave¬vo gridato nei sotterranei del mio cuore? Senza dubbio... ma per il momento lo di¬cevo solo a me stesso: al mio fianco non c'era che una fugace incarnazione della donna e forse, quando ci saremmo avvicinati al mare, il vento avrebbe dissipato, rapito quel vano fantasma. **** Ahimè! Fra pochi minuti saremmo arrivati all’angolo di via Sablettes; Mathilde se ne sarebbe andata da una parte e io da un’altra; l’avrei rivista il giorno dopo? Avrebbe risposto al mio saluto? Non avevo a volte scambiato per simpatia un gesto di indifferente gentilezza o di cortese educazione? Per poco non gridai, piansi, singhiozzai di gioia quando la ragazza mi chiese, interrompendo all’improvviso una delle frasi che lanciavo nel vuoto: ”Perché non vi siete deciso prima a parlarmi?” Restai senza fiato, ma avrei voluto gridare. Tre giorni dopo Mathilde si fece baciare sulle labbra e quando mi lasciò mi disse: “Domenica vieni a prendere il caffè a casa mia… Ma sì,… i miei genitori saranno contentissimi…” Dio! Come avvenivano in fretta tutte quelle cose che un tempo sembravano non dover mai avvenire! ***** Il giorno in cui accettai (e di che cuore!) l’invito dei genitori di Mathilde, avrei dovuto capire che per me era finita l’epoca dei misteri che noi stessi ci creiamo, delle porte la cui chiave noi stessi ci nascondiamo, dei passaggi segreti che noi solo conosciamo. Quando avrei risalito via Sablettes, sarei stato un uomo come gli altri, privo di ogni residuo infantile, ma ormai privo delle antenne della speranza, e pronto ad accettare l’ingranaggio della morte. “Se sposi Mathilde” mi dissi “fra dieci anni, forse meno, questo castello della rassegnazione sarà tuo; e ne parlerai con orgoglio! E i colleghi d’ufficio te lo invidieranno!”. E mi vidi quale sarei stato a quell'epoca, le spalle curve, i capelli incolti, i pantalo¬ni foderati al ginocchio per farli durare quanto più possibile, intento a spingere alla domenica la carrozzina dei bambini o a togliere le erbacce dai vialetti della villa: un uomo finito... Mi fermai in mez¬zo al sentiero, le tempie che mi battevano, sbriciolando una sigaretta in fondo alla ta¬sca. “Ci si è fatti belli per andare a trova¬re la piccola, eh? ” mi diceva l'albergato¬re in maniche di camicia; e, dall'altro lato del tavolo, c'era il professore di francese con la sua faccia sentenziosa: “Bravo, Varnier, voi andrete lontano! ” Rimasi a lungo sul sentiero, elencando a me stesso tutte le ragioni che avevo di proseguire, di “andare a trovare la piccola”, di conformarmi… “Sarò sempre in tempo ad abbandonarla, o ad uccidermi, più tardi…” mormorai trascinandomi verso la casa di Mathilde. **** Aprii le braccia e Mathilde vi si rannicchiò, molle e calda; in bocca a lei, il mio nome duro, minerale e che a me non piace, era di una soavità struggente; e lei, di cui avevo scoperto il peso, si riversò come neve, più che cadervi, sul letto in cui la gettai. Oh! Avrei saputo tacere come lei taceva! Oh! mai avrebbe saputo che tremavo di paura nel momento in cui avveniva ciò che così selvaggiamente, così disperatamente avevo desiderato, e con tanta meticolosa e sagace ostinazione disposto. Tremavo di paura… **** Oggi, in una luce aspra, intollerabile, il corpo di Mathilde si imponeva al mio sguardo e non potevo fare a meno di vederlo: eravamo pari nella nudità, nella presenza, nella nostra reciproca cognizione; non a caso giacevamo avvinti su quel letto; e nemmeno si trattava di un sogno; due esseri viventi, due esseri liberi, ugualmente viventi e liberi, si erano messi uno contro l’altro per confrontare le loro differenze e congiungerle fino alla morte. “E’ un essere come te!” mi ripetevo con angoscia mentre scioglievo i capelli di Mathilde e coprivo di baci le sue spalle: “E’ un essere come te! Un essere che mangia e beve come tu bevi e mangi. Anche in questo istante, questo essere digerisce e posando la testa sul suo ventre potresti udire il lavorio sordo delle sue viscere”. Mi sforzavo perfino di immaginare questo essere in atto di compiere funzioni umilianti e grottesche. Invano! Era quello l’amore? Il mio essere profondo non vi aveva preso parte e, mentre raddoppiava la burrasca e si allargava sul lenzuolo la prova di sangue, mi rendevo conto di non essere mai altrettante solo, altrettanto disperatamente solo, in quella camera. **** I giorni passano; passano sempre, qualunque cosa avvenga; e sarebbe puerile prenderli a testimoni; i rossori e i sospiri di vergogna di Mathilde erano scomparsi nel passato insieme ai clamori del vento autunnale; le lacrime che avevamo versato si erano asciugate ancor prima che le ultime gocce di pioggia che flagellano i vetri, fossero state assorbite dal suolo. “Ti amo! Ti amerò tutta la vita!” mi diceva Mathilde con un trasporto che faceva raggiare la sua carne. Cosa potevo risponderle, visto che ormai era troppo tardi, se non che l’amavo nella stessa misura e che l’avrei amata tutta la vita? Quando Mathilde si piegava nell’orgasmo sotto il mio corpo, vibrava, gridava, mi mordeva la spalla con furore; io dicevo a me stesso con una specie di fervente rassegnazione, davanti allo spettacolo di un delirio che avevo provocato senza perdere nulla della mia lucidità: “questo è l’amore; questa è la vita; non esiste altro amore; non esiste altra vita”. ***** L’amore che avrei voluto provare forse non esisteva sulla terra e forse dalla vita non c’era da attendersi altra felicità che quelle mattinate di onde e di gabbiani, quei deliqui che ci rendono puerili e insieme bestiali; il resto del tempo essendo occupato da una lenta assuefazione dell’essere (tramite la menzogna, la parodia, l’automatismo) alla solitudine, alla senescenza, alla mancanza di tutte le felicità promesse dalla giovinezza. E per pietà non dicevo nulla a Mathilde della certezza di restare tutta la vita ribelle a quella rassegnazione, a quell’appassimento, a quell’eternizzazione che avrebbero avuto inizio col nostro matrimonio. ***** A soli sei mesi di distanza dal matrimonio, la notte per me aveva cessato di essere il gorgo caldo in cui sinora mi ero gettato, voluttuosamente libero d me stesso. E questa donna sarebbe sempre stata al mio fianco, giorno e notte, come un altro me stesso, come un testimonio che avrebbe saputo tutto di me; peggio: come una sentinella che mi avrebbe interdetto di uscire da me stesso, di disertare la mia coscienza e sciogliermi nel nulla. Non avrei potuto né dimenticare me stesso, né dimenticare lei; in me lei avrebbe ucciso anche quella fantasia che permette tutte le moltiplicazioni, tutte le sostituzioni, tutte le fughe fuori del tempo. **** Mathilde non poteva certo capire come mai, dopo tanto desiderarlo, avessi perso ogni voglia di fare l’amore con lei. E, senza dubbio, le sarebbe sembrato inconcepibile se avessi potuto dirglielo! Cosa dovevo fare, cosa potevo fare, se non fingere una passione, una fame che non provavo più? Per qualche mese ancora ci riuscii, a prezzo di un’umiliante ed estenuante convocazione sullo schermo del mio cervello, di immagini ambigue, viscide, che eccitavano la mia lussuria. Ma questo sotterfugio divenne in breve inefficace. Avevamo dal mattino vissuto la vita di tutte le coppie, fatte di un uomo che esce di casa per guadagnare il pane quotidiano e di una donna che sbriga le faccende domestiche, che si ritrovano ai pasti, si scambiano delle impressioni. ***** Ma a mano a mano che ci avvicinavamo al momento di stenderci uno accanto all’altro, in quel letto dove i nostri corpi, lo volessimo o no, avrebbero diviso il loro calore e si sarebbero sfiorati a caso, avevamo sempre più coscienza della frattura terribile, irrimediabile, che si era prodotta fra noi, e imparavamo sempre meglio a ritrovarci soli, spogli, oltre che degli indumenti, di tutte le convenzioni dietro le quali ci eravamo riparati durante il giorno. A dir il vero, mi sarei forse deciso a partire se ciò fosse stato possibile senza urli, senza lacrime. Non avrei potuto sopportare la vista di una Mathilde che si torce le mani, mi scongiura, singhiozza, parla (forse sul serio?) di gettarsi nel fiume o sotto le ruote di un treno; una cosa tragica, terribile, definitiva… un po’ stupida, anche, e vagamente repellente. ****** Da cinque anni, vivo, spero… e talvolta mi sembra che il mondo sia bello, che mi ci trovi bene, che l’universale pacifica rassegnazione alla quale partecipo, l’abbia scelta io, che non la subisca affatto… Non ho vinto il mio dolore: l’ho trasportato con me in un altrove in cui, di tappa in tappa, diventavo un altro, più elastico, più abile e più forte; il mio dolore ha finito col non riconoscere più in me la sua preda e l’ho visto invecchiare, sfiduciarsi, rinunciare a mordere. ***** Due semplici parole, e Clara la meravigliosa ragazza che da giorni e giorni non osavo abbordare, sebbene mi sentissi il cuore in fiamme ogni volta che la vedevo, era diventata mia amica, poi sovrana terribile e insieme fraterna; da quell’istante, la mia vita era stata ogni minuto un inferno, un inferno atroce e delizioso. Clara non si vedeva né mi vedeva invecchiare; non sapeva che un giorno il nostro amore si sarebbe avvelenato alla stessa stregua del mio amore per Mathilde: i buchi nelle calze, la biancheria sudicia che ci si dimentica di nascondere, il cattivo alito del mattino… Giacché l’amore è in noi e siamo noi che lo trasferiamo in un altro essere per incantarci a berlo con i nostri sensi. ***** Ma dov’era la felicita? Per me non esistevano, non potevano esistere che minuti frammenti di felicità da raccogliere, a seconda della loro natura, in Mathilde o in Clara. E similmente passavano Mathilde e Clara. Tutti passavano e, in breve, non avrei più avuto la scusa della mia gioventù, né il pretesto della freschezza infantile di Clara. E in breve Mathilde, che dimagriva di settimana in settimana e i cui capelli ingrigivano sempre più, non sarebbe stata che una vecchia. ***** Un’ora in un cimitero mi avevano insegnato più cose sull’importanza di vivere che non quarant’anni della mia vita. La donna amata attende da noi il pane e il sale e non c’è passione che tenga contro questo suo bisogno, più forte di quello delle nostre carezze; di ricevere da noi, senza doverlo dividere con chicchessia, assistenza, nutrimento, protezione. Io e lei, seduti come un tempo presso la finestra, i nostri sguardi perduti sulla distesa di tetti di zinco sotto i quali forse si vegliano morti, si cullano neonati, uomini svestono donne per bagnarsi nel fiume di latte della loro carne e, come un tempo, per abitudine, le nostre mani si cercano e si stringono. Mika WALTARI Helsinky 1908 1979 FINE VAN BROOKLIN Fine è il diminutivo di Josephine, in questa bella storia di un amore disperato. Da Mika Waltari da Fine Van Brooklin Ho paura. Certo, fa male estrarre bruscamente una pallottola calcificata. Tuttavia, è un dolore dolce, di un’irritante dolcezza, perché risveglia in me tutto ciò di cui mi sono vergognato, ma senza il quale forse non sarei che un tronco cavo, una tomba piena di ossa ingiallite. E’ un dolore che mi dà piacere, perché almeno una volta ho vissuto e conosciuto una breve giovinezza, anche se tardiva e priva di calore. ***** All’improvviso mi fermai, col fiato mozzo. Il mio cuore cessò di colpo di battere, per riprendere poi a martella re forsennatamente. Lo spettacolo che si offriva ai miei occhi distratti in quel paesaggio stremato dalla calura, era altrettanto irreale degli allineamenti di monoliti. Su una piccola altura, a pochi metri da me, sdraiata sopra una coperta, c’era una ragazza che prendeva il sole, con indosso soltanto un costume da bagno azzurro chiaro sbiadito. **** Il contatto delle mani di una creatura femminile sconosciuta che mi reggevano il capo, era per i miei sensi una novità talmente sorprendente che le mie impressioni di quel primo incontro rimasero confuse e sconnesse. **** Apparirono le prime stelle, un cane abbaiava, ero solo, i miei piedi calpestavano la tomba reale di un popolo primitivo. Improvvisamente mi sentii in preda a un violento, immotivato ribollire di sentimenti: avrei voluto gettarmi sull’erba ancora tiepida o gridare a squarciagola. Perché questo mondo così immensamente grande, questo tempo così infinito, quest’uomo così piccolo? **** Sulla mesta strada del ritorno in albergo, con la pipa spenta che mi pendeva a un angolo della bocca e l’inutile accappatoio sotto il braccio, vidi venirmi incontro la ragazza. Era uscita da una villa semidiroccata, che uno steccato sghembo bordato di ortiche separava dalla strada, e camminava con il naso all’aria, tutta assorta nei suoi pensieri. Indossava una gonna corta bianca, le gambe abbronzate erano nude e i capelli avvolti dal solito fazzoletto di garza rosa, leggiadramente annodato sulla fronte. Quando arrivò alla mia altezza, la salutai e abbozzai goffamente un sorriso, malgrado il cuore mi battesse all’impazzata. Si risvegliò di soprassalto dalle sue meditazioni e mi scrutò sorpresa con i suoi occhi blu, dai quali traspariva una così evidente ignoranza di chi io fossi e un così vivo risentimento che mi fecero l’effetto di uno schiaffo in faccia. “Non la conosco, signore, cosa vuole?” Dallo stupore lasciai cadere a terra il berretto che tenevo in mano. **** Come può essere ingannevole un viso, pensai. Le avrei dato al massimo 18 anni, ma ora, mentre mi guardava, i suoi occhi mi sembravano duri, da donna navigata, come già stanchi di esplorare le debolezze degli uomini e i capricci delle passioni. Solo il suo corpo, con le sue guance ancora da bambina e la pelle morbida era quello di una fanciulla. **** Allora le mie labbra esitanti incontrarono il calore della sua guancia e, goffamente, la strinsi a me. Dapprima si dibatté un po’, ma poi mi cadde fra le braccia con tanto abbandono che, dallo sbigottimento, rischiai di lasciarla scivolare a terra. Non disse nulla, ma il suo seno si sollevò violentemente contro il mio petto, tanto da farmi tremare come se avessi freddo. E’ certo naturale che un intellettuale, un uomo che vive in mezzo ai libri, diventi presto un estraneo a quella che si suole chiamare la vera vita e tenda in un certo senso a fuggire la società. Ma quando, per la prima volta, sfiorai le sue labbra e quelle, con mia grande sorpresa, si schiusero al contatto delle mie, si scatenarono in me forze maligne della cui esistenza non avevo mai avuto prima di allora il minimo sentore. Seppi che sarei stato capace di gettare una torcia accesa tra gli scaffali polverosi della più preziosa delle biblioteche. Baciavo nel buio le labbra beffarde di una fanciulla e sentivo il suo seno provocante serrarsi al mio petto e mai niente di quel che ho provato in seguito ha potuto superare l’incanto senza precedenti di quel momento. ***** Ero solo, in quella cella rocciosa, il mio corpo, che non aveva mai saputo cosa fosse la giovinezza, era percorso da brividi incantevoli che, più erano violenti, più dolorosamente mi facevano sentire quanto breve e passeggera è la gioia dei sensi. **** Fine van Brooklin se ne stava distesa su un logoro divano, immersa nella lettura di un libro che le nascondeva in parte il viso. La sua posa era così studiatamente scomposta da farmi sospettare che avesse seguito dalla finestra le mie manovre davanti al cancello e sulla veranda. La gonna bianca le era scivolata ben sopra le ginocchia abbronzate e dalla testa inclinata i capelli le scendevano sulle spalle nude. Da tutto il suo atteggiamento traspariva un tale istintivo desiderio di sedurre, che un uomo appena più intraprendente di me si sarebbe gettato ai suoi piedi per baciarle quelle ginocchia così deliziose. Invece io rimasi lì, tramortito come se avessi ricevuto una martellata in testa, inghiottendo saliva, senza neppure osare guardarla apertamente. E tossicchiai di nuovo. “Signorina Van Brooklin,” le dissi, “Fine, io sono innamorato di lei, l’amo da morire!” Appena l’ebbi detto, la mia vergogna fu tale che mi nascosi il viso per non doverla guardare negli occhi. Tentai di stringerla tra le braccia e di baciarla, ma lei mi respinse puntandomi le mani contro il petto e rifiutando ostinatamente la sua bocca alle mie labbra. “No, no!” disse fievolmente, “non deve!”. E io, con sua grande sorpresa, io asino, lasciai docilmente la presa. **** Le misi una mano sulla spalla e tentai goffamente di scuoterla, ma all’improvviso lei rialzò la testa, mi si buttò al collo e scoppiò a ridere: ”Lei è davvero fantastico”, disse tra le risa, “è incredibile, da morire dal ridere. Un vero orso bianco, ecco che cos’è lei. Ma mi baci, dunque!” Lei rispose al mio bacio, mi buttò le braccia al collo con tale impeto che la passione mi accecò. La baciai sulla bocca, sulle guance, sul mento, sul collo, e, rosso di vergogna, le baciai anche il seno, scappatole di sorpresa dalla camicetta mentre si strusciava contro di me. I miei sensi cominciarono a vivere autonomamente la loro vita, al di fuori della mia ragione, il mio sguardo annebbiato non vedeva più che, a stento, i suoi occhi chiusi e le guance infuocate. I miei sensi si erano risvegliati, sentivo di non poter restare neppure un secondo lontano da lei, ma, ogni volta che la incontravo, ritornavo nella solitudine della mia camera ferito al cuore e pieno di rancore. Lei mi teneva al guinzaglio della mia insoddisfazione, ma io non lo capivo. Fin dall’infanzia lei aveva imparato l’amara legge che sfugge alla maggior parte delle donne: non è soddisfacendone i desideri che si riesce a dominare un uomo, è solo con l’insoddisfazione che si alimentano le passioni fatali. ****** Ho serbato il ricordo di quei giorni nel segreto del mio cuore, in preda, in un primo tempo, alla vergogna e a un profondo disprezzo di me stesso, ma poi, a distanza di anni, con la maturità, uscito dal baratro e rimarginate le ferite, il ricordo si è fatto piacevole, di una dolcezza, oserei dire, criminale, e ha trovato nel mio cuore il suo giusto posto. Scrivendone, mi sono definitivamente liberato del profondo disagio che mi procurava e ora posso guardare serenamente al passato, come si guarda un fiorellino dal profumo svanito trovato per caso tra le pagine macchiate di un vecchio libro. Sì, Fine Van Brooklin, bambina mia, cattiva e perversa. Se dovessi incontrarti oggi e tu fossi come allora, ti tirerei forte le orecchie e ti sculaccerei paternamente quel grazioso sederino. Ma dopotutto eviterei lo stesso di guardare nei tuoi splendidi occhi blu. Charles Paul de KOCK Passy 1793 Parigi 1871 LA RAGAZZA DALLE TRE SOTTANE. Romanzo originale, psicologico e anche misterioso. Da Paul Kock LA RAGAZZA DALLE TRE SOTTANE Non andrò più a cercare fortuna al ballo. Mah!… tante volte si va a cercare lontano da sé quello che si ha vicino!… In quella stanza la, in alto, ho visto una ragazza… bella assai, in fede mia!… soprattutto ben fatta… e tanto più posso giudicare meglio, vedendola così disabbigliata, in camiciola da mattina e sottana di fustagno… però da quanto posso arguire stando qui… Oh! Come mi piace quella semplicità… che permette di ammirare un così bel corpicino e quei fianchi così rotondi!…oh! che splendide forme!…è impossibile non innamorarsene. **** “Signorina, io sono venuto per…” “Per qualcosa, almeno suppongo, signore.” “Sì, signorina, mi fu detto… che ricamate…” “E non vi hanno ingannato. Avete qualche cosa da farmi ricamare?” “Sì… cioè… non so se a Parigi si portino le cravatte ricamate!” “No signore, non è più di moda.” “Ah! E i manicotti?” “Nemmeno.” “E… i fazzoletti?” “Per le donne… oh! Sì, signore; si fanno dei bellissimi ricami sui fazzoletti.” “Ah! Benissimo! Si ricamano i fazzoletti!…” E Dupont, così parlando, getta frequentemente lo sguardo sui piedi della ragazza: quei piedi sono piccoli, delicati, ben modellati, la gamba è rotonda; tutto ciò gli procura delle distrazioni, ed egli seguita per qualche tempo a mormorare: “Ah! Si ricamano i fazzoletti!…” E subito la signorina Giorgetta dà in uno scroscio di risa, che finisce per sconcertare il suo visitatore, il quale la guarda tutto sorpreso dicendole: “ Siete allegra, a quanto pare, signorina! ” “ Difatti, signore, io non patisco certo la me¬lanconia.” “ E si potrebbe di grazia domandarvi la causa di questa vostra allegria?” “ Siete voi, signore.” “ Io.... ah! sono io che vi faccio ridere!... Voi mi trovate dunque molto ridicolo, signorina?” “ No: ridicolo non è la parola che va bene.... ma, francamente, poco destro nel trovare un pre¬testo.” “ Un pretesto.... come?” “ È però abbastanza facile a capirlo. Voi volevate avere una scusa… un motivo per venire da me… poiché non avete nulla da far ricamare. ” “Che cosa vi fa pensar ciò, signorina?” “Credete forse che io non vi conosca? “Ah! mi conoscete?” “ Senza dubbio: voi dimorate nel piccolo al¬berga qui in faccia e passate il vostro tempo alla finestra sbirciandomi e.... lanciandomi delle oc¬chiate.” “ Ah! vi siete accorta di ciò?” Qui Dupont si impettisce; egli è contento d'es¬sere stato osservato e ne trae un augurio favo¬revole. La giovane ricamatrice continua: “Sì, signore, mi sono accorta di tutto.... e come non potevo accorgermi?... bisognava esser cieca....” **** Ah! E’ così ben fatta! Quando è al mio braccio, tutti ammirano la sua bella figura, quel bel piedino… quelle belle gambe… Come fare a non innamorarsi di tutto ciò? E’ molto tempo che io ho perduto la voglia di mangiare e di bere… ho perduto perfino la voglia di dormire… divento magro. ***** Ma il signor De Mardeille vedeva allora Giorgetta mentre era seduta, non poteva di conseguenza ammirare né la bellezza del suo corpo, né la grazia delle sue forme. Per fortuna, volle il caso… Che fosse proprio il caso? Noi non potremmo giurarlo, poiché le donne conoscono troppo bene ciò che può sedurci! Ma non importa; ammettiamo che fosse un caso, se la ragazza ebbe l’idea di alzarsi per andare ad innaffiare un vaso di viole, che stava sul davanzale dell’altra finestra. ***** “Ah! Vuole che io vada da lei!… Bisognava cominciare col dirmi ciò, grullo che sei!… Capisco, adesso… ciò lusinga la sua vanità… queste benedette ragazze hanno tanto amor proprio! Ella vuole che tutta la casa sappia che il signor De Mardeille le fa la corte… Dopo tutto a me non importa che si sappia; ci andrò… ma ci andrò di sera… poiché ad ora tarda… i vicini non sono mai alla finestra. **** “Il Lovelace del primo piano si sarà messo a spendere” dicono i due letterati; “ha vestito la vicina da capo a piedi… Le donne si lasciano sempre sedurre da un uomo che le veste, in attesa poi di… spogliarle. ” ***** “Ho agito divinamente. Le donne, in generale, sono lo spirito della contraddizione; basta domandar loro niente, perché vi concedano tutto; ora, la piccina è mia.” **** “Come il mondo è curioso!… è una scuola… più si vive e più si impara!… ma le donne diventano sempre più scaltre!… Noi siamo bimbi vicino a loro!…” **** Giorgetta lo sapeva bene, lei che si era comportata in quel modo. I desideri che si soddisfano presto, non durano; alle nostre passioni ci vogliono degli ostacoli, perché ingigantiscano, e non ci lascino più quiete. Pierre LOUYS Gand 1870 Parigi 1925 Pierre Louys LA DONNA E IL FANTOCIO Questo romanzo è la storia di un amore disperato e ne sono stati tratti 3 film: nel 1935, 1958, 1977. Da Pierre Louys LA DONNA E IL FANTOCCIO Dimostrava 22 anni, ma doveva averne 18. Tutto intero il suo corpo flessuoso e lungo era espressivo: sentivi che anche velandone il viso avresti potuto indovinarne i pensieri, e che ella sorrideva con le gambe così come parlava con il busto. Solo le donne che i lunghi inverni del Nord non hanno immobilizzato accanto al fuoco hanno questa grazia e questa scioltezza. **** “Stia attento alle donne, signore! Non le dirò di fuggirle, perché ho consumato la vita con loro, io, e, se potessi ricominciarla, fra le ore che vorrei rivivere, sarebbero quelle che ho trascorso a quel modo. Ma stia attento, stia attento alle donne!” E, come se avesse trovato il modo di esprimere il suo pensiero, don Mateo aggiunse, più lentamente: “Ci sono due specie di donne che non bisogna assolutamente conoscere; prima, quelle che non ci amano; poi quelle che ci amano. Tra questi due estremi, vi sono migliaia di donne deliziose, ma noi non sappiamo apprezzarle”. **** “Signore, non bisogna mai andare al primo appuntamento che ci viene dato da una donna.” “E perché?” “Perché la donna non viene.” **** Le hanno detto che ero un donnaiolo: è falso. Rispettavo troppo l’amore per frequentarne i retrobottega, e non ho quasi mai posseduto una donna che non amassi appassionatamente. Se gliene dicessi i nomi, stupirebbe di quanto siano poche. Proprio di recente, facendone a memoria il facile conto, pensavo che non avevo mai avuto un’amante bionda; non avrò mai conosciuto quei pallidi oggetti del desiderio. Il fatto è che l’amore, per me, non è mai stato una distrazione o uno svago, un passatempo, come è per alcuni. E’ stata la mia vita stessa. Se dalla mia memoria sopprimessi i pensieri e le azioni che hanno avuto per fine la donna, non vi resterebbe più nulla, se non il vuoto. **** Il treno si era rimesso in moto. Oltrepassammo Santa Maria delle Nevi in un paesaggio prodigioso: un immenso circo di candore sotto un precipizio di mille piedi si richiudeva all'orizzonte con una serie di montagne pallide; la luna, smagliante e gelida, era l'anima stessa della sierra nevosa, e non l'ho mai vista più divina che in quella notte d'inverno; il cielo era affatto nero; essa sola riluceva. E la neve. Mi pareva, a tratti, di viaggiare in un treno silenzioso e fantastico, alla scoperta d'un polo. Ero il solo a veder quel miraggio, perché i miei vicini si erano già addormentati. Ha mai notato, caro amico, che la gente non guarda mai nulla di ciò che è interessante? L'anno scorso, sul ponte di Triana, mi ero fermato a contemplare il più bel tramonto dell'anno. Non v'è nulla che possa dare un'idea dello splendore di Siviglia in un momento come quello. Ebbene, guardavo i passanti: se ne andavano per i fatti loro, o chiacchieravano portandosi dietro il loro tedio; non uno che girasse il capo. Quella sera trionfale, non l'ha vista nessuno. **** Entrai, ed entrai solo, ciò che rappresentava uno speciale favore, perché lei sa che i visitatori devono essere accompagnati da una sorvegliante attraverso quell’immenso harem di quattromilaottocento donne quanto mai spregiudicate nel contegno e nei discorsi. Le più vestite non avevano intorno al corpo che la camicia, ed erano le pudiche; poiché quasi tutte lavoravano a torso nudo, con un semplice gonnellino slacciato alla vita e talvolta calato fino a mezza coscia. Lo spettacolo era vario: c’erano donne di tutte le età, fanciulle e vecchie, giovani e meno giovani; e obese, grasse, magre o scarne. Alcune erano incinte, altre allattavano i piccini, altre ancora non erano neppure nubili. C’era di tutto, in quella folla nuda, tranne che vergini, probabilmente. C’era perfino qualche bella ragazza. C’erano, mi creda, anatomie assai meschine, in quel branco eteroclito, ma tutte erano interessanti, e più di una volta sostai davanti a un meraviglioso corpo femminile, di quelli che per certo si vedono solo in Spagna: un torso caldo, tutto carne, vellutato come un frutto, e pressoché vestito dalla pelle luccicante, d’un colore uniforme e scuro, dove spiccano vigorosamente l’astrakan inanellato delle ascelle e le aureole nere delle mammelle. Ne vidi quindici che erano belle. E’ molto, su cinquemila donne. **** Uscii un’ora dopo, nervosissimo, irritatissimo, e con l’intima convinzione che là non sarei mai più tornato. Vi tornai, purtroppo; e non una volta, ma trenta volte. Ero innamorato come un giovanotto. Lei, di certo, ha conosciuto queste follie. Non ho mai compreso così bene, nella vertigine, nello smarrimento, nell’incoscienza in cui mi trovavo, quanta verità si esprima quando si parla dell’ebbrezza del bacio. Non sapevo più chi fossimo, né nulla di ciò che era stato, né ciò che sarebbe accaduto di noi. Così intenso era il presente, che in esso scomparivano avvenire e passato. ***** Quattro volte, nella vasta Spagna, ho incontrato Concha Perez. E non è una serie di casi: non credo in questi tiri di dadi che reggerebbero i destini. Non appena la vidi, cominciai a tremare. Dovevo essere pallido come la terra, non avevo più né fiato né forza. ***** Errai tutta la notte sui bastioni. L’inesausto vento del mare sferzava come doccia la mia febbre e la mia viltà. Dopo quello che era accaduto, solo tre decisioni mi rimanevano da prendere: lasciarla, costringerla, oppure ucciderla. Presi la quarta, che era di subirla. Bert EHRLICH Stati Uniti Opere: LA RAGAZZA DAI CAPELLI ARANCIO. Un uomo Dave, ama due donne di carattere opposto: Carlina, anarchica, hippy, beatnik; e Marcia Barnard signorina di buona famiglia. Da Bert Ehrlich LA RAGAZZA DAI CAPELLI ARANCIO La ricordo ancora, Carlina Jerome, anche dopo tutti questi anni. Ero giovanissimo, allora, appena diciottenne, e frequentavo il primo corso serale dell’università; l’Hunter College, nelle vicinanze di Lexington. Ora naturalmente sono ammogliato, con due bambini e un terzo in arrivo. Il più grandicello ha undici anni. Mi sono calmato parecchio. Ho i capelli radi; il ventre incomincia a lasciar intravedere l’imminente, prosaica pancetta dei 30 anni. Sono contabile nella ditta Hauloff e Figli. Ma ricordo benissimo Carlina Jerome. Forse è stata la fotografia di lei e il frugare tra le sue vecchie lettere a riportarmi tante tenere reminescenze. Una ragazza di quelle che fanno colpo: abbondanti, luminosi capelli arancione e una figura perfetta: con un viso adorabile e occhi azzurri. Mi sentii tutto eccitato non appena le ebbi posto gli occhi addosso. *** Lei sorrise, si tolse la vestaglia e si mise a letto. Io ero troppo scandalizzato per potermi muovere. “Su, vieni, si gela. Non fare l’idiota. Sbrigati. Gli altri, quasi tutti, non aspetterebbero neppure di essere spogliati. Sta’ a sentire, bello, mi piaci, ecco perché mi stai avendo gratis. Gli altri, anche i migliori, li spremo. Quanti anni ho, secondo te? Eh? Non lo sai… Te lo dico io, tesoro, quindici anni. Già, una pisciona, no? Senti, non essere timido, se non lo hai mai fatto prima d’ora, ti dirò io come si fa. Quando avremo finito ti racconterò la storia della mia vita.” *** “E Carlina è la peggiore del branco. Sgualdrinella sfrontata! Ha il cuore nero come l’inferno. Ha i capelli come il demonio. E’ un demone, un demone dai capelli arancione.” *** Avevo un'amichetta, Marcia, bruna ed esile, con gli occhiali; una ragazza intelli¬gente, tranquilla, sensibile... Frequentava il Barnard. Ci tenevamo per mano, ci sfiora¬vamo le labbra, parlavamo d'arte, di mu¬sica, di teatro, ci scambiavamo promesse concernenti l'avvenire, ci accarezzavamo a vicenda nei vicoli scuri e ci stringevamo e i nostri corpi fondevano l'uno nell'altro le energie e le passioni giovanili dalle quali eravamo pervasi; eppure, in quei momenti, a volte dopo che avevo lasciato Marcia, v'era Carlina: il suo viso, quella sua sen¬suale voluttà, erano lì a perseguitarmi e a tentarmi, a colpirmi da profondità tene¬brose. Al solo pensiero di lei ardevo d'una con¬cupiscenza accesa. Marcia rimaneva da una parte, ferma e onesta, integra e seducente, mentre Carlina seguitava a essere una ghi¬gnante, bruciante immagine. Un demone dai capelli arancione, come Oscar l’aveva così efficacemente definita. Una vuota solitudine mi avvinghiava; piangevo per la mia Carlina, la concupivo. Lo strano, oscuro mistero di lei fece sì che mi rinchiudessi più che mai in me stesso. Finii col rendermi conto che non ero affatto vivo senza quella fiamma arancione, senza quella cerbiatta sorridente, senza quella fanciulla radiosa. Ella simboleggiava tutta la corruttibilità, la magica stranezza, il colore del mio Io inibito, silenzioso, e le soccombevo splendidamente. Mi arrendevo alla convinzione che Carlina fosse l’epitome della vita bohemienne: che fosse diversità, eccitazione. Per tutta la vita mi ero sentito costretto dalle convenzioni sociali; le ambizioni dei miei, per quanto mi concerneva, erano che io diventassi un professionista e mi garantissi un avvenire sicuro; in quanto a me desideravo guadagnare soldi a palate e vivere negli agi materiali e nel lusso. Carlina sembrava essere l’opposto di tutto ciò. Con quel demonio dai capelli arancione mi sentivo libero. Mi sentivo me stesso. ***** Marcia e io copulavamo spesso, ovunque e ogniqualvolta se ne offriva l’occasione. Lo facevamo in piedi, seduti, distesi, piegati… il libero amore era una cosa ovvia, un semplice segno dei tempi e, da giovani universitari maturi, accettavamo questa fraternizzazione con candore e indifferenza. **** Accesi la lampada sul comodino e l'im¬provviso bagliore mi rivelò un tesoro do¬rato, una ragazzetta undicenne, intenta a contemplare la metropoli, con i lunghi ca¬pelli arancione ravviati all'indietro, con le piccole orecchie adorabili sottili e curve ai lati del capo. Com'era diversa da Marcia! “ Spegni la luce, Dave. Per piacere.” Spensi la luce e rimasi nel mezzo di quel¬la stanza solitaria, essiccata, immortale: quella stanza segreta, sorridente, malizio¬sa, voluttuosa e sudicia; quali segreti, quali sogni, quali strazi o quali sofferenze avrebbero potuto rivelarci le sue pareti? Me lo domandai. Non riuscivo ad avvicinarmi a Carlina. Avevo paura di muovermi. Ella era per me, in quel momento, irraggiungibile, una di¬vina dea d'oro puro e di splendore. Carlina rise: “Rimani con me. Mi sento sola, e non mi piace la solitudine. Ho bisogno di te, stanotte. Dico sul serio, Dave.” Rimasi immobile, con il fiato corto. “Le Marcia del mondo ti avranno per tutta la vita. Io non avrò che questi momenti.” Venne verso di me, mi prese tra le braccia, mi offrì le tenere labbra. In quell’attimo mi sentii rinnovato. Non appena tornato a casa avrei gettato via i blue jeans aderenti, le camicette alla cinese, mi sarei tolto gli occhiali da sole. A partire da quel momento sarei diventato una volgarissima persona normale. “Non devi aver paura di me, caro. No mordo. E non ti darò neppure lo scolo. Potrai tornare sano e salvo dalla tua signorina Marcia Barnard… e la sposerai, e fotterai a più non posso per avere marmocchi e farle gonfiare quella pancia e ti godrai tutta la sicurezza del mondo. Il signor contabile, Dave, tesoro. Così ti ricorderò sempre, Dave, tesoro, che sposò la signorina Barnard…” **** Sembrava dimagrita e invecchiata, la mia povera piccola Carlina, logorata a sedici anni. Aveva gli occhi enormi e stanchi. Le scrissi due volte, ma non rispose alle mie lettere. Furono, credo, intercettate da Marcia, le risposte. Ma con Marcia non ac¬cennai mai a questo. Man mano che il tem¬po passava e che innumerevoli problemi gremivano il mio piccolo mondo, finii col dimenticare Carlina: eppure, folate lievi del ricordo di lei continuavano ad investirmi. Di quando in quando leggevo quelle sue lettere ingiallite, ammuffite, o contempla¬vo nostalgico la fotografia che ella mi ave¬va dato. Perdetti la stella di Davide. Tutto ciò mi riconduceva, credo, alla prima giovinezza e a una spensieratezza, a una irre¬sponsabilità alle quali tutti vorrebbero av¬vinghiarsi quando invecchiano. Mi domando che cosa possa essere acca¬duto a Carlina; ma non sento alcun ma¬linconico stringimento al cuore, quando penso a lei. Volgo lo sguardo sulla mia fa¬migliola: mia moglie, i miei figli, la casa, il lavoro, la mia vita, e posso soltanto spe¬rare che Carlina abbia avuto anche soltan¬to la metà di quel che ho ottenuto io. Un giorno o l'altro credo che distruggerò quelle lettere e quell'istantanea. Ma sarà per un'altra volta. Valery LARBAUD Vichy 1891 Vichy 1957 FERMINA MARQUEZ Da Valery Larbaud FERMINA MARQUEZ Il seno da sedicenne era a un tempo dolce e sodo; e i fianchi non somigliavano forse a una ghirlanda trionfale? Anche l’andatura sicura, cadenzata, indicava come quella splendida creatura avesse consapevolezza di adornare il mondo in cui si muoveva… faceva davvero pensare a tutte le felicità della vita. Avevamo una parola adesso, un nome da ripetere sotto voce, il nome tra tutti i nomi che la designava: Fermina, Ferminita… delle lettere in un certo ordine, un gruppo di sillabe, una cosa immateriale e che tuttavia reca con sé un’immagine e dei ricordi, e al fondo qualcosa di Lei. La fine di quella ricreazione non somigliava a tutte le altre; la vita era completamente mutata; ognuno di noi ascoltava dentro di sé la propria speranza, e si stupiva di trovarla così densa e bella. **** Per la fanciulla, io sono uno sconosciuto, un paese straniero, un mistero. Un povero essere sconosciuto, goffo e farfugliante dinanzi a lei; un pietoso mistero che si smarrisce al primo scoppio di risa. Ma, poiché non potremo mai veder chiaro in noi stessi, conosceremo mai quella parte dell’altro sesso che ciascuno ha dentro di sé? Il nostro errore a venti anni era credere di conoscere la vita e le donne. Non si conosceranno mai nè la vita nè le donne; ovunque, non ci sono altro che occasioni di stupore, una serie ininterrotta di miracoli. Non avendo sorelle, frequentando poco le ragazze, Leniot aveva un orrore istintivo delle piccole burlone che mettono a dura prova l’orgoglio timido e solenne dei giovanotti. E’ ben duro per un ragazzo che si compara con uomini dello stampo di Franklin o di Giulio Cesare sentirsi canzonare su una goffaggine commessa servendo il the, o sul verde troppo brillante della cravatta nuova. Pieno di rancore, conservava il ricordo di situazioni in cui era stato ridicolo e in cui delle ragazze sempliciotte si erano prese gioco di lui, delle piccole galline, delle oche di provincia dall’accento campagnolo. Prima di ogni cosa, occorreva vincere la timidezza. Ma non si trattava più di timidezza, ma di terrore! **** Certo, in ogni modo, sarebbe stato meglio se non si fosse innamorato. Per nulla al mondo doveva ricadere nelle stupidaggini sentimentali: ripetere smancerie da romanzo; cercare di comporre un sonetto, e trascrivere, più o meno esattamente, il sonetto di Arvers; perdersi in fantasticherie; col risultato solo di perder tempo. Ma il pensiero di Fermina Marquez venne a cambiare il corso di questo esame di coscienza. Il pensiero di Fermina è il più bel pensiero che si possa avere. E poi, c’è il desiderio di essere amato da Fermina. Ma vederla, o piuttosto conoscerla, o averla conosciuta, è ciò che basta per fare di tutta una vita una poesia. E Joanny gustava quelle carezze spirituali, a cui non aveva mai pensato. Fermina Marquez era qualcosa in più di una ragazza da sedurre: lei esisteva, bisognava tener conto della sua esistenza. Fermina! Ecco un nome davanti a cui inchinarsi! Fermina! ***** Dopo pochi minuti, Fermina Màrquez era da lui. Il ragazzo non le disse buongiorno. Ma, con un gesto teatrale, le mostrò Parigi, e cioè quella leggera bruma grigiastra che si scorgeva all'orizzonte: “ E’ grazie ai miei simili che questa città merita il nome di Ville Lumière. Comprendete?” Lei non rispose niente. “Comprendete?” Vedendo che la ragazza era decisa a star zitta, si girò verso di lei, e le disse l'augusta verità: “ Io ho del genio”. Lei non disse niente. Si aspettava una scena d'al¬tro genere. Provava anzi un sollievo a vedere che le cose prendevano quella piega. Quanto a lui, la guardava con un sangue freddo che non aveva mai avuto in sua presenza. Poteva guardarla negli occhi senza restare abbagliato. Gli sembrava di avere den¬tro di sé una bellezza al cui confronto la bellezza della fanciulla scompariva. “Quando vi ho detto che era per piacervi, o per piacere a una donna, che lavoravo, ho mentito. Ho mentito e me ne vanto! È per me che lavoro. Sono dominato da un'ambizione così grande che solo la certezza di una gloria immortale potrà soddisfare. Mi meraviglia davvero che voi non abbiate compreso, piuttosto, che avete a che fare con un uomo di genio”. Ridacchiò; ma subito riprese senza violenza: “Ci si può ingannare, in effetti. Soprattutto con me, che non ho altro che il mio genio, e che sono completamente sprovvisto di apparenza, come si di¬ce; non sono assolutamente brillante, non ho conver¬sazione né talento di società, né intelligenza dopo tutto! Sì, mi trovo ad essere completamente solo con il fardello del mio genio, che è paragonabile a una montagna altissima, nera e scoscesa, dall'aspetto troppo austero per voi, signorina”. Mi ricordo, quando avevo nove anni, o anche sette, che degli anziani signori venivano a farci visita. La loro vita era trascorsa, e arrivavano senza alcuna gloria alla soglia della tomba. Senza gloria; che parole orribili! Ma avevano mai aspirato alla gloria? Avevano almeno, nella loro anima, le rovine maestose di una grande speranza infranta? No; non avevano mai inseguito nessuna ambizione. Erano stati a Parigi da studenti, e poi erano venuti a impiantarsi in provincia come notai o procuratori legali. E traevano vanto dal fatto di non aver mai desiderato niente di chimerico, come a dire niente di grande, in tutta la loro vita. E io, un ragazzino taciturno, tenuto in scarsissimo conto, io li disprezzavo dal profondo dell’anima. Erano passati attraverso la vita in silenzio, come degli animali, che la natura ha piegato verso la terra e che ha reso schiavi dei propri grossolani appetiti...” La guardò a lungo. Avrebbe potuto continuare così a mettere la sua anima a nudo davanti alla ragazza. Ne provava un piacere estremo. Non la rispettava più; o almeno non si imbarazzava più con lei. Si alzò, volendo lui stesso porre termine all’incontro. Durante tutto il tempo che aveva parlato, Joanny aveva avuto la sensazione che, dal fondo della sua coscienza, una forza nascosta lo spingesse a dire tutto ciò, e che tutto il discorso fosse pieno di un senso più completo di quanto lui stesso non credesse. In realtà, aveva mentito di nuovo. Il suo genio, per esempio. Era la prima volta che affermava a sè stesso l’esistenza del suo genio. **** Erano tre piccole cubane dagli occhi arditi: Pilar, Encarnacion e Consuelo, sedici, quindici e quattordici anni. Joanny aveva sentito spesso parlare di loro, e le aveva viste qualche volta. Si diceva che si lasciassero abbracciare in tutti gli angoli del parco. Amavano i baci in sé, e non in ragione di chi le baciava. Inoltre non erano per niente gelose, ed era possibile fare confronti e giudicare se le labbra a sedici anni siano più dolci che a quattordici o a quindici. Quindici anni. Joanny si accorgeva che c’era qualcosa di sensuale anche solo nel nome di quella età; quindici anni, sedici anni, diciassette anni... Pronunciare ad alta voce queste parole, e pensare a delle ragazze... Una donna è sempre una donna, sotto tutti gli abiti del mondo. Joanny strinse con forza le mani sul cuore; gli girava la testa, vedeva rosso. Credette di morire. Oh sventurata giovinezza! Dicevo; o Dei che vi prendete gioco crudelmente degli uomini, perché li fate passare per questa età che è un tempo di follia e di febbre ardente? Oh! Perchè non sono coperto di capelli bianchi, curvo e prossimo alla tomba. Una ragazza lo aveva respinto, l’avrebbe ringraziata per questo, se lo avesse rimandato ai suoi libri e all’elaborazione del proprio grande avvenire. Ma lo aveva rimandato alla sorella, alle sue sorelle, a tutte le donne. ***** Le ore della notte hanno un’aria romanzesca. Le due del pomeriggio sono prosaiche, quasi volgari; ma le due del mattino sono come un avventuriero che si avventura nell’ignoto. E l’ignoto, sono le tre del mattino, è il polo notturno, il continente misterioso del tempo. Se ne fa il giro; e, se si crede di averlo attraversato per sempre, ci si inganna, perchè ben presto arrivano le quattro del mattino senza che si sia scoperto il segreto della notte. E il giorno che nasce già riga le imposte con le sue strisce azzurre parallele. Lei era più bella che mai e sembrava più grande. Quando fu di fronte a lei si accorse di essere solo un bambino. Non era fatto per essere amato da lei; non avrebbe mai dovuto amarla. **** Mi sono seduto al mio vecchio posto, in classe. Quale cosa fantastica è il tempo! Niente è cambiato; c’è un pò più di polvere sui leggii; ed è tutto. Ed eccomi, diventato uomo. E Fermina Marquez? Sì, che ne è stato di lei? Immagino che adesso sia sposata! Mi piace pensare che sia felice. ALAN SILLITOE Nottingham 1928 Da: Allan Sillotoe LA FIGLIA DEL RIGATTIERE E ALTRI RACCONTI A 17 anni, se ti innamori di una ragazza più giovane di te, non sai a che vai incontro. E’ una cosa che ti trascina giù fino al centro della terra, ed è dura uscirne una volta che sei laggiù. C’è tanto miele che ci rimani invischiato, come una qualsiasi ape nera e arancio. Qualora non sei asfissiato dalla sua dolcezza, ne rimani scottato. Tanto per incominciare, Alec non si era nemmeno accorto di essere innamorato e, per di più, lei aveva solo 15 anni. Senti la terra mancarti sotto i piedi come nelle gare di equilibrismo alla fiera del paese, ma per Alec era sempre stato così e non si aspettava che cambiasse. Se non avesse abitato a Nottingham, non la avrebbe mai incontrata, il che forse sarebbe stato meglio. **** ******** ******** Alec aspettò la ragazza e disse: “Perchè non raggiungi gli altri?” “E tu?” chiese lei, pacata e senza fretta, e abbastanza vicina perchè lui la vedesse sorridere. “Volevo rimanere un pò indietro a parlare.” “Allora parla.” Cercò di prenderle la mano, ma lei la ritrasse. “Se le cose stanno così...” disse lui. “Ti ho detto parla, non prendi. Non ti conosco ancora bene.” Nel dir questo lei non alzò la voce, nè sembrò inasprita, il che fece sì che lui volesse più che mai abbracciarla. Si accorse che sarebbe stato un lavoro lungo, specie dopo questo rifiuto e dopo quanto riteneva il suo primo sbaglio. **** ***** ****** Lui non aveva mai visto bene la ragazza alla luce del sole o a quella elettrica, ma sempre nel tremolante barlume di un lampione o nei fiochi colori delle insegne di un cinema; ed ora, mentre era alla ricerca di una battuta che la facesse ridere apertamente, desiderava vederla bene. ******** **** ******** Aveva smesso di piovere, e allora si avviarono a piedi giù per Alfreton Road. Le passò il braccio sulla schiena e giù attorno alla vita, accorgendosi così di quanto fosse piccola. Altre ragazze, a questo punto, avevano anch’esse passato il loro braccio attorno a lui, ma Mavis no, sottolineando il fatto che con lei non era un gioco, ma piuttosto un uscire insieme che poteva essere qualcosa di più serio. Si accorse con una risata interiore di come la speranza si aggrappasse a un niente. ***** ********* ************ Mavis lo lasciava fare di più quando erano seduti nell’ultima fila durante il film del sabato sera, dove andava bene perchè nessuno poteva vederli. Era la sola volta che mostrava un pò di trasporto, e non gli toglieva sempre la mano quando gliela metteva sotto il cappotto e sul seno. Ma quanto più in là arrivavano nel cinema, tanto più fredda lei si mostrava una volta usciti. ******* ******** ********* Non c’era vento che potesse disturbarli, ma la ragazza si avviò verso il bosco con cautela, come se avesse paura di vipere o funghi velenosi: “Non so perchè mi porti qui. Non ci sono ancora le campanule.” “Hai paura che ti vedano?” “Ma va!” In certi punti il sentiero era fangoso e la guidò verso i bordi più asciutti. L’aria era verde e buia, con un odore di corteccia molle e di felci marcite, di terra e di acqua nascosta. C’era un ruscello in fondo e fu difficile farla attraversare. Sarcastica e quieta di voce, e così fredda con lui da fargli pensare che fosse così con tutti, era però fisicamente timida quando si trattava di distanze, di ruscelli e di entrare nei boschi. Quando la baciò sull’altra sponda, subito gli si aggrappò addosso. Fu sorpreso e contento, e pensò che finalmente stava ottenendo dei risultati, ma si sforzò di non pensare in questi termini, perchè ciò non coincideva con quel sentimento più sacro dell’amore che lo prese ed ebbe in lui il sopravvento. Il corpo di lei era caldo attraverso i loro cappotti, e i suoi baci così decisi che era difficile prendere fiato. **** ****** ******** “Ti amo,” disse lui, cieco a tutto. “Lo sai, no?” Era sincero, pensava, e sapeva che era più vero di qualsiasi cosa avesse mai detto. La ragazza ritrasse la mano: “Sei sicuro?” ****** ********* ******** Non c’era ora che lei non fosse nei suoi pensieri. La sognò perfino, mentre prima non aveva quasi mai sognato in vita sua. Le parlava per ore, convincendola ad andare a fare una passeggiata, a fidanzarsi, a sposarlo, qualsiasi cosa pur di finire quel tormento e iniziare una vera felicità per il resto della loro vita. La felicità, nei suoi sogni, cominciava quando faceva l’amore con lei. Andare con le altre ragazze non era lo stesso, e aveva meno disposizione ad ingranare, perchè non ne aveva voglia. ******* ***** ********** La porta si aprì, e Mavis gli fu di fronte, appoggiata a uno stipite. Almeno sembrava fosse lei, e lui la fissò un pò troppo intensamente perchè si potesse essere contenti della sua improvvisa apparizione. Portava i tacchi che la facevano sembrare più alta. “Ho pensato di venirti a salutare,” disse, “trovandomi a Nottingham per qualche giorno. Era quasi grassa; se ne accorse mentre aspettava una risposta o almeno un saluto formale. Le sue guance e labbra erano molto truccate, e gliene arrivava l’odore fin lì dov’era. Le braccia le uscivano grassottelle dalle maniche accorciate del golf color prugna. “Vuoi venire a bere qualcosa stasera?” disse lui. Doveva avere il ragazzo fisso, perchè l’occhiata che gli lanciò non poteva volere dire altro. ***** ****** ********* Lui sapeva che Mavis si vedeva ancora come la bella mora molto desiderata, dalle belle forme, piccola di statura, e comprese che proprio per questo lei pensava che lui non avesse alcun diritto di venire a seccarla. Ma per lui Mavis era cambiata a tal punto da essere un’altra. Era chiaro che lei non si rendeva conto di quanto fosse cambiata. Gli fece provare pena per sè stesso, ma ancor più per lei; il che però non diminuì il suo amore. La ragazza ruppe il silenzio, e lui capì che non aveva intuito niente di ciò che gli passava per la mente. Il suo mondo era lontanissimo da lui e dal suo: “Non voglio uscire con te.” Lui fece un ultimo tentativo: “Non puoi?” “No.” Chiuse la porta ancor prima che lui raggiungesse il cancelletto. Tornando alla stazione ebbe così qualcosa a cui pensare, su cui rimuginare in seguito per dei mesi finché non la ebbe dimenticata, o per essere più esatti, la ricordasse solo come ci si ricorda di un sogno, il cui ultimo colpo lo riportava al tempo addietro quando aveva creduto che fosse la prima e l’ultima e la sola ragazza di cui fosse innamorato. Aprì il pacchetto dei panini quando il treno si avviò e si accomodò contro lo schienale a pensare dove era che aveva sbagliato. Considerò che 25 minuti erano lunghi abbastanza per farlo, non sapendo ancora che non avrebbe mai perso quella sensazione di aver amato invano, e che non avrebbe a stento capito negli anni a venire da dove venisse quella forza che gli divenne necessaria. **** ****** *********** MAXENCE VAN DER MEERSCH Francia 1907 1951 Da PERCHE’ NON SANNO QUELLO CHE FANNO Mondadori 1966 Traduzione Carlo Boccara pag 245 Romanzo forse autobiografico, amaro e reale. Da pagina 42 Non sapevo nulla di lei, del suo carattere, della sua intelligenza, della sua bontà. Potevo appena dire il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli. E su questa immagine di donna la mia immaginazione si esaltava. Un essere che non ha fatto nulla per me. È una estranea. L’ho appena incontrata. Non so nulla di lei. Eppure, per lei, mi sento capace di abbandonare tutto, di sacrificare tutto; di rompere legami di affetto, di dimenticare famiglia, denaro, avvenire... Quale forza! Insieme alla ragazza trascorro ore divine. Abbiamo tutta una vita di attese da raccontarci. Abbiamo tutto un arretrato di gioie, di ricordi, di risate, di giovinezza da spendere. Si conosce per la prima volta, per la prima volta, questa ebbrezza di essere in due, di indovinare sotto la menzogna scherzosa delle parole, che siamo sul punto, forse, di amarci. Quelle ore lì si vivono una sola volta, è vero? Non possono più resuscitare. Da pag 97 Mi ricordo le dolci ore passate in due, la sera d’inverno, nella nostra vecchia casa; con la piccola stufa che ci scaldava, con il chiarore rosso della nostra lampada a petrolio, lo stridere della mia penna, e, talvolta, un sospiro stanco di mia moglie, china sul tessuto da cucire. La nostra cena, quattro patate, cuocevano nel forno. Da pag 110 Ho sentito nascere l’amore. E l’ho sentito finire, senza che potessi fare nulla per salvarlo. La compagnia della donna amata, che ricercavo al principio, ora mi stancava. Adesso volevo teatro, giochi, letture, uscite con gli amici. L’idolo, fino ad allora unico, adesso non mi bastava più. Nessuno di noi fa ciò che vuole. Ve ne accorgerete. E non sappiamo neanche bene che cosa vogliamo. L’amore per mia moglie era già calato. Se paragonavo il mio amore attuale a quello del passato, vedevo gli sforzi che ero costretto a fare per ridiventare l’uomo di una volta; per ritrovare le attenzioni, le parole dolci, le tenerezze che al principio mi venivano spontanee. Era consuetudine? Era sazietà? Da pag 128 Nella vita non c’è niente di duraturo. L’amore lo desideriamo quando non lo conosciamo. Lo malediciamo dopo averlo conosciuto. Lo rimpiangiamo dopo averlo perso. La vita passa così, da sogno a sogno, da illusione a illusione, per rimpiangere oggi i gesti di ieri; e preparare i gesti che rimpiangeremo domani. Quando guardo all’indietro, mi sembra di aver percorso un labirinto di ramificazioni inverosimili. Ritrovo i bivi e gli incroci. Qui, là e ancora qui, là ho preso quella strada per caso, per un capello. Che cosa sarebbe successo se invece avessi preso quell’altra strada. Rivedo l’intrico di tanti possibili cammini. Di certo esiste solo il caso. Tutta la nostra vita è governata dal caso. Nel mondo esiste solo una mostruosa incoerenza. L’AMORE NECROFILO EMILIO DE ROSSIGNOLI Isola di Lussino Pola 1920 Milano 1993 GLI EFFERATI Il libro racconta con stile poetico la vita e le imprese di grandi criminali moderni. Da Emilio de Rossignoli GLI EFFERATI capitolo 5 L’amante dei morti: Era una bambina bellissima di tre anni e mezzo: bionda, delicata, serena e paffuta come un angelo. Si chiamava Louise e aveva tutte le grazie dell’universo. Ma per Victor Ardisson, aiutante becchino di 29 anni, ne aveva una in più: era morta. Da quando, due settimane prima, l’aveva prelevata dalla sua bara e portata amorosamente fra le braccia fino alla sua catapecchia di Muy (Var) nel sud della Francia, Victor non si era praticamente allontanato da lei, baciandola e mormorandole parole d’amore. Victor Ardisson era alto appena un metro e 54, tarchiato, con grandi occhi azzurri malinconici e baffi incolti; la gente del posto lo chiamava “nigno”, che in dialetto provenzale significa sciocco, tonto; ma Victor non era stupido, solo un poco ridicolo, con il suo grosso corpo debole, la sua goffaggine, il suo appetito vorace che non sembrava mai appagato. La soddisfazione erotica e la fame erano i problemi di sempre: Victor soddisfaceva l’urgenza della prima con pratiche sempre più complesse e aberranti; quanto al desiderio di mangiare, che non lo abbandonava mai, ingurgitava tutto quello che gli capitava a tiro. Si nutriva di cocomeri, cetrioli, patate crude, radici, erba, gatti, topi. Guadagnava qualcosa lavorando saltuariamente come manovale edile; al tempo giusto, raccoglieva anche le pigne e vendeva i pinoli al mercato. Quando Victor ebbe 20 anni, il vecchio becchino di Muy morì anche lui e, per il posto vacante, considerato con disprezzo dai giovani, ci fu un solo candidato. In paese non morivano più di quattro persone al mese e Victor pensò che la fatica di seppellirle era ben ricompensata da uno stipendio fisso e sicuro per il resto dei suoi giorni. La sua terza sepoltura riguardava una ragazza bruna, morta di tifo. Victor la seppellì coscienziosamente, ma quella stessa notte tornò al cimitero, scese nella cripta, tolse le viti il coperchio della bara e, tremante di emozione abusò della morta. Fu quello l’inizio di un passatempo che lo impegnò per almeno altre trenta volte in quell’anno. Victor non aveva scrupoli nè preferenze: le donne andavano tutte bene per lui, avessero dieci o sessanta anni. Erano le sue “belle addormentate”, così dolci, remissive, sempre disposte al suo desiderio, soddisfatte. Victor cominciò a riempire di appunti un diario: “Anne G. è grassoccia, ha il seno soffice e il ventre bianco e delicato. Quando la tocco, mi sembra che frema sotto le mie mani...” ******** ****** ***** L’anno seguente, 1893, Victor fu chiamato alle armi e mandato a Bonifacio,in Corsica. Gli altri soldati ne fecero subito il loro zimbello; gli ufficiali lo consideravano mezzo scemo, tanto che quando disertò ( e lo fece due volte) non lo punirono nemmeno. A Bonifacio c’era un bel cimitero di facile accesso, ma il soldato Victor non vi entrò mai. Aveva trovato una ragazza di nome Berte, afflitta da adenoidi e da enormi mammelle che affascinavano Victor. Nel suo diario, parlava sempre di seni visti, toccati, baciati, strizzati, succhiati. Dopo la seconda tentata diserzione, venne trasferito a Marsiglia dove, stavolta con esito felice, disertò per la terza volta. Se ne andò a Cannes, a fare il muratore. Lo arrestarono dopo due mesi, lo misero in osservazione e, dopo un periodo di tira e molla, riconosciuto incapace di intendere e di volere, venne riformato. Victor ritornò a Muy e riprese il suo antico lavoro con le “belle addormentate”. Non è possibile fare un calcolo delle donne morte che disseppellì e violò negli otto anni successivi. “Le mie amanti sono state tante che, a un certo momento, ho smesso di contarle” confessa nel suo diario. “Di tutte però ho serbato un buon ricordo: parlo con loro, le accarezzo, le bacio. Sono le mie fidanzate.” Insomma Victor aveva risolto il suo problema sessuale: possedeva le donne che non avrebbe mai potuto avere da vive, senza distinzione di età. Qualche volta, magari, in ritardo di trent’anni, quando ormai erano vecchie. Con le più carine tornava una seconda e terza volta. Non aveva problemi: il suo odorato, come fu constatato più tardi da un medico legale, era nullo, non distingueva il profumo di un fiore dal lezzo di fogna. Anche il suo gusto era insensibile: non percepiva la differenza fra dolce e amaro, salato e insipido. I gatti che divorava non erano mai conditi. Victor non aveva letto i classici della patologia sessuale e nemmeno i classici della letteratura; non conosceva le fissazioni macabre di Edgar Allan Poe (Berenice, Morella, Ligeia) e quelle di Charles Baudelaire; e tuttavia si comportava come un esempio classico. Victor amava le sua morte, durante l’amplesso chiedeva loro di sposarle o di essergli fedele in eterno e la risposta lo soddisfaceva sempre. Il 20 febbraio 1901 Victor si innamorò di Leonie, una quattordicenne vittima della poliomielite. Lui andò nella vicina Dragugnan a comprare un abito da sposa per la sua bella. La negoziante restò meravigliata per la taglia, che le sembrava molto piccola, e dichiarò che non aveva una misura del genere. “Non ha importanza,” disse Victor, “lo faremo adattare.” Comperò un abito di taglia maggiore e, quella stessa notte, lo fece indossare alla sua dama, nel deposito del cimitero: uno stanzone con il pavimento di consunti mattoni rossi e una grande tavola di legno grezzo al centro. Il vestito bianco era troppo largo per Leonie, ma Victor previdente aveva portato con sè alcuni spilli e glielo accomodò dove faceva difetto. Per compire l’operazione, aveva tolto la salma dalla bara e l’aveva deposta sulla tavola. Si accorse che aveva dimentico le scarpe e ne fu rammaricato al limite delle lacrime, ma riuscì a farsi perdonare accarezzando e riscaldando i piedini nudi con i baci. La cassa restò a lungo nel deposito e Victor continuò a frequentare l’innamorata anche quando il cadavere fu ampiamente decomposto. A dare il cambio a Leonie, arrivò provvidenzialmente Gabrielle, morta a tredici anni: un fiore di tenerezza, bella come un angelo, con le labbra ancora rosse da sembrare dipinte e i lunghi capelli di seta. A lei dedicava le pagine più intense del suo diario, con voli lirici che sfioravano la vera poesia. Scrisse fra l’altro: Oh, Gabrielle, mio silenzioso amore. Noi possiamo comprenderci senza parole, con i nostri sguardi incrociati. Tu mi ami, io ti amo; siamo felici.” Eppure anche se Victor ancora non lo sapeva, c’era una rivale in vista. Il primo settembre 1901 morì Louise. Tre anni e mezzo, riccioli d’oro, un peso non eccessivo anche per le deboli braccia dell’uomo. Dimentico dei giuramenti di eterno amore, Victor attraversò ancora una volta il paese addormentato, stringendo fra le braccia quella creatura e sussurrando parole di passione. “Sei la dea dell’amore” scrisse nel suo diario. Non la mise nell’armadio; in fondo Louise e Gabrielle erano rivali, sarebbe stato indelicato farle convivere... ***** ******** ******** Ci fu una protesta anonima. I gendarmi portarono Victor al commissariato e lo interrogarono. Non ebbe difficoltà a raccontare tutto; quello che non ricordava più, gli inquirenti lo trovarono sul suo diario. Accusato di violazione continua di tombe e di cadaveri, di rapimento, occultazione e scempio di salme, Victor Ardisson venne rinchiuso nelle carceri di Draguignan. Il primo scienziato che si occupò del suo caso fu il dottor Alexis Epaulard, che proprio in quei giorni stava ultimando il suo ponderoso saggio su “Il vampirismo, la necrofilia, il necrosadismo e la necrofagia” dal quale avrebbero attinto generosamente i grandi sessuologi Krafft-Ebing e Havelock Ellis. L’AMORE SENILE Yasunari Kawabata GIAPPONE 1889 1972 LA CASA DELLE BELLE ADDORMENTATE Il vecchio Eguchi, nei suoi 67 anni di vita, aveva trascorso con le donne squallide notti, uno squallore che non poteva dimenticare. Non era la bruttezza del volto, ma qualcosa che nasceva dall’infelice difformità della vita della donna. Alla sua età, Eguchi non voleva aggiungere un altro squallido incontro. A questo pensava, dopo essere venuto in quella casa, nel momento decisivo. C’è qualcosa di più brutto di un vecchio che sta per trascorrere la notte disteso accanto a una ragazza addormentata? Eguchi era venuto in quella casa proprio per scoprire fino in fondo la bruttezza della vecchiaia. ***** * *********** ********** Anche se quella ragazza avesse avuto meno di 20 anni, anche se si poteva dire che puzzava di latte, il suo corpo nudo non avrebbe più dovuto avere quell’odore. La verità era che odorava di donna. Eguchi sprofondò in un senso di solitudine e insieme di tristezza. Ma più ancora che tristezza era lo sconforto raggelante della vecchiaia; che verso la ragazza fragrante di giovane calore, si trasformò in compassione e tenerezza. Forse questo valse a distoglierlo dal freddo pensiero del peccato. Il vecchio ebbe la sensazione che nel corpo nudo della ragazza suonasse una musica. Una musica piena d’amore. Essersi disperato per le donne gli sembrava ormai una cosa remota. ********* ****************** L’incalcolabile estensione del sesso, la sua inconoscibile profondità, fino a che punto nei suoi 67 anni era stata da lui esplorata? E inoltre, intorno ai vecchi sbocciavano senza limiti belle ragazze, corpi giovani, corpi freschi di donna. L’ardente desiderio di sogni irrealizzati dei poveri vecchi, il rimpianto dei giorni perduti era tutto racchiuso nei peccati di quella casa dei segreti. Per gli uomini al culmine della vecchiaia, forse non esisteva momento di oblio più intenso di quando erano in contatto con un corpo di ragazza. Il calore di lei avvolse il vecchio. Sembrava il calore selvatico dell’immaturità. Forse era l’odore della pelle e dei capelli, ma non solo quello. “Avrà circa 16 anni” mormorò Eguchi. ********* ****************** Eguchi comprese che questa ragazza poteva essere una momentanea consolazione, un inseguire le tracce dell’ormai passata gioia di vivere. Forse c’era stato qualche vecchio che in cuor suo aveva pregato di dormire per l’eternità accanto a una ragazza addormentata. Sembrava ci fosse qualcosa di triste nel giovane corpo delle ragazze, qualcosa che suscitava nei vecchi il sentimento della morte. A Eguchi nulla pareva bello come il viso di una giovane donna addormentata. La si poteva definire la più dolce consolazione di questo mondo? Quando giaceva sfiorato dalla nuda pelle di una giovane donna addormentata, egli provava nel fondo del suo animo, il terrore della morte che si avvicinava, l’inalienabile tristezza della gioventù perduta. “Ai vecchi la morte, ai giovani l’amore; di morte una sola; di amori tanti. Le donne sono infinite.” Pensò il vecchio. E aprì gli occhi.. FINE Febbraio 2004 Maggio 2005 Revisione Febbraio Marzo Dicembre 2006 marzo 2009 febbraio 2010 4° Copertina: Sergio Bissoli scrittore bibliofilo Youtube bissolis GLI AMORI MALEDETTI Borel, Loti, Masoch, D’aurevilly, Sienkiewicz, Hanlin, Zilahy, Rousselot, Otcenasek, Mariani, Buzzati, Bartolini, Ekstrom, Ehrlich, Nabokow, Schwob, Rodenbah, Verlaine… Che cosa hanno in comune questi scrittori? Hanno vissuto e raccontato un Amore Maledetto. L’amore sessuale L’amore acerbo L’amore sadico L’amore bizzarro L’amore filosofico L’amore poetico L’amore proibito L’amore mortale L’amore masochista L’amore romantico L’amore psicologico L’amore umano L’amore ribelle L’amore deludente L’amore necrofilo L’amore senile

Nessun commento: